PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOANALISI IN AMERICA LATINA


PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Territorio senza frontiere: i casi-limite
Osservazioni Cliniche

Ligia Todescan Lessa Mattos


 

I – Introduzione

Nel lavoro coi bambini, soprattutto con i bambini psicotici, siamo abituati ad osservare chiare manifestazioni di sofferenze le quali, come hanno descritto Melanie Klein, Bion e Winnicott, esprimono la paura dell’annientamento (Melanie Klein), le sofferenze “senza nome” (Bion) e i tormenti atroci o agonie (Winnicott). Nella clinica degli adulti nevrotici, l’espressione di queste emozioni è spesso camuffata dalla capacità di simbolizzazione del paziente. Solamente in alcuni momenti, davanti a situazioni emotive forti, siamo in grado di cogliere in loro la manifestazione “cruda” di queste sofferenze. Già nella clinica dei pazienti psicotici, questi straripamenti di disperazione sono costanti e chiaramente espressi in diversi modi: allucinazioni, deliri, acting out.

Vi è tuttavia una categoria di pazienti che desta sempre di più l’interesse degli autori contemporanei. Sono i pazienti che non rientrano nei parametri delle nevrosi o delle psicosi, secondo quanto stabilito da Freud in poi. Nella letteratura essi prendono la denominazione di “limite”, designazione che li situa in uno “spazio-tra”, ossia, tra la psicosi e la nevrosi. Si tratta di una classificazione che accoglie casi che condividono alcune caratteristiche benché alcuni di questi pazienti siano più vicini alle psicosi e alle perversioni mentre altri sono più vicini alle nevrosi. Ad ogni modo, sono casi che presentano alcune caratteristiche che un osservatore comune chiamerebbe “insania”. Sono i pazienti borderline, o personalità borderline (borderline personality), così chiamati dagli autori inglesi e americani; i “cas-limites”, nella psicoanalisi francese, i casi-limiti o di confine (fronteiriços), come in genere denominati da noi in Brasile. Sono quelli pazienti in cui prevalgono sintomi come acting out, violenza, difficoltà di simbolizzazioni e difficoltà o peculiarità nello stabilire dei vincoli. Dal punto di vista dei sintomi, molti autori includono in questa categoria i quadri psicosomatici, i disturbi alimentari, le addiction e la ricerca compulsiva di modificare il proprio corpo (chirurgie, piercings, tatuaggi). Sono sintomi che in genere non racchiudono una rappresentazione simbolica, a differenza di ciò che avviene nelle nevrosi

Con la formula PS<=>D, Bion ci rivelò come la mente transita costantemente tra le posizioni schizoparanoide e depressiva. A sua volta, Green (1990), nel proporre il concetto di limite, osserva che “… il limite dell’insania non è una linea, bensì un vasto territorio senza alcuna netta divisione che permetta separare la sanità dall’insania(p.105, sottolineatura dell’autore)1. Nonostante sia fondamentale riferirsi ai testi di Bion per capire gli aspetti del pensiero psicotico, altri autori, tra i quali Rosenfeld, Meltzer e Green, ci aiutano ad espandere la conoscenza su questi pazienti situati nel territorio senza confini tra psicosi e nevrosi.

Ci sono punti di convergenza tra i vari autori rispetto a ciò che i casi hanno in comune: la fragilità dell’Io e la difficoltà, o persino l’assenza, di capacità di rappresentazione, con la conseguente scarica di tensioni nell’agire e/o nel corpo. Nell’ambito delle pubblicazioni psicoanalitiche, questi pazienti occupano uno spazio privilegiato nei lavori degli autori che postulano l’esistenza di “nuove patologie”, patologie queste che contraddistinguono la cosiddetta “clinica della contemporaneità”. Benché non intenda approfondire tale questione in questo lavoro - poiché si tratta di un tema che suscita controversie e continua a meritare ampi dibattiti - vorrei ad ogni modo sollevare alcuni elementi che emergono dalle mie ricerche e delineano il mio punto di vista corrente. Esisteranno mai davvero le “nuove patologie”? Saranno diventati diversi i pazienti? Saranno cambiati sotto l’influenza delle particolarità della vita contemporanea?

Sta di fatto che il consumismo, l’edonismo, i progressi tecnologici e la globalizzazione contrassegnano la società attuale. Sta di fatto inoltre che le caratteristiche della società moderna agevolano la trasgressione dei limiti sia sul piano economico, inducendo al consumismo, sia sul piano sessuale sia infine sul piano più ampio dei rapporti sociali. L’immediatezza nella ricerca dei risultati è un altro fattore prevalente nei nostri giorni. Persino nella disposizione del tempo quotidiano possiamo renderci conto delle peculiarità dei nostri tempi. Saranno tuttavia soltanto questi i fatti che favoriscono gli acting out, le somatizzazioni e le molte manifestazioni delle personalità dei casi-limite? Saranno soltanto le condizioni della vita moderna a creare la resistenza al lavoro analitico - lavoro così lento e controcorrente rispetto al ritmo della società attuale? Saranno mai esse ad imporre rapide modificazioni al setting? E saranno esse poi sufficienti a dirci che ci troviamo davanti alla necessità di creare una “nuova psicoanalisi”? O, chi sa, siamo noi invece, gli psicoanalisti, che “incalzati da quello che identifichiamo come richieste della cosiddetta post-modernità, cerchiamo di adattare il nostro “prodotto” a tali richieste? (Mattos, Sandler, 2001, p.996).

E’ certo che in ragione degli avanzi delle conoscenze teoriche e tecniche della psicoanalisi, molte configurazioni mentali sono diventate un campo di interesse e di lavoro. Green (2000) considera che nei giorni d’oggi i pazienti con configurazioni mentali borderline siano diventati una parte talmente importante della clinica psicoanalitica da costituirne il nucleo. Eppure sarebbe mai corretto ritenere che tutto ciò costituisce un’evoluzione delle strutture cliniche conseguenti al cambiamento degli analizzandi? O si tratta piuttosto della conseguenza di una nuova visione degli analisti in base alla propria evoluzione della psicoanalisi? Abbiamo, oggi, il coraggio di avventurarci per strade che in precedenza consideravamo sbarrate. Ci ricordiamo tutti noi - quelli più attempati - di avere spesso incontrato la diagnosi “non analizzabile” attribuita ai pazienti che venivano da noi. D’altronde quando, molti anni fa, presi in analisi una paziente della quale più avanti presenterò alcuni frammenti clinici, sentì da parte di una collega più esperto il seguente commento: “ma perché perdi tempo con un caso così?”. Accogliamo oggi molti dei “non-analizzabili” di allora e di conseguenza forse sono proprio loro che più spesso appaiono descritti nelle pubblicazioni. Non sarà mai questo uno dei motivi che ci fanno credere che esistono “nuove patologie”? Non sarà inoltre il fatto che la maggiore permissività della società moderna contribuisce alla liberazione dei meccanismi repressivi, rivelando, a sua volta, i meccanismi di scissione? D’altra parte la maggiore frequenza con cui questi pazienti oggi ci cercano non sarà forse da attribuire al fatto che i “semplicemente nevrotici” ricorrono ora alle innumerevoli offerte di farmaci e di ascolto alternativi? Sono offerte del resto che vanno incontro all’attuale richiesta di immediatezza. In questo modo, nei nostri studi, la clinica della repressione e della nevrosi viene progressivamente sostituita dalla clinica della scissione.

A partire dai lavori di Freud negli anni 20 del secolo scorso si è aperta una via per prendere in considerazione situazioni ‘al di là del principio di piacere’ (Freud 1896/1920)2, e per comprendere che il modello di un inconscio descrittivo da recuperare per mezzo del lavoro analitico non era più sufficiente per la comprensione dei pazienti che si trovano ‘oltre le nevrosi”. In tali pazienti, contrariamente a quello che succede con i pazienti nevrotici, la lotta contro le forze della rimozione per arrivare al materiale inconscio non si dimostra più efficace, e non è più neanche questo il compito principale dell’analista. Con la descrizione della compulsione a ripetere, più primitiva del principio del piacere, e, in seguito, con la teoria strutturale, proposta in L’Io e Es (Freud 1923), Freud prende in esame gli stati psichici che si trovano al di là, o per meglio dire, al di qua delle nevrosi. L’Es è un ‘nuovo’ inconscio, più ‘primitivo’ dell’inconscio della prima topica. Questa parte dell’apparato psichico, che mai giunse e mai giungerà alla coscienza, contiene le pulsioni e tutto ciò che vi è di più primitivo e più arcaico nella nostra vita. In esso, e cioè nell’Es, nessuna trasformazione è possibile. Come dice Freud: ... (esso)è sotto il dominio delle silenziose ma potenti pulsioni di morte che desiderano rimanere in pace e (stimolate dal principio del piacere) fare riposare l’Eros, il promotore dei disordini” (p.. 71). Possiamo quindi situare già nel 1920, con “Al di là del Principio del Piacere” e “L’Io e l’Es”, le idee imbrionali che contribuiscono oggi ai progressi della psicoanalisi nell’affrontare questi casi da molti denominati “nuove patologie”.

Esaminando i cambiamenti che hanno inciso sul campo psicoanalitico, André Green, nel libro “Sulla Follia Personale” (Green, 1988), propone un abbozzo dello sviluppo della teoria e della pratica psicoanalitica lungo la storia. Distingue tre tendenze, segnalando, però, che “la realtà, essendo più complessa, ignora i limiti arbitrari, e le correnti differenti si penetrano a vicenda” (p. 82). In questo abbozzo descrive il primo movimento: quello in cui la realtà storica del paziente acquisisce importanza – è il momento in cui si scoprono il conflitto, l’inconscio, le fissazioni ecc.. Dopo la seconda topica, cresce l’interesse per lo studio dell’Io e dei meccanismi di difesa (Anna Freud, Hartmann) e si attribuisce altresì maggiore considerazione al transfert. Una seconda tendenza è stata caratterizzata dallo studio delle relazioni d’oggetto le quali sono state comprese in diverso modo dai diversi autori (Melanie Klein, Balint, Fairbairn, Spitz ed altri). In questo movimento, la nozione di nevrosi da transfert viene gradualmente sostituita dalla nozione di processo psicoanalitico. Questa tendenza cerca di comprendere lo sviluppo interno dei processi psichici del paziente e mette in rilievo le interazioni tra paziente e analista (Meltzer ne è uno degli esponenti). Finalmente, come terza tendenza, Green indica gli studi sul funzionamento mentale del paziente (Bion, la scuola psicosomatica di Parigi) e, per ciò che riguarda la pratica psicoanalitica, l’importanza attribuita alla funzione della cornice analitica come condizione per conoscere l’oggetto analitico e per il cambiamento i quali sono cercati per mezzo dell’utilizzo di questa stessa cornice (Winnicott, Little, Khan, Bleger ed altri).

E’ stata questa evoluzione del campo psicoanalitico ad aprire le frontiere al lavoro con pazienti in precedenza considerati “non analizzabili” (casi-limite, psicotici, psicosomatici, perversi). E’ ancora importante segnalare che le analisi dei bambini piccoli, psicotici e autistici hanno contribuito altrettanto all’approfondimento della comprensione della struttura iniziale di sviluppo degli stati “più al di qua dalla nevrosi”. Le forze con cui ci confrontiamo quando lavoriamo con questi pazienti sono altre e distinte dalla rimozione: le angosce di separazione e di intrusione, le minacce di annientamento, i sentimenti di vuoto.

Tale evoluzione ha imposto importanti modifiche al lavoro della coppia analista-analizzando. Acquisiscono rilevanza la figura e la funzione dell’analista. Il ruolo dell’analista nella coppia di lavoro è sempre più studiato in questi quadri nei quali i processi di simbolizzazione sono insufficienti. In più, oggi, la maggior parte degli analisti ritiene indispensabile osservare i propri processi mentali messi in moto e in sintonia con quelli del paziente. Particolarmente, in questi casi, l’analista è portato spesso a “prestare” al paziente il suo proprio apparato psichico per aiutarlo a stabilire dei legami che in lui sono assenti (e non soltanto rimossi come nelle nevrosi). Ciò introduce inoltre, nella nostra pratica, una nuova lente che ingrandisce la percezione del funzionamento mentale e rivela molte particolarità dell’incontro analitico non percettibili in passato.

Sappiamo bene che l’angoscia è presente in tutti noi, non si tratta affatto di una novità. L’angoscia si esprime con caratteristiche proprie in ogni individuo, secondo le condizioni in cui è avvenuto il suo sviluppo e secondo anche i suoi micro e macro ambienti: famiglia e contesto sociale. A proposito di questo tema, Libermann (2010) segnala ciò che vi è di essenziale:

Senza negare le specificità della società contemporanea e lo sforzo eseguito dalle varie discipline legate al sapere per comprendere i fenomeni del nostro tempo, la mia ipotesi è che l’attualità potrebbe essere attribuita alla psicoanalisi piuttosto che alla patologia. [...]Lungo la sua storia, la nostra disciplina si è giovata di un incremento teorico che ha permesso una comprensione più ampia della mente, e ha conosciuto progressi tecnici che hanno permesso l’accesso ad aree dello psichismo che funzionano “al di qua” della rappresentazione” (p.42).

L’espansione degli studi sulle varie configurazioni mentali e le nuove possibilità di lavoro sviluppate ci hanno sicuramente affrancato da scuole specifiche e da modelli predefiniti di ricerca. Oggi non siamo più limitati ad un solo modello rigido di lavoro. Ci muoviamo con maggiore libertà tra i contributi dei vari autori, cercando di trovare quello che più ci aiuta ad avvicinare un determinato paziente in un determinato momento del processo psicoanalitico. A sua volta, questa maggiore libertà nell’accogliere pazienti una volta ritenuti “non analizzabili” ha contribuito ad aprire la strada a nuove scoperte. Ciononostante, quando la libertà si trasforma in regole che introducono modifiche indiscriminate nel setting, enfatizzando soltanto il carattere psicoterapeutico del lavoro, sorge il rischio di veder diluita la psicoanalisi e smarrita la sua specificità. Queste modifiche prive di oculatezza possono ostacolare la proposta di esplorare i processi psichici, uno degli obbiettivi che, come sappiamo, Freud postulò nel 1923 nel proporre la sua definizione della psicoanalisi.


II – Clinica

Presento in questo lavoro alcuni aspetti del funzionamento mentale di due pazienti che ho osservato lungo parecchi anni di analisi. Cercherò di sottolineare alcune configurazioni che la letteratura analitica ritiene tipiche dei casi limite. Tali configurazioni non vanno confuse con i sintomi poiché è raro poterle collegare ad un universo di rappresentazioni, a differenza di quanto accade nelle configurazioni nevrotiche. Per tali pazienti non è affatto chiara la separazione fra se e il mondo esterno, fra ciò che si trova all’interno e ciò che si trova all’esterno. I confini fra l’Io e la realtà non sono netti. Nonostante arrivino ad allucinare alcune situazioni non negano del tutto la realtà come invece fanno gli psicotici che implicitamente la ricostruiscono. Esaminare tali configurazioni mentali potrebbe essere utili per comunicare e discutere la clinica sul psichismo dei pazienti limite nell’intimità del lavoro psicoanalitico.

Dal momento che solitamente si accetta che i casi-limite si situano in uno spazio “fra” la psicosi e la nevrosi, è da rilevare che tali casi non si confondono con la schizofrenia o la psicosi e non si situano su una linea di confine tra questi due quadri mentali con il rischio di ‘cadere’ da una parte o dall’altra. In base a quello che afferma Green (2000), la “esperienza ha dimostrato [...] che paradossalmente i casi-limite costituiscono strutture abbastanza stabili nonostante o forse proprio in ragione della loro instabilità, ed è inusuale vederli cadere in modo duraturo in organizzazioni psicopatologiche più gravi.” (p.46)

Infatti i pazienti designati come casi-limite presentano strutture mentali abbastanza stabili, nonostante siano contrassegnati dall’instabilità. Si osserva tuttavia che tale instabilità è frutto dell’organizzazione di una personalità nella quale prevalgono aspetti pre-edipici che rimandano alla relazione primitiva tra madre e bambino.

Secondo l’ipotesi comunemente accolta per l’esame di questa realtà clinica, le insufficienze nella relazione precoce madre-bambino modellano la struttura psichica di tali paziente, cui l’Io è spesso fragile. Le insufficienze cagionano un’esposizione precoce del bambino a tensioni che lui non è in grado di reggere in ragione dell’immaturità del suo apparato neuropsichico. I fattori che causano tali insufficienze possono derivare sia da una costituzione iniziale sfavorevole del bambino sia dall’inadeguatezza delle prime cure materne o ancora dal concorso fra i due fattori. È possibile inoltre che altre circostanze nella prima infanzia collaborino ugualmente all’emergere di questo tipo di personalità. Qualunque sia però la storia di questi pazienti, non si dovrà mai trascurare l’importanza della loro realtà psichica nella strutturazione della loro personalità.

Come segnala Donald Meltzer (1986/1975), una situazione iniziale sfavorevole impedisce lo sviluppo dei processi di identificazione, facendo in modo che questi pazienti abbiano difficoltà a contenere le tensioni esterne e quelle interne alla mente. Non sono in grado di tollerare l’ansia poiché non controllano gli impulsi; non sono ugualmente in grado di stabilire rapporti in cui debbano affrontare le differenze, e tendono quindi a cercare permanentemente rapporti fusionali. Prevalgono in essi non soltanto le angosce di abbandono, perdita o separazione ma anche quelle di intrusione o inglobamento da parte dell’oggetto. Queste caratteristiche corrispondono ad una personalità in cui prevale il funzionamento bidimensionale con propensione all’identificazione adesiva (Meltzer), senza capacità di pensare i pensieri (Bion).

Sia in ragione delle insufficienze precoci conseguenti a possibili deficienze dell’oggetto primario - il quale si mostra incapace di contenere e dare senso alle manifestazioni del bambino -, sia in ragione della prevalenza di impulsi particolarmente intensi nella sua costituzione - in grado persino di mettere in rischio la possibilità che l’oggetto primario possa contenerli – ciò che si osserva nei pazienti limite è una eccitabilità permanente alla base delle manifestazioni del funzionamento psichico. Questa eccitabilità - che non è passibile di metabolizzazioni da parte del pensiero o per mezzo del ricorso alla simbolizzazione - scatena la scarica che si serve dunque delle vie disponibili per liberare lo psichismo dal sovraccarico di tensioni. Tali vie, secondo Green (2006), si volgono verso la realtà esterna sotto la forma di acting out; e si volgono anche verso la realtà più profonda, ai limiti dello psichismo e più al di qua di esso, colpendo il proprio soma e producendo persino alterazioni fisiche che si avvicinano ai quadri psicosomatici (p.26). Gli acting out, a loro volta, siano essi sessuali, liti, condotte ossessive ecc., non racchiudono quei significati simbolici che nei pazienti nevrotici possono invece essere individuati e interpretati. Essi non sono neppure visti dai pazienti come sintomi poiché ricorrere agli acting out costituisce per loro una necessità vitale. Stando così le cose diventa evidente l’esistenza di una differenza netta tra la clinica dei casi-limite e quella delle nevrosi. Nei pazienti nevrotici è quasi sempre il sintomo a trascinarli in analisi. Il nevrotico riesce ad osservarsi e ne soffre. Il paziente limite soffre per la sua disperazione – sono i sintomi a permettergli di sopravvivere. Questa è la notevole differenza che sussiste tra la clinica del desiderio, delle nevrosi, e la clinica della necessità - quella appunto degli stati primitivi della mente.

In conseguenza delle caratteristiche appena citate, il lavoro di analisi con tali pazienti punta fondamentalmente, e a lungo, sul contenimento. Ciò che serve a loro è l’esperienza di incontrare uno spazio nel quale la loro vita emotiva inquieta, turbata, dolorosa, possa essere accolta e contenuta. Questa esperienza continuata e rinnovata ad ogni seduta permette loro di costruire a poco a poco uno spazio interno nel quale si sviluppano le possibilità del pensare, portandoli ad abbandonare la soggezione alle condizioni arcaiche del funzionamento mentale. A questo proposito, in seguito a molti anni di analisi, mi disse di recente uno dei miei pazienti:

Adesso io non litigo più con mio fratello, come facevo una volta. Ma lui non discorre con me, è aggressivo. Non posso discorrere con lui come faccio con lei. Una volta non potevo nemmeno discorrere con lei. Non era una conversazione era qualcos’altro. Era un vortice. Ma lei ha avuto pazienza ed ha aspettato che io potessi conversare”.

Avendo lavorato per anni con pazienti che posso ora chiamare casi-limite, ho osservato che uno unico paziente di questo tipo può presentare una gamma di caratteristiche chiaramente psicotiche o perverse oltre a mostrarsi capace anche di vivere momenti di integrazione più o meno duraturi. Questo è un altro aspetto che evoca l’instabilità e allo stesso tempo la mobilità dei confini tra la sanità e l’insania di cui parla Green. D’altronde osservo nei pazienti che non presentano tale fragilità dell’Io periodi in cui si palesano aspetti simili a quelli dei casi-limite. La differenza tra loro è che nei casi-limite tali manifestazioni non sono prevalenti e possono integrarsi più facilmente ai processi simbolici o repressi. Per mezzo del lavoro dell’analisi, questi aspetti possono ricomparire nelle fantasie occasionali o nei sogni notturni.

Da molti anni Diana e Abel sono in analisi da me, in momenti differenti delle loro vite. Ho avuto modo di osservare determinati aspetti del loro funzionamento mentale che utilizzerò per illustrare alcune considerazioni sui pazienti casi-limite.

Diana e Abel sono venuti da me per la prima volta praticamente nello stesso periodo, più di 25 anni fa. Da allora ho lavorato con ognuno di loro a più riprese ognuna delle quali di durata non inferiore a 4 anni. Per una felice coincidenza, sono tornati entrambi in analisi negli stessi periodi. Siamo ora al terzo periodo di analisi e sono loro grata per l’opportunità che mi hanno concesso di osservare sin dall’inizio, e così a lungo, le manifestazioni cliniche che danno corpo alle teorie sviluppate dagli autori dedicati allo studio degli stati primitivi della mente. Il lungo arco di tempo coperto dal lavoro di analisi mi ha permesso inoltre di osservare l’evolversi dei loro stati mentali, il quale presenta caratteristiche particolari e proprie delle configurazioni ‘limite’.

Per ciò che riguarda il setting, alcune modifiche si sono rese necessarie sia all’inizio sia in altri momenti del lavoro. Tali modifiche hanno riguardato la quantità di sedute e il colloquio faccia a faccia al posto dell’uso del divano. Tuttavia, è stato possibile per lo più mantenere una frequenza da 3 a 5 sedute a settimana, nonché l’uso del divano, l’astenersi richiesto dalla postura analitica e la ricerca costante delle condizioni di contenimento, giacché la mancanza di limiti e la tendenza all’acting out sono ricorrenti presso tali pazienti.

Mentre cercavo le condizioni di contenimento, mi sono accorta dell’importanza di descrivere al paziente ciò che le sue parole, azioni e disperazione mi facevano pensare. Mi sono resa conto inoltre dell’importanza di formulare domande che servissero a chiarire ciò che credevano succedesse a loro. Il tentativo di attribuire significati emotivi alle parole, alle manifestazioni corporee e agli indizi che facevano intravvedere gli stati mentali – indizi spesso talmente esigui da passare inosservati in assenza dell’attenzione inerente al lavoro psicoanalitico -, permetteva che si sviluppasse in ognuno di loro progressivamente la capacità di autosservazione e l’integrazione dell’autoconoscenza, aspetti questi molto danneggiati in entrambi. Ho potuto osservare che questo approccio clinico favoriva a poco a poco l’accesso al simbolico, rimandandomi alle considerazioni di Bion sull’importanza del rivolgersi alla parte non-psicotica del paziente di modo a permettergli di osservare ed elaborare la parte psicotica della sua personalità..

Un’altra questione riguarda l’accorgimento da me adottato di non interpretare il contenuto nonostante le comunicazioni del paziente sembrassero contenere alcun significato inconscio. Raramente le interpretazioni del contenuto avevano qualche senso per Diana o Abel e spesso una interpretazione di questa natura, fatta inavvertitamente, poteva perfino provocare la disorganizzazione del loro pensiero. Questo tipo di paziente non è in grado di associare liberamente. Le loro comunicazioni si limitavano per lo più a un resoconto un po’ ripetitivo ed irrigidito delle situazioni quotidiane. Tale rigidità era presente anche nelle considerazioni che facevano sugli oggetti esterni, spesso percepiti come persecutori, noncuranti, incomprensibili, malefici e responsabili di tutte le loro sofferenze.

Altro punto importante da mettere in risalto riguarda le interpretazioni del transfert. Occorre usare la massima cura nel farle e persino evitarle per un po’ di tempo, poiché i pazienti con configurazioni mentali lontane dai quadri nevrotici non sono, in molti momenti, in grado di sopportarle. Franco De Masi (2011/2006) affronta questa questione nel libro Vulnerabilità alla Psicosi e propone che nel confrontarsi con pazienti psicotici si debba inizialmente, e prima di qualsiasi interpretazione di transfert, interpretare gli aspetti del funzionamento mentale quali gli equivoci causati dalle allucinazioni o dai deliri. La concretezza del pensiero di questi pazienti fa spesso che avvertano come invasiva e minacciosa l’interpretazione che affronta il transfert. L’uso dell’interpretazione di transfert già all’inizio dell’analisi era stato proposto in precedenza da Rosenfeld (1965) che più tardi la riformulò (Rosenfeld 1987).

 

III – Frammenti clinici

La ricerca disperata di un contenitore

La percezione che hanno i pazienti limite di trovarsi separati dall’oggetto provoca stati di netta disorganizzazione mentale. Nei casi citati ciò si è spesso manifestato per mezzo delle esasperate reazioni emotive e dei tentativi di controllarmi. Alcuni frammenti clinici di Diana e di Abel illustrano queste ansie d’impronta catastrofica. Completo questi frammenti con la descrizione della situazione clinica di un bambino autistico, Gabriel, il quale ha espresso quest’ansia in modo ancora più impressionante.

Diana

Diana venne da me affinché vedessi suo figlio. Poiché il bambino aveva difficoltà a separasi dalla madre, lei lo accompagnò a tutte le sedute di osservazione. Per incompatibilità di orari decisi di inviare il bambino ad una collega. Alcuni giorni dopo l’ultimo contatto avuto, Diana mi chiama disperata perché stava per fare un intervento di chirurgia plastica al naso e diceva di aver urgente bisogno di vedermi. Credo che il fatto di aver osservato il mio rapporto con il figlio possa aver destato in lei qualcosa di molto intenso, forse la speranza di aver trovato quello che cercava, senza nemmeno sapere cosa fosse. Era la mia ultima giornata lavorativa prima delle vacanze e non ho quindi potuto vederla in quella occasione. All’incirca un mese dopo, al mio ritorno, iniziammo il lavoro.

Ho osservato subito una delle caratteristiche delle personalità psicotiche segnalate da Bion (1957): la formazione di una relazione d’oggetto prematura e precipitosa che si caratterizza, nel transfert, per la fragilità e la tenacia del vincolo. Rapidamente, Diana diventò esigente. Cominciò a telefonarmi nei fine settimana “solo per udire la mia voce”, a lasciarmi biglietti al termine delle sedute, protestando quando avvertiva che qualcosa che avevo detto non quadrava perfettamente con ciò che desiderava e arrivò a cogitare di contrattare un detective per investigare la mia vita, sapere dove abitavo, quello che facevo fuori dal mio studio ecc..

All’inizio dell’analisi, Diana veniva 5 volte alla settimana. Eppure un giorno è ritornata al mio studio solo poche ore dopo la fine della seduta. Sembrava sconvolta e gridava in sala d’attesa pretendendo di essere ricevuta. In quei pochi minuti in cui la vidi, prima del paziente successivo, mi disse che se non le avessi concesso immediatamente un’intera seduta, si sarebbe lanciata con l’automobile contro un palo appena fosse uscita dallo studio. Malgrado l’impatto che mi causò quella irruzione, le dissi con calma che non potevo fare niente perché avevo altre persone da ricevere. Le dissi inoltre che l’avrei aspettata il giorno seguente alla solita ora. Credo di aver tenuto conto in quel momento soltanto della necessità di stabilire un limite fermo alla realtà o, per lo meno, questa fu l’unica cosa che riuscì a fare. Nell’ascoltarmi Diana sembrò calmarsi. Subito si ricompose e si congedò da me con un “a domani”.

Questo evento costituì una pietra miliare nella storia del nostro lavoro e, anni dopo, già nel terzo periodo dell’analisi, Diana ne ha fatto cenno. Questa volta, però, era più capace di riflettere sulle sue reazioni emotive. Mi disse allora che l’evento accaduto anni prima non era stato, a suo avviso, una minaccia manipolativa di suicidio, come avevo ritenuto. Secondo lei, la sua reazione era stata conseguente alla disperazione provocata dalla sensazione che non avrebbe potuto sopportare ciò che avvertiva in quel frangente come rifiuto e abbandono, priva com’era di risorse per affrontare lo scompiglio che ciò le causava. Potrei ora aggiungere che si trattava di una sensazione vissuta concretamente come minaccia di annientamento. Non poteva trattarsi che di una sensazione, poiché parlare di sentimenti sarebbe un modo troppo sofisticato per descrivere il suo stato mentale di allora.

Tra il secondo e terzo periodo di analisi, periodo nel quale non stavamo lavorando insieme, Diana lascia nel mio studio una lunga lettera con furiose lagnanze contro la mia rigidità e noncuranza nei suoi confronti, poiché mi aveva visto entrare in un ristorante e passare accanto al suo tavolo senza salutarla. La lettera mi ha sorpresa poiché sebbene fossi andata al ristorante citato non l’avevo affatto vista. Ma Diana non era in grado di considerare l’ipotesi che io fossi separata da lei: se lei mi aveva vista come mai avevo potuto non vederla? Senza alcuna possibilità di mettere in dubbio la convinzione che l’avessi vista, emersero in lei, immediatamente, sentimenti di rifiuto, abbandono e furore.

Abel

Abel iniziò l’analisi a 14 anni, dopo un episodio che si potrebbe descrivere come psicotico. È nato prematuro, molto fragile ed è rimasto nel reparto di neonatologia per più di un mese. Durante la sua analisi, riferì innumerevoli situazioni dell’infanzia nelle quali si sentiva disperato nel vedersi separato dalla madre. Ancora oggi, adulto e totalmente indipendente dal punto di vista finanziario, è per lui impossibile lasciare la casa dei genitori. .

All’inizio del lavoro, sebbene gli avessi mostrato il divano, Abel preferì rimanere seduto di fronte a me, gli occhi “conficcati” su di me, molto attento ad ogni mio gesto. Parlava in continuazione e in modo non coerente, accozzando racconti sulle serate in discoteca, uscite con amici, litigate con il padre e il fratello. Segnalo un fatto che accadde nei primi mesi di lavoro: lui decise di stendersi sul divano, “poiché gli avevano detto che così si doveva fare nell’analisi”. Si stende, però, bocconi, con gli occhi sempre conficcati in me, ancora più vicini. Rimane così per alcune settimane. Decide quindi di stendersi supino e passa immediatamente ad avere allucinazioni visive: vede sfere di luce sulla parete e le chiama “croccanti”. È molto spaventato. Pare calmarsi quando gli dico che forse ha immaginato che anch’io, sparendo dalla sua vista, mi fossi trasformata in qualcosa di totalmente fuori dal suo controllo e quindi, per lui, terribile. Durante questi primi periodi di lavoro, ogni volta che avvertiva in se qualche cosa di angosciante riferiva vedere questi “croccanti”. Sarebbero queste allucinazioni il registro visuale delle luci del reparto di neonatologia dei suoi primi giorni di vita? Ritengo possibile che la perdita del contatto visivo con me nonché i momenti di maggiore angoscia - situazioni impossibili per lui da contenere - avessero fatto emergere il vissuto catastrofico della cesura della nascita che, nel suo caso, avvenne prima del tempo necessario per la completa maturazione.

Gabriel

Quando iniziò l’analisi, Gabriel aveva quattro anni e presentava un quadro di autismo. Durante i primi due anni di lavoro non manifestò mai, nei periodi che precedevano le interruzioni per le vacanze, riconoscere il fatto che ci saremmo allontanati. Dopo tre anni di analisi, però, mentre ci separavamo ancora una volta per le vacanze e dopo avergli dato tutte le spiegazioni sulla separazione gli dico che ci saremmo rivisti soltanto dopo diversi giorni. Lui si mette quindi ad urlare disperato: “ Ligia mi ha picchiato! Ligia mi ha picchiato”. Si leva la maglietta e mi mostra il petto cosparso da grandi macchie rosse che sembravano segni di botte. .

Questi passi mostrano una delle caratteristiche comuni che ho osservato nei casi-limite, ossia la disperazione che s’impadronisce del paziente quando esso si rende conto che i suoi oggetti non funzionano in totale sintonia con il suo bisogno di rimanere incollato ad un contenitore in grado di sopportare tale disperazione, una volta che gli mancano le condizioni mentali per affrontare la realtà della separazione. In quadri molto gravi come quello di Gabriel individuiamo la difesa rigida che annulla la percezione della separazione, e la chiusura autistica. Quando questa difesa viene in qualche modo turbata compare l’angoscia catastrofica che abitualmente è tenuta nascosta dai meccanismi autistici.

Alcuni autori ci forniscono delle elaborazioni teoriche sulla ricerca disperata di un contenitore. Bion (1967) lo fa per mezzo delle sue considerazioni sulla differenziazione tra le personalità psicotiche e quelle non psicotiche, riferendosi al transfert nel caso delle personalità psicotiche; Meltzer lo fa nei suoi lavori sull’identificazione adesiva; e lo fa anche Ester Bick con le sue osservazioni sulla funzione contenitrice dell’oggetto primario, necessaria per mantenere coese le parti di personalità, la quale viene vissuta concretamente come una pelle.

 

La “fragilità dell’involucro”

Diana e Abel mi hanno dato l’opportunità di seguire il manifestarsi di un fenomeno che si può presentare anche in altri casi in cui prevalgono gli stati primitivi della mente. Tale fenomeno richiama le osservazioni fatte inizialmente da Esther Bick (1987/1968) che l’hanno portata ad elaborare il concetto di pelle psichica. .

Con “fragilità dell’involucro” intendo l’impossibilità presentata dai pazienti di contenere mentalmente sia l’eccitazione interna vissuta come minaccia sia l’impatto degli stimoli esterni percepiti come altrettanto minacciosi. Tale impossibilità è vissuta concretamente nel corpo perché nessuna barriera lo protegge da questi stimoli. È per questo quindi che avvertono che la loro esistenza è sempre a rischio.

Mi è parsa particolarmente notevole la capacità dimostrata da Diana e Abel , in un momento più avanzato delle loro analisi, di mettere in parole osservazioni su sensazioni ed esperienze vissute in passato quando ancora gli mancava la distanza psichica necessaria per percepirle. A mio avviso loro non erano stati in grado, in passato, di percepire le situazioni non solo perché non avevano parole per descriverle ma soprattutto perché le avvertivano come necessità indiscutibili e vitali per mantenere uno stato mentale minimamente organizzato.

Le situazioni citate illustrano le osservazioni fatte di Esther Bick sulle insufficienze iniziali nello sviluppo del bambino conseguenti all’assenza di un contenitore materno adeguato. Tale assenza per Bick determina la formazione di una seconda pelle di tipo muscolare che funge da sostituto corporeo e fisico di una funzione che dovrebbe essere psichica. Abel e Diana sono stati fisicamente attivi sin dalla infanzia. Secondo i loro ricordi, sono stati persino turbolenti. Si sono dedicati entrambi alla pratica di attività sportive in cui prevalevano l’azione, la competizione e le dispute. Ancora oggi mi accorgo spesso durante le sedute che le parole di Diana sono corredate da pugni e manate sul divano destinati ad enfatizzare ciò che dice. Lei oggi si rende conto di questa permanente attività muscolare che s’intensifica quando è in ansia; cerca di tenerla sotto controllo, ma non sempre ci riesce.

Abel

Nel terzo periodo di analisi, a quasi 40 anni, Abel riferisce che sin da piccolo è dovuto avvolgersi in un piumino di lana per dormire, lasciando scoperto soltanto il viso, facesse freddo o caldo. Aveva paura di subire danni corporei mentre dormiva ed era inoltre convinto che i topi potessero entrare dal suo ano. Recentemente si liberò dalla coperta, accorgendosi con stupore di non averne più bisogno. Solo allora ha potuto mettere in parole il bisogno che aveva a lungo provato. Era ora consapevole del livello di distacco dalla realtà che per tanti anni aveva segnato il suo funzionamento mentale.

Diana

Sin dall’inizio del nostro lavoro quando sentiva che faceva caldo o la sala era afosa Diana manifestava un certo disagio fisico e persino respiratorio. Alcune volte mettevo in relazione il suo disagio fisico con l’argomento di cui parlavamo, ritenendo che si trattasse di una reazione ai nostri discorsi; ciò era privo di senso per lei. Si serviva sempre di molti dettagli per descrivere come le era impossibile indossare determinati vestiti, immaginando che le avrebbero causato disagio. Riferì di recente un fatto accaduto quando era ancora piccola: il giorno del suo compleanno aveva avuto in dono un vestito con dei merletti e volant. Appena indossato se l’ha strappato di dosso con violenza, disperata dalla sensazione che tessuto e ornamenti le avevano lasciato sulla pelle.

Cominciai pian piano ad apprendere che per mezzo di tali descrizioni Diana comunicava le situazioni che le erano intollerabili in ragione del fatto che sentiva il rivestimento del suo corpo come una pellicola troppo fragile, incapace di proteggerla da quello che percepiva come aggressioni esterne. In un periodo successivo dell’analisi – quando riusciva già a rendersi conto di ciò che le accadeva senza lasciarsi prendere dalle insopportabili disperazioni - Diana poté raccontarmi che aveva sempre usato magliette morbide sulla pelle di modo ad evitare il contatto con altri tessuti che, secondo lei, avrebbero potuto farle male. Questa era la sua protezione, allo stesso modo in cui la coperta lo era per Abel: una protezione vissuta come necessità vitale. Man mano che le situazioni acquisivano significati psichici nel lavoro analitico, Diana riuscì a liberarsi delle magliette, modificare il suo modo di vestirsi nonostante persistesse nell’esaminare i vestiti prima di indossarli, controllando accuratamente le cuciture e levando le etichette per non correre il rischio di indossare qualcosa che potesse ferirla.

Il “fragile involucro” a sua volta non è nemmeno in grado di sbarrare la strada allo scompiglio interno avvertito da questi pazienti. Il contatto con gli altri genera spesso sentimenti intensi, capaci di mettere in scacco la loro integrità in virtù del fatto che leggere differenze o piccoli segnali di discordanza sono spesso percepiti come intrusioni o attacchi violenti. Diana e Abel hanno sempre faticato a contenere queste emozioni che irrompevano come atti spesso dannosi per loro e per i loro rapporti sociali.

Dopo molti anni di lavoro analitico entrambi hanno sviluppato maggiore contenimento di queste emozioni, riuscendo a percepire ed a mettere in parole questa caratteristica del loro funzionamento mentale. Diana, ad esempio, visse un episodio nel quale perse il controllo e fu aggressiva con il marito. A differenza di quanto accadeva in precedenza, si sentì colpevole per avere provocato una situazione sgradevole per entrambi. Fece allora un sogno che, a mio vedere, contiene la percezione della pericolosità insita nelle sue emozioni:

Stavo caricando un sacco pieno di granchi. Era fatto di un tessuto molto sottile. I granchi si muovevano all’interno e avevo molta paura che potessero strappare il tessuto con le pinze e farmi del male”.

Abel pure descrisse una situazione che aveva vissuto e lo aveva sensibilizzato. Nell’affrontarla è riuscito a controllare l’incipiente confusione mentale e non ha reagito violentemente come era solito fare. Ha quindi messo in parole la percezione della fragilità della barriera:

Prima sentivo tutto; i miei sentimenti mi turbavano. Non erano sentimenti, erano emozioni, perché emozione è una cosa che hai dentro e non riesci ad organizzare. Sono impulsi, sono cose che ti sopraffanno. Non riuscivo ad essere sicuro dentro di me. Ero vulnerabile da dentro verso fuori e da fuori verso dentro”.

 

Caratteristiche dei sogni

Diana e Abel raccontavano i loro sogni già al primo periodo delle loro analisi. Erano sogni differenti da quelli che aprono la strada alle associazioni libere e al lavoro di elaborazione dei contenuti mentali inconsci. I loro racconti avevano una certa “crudezza” e sembravano servire a quello che Green (2006) definisce come “modalità di eruzione psichica” (p. 225). Alla stregua di ciò che accadeva con le ripetute comunicazioni che entrambi facevano sugli avvenimenti quotidiani, i loro sogni non si prestavano alle interpretazioni perché riproducevano la modalità prevalente del loro funzionamento mentale segnato da continui acting out. Erano sfoghi che davano sollievo alle tensioni insopportabili. Sebbene la simbolizzazione non fosse del tutto assente - dal momento che vi era una rappresentazione tramite immagini - le immagini non erano legate a contenuti psichici o esperienze emotive.

Anche Bion descrive queste caratteristiche (l962), in riferimento alla perturbazione di quello che chiama funzione-alfa. Quando la perturbazione si verifica, le impressioni sensoriali e le emozioni – avvertite come oggetti sensoriali – rimangono nel loro stato originale, senza trasformazioni o, nelle sue parole, sono elementi-beta. Gli elementi-beta, a loro volta, non possono essere utilizzati nei pensieri onirici. Essi sono impiegati nell’identificazione proiettiva e producono acting out. Sono evacuati oppure utilizzati in alcun tipo di pensiero concreto. Tanto il sognare quanto il pensare ne sono compromessi. Per Bion, è la funzione alfa che protegge la personalità dallo stato psicotico.

Lungo tutti questi anni i sogni hanno occupato uno spazio sempre più importante nel lavoro psicoanalitico svolto con Diana e Abel. Entrambi si sono interessati alle loro “produzioni notturne”, man mano che si rendevano conto che ne potevano trovare, tramite l’analisi, alcun senso in grado di eliminare la soggezione al terrore da esse stesse scatenato. Raccontando le immagini dei loro sogni, hanno progressivamente sviluppato maggior contatto con la loro vita psichica, avviandosi verso livelli superiori di astrazione.

Diana riesce oggi a stabilire associazioni tra i suoi sogni, le nostre conversazioni durante le sedute e i fatti della sua vita. Giunse a vedere i suoi sogni come illuminanti per comprendere le sue esperienze. Alle sedute esordisce spesso con entusiasmo dicendo:“Ti devo raccontare cos’ho sognato la notte scorsa”.

Nonostante i sogni di Abel non presentino la medesima concretezza allucinatoria, la sua capacità di fare associazioni è meno sviluppata di quella di Diana. Mi rendo conto che devo spesso cercare il filo conduttore capace di legare gli elementi frammentari delle sue comunicazioni; a mio avviso questo lavoro è differente dal lavoro di interpretazione svolto con pazienti nevrotici. E’ un lavoro di costruzione del senso, nel quale l’analista presta la sua mente al paziente. Ed è inoltre molto più necessario e costante in quanto si tratta di pazienti limite. Come ben dice Green (1990), “il discorso del caso-limite non è una catena di parole, di rappresentazioni o di affetti; esso somiglia molto di più ad una collana il cui filo si è spezzato. Sta all’osservatore stabilire gli anelli che mancano, a partire dal suo proprio apparato psichico.”(p.134).

Diana

Diana è sonnambula sin dall’infanzia. Il padre si alzava di notte e la riportava a letto, cercando di calmarla. La madre non l’aiutava mai perché ne era spaventata e non riusciva a soccorrerla.

Nei primi tempi dell’analisi mi comunicava spesso che “aveva fatto un sogno”. Ma i suoi ‘sogni’ erano molto diversi da quelli abituali. Somigliavano di più ad allucinazioni visive vissute con indiscutibile realtà. In essi, oltre agli animali e oggetti che si spostavano sulle pareti della sua stanza, era convinta di vedere fili che pendevano dal soffitto e la minacciavano. Era abituata a ‘sognare’ che suo figlio era caduto dalla culla persino dopo che era cresciuto. Presa dal panico agiva in base a quello che riteneva stesse accadendo: svegliava il marito e lo convinceva che il bambino si era perso da qualche parte. Arrivava a volte a uscire di casa e si trovava poi di colpo spaventata nei corridoi dell’edificio in cui viveva. Nel riportare tali esperienze era presa dal panico come se stessero riaccadendo in quel preciso istante e dimostrava lo stesso livello di convinzione. E spesso si agitava quando faceva gli incubi; aveva bisogno di un po’ tempo prima di capire che il sogno non era la realtà. Durante la giornata era in genere soggetta a turbamenti provocati dalle immagini notturne. Con il lavoro dell’analisi, le sue deambulazioni notturne diventarono meno frequente. Tuttavia, dopo molti anni di analisi, alcune delle caratteristiche del suo peculiare ‘sognare’ si ripresentano specie quando si trova in situazioni emotive che sfuggono al suo controllo.

Durante il secondo anno di analisi, Diana cominciò a idealizzare le qualità che attribuiva a me e, osservandomi, cercava di imitare i miei comportamenti. Immaginava che impossessandosi concretamente di qualcosa che proveniva da me sarebbe riuscita a placare la sua permanente inquietudine. In quel periodo fece un sogno che si trasformò in un incubo. Questo sogno illustra la sua difficoltà nel distinguere una prodotto mentale da un elemento di realtà. Dimostra inoltre la sua difficoltà nel distinguere tra quello che c’è dentro di lei e quello che c’è fuori, con la conseguente fragilità del sentimento di identità.

Sognai che ero andata alla scuola di mio figlio e là incontrai una suora a cui voglio molto bene perché è molto delicata e dolce. Mi ci avvicinai guardandola bene negli occhi e, a un certo punto, quando l’avevo molto vicina a me non capivo più chi ero io e chi era lei. Mi prese il panico e corsi verso il bagno per guardarmi allo specchio e vedere se io ero ancora io”.

Abel

Abel faceva molti incubi. Le circostanze che costituivano i sogni erano di natura per lo più persecutorie o sessuali; queste ultime avevano caratteristiche abbastanza crude. Me li raccontava sempre, ma il suo ‘sognare’ era concreto e richiedeva una soluzione. Una volta ad esempio sognò che qualcuno metteva il piede davanti a lui per farlo inciampare. Mi chiese angosciato: “Perché ci ha messo il piede? Perché voleva che cadessi?”. Non gli era di nessun aiuto rispondere che si trattava di un sogno e che nutriva il sentimento che gli altri volevano fargli del male. Insisteva affinché io gli dicessi la causa dell’aggressione subita nel sogno. Alla stregua di Diana, il sogno era percepito da Abel come una realtà fattuale indiscutibile ma, a differenza di lei, questa realtà esigeva da lui una reazione e richiedeva che si adottassero provvedimenti in grado di risolvere la questione; solo in questo modo si sarebbe sentito al sicuro.

Abel ora è piu stabile. E’ lieto di essere più tranquillo e meno assalito da sentimenti persecutori nell’ambito dei suoi rapporti familiari e di lavoro. Ciononostante alcune aree del suo funzionamento psichico sono tuttora percepite da lui come delle “impossibilità”- è così che le chiama. Cerca di proteggersi da se stesso, allontanandosi dalle situazioni che in precedenza lo trascinavano verso gli acting out. E’ consapevole ora che tali situazioni potrebbero destabilizzarlo e mettere a rischio la tranquillità appena conquistata; si rende conto che malgrado lo sviluppo raggiunto c’è ancora molto su cui lavorare.

Di recente, dopo aver vissuto alcune situazioni difficili, fece il seguente sogno:

Mi trovavo in un appartamento in via X. (luogo in cui è vissuto da adolescente e in cui ha avuto l’episodio psicotico). L’appartamento era stato ristrutturato, ma i lavori non erano ancora finiti. Non capivo molto bene … C’era un varco vicino al soffitto! ... Arrivava un rumore da lì!... C’erano alcune tavole di legno che chiudevano il buco e io pensavo che il rumore proveniva dai topi. Ne parlai con mio padre e non ricordo cosa mi abbia risposto. Dissi: meno male che il varco è chiuso”.

Gli dico che il sogno pare svelare il timore che ha provato nell’avvertire che qualcosa proveniente della sua intimità potesse minacciarlo.

Prosegue:

Era da tanto che non facevo un sogno così, con una tale violenza interna che ci corrode dall’interno. Non sono stato male, ma qualcosa mi ha spaventato. Ci ho pensato su in questi giorni ... Quando perdiamo le illusioni dobbiamo affrontare le cose in maniera molto reale”.

Questo sogno può essere visto come un esempio della percezione che Abel ha, ora, di quanto sia fragile la barriera che lo protegge dalla sua “insania”.


Caratteristche dell’evoluzione

La lunga durata del lavoro analitico ha promosso cambiamenti notevoli nel funzionamento psichico di Diana e Abel e di conseguenza anche nelle loro vite. Solo di recente, dopo molti anni di analisi, alcuni elementi delle loro storie cominciano ad emergere come ricordi. In precedenza le loro comunicazioni non contenevano in pratica alcun riferimento al passato ed erano contrassegnate dal racconto degli avvenimenti quotidiani nonché da manifestazioni di rabbia, invidia e disperazione accompagnate spesso da lagnanze riguardo a sentimenti causati, a loro avviso, dall’incomprensione, noncuranza e malvagità altrui. La capacità appena acquisita di rapportarsi al passato, ricordando esperienze emotive e soprattutto rivedendo alcune convinzioni già stabilite e irrigidite riguardo ai rapporti familiari e con gli amici permette loro di costruire dunque, nel lavoro congiunto con l’analista, alcune ‘isole di senso’. Ciò contribuisce a sua volta, allo sviluppo del loro senso di identità. A volte compaiono nei loro sogni immagini che mostrano il permanere di antichi segni, ma non hanno più la concretezza e le caratteristiche allucinatorie che avevano all’inizio del lavoro. Tuttavia i cambiamenti sono lenti e possono sempre capitare delle regressioni che costituiscono un passo in dietro fatto dai pazienti nell’ambito del processo psicoanalitico di modo a rinforzarsi per affrontare nuovi sviluppi.

Osservo, in sintonia con Green (1990), che nonostante il lungo lavoro il “territorio nel quale nessuna divisione netta separa la sanità dall’insania” (p.105) rimane particolarmente instabile e soggetto ad incidenti. In situazioni di maggiore turbolenza emotiva, conseguenti alla vulnerabilità alle tensioni esterne ed interne, possono riemergere segni di disorganizzazione mentale, come se crollasse la protezione appena costruita, attestando la fragilità dell’Io. In altre parole, la barriera di contatto non regge alla tensione e si sfilaccia facendo emergere la disorganizzazione mentale sottostante. Questi momenti, però, sono ora più brevi e molto meno destabilizzanti nella vita di Diana e Abel.

A sua volta questo funzionamento mentale meno compromesso dalle turbolenze emotive è anche frutto di un lavoro nel quale il paziente, per evitare la sofferenza, finisce per “imparare” a confrontarsi con situazioni che sa già che possono compromettere il suo equilibrio. Questo apprendimento è come una struttura che si è formata lentamente laddove prima regnava il caos. Mi accorgo che Abel e Diana dedicano accurata attenzione ai loro processi psichici per non ricadere in quegli stati di cui sono diventati consapevoli. Mi accorgo in particolare dell’attenzione che fa Abel ad evitare situazioni o persone che sa che possono minacciare il suo equilibrio. Nel modo attento e paziente con cui conducono l’analisi, riconosco in entrambi gli elementi fondamentali per il loro strutturarsi. Ma più di ogni altra cosa questo è un lavoro nel quale Diana e Abel cominciano a creare dei legami tra parole e sentimenti, permettendo che senso e vita scaturiscano laddove prima c’era rabbia, angoscia e vuoto. Pare quindi che entrambi i pazienti stiano introiettando un contenitore psicoanalitico.

Di recente Abel mi disse:

C’è una cosa che mi permette di preservarmi: è il pensare agli equivoci della mia testa e impedire che vadano avanti, altrimenti la cosa diventerebbe pericolosa. Noi però riusciamo a capire che si tratta di un equivoco solo dopo aver raggiunto la tappa successiva –altrimenti non è un equivoco”.

Gli risposi:

Sembra tu abbia imparato a non abbandonarti all’insorgere della confusione, della rabbia, di altre emozioni o degli equivoci”.

E lui:

É vero. Prima era una cosa immediata, un avvio pieno di paura, eccitazione e tachicardia. Tutto nello stesso mucchio”.

San Paolo - febbraio 2012
Ligia Todescan Lessa MattosMembro Effettivo della Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo
ligiamattos@uol.com.br

Trad.: Mario Giampá
Rev.: Sonia Maria Scala Paladino

 

IV. Bibliografia

Bick, E. (1987). A experiência da pele em relações objetais arcaicas. Jornal de Psicanálise, 20 (41), 27-31.(Trabalho original publicado em 1968)

Bion, W.R.(1994). Estudos Psicanalíticos revisados. Rio de Janeiro: Imago. (Trabalho original publicado 1967)

Bion, W.R. (1991). O aprender com a experiência. Rio de Janeiro: Imago. (Trabalho original publicado em 1962).

Freud, S. (1996a). Além do princípio do prazer. Edição Standard das Obras Completas de Sigmund Freud. (Vol. 18, pp. 17-75). Rio de Janeiro: Imago (Trabalho original publicado em 1920).

Freud, S. (1996b). O Ego e o Id . In S. Freud, Edição Standard das Obras Completas de Sigmund Freud. (Vol. 19, pp. 25-80). Rio de Janeiro: Imago (Trabalho original publicado em 1923)

Green, A. (1990). La folie privée: Psychanalyse des cas-limites. Paris, Gallimard.

Green, A. (2002). Histeria e estados-limite: quiasma. Novas perspectivas. Revista Brasileira de Psicanálise, 36 (3), pp. 465-486. (Publicado originalmente em 2000)

Green, A. (2002). La pensée clinique. Paris: Éditions Odile Jacob.

Green, A. (2006). Les voies nouvelles de la thérapeutique psychanalytique. Le dedans et le dehors. Paris: Presses Universitaires de France.

Libermann, Z. (2010). Patologias atuais ou psicanálise atual? Revista Brasileira de Psicanálise 44, (1), pp. 41-49.

Masi, Franco De (2011) Vulnerabilité à la Psychose. Paris: Les éditions d’Ithaque. (Trabalho original publicado em 2006)

Mattos, L.T.L., Sandler, E.H.(2001) Ars longa vita brevis: algumas reflexões sobre a idéia de sucesso ou fracasso em uma análise. Revista Brasileira de Psicanálise, 35, (4), 989-99.

Meltzer, D. (1986). Identificação Adesiva. Jornal de Psicanálise. 19 (38), 40-52. (Trabalho original publicado em 1975).

Rosenfeld,H. (1968). Estados Psicóticos. Rio de Janeiro: Zahar. (Trabalho original publicado em 1965).

Rosenfeld,H. (1988). Impasse e Interpretação. Rio de Janeiro: Imago. (Trabalho original publicado em 1987).

1 Questa e altre citazioni dei testi di Green sono traduzioni libere dal francese

2 Considerare qui, anche, i testi “Sul narcisismo: una introduzione” (1914), “L’uomo dei lupi” (1918 )“ Il perturbante” (1919).


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOANALISI IN AMERICA LATINA