Da Shirley Temple a “Immagine alterata”: Andy Warhol e alcuni usi della fotografia

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Da Shirley Temple a “Immagine alterata”: Andy Warhol e alcuni usi della fotografia

Annateresa Fabris



Il rapporto di Andy Warhol con il modello maschile vigente è stato problematico fin dall’infanzia. Mingherlino, malaticcio, insicuro, pauroso, timido, preferiva restarsene a casa a disegnare accanto alla madre piuttosto che giocare con i fratelli maggiori e i bambini del quartiere. Molestato dai compagni di scuola perché non corrispondeva alla figura maschile allora in voga, fatta di intrepidezza, forza ed eroismo muscoloso, il piccolo Andy trova un secondo rifugio nel cinema, che prende a frequentare regolarmente a sette anni per sfuggire al mondo reale (KORICHI, 2011: 33, 36, 38).

Questa passione per il cinema è alla base della collezione di immagini di dive hollywoodiane, avviata nell’infanzia com la foto autografata di Shirley Temple, che occupava un posto privilegiato nella casa della famiglia Warhola a Pittsburgh: nel salotto, sopra il caminetto, accanto a un crocifisso. L’attrice-bambina è il primo alter ego del futuro artista. Tutto in lei lo attraeva. La condizione di piccola diva, abile nel coniugare atteggiamenti peculiari all’infanzia – grazia, innocenza e indolenza – con il senso di responsabilità e l’abilità di un adulto. Il successo, fondato su una combinazione di leggiadria e astuzia, che metteva in forse il modello maschile dominante, col quale il piccolo Andy non s’identificava. Dotata della capacità di durare nel tempo, la piccola diva si trasforma in modello e in un forte punto d’appoggio, tanto che Truman Capote dirà, qualche anno dopo, che era diventato “la sua nuova Shirley Temple” (KORICHI, 2011: 37-38).

L’interesse per le varie manifestazioni della persona della diva si prolunga durante l’adolescenza, ugualmente solitaria e distante dal mondo esterno. In questo momento Warhol trova un riscontro nelle immagini di Mae West, Carmen Miranda, Joan Crawford (che l’attraeva con le sue lunghe ciglia false), Greta Garbo (di cui ammirava le sopracciglia disegnate) e Marlene Dietrich. Se cerca d’imitare le pose tipiche delle due ultime attrici in alcune fotografie scattate a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta, è in Capote però che proietta il proprio ideale1. Ancora una volta la fotografia funge da tramite nella scelta del secondo alter ego, del quale l’artista ammirava la bellezza androgina, i rapporti sociali e lo stile di vita, fondato sulla ricchezza e sulla fama. La copertina di Other voices, other rooms (1948), in cui Capote appariva sdraiato su un divano, intento a fissare la macchina fotografica in modo spudorato, con la mano sulla patta dei pantaloni e con le labbra imbronciate, scatena una sorta d’ossessione in Warhol. Questi ricorderà posteriormente:

Negli anni cinquanta, nei miei giorni prepop, desideravo tanto illustrare i suoi racconti e lo tormentavo con telefonate successive, finché un bel giorno la madre mi disse di smetterla. Difficile dire adesso quel che mi aveva spinto a voler tanto associare i miei disegni a quei racconti. Evidentemente, erano ottimi, molto fuori dal comune – lo stesso Truman era un personaggio abbastanza fuori dal comune – su ragazzi e ragazze sensibili del Sud che si mantenevano un po’ in disparte dalla società e inventavano delle fantasie per se stessi. (WARHOL; HACKETT, 2013: 233; INDIANA, 2010: 52; SCHICK, 1999: 205; WAINWRIGT).

Non è improbabile che la proiezione nella figura di Capote, che lo disprezzava per l’attività di “volgare vetrinista” e per il “desiderio di riconoscimento e fama”, abbia come base una constatazione che l’artista è costretto a fare dopo essersi trasferito a New York nel 1949: mentre il mondo letterario accettava l’omosessualismo, l’universo dell’Action Painting presentava un’immagine pubblica esclusivamente eterosessuale e maschilista, in totale discordanza con i “modi effeminati” ostentati da Warhol2. Robert Rauschenberg e Jasper Johns – gli artisti contemporanei che ammirava di più – non l’accettano immediatamente. Nonostante il proprio orientamento sessuale, disprezzano il manierismo gay e l’ostentazione di tendenze omoerotiche nelle opere del collega più giovane. Considerano il suo interesse per il collezionismo (Warhol aveva acquistato un disegno di Johns nella primavera del 1960) consono a un “consumatore” piuttosto che a un “produttore”, in un momento in cui il consumo era associato a un’attività prevalentemente femminile. I due artisti, inoltre, condividono con la generazione dell’Espressionismo Astratto l’esibizione di comportamenti virili, che s’accordavano con la loro “arte tormentata e ansiosa”, come Warhol la definirà posteriormente (WARHOL; HACKETT, 2013: 21-23; INDIANA, 2010: 36-37; DANTO, 2009: 24-25; KORICHI, 2011: 34-35, 69-70; WOLF, 1997: 4-7).

Il rifiuto di Warhol da parte del mondo ufficiale dell’arte non può essere spiegato appena dalla sua apparenza. L’artista non è preso sul serio perché usava nelle proprie opere lo stesso stile e gli stessi metodi del lavoro d’illustratore per l’agenzia pubblicitaria Young & Rubican, le riviste femminili Vanity Fair, Mademoiselle, Harper’s Bazaar, Vogue, Glamour, Mc Call’s, Ladies’ Home Journal, Seventeen, Charm, una pubblicazione sofisticata quale New Yorker e un giornale come The New York Times3. Ispiratosi agli esempi di Aubrey Beardsley, Ben Shan, Jean Cocteau e Henri Matisse, Warhol assegna ad una linea di contorno fluida e sintetica il compito di configurare immagini eleganti e il più delle volte cariche di toni omoerotici e perversi, a metà strada tra ingenuità e preziosismo. Il libro In the bottom of my garden (1955) è un esempio significativo di questa estetica particolare: rappresenta amorini faceti (derivati da opere infantili) e fate in pose compromettenti e allusive. Il tono omoerotico del libro, le cui litografie sono esposte da Serendipity 3, un negozio/ristorante che inaugura la voga dell’Art Nouveau a NewYork, va ricercato non solo nel tipo di rappresentazione inseguito da Warhol, ma anche nella presenza delle figure delle fate, che funzionano come un’allusione alla condizione gay, se si tiene a mente uno dei significati che la parola “fairy” ha nella lingua inglese (COLLINS, 2012: 128).

Lo stesso grafismo elegante e asciutto caratterizza una serie di disegni di nudi e di genitali maschili eseguiti negli anni cinquanta. In essi la smaterializzazione della composizione derivata dall’uso di una linea ininterrotta è talvolta più determinante del significato erotico associato ai motivi prescelti. Ciò non vuol dire che la dimensione omoerotica non vi sia presente. In uno dei disegni, Piedi e barattolo di minestra Campbell’s, Bradford R. Collins (2012: 129-135) individua un’affermazione della propria sessualità da parte di Warhol, palese nella connotazione erotica inerente ai piedi elegantemente incrociati sul barattolo e nel frammento verbale “Camp” dell’etichetta. Come ricorda l’autore il vocabolo “camp” veniva associato all’interesse degli omossessuali per “persone vistose e cose a tal punto eccessive da trascendere il cattivo gusto ed acquisire una sorta di bellezza”.

Collins (2012: 138-139) propone d’analizzare in chiave omosessuale quasi tutta la produzione di Warhol derivata dai fumetti. Con la possibile eccezione dei due quadri dedicati a Popeye, le altre opere introducono, seppur in modo non tanto esplicito, temi omosessuali nel campo artistico, usando come pretesto il carattere innocente delle storie infantili. Rientrano in questa categoria opere come Il piccolo re (1961), caricatura affettuosa dell’amico Henry Geldzahler, così soprannominato; Nancy (1961), possibile autoritratto mascherato, se si fa un’associazione tra il nome del personaggio4 e persone effeminate; Superman (1961), composizione in cui predomina l’onomatopea “Puff”, che evoca d’immediato il gergo “pouff”, usato per designare omosessuali.

Un altro personaggio dei fumetti, Dick Tracy, è analizzato da Collins (2012: 140) nella fattispecie della figura ideale. L’autore sottolinea le trasformazioni introdotte dall’artista nel disegno originale di Chester Gould, pubblicato nell’aprile del 1961. Allo stesso tempo in cui mette in rilievo i lineamenti forti del detective, Warhol sfigura il naso e attenua il mento del compagno Sam Catchem, proiettando nella prima figura quella che considerava un’apparenza ideale e dimostrando nella seconda l’insoddisfazione provocata dal proprio aspetto fisico.

L’ipotesi dell’autore può essere corroborata dall’analisi del rapporto tormentato dell’artista con il proprio corpo. Warhol (1975: 8, 10, 69), che credeva che le autoimmagini sono più importanti delle immagini obiettive, era molto critico nei confronti della propria apparenza: albino, capelli radi e paglierini, naso rosso e prominente. Ossessionato dall’immagine riflessa nello specchio, che gli mostrava un viso costantemente segnato da foruncoli, elabora un’autoimmagine spietata, dominata da aspetti quali “lo sguardo insensibile”, “la grazia franta”, “il pallore deperito”, “la maschera gessosa e raggrinzita”, “lo sguardo leggermente slavo”, “la pelle gessosa di un albino. Incartapecorito. Rettile. Quase blu...”, “gli occhi stupidi”, “le orecchie a forma di banana”, le labbra grigiastre...

Definita negli anni settanta, quando Warhol aveva già introdotto modificazioni nel proprio corpo e nel modo di vestire, questa autoimmagine senza ritocchi è la spia d’una profonda insoddisfazione, ai limiti della fobia e della nevrosi. La trasformazione fisica risale agli anni cinquanta, quando l’artista fa una rinoplastica e decide d’usare i capelli grigi affinché ogni movimento fatto col corpo sembrasse “giovane” e “agile” (WARHOL, 1975: 99). Inoltre, comincia ad usare parrucche grigie per nascondere la perdita progressiva dei capelli. Alcune opere dei primi anni sessanta possono essere viste come allusioni a questa ansia di trasformazione che s’era impadronita di lui. Ispirate ad annunci pubblicitari popolari, Parrucche (1960) e Prima e dopo (1960) evidenziano simultaneamente una delle fonti che alimenterà la poetica pop e la ricerca personale di una trasformazione cosmetica, patente soprattutto nella seconda opera, relativa ai benefici decorrenti da una rinoplastica. Un altro esempio è fornito da Hedy Lamarr (1962), copia disegnata di un annuncio della marca Maybelline, che era accompagnato da una dedica esaltante i benefici dell’uso di cosmetici: “A Maybelline, il trucco per occhi che trovo davvero soddisfacente” (WAINWRIGT).

Altri indizi di questo interesse per un’apparenza antinaturale possono essere riscontrati in Diva cinematografica (1962), risultato della combinazione degli occhi della Garbo con le labbra di Sophia Loren, e soprattutto nella strana composizione dal titolo Andy Warhol, Marilyn Monroe (1963), in cui il volto dell’attrice si sovrappone a quello dell’artista. Il risultato ottenuto dal fotografo John D. Schiff – ispiratosi alla confusione di ruoli sessuali favorita da Warhol, il quale offriva spesso rappresentazioni ambigue di se stesso – è particolarmente inquietante. L’immagine è altresì dotata d’una bellezza al di fuori dei parametri abituali, mettendo in discussione la norma identitaria in termini individuali e di genere e affermandosi come segno d’una visione androgina.

La trasformazione avviata negli anni cinquanta è completata all’inizio del decennio successivo, quando Warhol abbandona i “modi effeminati” e propone un’immagine più fredda, fondata soprattutto sull’abbigliamento: jeans, giacca di pelle e occhiali da sole. Le preoccupazioni cosmetiche tuttavia persistono. Uno degli aspetti più caratteristici della persona pubblica è l’attenuazione di un grave problema cutaneo – la perdita di pigmentazione a otto anni, che aveva dato origine al nomignolo “Macchia” – grazie all’uso di blush o di una lozione antiacne colorata, “che non assomiglia a nessun tono della pelle umana che io abbia mai visto, anche se è abbastanza vicino al mio” (WARHOL, 1975: 9, 64-65).

La ricerca di un modello di bellezza che gli consentisse di superare il complesso provocato dalla propria apparenza è parallela a una ricerca di distinzione, che lo porta ad esaltare il potere della bruttezza che l’avrebbe reso unico in un universo standardizzato (WARHOL, 1975: 113-114; WARHOL, 1989: 298). In uno dei brani di America (1985), l’artista fa un’affermazione sorprendente su un tipo di coraggio che considera tipicamente americano – l’esposizione allo sguardo altrui e senza vergognarsi del proprio corpo da parte di persone grasse, anziane o molto chiare (WARHOL, 2011: 112), in un’ennesima dimostrazione della ricerca di un’unicità estranea alle convenzioni socialmente dominanti.

La fama raggiunta negli anni sessanta e la trasformazione di Warhol in una figura pubblica contribuiscono ad un’affermazione più chiara della propria sessualità. Se questa è evidenziata in film come Blow job (1963), Taylor Mead’s ass (1964], The thirteen most beautiful boys (1964), My hustler (1965), Bike boy (1967), Lonesome cowboys (1967), nel caso della produzione visiva vi è un primo momento di dissimulazione. Nei ritratti dedicati fin dal 1962 ad alcuni attori di Hollywood, Bradford R. Collins (2012: 144-145) individua la presenza di “un veicolo nuovo, culturalmente ammesso per l’espressione mascherata dei propri desideri culturalmente inaccettabili”. Se il pubblico in genere ravvisava in tali opere una proiezione della sua ossessione del glamour hollywoodiano e della fama, il pubblico omosessuale, davanti a lavori come Elvis I e Elvis II (1964), si dilettava con la carica erotica dell’immagine, sottolineata dai pantaloni malvacei e dal trucco pesante attribuito al cantante da Warhol. La scelta dell’immagine di Flaming star (1960) si ricopre di ragioni simboliche se si tiene a mente che le figure del cowboy, del motociclista e del culturista erano molto apprezzate dall’immaginario gay. L’espressione del desiderio omosessuale sarebbe ugualmente presente nel murale Tredici ricercati (1964) e nella serie da esso derivata (1967), in cui l’artista avrebbe inserito la dimensione del desiderio con base in uno dei significati della parola “wanted”. Con questa interpretazione, Warhol metterebbe in forse lo sguardo esplicito dell’establishment tramite un’allusione ironica alla neutralità dei rappresentanti della legge (FABRIS, 2004: 103-109; FOSTER, 2012: 155).

Negli anni settanta l’affermazione della propria sessualità trova un terreno fertile nelle polaroid dedicate a drag queens (1974, 1977), a nudi maschili e al registro di coiti omoerotici (1977-1978), nonché nelle serie “Signore e signori” (1975), “Torsi” (1977) e “Frammenti sessuali” (1978). Se le foto di drag queens ancora una volta rimandano ai temi del travestito e dell’androgino5, il significato di “Signore e signori”, serie dedicata ad alcuni travestiti di NewYork, è più complesso. La sua origine sono delle polaroid in cui l’artista era riuscito ad attenuare i lineamenti maschili e ad accentuare la femminilità dei modelli grazie al trucco e all’uso del flash, che gli permette d’ottenere immagini fluide. Quando le fotografie sono trasferite al registro serigrafico, l’artificio della rappresentazione è incrementato dall’applicazione di ritagli di carta colorati e dai vari interventi cosmetici che corrodono le idee di somiglianza e d’identità (FABRIS, 2004: 80-81; LEONZINI, 2003: s. p.).

Le polaroid e le serie dedicate ai nudi maschili ricevono un apprezzamento pornografico da Bob Colacello (1990: 337-338), uno dei suoi collaboratori più stretti, ma Warhol preferisce definire queste immagini “paesaggio” e “astrazione”. Si tratta in realtà di una visione cruda di natiche e genitali, contrassegnata da un innegabile piacere voyeurista. L’artista, che affermava che il “sesso era più eccitante sullo schermo e tra le pagine che sotto le lenzuola” e che ammirava nelle pubblicazioni pornografiche “il materiale davvero sozzo ed eccitante” (WARHOL, 1975: 44), fornisce una dimostrazione palese della ricerca di un piacere visivo nelle polaroid di nudi maschili, alcune delle quali saranno incluse nell’album “Frammenti sessuali”. Corpi nudi con i genitali in evidenza o ripresi durante il coito sono l’epicentro delle sei serigrafie dell’album, in cui, secondo Carter Ratcliff (1983: 82), Warhol avrebbe attraversato la frontiera tra arte e pornografia, nel suggerire l’esistenza di un legame tra glamour e tabù. L’omosessualismo è esibito in modo crudo e al contempo distante, secondo la filosofia personale dell’artista, che preferiva l’“amore immaginario” all’“amore reale” (WARHOL, 1975: 44). Un anno prima, con la serie “Torsi”, Warhol aveva ottenuto un effetto uguale: s’era concentrato sulla rappresentazione di una figura maschile ripresa di schiena, il che gli permetteva di mettere in evidenza natiche e cosce. Alcune immagini sono presentate in posizione invertita (a testa in giù) e in esse Ratcliff (1983: 74) ravvisa “un’insinuazione di bondage” e probabilmente di tortura.

Riandando a tutti questi elementi, è davvero sorprendente la preoccupazione dimostrata da Warhol con la ripercussione della divulgazione di alcune fotografie della serie “Immagine alterata”, fatta da Christopher Makos nel giugno del 1981. Da un appunto del diario, recante la data 29 ottobre 1981, trapela una grande preoccupazione con la propria reputazione: proprio quando era riuscito ad intervistare e fotografare Nancy Reagan alla Casa Bianca (15 ottobre) era annunciata la mostra di Makos in California, nella quale sarebbero state messe “in bella vista” le sue immagini “in abito da donna”. L’artista temeva soprattutto la divulgazione della notizia in riviste come Time e Newsweek, il che avrebbe potuto provocare un grande chiacchierio6.

Amico di Warhol e assiduo compagno di viaggio, Makos ricorda che li accomunava un’educazione cattolica “piena di pregiudizi”, la quale li aveva resi sessualmente repressi, e l’interesse per Marcel Duchamp, Salvador Dalí, Man Ray e i surrealisti in genere. Questo secondo riferimento è determinante per comprendere la genesi della serie, ispirata alla fotografia Rose Sélavy, scattata da Ray nel 1921. Il ritratto di Duchamp vestito da donna, con un cappello di velluto con veletta, è il punto di partenza di “Immagine alterata” (intitolato poi “Lady Warhol”, dietro suggerimento di Peter Wise) che, a detta del fotografo, è diversa dall’immagine scura e fosca di Ray in virtù del tono estremamente bianco prescelto per ricordare il colore della pelle del modello (MAKOS, 2013: s.p.). Se effettivamente vi è questa differenza, non si può fare a meno di ricordare che la serie del 1981 non si discosta da un altro aspetto determinante della foto di Duchamp en travesti: l’osservatore non è portato a credere di trovarsi davanti ad un’immagine femminile. Nonostante Ray faccia uso degli elementi caratteristici delle fotografie di moda, soprattutto illuminazione e pose provocanti7, ciò che predomina sono gli aspetti maschili del modello: mento appuntito, naso grande e profilo aquilino.

Il riferimento all’opera di Ray/Duchamp non deve far perdere di vista il rapporto della serie con la cultura contemporanea, tanto che Makos (2013: s.p.) afferma che essa può essere situata nel “confine tenue tra il ‘furto’ della citazione e la ‘creatività’ di trovare la propria ispirazione nel lavoro altrui”. Anziché essere una copia, “Immagine alterata” stabilisce un dialogo con il contesto artistico contemporaneo, caratterizzatto dalla presenza del travestimento e del gioco psicologico maschile/ femminile fin dagli anni settanta. Basterà ricordare i nomi di Michel Journiac, inventore di corpi fantasmatici che contestano la “normalità” in opere come Omaggio a Freud (1972) e Ventiquattr’ore nella vita di una donna comune (1974); Pierre Molinier, autore d’una fotografia da boudoir, in cui si abbandona a pendori sadici e feticisti e ad un gusto pronunciato per le cerimonie sessuali; Luciano Castelli, che assume una personalità femminile in Her Majesty the Queen (1973); Salomé, Jürgen Klauke, Rainer Fetting e Urs Lüthi, i quali anticipano la voga delle drag queens e dei drag kings sviluppatasi nell’ambiente omosessuale a cavallo tra gli anni ottanta e novanta.

L’idea dell’“arte travestita” come arte in grado di trasformare l’ego, come fantasma psicologico e come rivendicazione politica (ARDENNE, 2001: 230-233) sembra essere alla base dell’annuenza di Warhol a posare per la serie dell’amico. Alla ricerca di un risultato ambiguo, Makos, con la concordanza del modello, abbandona l’idea di fotografarlo in un abito femminile pieno di lustrini e sceglie di concentrarsi sul viso e sui capelli. “Era importante – afferma – non alterare il corpo per rafforzare visualmente l’ambiguità. [...] non aveva a che fare con la transessualità. [...] C’erano i gesti delle mani, ma la forza è nello sguardo, senza nessun rapporto con drag queens o estetica drag”. Frutto d’un dialogo con l’artista, le foto dovevano essere interpretate come “una sorta di spettacolo” incentrato sulla discussione dell’“identità” e dell’“identità mutevole”. Per ottenere il risultato desiderato sono acquistate sette parrucche nel negozio Jean Louis della 57esima strada, cui sono aggiunte delle altre, e si fa uso di un trucco pesante, ma il fotografo s’accorge subito che ciò non bastava per trasformare un uomo in un “referente femminile”. Nasce allora l’idea di lavorare con due momenti diversi: nel primo Warhol adotta lo stesso sguardo sperduto delle donne dei propri ritratti; nel secondo ha luogo la sua trasformazione in una figura affascinante, ossia, nella vera e propria “immagine alterata” (“Lady Warhol – Christopher Makos”, s.d.; “Christopher Makos – Lady Warhol – Andy Warhol/PMC Magazine”; WAINWRIGTH).

La relazione del fotografo, benché precisa, non rende conto delle motivazioni che inducono Warhol ad aderire al progetto. Se è evidente la voglia di presentare un’immagine diversa di se stesso – quella dell’artista come travestito – per mettere in discussione la problematica dell’identità sessuale (GARBER, 1994: 176), non si può tralasciare la crisi che Warhol stava affrontando in quel momento. Il diario del 1981 consente di capire in modo più adeguato le ragioni dell’adesione al progetto, poiché è stracarico di considerazioni sul proprio aspetto, le cure dedicate alla pelle, la preoccupazione per il peso, la pratica di esercizi fisici ecc. Innamorato di Jon Gould, vicepresidente della Paramount Pictures, l’artista annota la propria preoccupazione per il processo d’invecchiamento. Oltre a definirsi “vecchio e grigio e stanco e fuori combattimento” (20 aprile) o “superato dal tempo” e somigliante a un burattino (30 maggio), registra la percezione d’essere, al contempo, un “bambinetto” e un vecchio, por essere inciampato mentre scendeva da un taxi con una valigia piena di cosmetici (16 dicembre)8. Stabilisce un rapporto ossessivo con la bilancia: in alcuni momenti dimostra preoccupazione per la perdita di peso, che gli provoca una sensazione di debolezza e di paura (15 aprile, 11 e 15 maggio, 19 e 22 giugno, 12 agosto); in altri esalta la propria magrezza e la decisione di diminuire la quantità di cibo e di bevande, che l’aiutava a mantenere l’ideale estetico prefisso (19 giugno, 15 e 28 agosto, 21 novembre).

La preoccupazione per la salute è una decorrenza del processo d’invecchiamento. Più d’una volta, Warhol mette per iscritto il proposito d’aderire ad un’alimentazione più sana, abbandonando l’ingestione d’alcool e di caffè (22 aprile, 18 e 19 giugno). Prende pure appunto degli esercizi fisici (pochi) che riesce a fare da solo (22 e 29 aprile, 13 luglio, 1 agosto); del senso di stanchezza che lo domina quando cammina più del solito (12 maggio); delle infezioni e dei raffreddori presi (4, 9, 11, 12 e 16 giugno, 27 dicembre); del timore d’avere un tumore al cervello (4 giugno); delle iniezioni di vitamina B-12, fatte nello studio del Dr. Cox (9 e 26 giugno); delle visite da un nutrizionista (17 settembre) e da un chirurgo plastico (30 settembre). La paura di non poter contare su un corpo scattante lo porta a praticare yoga (29 settembre, 1 ottobre) e a prendere lezioni di ginnastica con Lady Sharon (24 novembre, 11 dicembre). Sentendosi in buona forma fisica, si rammarica di non aver iniziato a far ginnastica quando era giovane per garantirsi “un corpo bello per tutta la vita” (14 dicembre). Le cure della pelle sono un altro leitmotiv di quel momento. L’artista frequenta con certa regolarità l’istituto di bellezza di Janet Sartin (30 aprile, 4 maggio, 28 settembre, 1 ottobre); si domanda come evitare le borse sotto agli occhi (16 febbraio); loda gli effetti dell’umidificatore sulla pelle (21 e 22 giugno); registra il tentativo di dormire sulla schiena per non farsi venire le rughe (12 luglio)...

La preoccupazione per il proprio aspetto si esacerba durante il periodo in cui è modello di Makos. Per schivare il rischio di sembrare una caricatura9, l’artista dirige il lavoro del truccatore durante i preparativi delle sedute fotografiche. Le rea, ora cortando partes da informaçma e sobrepotografia intere toda a naçimmagini della serie permettono d’accompagnare i retroscena della produzione. Warhol è preparato dal truccatore. Usa diverse parrucche che fungono da cornice ad un viso ambiguo, dalle labbra rosse, le sopracciglia scure e gli occhi dipinti. È coperto da un lenzuolo o indossa un paio di jeans, una camicia e una cravatta fino a trasformarsi nell’affascinante “immagine alterata”. In essa sono messi in moto diversi stereotipi della figura femminile: aria smarrita, viso seducente, mani che coprono i genitali, uso di un abbigliamento unisex, in cui la cravatta svolge il ruolo di referente maschile10. L’aspetto androgino di questa ed altre figure non è però il leitmotiv della serie, che mostra un dato curioso nelle fotografie non dedicate ai preparativi: il viso di Warhol esibisce due paia di sopracciglia, uno naturale e l’altro disegnato al di sopra del primo. Nelle immagini restanti parrucche e trucco non riescono a mascherare l’esistenza d’un corpo maschile. Il petto e le braccia pelose in alcuni degli scatti dei primi momenti del make-up, la visione d’una mammella, le spalle larghe, così diverse dalle linee soavi che caratterizzavano questa parte del corpo nelle polaroid femminili, l’evidenza data al pomo d’adamo e al collo forte, il formato delle mani, i lineamenti pronunciati, distanti dalla fluidità delle immagini delle drag queens degli anni settanta rimandano all’artificio e alla costruzione radicale d’una personalità simulata, a un ballo in maschera, nel quale l’io diventa un altro e ciò che conta non è la definizione di un essere sessuato, bensì di un’immagine del femminile.

La preoccupazione del fotografo di sottrarre il proprio lavoro dall’ambito dell’estetica drag è compromessa da Warhol con la serie di polaroid “Autoritratto in drag”. Prodotte nel 1981-198211, queste immagini, nel proporre una ricreazione del femminile grazie all’aggiunta di parrucche e di make-up, utilizzano gli stessi artifici dell’opera di Makos. L’insoddisfazione per il proprio corpo spinge l’artista a dar preferenza al mezzo busto in opposizione ai formati scelti dal fotografo e a concentrarsi sul viso in modo più radicale12. Il trucco è reso ancora più evidente dai colori delle polaroid che esaltano quel che era più diffuso o meno pronunciato nel bianco e nero delle foto di Makos. Alcune polaroid designano decisamente la figura dell’androgino, soprattutto quelle fatte con una parrucca corta e un make-up molto bianco, che trasforma il viso in una maschera del teatro kabuki (1981-1982).

Usata frequentemente nei ritratti femminili fatti con la Polaroid, la maschera bianca acquista un significato particolare negli autoritratti en travesti. Si ha l’impressione che Warhol sia alla ricerca di un principio di estetizzazione che gli permetta di problematizzare la definizione dei ruoli sessuali con base sulla sola apparenza. La propria trasformazione in un personaggio femminile destabilizza il concetto d’apparenza con la proposta di un’imitazione imperfetta. È messo così in movimento un meccanismo analizzato a suo tempo da Severo Sarduy: l’atto di travestirsi in sé e per sé, la “coesistenza, in un unico corpo, del significante maschile e femminile: la tensione, la repulsione, l’antagonismo che tra loro si crea”. L’enfasi data all’artificio e l’autoproclamazione drag fanno sì che l’artista ponga in discussione la “naturalità” dei ruoli di genere, dimostrando la possibilità di manipolare un comportamento, di costruire una (supposta) personalità femminile tramite segni esteriori (DE DIEGO, 1992: 22; GARBER,1994: 161-164). In una parodia cosciente, Warhol si maschera e si smaschera allo stesso tempo. Con il primo gesto rivela quella che Colette definiva “la seduzione che emana da un essere dal sesso incerto o dissimulato” (GARBER, 1994: 175); con il secondo mette in rilievo l’aspetto fittizio dell’atto creatore, che sembra convertire in parodia con le sue mises-en-scène a metà strada tra personalizzazione e spersonalizzazione.

Makos (2010: s.p.) sembra aver ragione quando afferma che le immagini della serie riguardano l’“uomo allo specchio”, le “sfumature nel [...] linguaggio corporeo” del modello, soprattutto il“modo in cui si atteggiava attraverso le movenze delle mani”, a dimostrazione della presenza di un disegno complesso nella collaborazione di Warhol, il quale “lascia emergere il suo alter ego femminile”, senza però voler convincere l’osservatore che la sua mise-en-scène possa rimandare ad un’identità stabile. Lungi da un qualsiasi principio illusionista, la collaborazione tra Makos e Warhol è il risultato di un momento particolare della cultura contemporanea, quando sono abbattuti dogmi cristalizzati per far posto all’espressione di una sessualità ambigua e alla confusione deliberata dei generi. L’immagine femminile proposta da Warhol non poteva che essere imperfetta; solo così sarebbe stata in grado di mettere in gioco una discussione rivolta a modi di vita alternativi, a cominciare dalla s-definizione dei ruoli sessuali.

Un’altra ipotesi può essere avanzata per capire la disposizione dell’artista a collaborare con il progetto di Makos. Intento a rifiutare l’identità nelle sue espressioni correnti e prevedibili, Warhol usava sovente “controfigure, replicanti, sosia, imitatori, che gli permettessero di vivere meno la tensione di dire io, di affermare una qualunque dichiarazione categorica di esistenza”, secondo Luca Scarlini. Se vi sono tracce di questo atteggiamento nella sua concezione del lavoro artistico, che mette in crisi l’autorialità13, altri indizi possono essere riscontrati nella proiezione androgina in Edie Sedgwick (1965), possibilmente ispirata all’esempio di Klaus e Erika Mann (anni trenta)14 e soprattutto nella scelta del danzatore Allen Midgette per sostituirlo in conferenze tenute in università nordamericane (SCARLINI, 2012: 20-25). Quando l’espediente è scoperto, Warhol difende senza indugi la propria intenzione, affermando che Midgette era “un Andy molto migliore” per la sua “bellezza straordinaria” (“zigomi molto sporgenti, labbra tumide e sopracciglia inarcate, segnate”) e perché aveva “15-20 anni in meno”. Questa dichiarazione è seguita dall’indicazione di un altro nome come immagine ideale: in una possibile storia della sua vita, gli sarebbe piaciuto che Tab Hunter lo impersonasse perché “la gente sarebbe più contenta” di immaginarlo “bello” come l’attore o Midgette (WARHOL; HACKETT, 2013: 297)15...

Se Warhol aggiorna in questo modo l’idea rimbaudiana “io è un altro”, non sarebbe esagerato pensare che “Immagine alterata” gli fornisca l’occasione di mettere a prova il progetto di contestazione dell’identità ad un livello più radicale: con la sua “imitazione” volutamente imperfetta dimostra che la visione affascinante non può prescindere dalla rivelazione dei retroscena e dalla costruzione di un personaggio improbabile se pensato secondo categorie convenzionali.


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Note:

1Nel catalogo Andy Warhol photography (1999) sono riprodotte fotografie di Greta Garbo che facevano parte della collezione di Warhol (p. 50) e provini di ritratti dell’artista che evidenziano la sua identificazione con Capote, fatti da Otto Fenn tra il 1952 e il 1954 (p. 293).

2Warhol afferma che si divertiva con l’espressione che compariva sul viso delle persone quando “s’atteggiava a finocchio”. E aggiunge: “Dovevi vedere il comportamento di tutti i pittori dell’Espressionismo Astratto e il tipo di immagini che coltivavano per capire perché le persone si turbavano nel vedere un pittore che s’atteggiava a finocchio. Non ero per natura un macho, ma devo ammettere che facevo di tutto per esagerare sul versante opposto” (WARHOL; HACKETT, 2013: 22-23).

3A fine anni cinquanta l’artista è citato nella voce “Moda” del libro A thousand New York names and where to drop them (SCARLINI, 2012: 11).

4Creata nel 1933 da Ernie Bushmiller come comprimaria della serie Fritzi Ritz, Nancy è una bambina di otto anni, sveglia, furba, saputella, capace di tener testa ai maschietti. Nel 1940 diventa protagonista della striscia Nancy & Sluggo. Col titolo Arturo e Zoe, la serie è divulgata in Italia dalle riviste L’Intrepido, Il Monello e Albi dell’Intrepido.

5L’interesse per i temi del travestimento e dell’androginia s’era già fatto presente nel film Women in revolt (1972), le cui protagoniste erano le drag queens Candy Darling, Holly Woodlawn e Jackie Curtis. Ispirato a Donne (1939), di George Cukor, il film era uno sberleffo al Women’s Lib Front e una “grandiosa riflessione sull’impossibilità di stabilire l’appartenenza a un genere”. Fino alla fine del 1967, secondo Warhol, le drag queens “non erano ancora accettate nei circuiti alternativi del sistema”. Il cambiamento avviene quando alcune persone che avevano problemi d’identità sessuale s’accorgono di non essere drag queens, nonostante non sapessero definire esattamente che cosa fossero. D’allora in poi (1968) le drag queens cominciano ad essere viste “come ‘radicali sessuali’ anziché come sconfitti deprimenti”(SCARLINI, 2012: 39; WARHOL; HACKETT, 2013: 269).

6La preoccupazione per la propria reputazione non vuol dire che l’artista non apprezzi l’idea di vedersi rappresentato “vestito da donna”. Nel diario del 16 febbraio 1981, quando fa riferimento alla serie “Miti” (1981), afferma che sarebbe divertente posare vestito da donna, ma che era stato sconsigliato a farlo in quel momento e per quell’album.

7Il rapporto del doppio femminile di Duchamp con la fotografia di moda si giustifica se si ricorda che l’immagine è usata come etichetta nel ready-made Belle haleine – Eau de voilette (1921), che prende avvio dall’appropriazione di una boccetta di profumo della marca Rigaud. Il titolo scelto da Duchamp, che rimanda all’alito e alla veletta, sostituisce ironicamente la scritta originale della boccetta, “Un air qui embaume – Eau de violette”. L’artista insinua così la possibilità di un odore sgradevole ed introduce la problematica dell’androginia grazie al travestimento e al rapporto di omofonia che si stabilisce tra “haleine” e il mito della bella “Helène”. Il ready-made, firmato da Rrose Sélavy sul retro della scatola che custodisce la boccetta, propone un’equivalenza tra l’esperienza artistica e l’esperienza sessuale (“Belle haleine, eau de voilette”; BARILLI, 1985: 191).

8L’11 gennaio, Warhol aveva registrato che stava prendendo due aspirine al giorno per evitare l’indurimento delle arterie. Dimostra però al contempo di non credere molto all’efficacia di questa misura, quando ricorda che la madre “prendeva milioni di aspirine e non le hanno fatto nessun bene”.

9Invece Makos (2010: s.p.) vede nelle parrucche e nel trucco una “caotica combinazione fra bellezza ricercata e caricatura”.

10Luca Scarlini (2012: 41) individua la presenza di una “paradossale Marlene Dietrich” nelle immagini in cui Warhol indossa camicia, cravatta e jeans.

11Nel 1980 Warhol aveva già fatto degli autoritratti in cui usava una parrucca femminile e make-up.

12In questo senso è significativo che nel catalogo della mostra Portraits in series: a century of photographs (2011: 225), la voce dedicata a Warhol abbia come epigrafe una riflessione di Susan Sontag sulla proliferazione della fotografia negli anni settanta. Secondo l’autrice la fotografia era soprattutto “un rito sociale, una difesa dall’angoscia e uno strumento di potere”. Le opere presentate nella mostra erano polaroid, provenienti quasi tutte dalla serie “Autoritratto in drag” (1981-1982).

13Se si ricorda l’intensa collaborazione di Warhol alla serie di Makos, si potrebbe domandare se in effetti egli non ne sia coautore. Questa idea sembra essere avallata dallo stesso Makos (2010: s.p.), quando afferma che le fotografie “testimoniano la collaborazione fra due persone: colui che posa e colui che fa la foto”. Nell’evocare le parrucche e i trucchi, il fotografo fa trapelare il ruolo attivo dell’amico con una semplice frase: “Andy ci sta ancora lavorando”...

14Secondo il giornalista Mel Juffe, Warhol e Edie “erano al vertice assoluto come la coppia dei mass-media”, di cui erano stati “la sensazione dall’agosto al dicembre del 1965. Nessuno riusciva a capirvi, nessuno era in grado di distinguere tra i due – eppure nessun evento di una certa importanza poteva avvenire in questa città se voi due non eravate presenti. Le persone pagavano i vostri conti con allegria e mandavano le loro macchine a prendervi. E uno dei vostri scherzi preferiti allora era indicare altre persone e dire che eravate voi...”. L’artista ricorda che, alla prima del film Darling nel Lincoln Art Theater (NewYork), Gerald Malanga e Ingrid Superstar salirono sul palcoscenico come la coppia-sensazione, senza che nessuno si rendesse conto dello scambio. Al momento dell’inaugurazione della prima retrospettiva di Warhol a Filadelfia (1965), l’arrivo della coppia provocò una reazione isterica nelle quattromila persone accorse. Warhol e la compagna furono costretti a rifugiarsi su una scala di ferro, dalla quale firmarono autografi su qualsiasi superficie, “borse da spesa, tavolette di cioccolata, taccuini d’indirizzi, biglietti di treno, scatole di minestra. Io firmai alcuni pezzi, ma Edie firmò quasi tutto come ‘Andy Warhol’. [...] Mi domandavo cosa avesse spinto tutta quella gente. Avevo visto i giovani gridare per Elvis, per i Beatles, per gli Stones [...], ma era incredibile pensare che questo stesse succedendo all’inaugurazione di una mostra di arti visive. Sia pure di Pop Art. D’altronde noi non eravamo alla mostra d’arte – eravamo la mostra, eravamo l’arte incarnata e gli anni sessanta furono infatti sulle persone, non su quello che facevano” (WARHOL; HACKETT, 2013: 150-151, 162-163).

15Warhol afferma che le conferenze avevano una natura peculiare. Poiché si considerava “molto timido e pauroso per parlare da solo” aveva l’abitudine di farsi accompagnare da un gruppo di superstars incaricate di tenere le conferenze e rispondere alle domande del pubblico, mentre lui restava “seduto fermo sul palcoscenico, come un buon mistico”. Nonostante la presentazione inusitata, definita dall’artista come “un programma di interviste il cui padrone di casa sembrava un pupazzo”, le facoltà “sembravano sempre soddisfatte”. La sostituzione con Midgette, i cui capelli sono tinti con uno spray platinato e che riceve la raccomandazione di restare fermo durante la presentazione di Paul Morrisey, è inserita dall’artista nei “giochi di identità antistar” che lui e il suo gruppo erano soliti praticare in feste e in inaugurazioni. Prendendo spunto dalle figure di Bonnie e Clyde, ricorda che i personaggi “non somigliavano affatto a Faye e Warren. Chi vuole la verità? È a questo che serve lo show business – a provare che non sei tu a contare, ma quello che pensano che tu sia” (WARHOL; HACKETT, 2013: 296-298).


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