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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Un sogno di André Breton

di Annateresa Fabris


VI° Encontro Psicanalitico da teoria dos Campos: “Meditações clínicas: Diálogos possíveis”

Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo, 6-8 agosto 2010


Alba del 26 agosto 1931: André Breton (1996: 35-38) si sveglia da un sogno lungo e intricato, svoltosi in tre spazi diversi – una stazione della metropolitana e una strada di Parigi, un appartamento e un negozio. La prima immagine del sogno, registrato immediatamente dopo il risveglio, è quella d’una donna anziana, molto agitata, appostata nei pressi della stazione Villiers (che ricorda però la stazione Rome). La donna odia X e ciò preoccupa lo scrittore che capisce perché la ragazza prendeva un tassí quando si davano appuntamento nella stanza presa appositamente in affitto. Breton sa che X non ritornerà dopo l’ultima lite e rammenta d’averle dato tutti i soldi di cui disponeva per pagare l’affitto della camera. Nella compagnia di un amico, che sembra essere Georges Sadoul, incontra la donna anziana e s’accorge che questa spiava i suoi gesti da vicino. Per ingannarla e farle credere che sarebbe andato al vecchio indirizzo, scrive qualcosa su un foglio e si sorprende nel veder comparire il nome Manon. La donna, che sembra folle, entra nel palazzo; dall’interno, qualcuno gli fa cenno di non entrare. Lo scrittore teme che stia succedendo qualcosa che possa aver richiesto la presenza della polizia, poiché X aveva già avuto dei problemi con la legge.

Il secondo spazio del sogno è l’appartamento dei genitori di Breton all’ora di cena. Temendo un’irruzione della donna, il poeta s’era procurato una rivoltella e l’aspettava davanti a un gran tavolo rettangolare, coperto da una tovaglia bianca. Il padre, al quale Breton doveva aver raccontato l’incontro, fa alcune osservazioni incongruenti sull’aspetto di X e della donna anziana. Rivolgendosi alle altre persone che si trovano nella stanza, lo scrittore domanda se è possibile mettere a paragone una donna di vent’anni con un’altra di sessantacinque. In balia dei propri pensieri, pensa che X non ritornerà e che la donna non riuscirà a trovarla; ciò gli provoca una sensazione ambigua di sollievo e di dispetto allo stesso tempo.

Nel terzo momento del sogno, Breton è in un negozio, dove un ragazzo di dodici anni gli sta mostrando delle cravatte. Siccome il poeta indossa una camicia rossa, il commesso cerca di convincerlo a comprare una cravatta verde scuro, simile ad una che già aveva. In questo momento un commesso più anziano si riferisce alla “cravatta Nosferatu” e si rammarica di non averne più nel negozio. Breton però ne trova una frammista alle altre. Dall’estremità della cravatta di color granata spicca in bianco il volto di Nosferatu, che è anche la carta geografica della Francia, in cui la frontiera orientale (o forse qualche fiume) rappresenta, sorprendentemente, il trucco del vampiro. Dopo un giro di 180o a destra, Breton s’imbatte in un membro del Partito Comunista che l’informa che dovrà fare un viaggio in Germania. Paul Vaillant-Couturier, che arriva in quell’istante, dapprima fa finta di non averlo visto. Dopo una stretta di mano, gli comunica che dovrà andare a Berlino a tenere una conferenza sul surrealismo. Un altro membro del Partito, lo “pseudo Cachin”, l’avvisa che anche B. e (forse) René Clair prenderanno parte al viaggio. Lo scrittore pensa in quel momento che potrebbe usare come tema delle conferenze il libro che intendeva scrivere.

Il racconto del sogno è seguito da una “Nota esplicativa” sulle difficoltà affrontate nel 1931. Sul piano sentimentale, Breton era stato lasciato da X, il che metteva in forse una “determinata concezione dell’amore unico, reciproco, da realizzarsi contro tutto e contro tutti”, elaborata da giovane e difesa ad oltranza “con l’energia della disperazione”. Sul piano intellettuale, non era facile convincere gli altri che non era “per un romanticismo volgare o per il gusto dell’avventura per l’avventura” che affermava che l’azione surrealista non poteva essere dissociata dalla “Rivoluzione sociale, concepita nella fattispecie marxista-leninista” (BRETON, 1996: 38-39).

Lo scrittore fa un terzo movimento: l’analisi del sogno. Benché prenda come base L’interpretazione dei sogni, letto nel 1926, Breton non s’astiene da una critica al metodo psicanalitico e all’uso fattone dalla società borghese. Mette in rilievo non solo l’autocensura che aveva indotto lo stesso Freud a sbarazzarsi della presenza di elementi sessuali nella propria attività onirica, ma anche il fatto che le sue analisi si concentrassero sui sogni di persone malate, soprattutto “isterici”, particolarmente suggestionabili e portati all’affabulazione. Sorretto dall’idea che nell’attività onirica risiede “la storia reale dell’individuo” (BRETON, 1996: 32-34), che il sogno ha un rapporto intimo con la “vita vissuta”, il poeta prende spunto da Karl Marx (teoria confermata dalla pratica) e Friedrich Hegel (definizione di nuovi rapporti essenziali che permettono il passaggio dal soggettivo all’oggettivo) per escludere che esso possa avere una “funzione trascendentale”; vede nella condensazione l’istanza capace “di magnificare e drammatizzare, cioè di presentare sotto una forma teatrale fra le più interessanti, fra le più sorprendenti quello che nella realtà era stato concepito e sviluppato molto lentamente, senza shock di sorta” (BRETON, 1996: 56, 59).

L’analisi si sofferma su tutti gli elementi presenti nel sogno, ma solo alcuni saranno ricordati in questo momento. La donna anziana è Nadja, la cui storia Breton aveva pubblicato nel 1928 e che abitava, quando si erano conosciuti, in Rue de Chéroy, dove sembra portarlo l’itinerario del sogno. Lo scrittore fornisce due spiegazioni per il senso d’inquietezza provocato dall’apparizione della donna: difesa contro un eventuale ritorno di Nadja, che si potrebbe essere offesa con il libro dedicatole; difesa contro la “responsabilità involontaria” che avrebbe potuto avere nell’elaborazione del delirio della giovane donna e nel suo ricovero, responsabilità spesso ricordata da X, che lo accusava di volerla fare ugualmente impazzire. Sadoul era stato innamorato d’una ragazza che aveva lo stesso nome di X e che per coincidenza era una sua amica d’infanzia. Manon era una cugina dello scrittore, per la quale aveva provato, a diciannove anni, “una grande attrazione sessuale”, presa per amore. La sua presenza nel sogno mirava a “ridurre l’importanza che X ha avuto per me, demolire l’idea esclusiva che avevo creato nei riguardi di questo amore”. Il tavolo rettangolare coperto da una tovaglia bianca rimanda al luogo preciso in cui Breton stava stendendo Les vases communicants, nel quale sarà pubblicato il sogno: l’albergo di Castellane. Lo scrittore aveva l’abitudine di sedersi a un piccolo tavolo rettangolare che, due giorni prima del sogno, era stato occupato da una ragazza intenta a scrivere dei versi. A cena, seduto ad un tavolo rotondo coperto da una tovaglia rettangolare di carta, aveva rotto una brocca inavvertitamente, spruzzando d’acqua il quaderno nel quale prendeva appunti sui sogni. Questo lapsus gli aveva rivelato il desiderio d’essere in compagnia della giovane donna che occupava il tavolo rettangolare sotto il portico esterno dell’albergo. L’età di X e quella di Nadja si riferiscono alle somme perse da lui e Sadoul, il 24 agosto, ad una macchina da gioco del casinò di Castellane (BRETON, 1996: 40-45).

L’analisi della terza parte comincia con un’altra spiegazione razionale: il senso di soffocamento provato durante il sogno era risultato da un mal di gola. Inoltre lo scrittore ammette di detestare le cravatte, considerate “un ornamento incomprensibile dell’abbigliamento maschile” e associate al pene tramite Sigmund Freud. La figura di Nosferatu era sorta il 25 agosto, nella sala da pranzo dell’albergo, dove Breton aveva notato la presenza di un uomo il cui aspetto gli aveva suggerito l’immagine d’un professore reazionario di filosofia o d’uno scienziato dell’Istituto Pasteur. Lo scrittore associa lo scienziato ad una frase scritta da bambino su un quaderno, nella quale era messa in rilievo la figura della giraffa, il cui collo diventa un “mezzo di transizione per permettere l’identificazione simbolica” dell’animale e della cravatta in termini sessuali. Il personaggio del vampiro, anteriormente associato alla giraffa per l’orecchio peloso, si completa con il ricordo d’un pipistrello che circolava la sera sotto il portico dell’albergo e del paesaggio alpino della Provenza, che lo porta ad evocare una frase del film di Friedrich Wilhelm Murnau: “Quando si trovava sull’altra parte del ponte, i fantasmi gli son venuti incontro”. Il ponte, come ricorda Breton, è un simbolo sessuale molto evidente. Nella descrizione della cravatta appare, ancora una volta, la figura della donna vista il 24. Siccome stava usando un abito tipico della Germania, lo scrittore e Sadoul concludono che si trattava della moglie d’un ingegnere addetto alla costruzione d’una diga nella regione. Ad un certo punto la donna esce dall’albergo e Breton la perde di vista all’angolo di un ponte. Grazie alla presenza della figura femminile il sogno gli permette di realizzare due desideri: parlare liberamente con lei e “sopprimere ogni motivo d’incomprensione [...] tra la Francia dove vivo e il magnifico paese, fatto solo di pensiero e di luce che, in un solo secolo, ha visto nascere Kant, Hegel, Feuerbach e Marx. La sostituzione dei fiumi [...] alla frontiera orientale della carta geografica non può che essere interpretata come un nuovo invito ad attravessare il ponte”, simbolo del bisogno di liberarsi dagli “scrupoli d’ordine affettivo e morale, che si vedono ribollire al suo centro. In altre parole tende a convincermi, giacchè vivo, che nessuno è insostitubile e ciò per la semplice ragione che quest’idea è contraria alla vita” (BRETON, 1996: 48-53).

Il viso di Nosferatu che appare alle estremità della cravatta è associato ad un quadro di Salvador Dalí, Il grande masturbatore (1929): la linea di trucco della testa del vampiro sembra confondersi con la palpebra dalle lunghe ciglia della figura dipinta. Anche la possibilità di leggere il viso come una carta geografica riceve una spiegazione. Durante una seduta di cadavre exquis Breton aveva disegnato la carta della Francia quale testa di uno di quegli esseri ibridi che dovevano risultare dal gioco. Il viaggio in Germania rappresentava la ripresa del motivo del passaggio del ponte, mentre l’argomento della conferenza esprimeva il suo desiderio di riuscire a “conciliare sul piano obiettivo” le sue diverse preoccupazioni e di dedicarsi a un lavoro spesso rimandato (BRETON, 1996: 53-55).

Breton si stava dedicando a questo lavoro durante il soggiorno a Castellane, dove ha luogo il sogno. Il suo risultato sarà il libro pubblicato un anno dopo, Les vases communicants, il cui titolo allude esplicitamente alla poetica surrealista. L’espressione “vasi comunicanti” era stato usata da Galileo Galilei per designare le condizioni di equilibrio d’un liquido contenuto in diversi vasi comunicanti fra di loro, le cui superfici libere si trovano su uno stesso piano orizzontale (BONNET; HUBERT, 1992: 1349). Breton fa propria l’espressione per sottolineare l’aspetto centrale del surrealismo: l’automatismo quale soluzione delle antinomie “della veglia e del sonno (della realtà e del sogno), della ragione e della follia, dell’obiettivo e del soggettivo, della percezione e della rappresentazione, del passato e del futuro, del senso collettivo e dell’amore, della vita e della morte” (BRETON, s.d.: 20-21). Il libro infatti può essere considerato un crocevia in cui convergono degli elementi apparentemente dissimili: una crisi sentimentale, le discussioni all’interno del gruppo surrealista sull’opportunità e le modalità di un’azione antireligiosa, una verifica dell’importanza del sogno per mettere a tacere il dibattito fra idealismo e materialismo e la possibilità di rendere compatibili l’impegno politico e la ricerca dell’io (DUROZOI; LECHERBONNIER, 1976: 141).

L’analisi del sogno proposta da Breton presuppone che il lettore abbia una certa dimestichezza con Nadja, pubblicato quattro anni prima, poiché in esso erano presenti le figure con cui si apre la narrazione: la donna anziana e X. In realtà, Léona Delcourt – che aveva scelto il nome Nadja, “perché in russo è l’inizio della parola speranza, e perché si tratta appena d’un inizio” (BRETON, 1971: 74) – aveva 29 anni al momento del sogno, il che suscita un interrogativo sulla ragione dell’invecchiamento. Lo scrittore presenta una spiegazione abbastanza paradossale nella sua analisi quando si riferisce alla “strana impressione di non invecchiamento” provocata dalla visione delle “dementi precoci” dell’Ospedale Saint-Anne (BRETON, 1996: 40). Si può pensare che l’invecchiamento di Nadja sia un tentativo di far retrocedere ad un passato distante un episodio per la cui conclusione Breton si sentiva parzialmente responsabile e che era ancora vivo nella sua memoria. La parte centrale di Nadja era composta infatti dal diario degli incontri con la giovane donna, avvenuti fra il 4 e il 13 ottobre 1926. Incontrata per caso, la ragazza diventa immediatamente una musa ispiratrice, la quale, il 10 ottobre, prevede che Breton le avrebbe dedicato un romanzo affinché “resti qualcosa di noi” (BRETON, 1971: 115). Attratto dalla capacità dimostrata dalla giovane di produrre episodi di caso oggettivo e dal suo dono premonitorio, lo scrittore sembra non accorgersi delle turbe di Nadja, che ne determineranno il ricovero in varie istituzioni psichiatriche a contare dal 21 marzo 1927.

Uno di questi episodi, ricordato nel libro del 1928, fornisce una spiegazione complementare sul luogo in cui comincia il sogno. Nella piazza vicino alla stazione Villiers si erge il busto del drammaturgo Henri Becque, cui Nadja era solita chiedere consigli. Lo scrittore, oltre ad affermare che capiva l’attrazione suscitata dalla scultura, si difende dicendo che le lettere ricevute dalla ragazza e lette alla stregua di testi poetici “non avrebbero potuto ugualmente presentarmi niente d’allarmante” (BRETON, 1971: 168-169). Confrontati con questa evidenza, si può avanzare l’ipotesi che l’inizio del sogno nella stazione Villiers sia un mezzo indiretto per indicare d’acchito la follia di Nadja, e non tanto il ricordo della strada in cui essa abitava, vicino alla stazione Rome.

Le lettere di Nadja conservate nell’archivio di Breton permettono di rivedere un’affermazione del resoconto del sogno. Se in esso lo scrittore avanza l’ipotesi che la ragazza potesse aver letto il libro di cui era protagonista e ne fosse rimasta offesa, la lettera scritta il 1 novembre 19261 annulla quest’affermazione. Nadja è profondamente addolorata dalle pagine che Breton le aveva mandato:

Come hai potuto scrivere delle deduzioni così malevoli su ciò che abbiamo vissuto, senza perdere il respiro?...

È la febbre, o sarà il cattivo tempo a renderti così ansioso ed ingiusto!... Che cosa ho fatto di così sbagliato – per vedere fuorviati nella tua ira i miei migliori e più nobili sentimenti?

Come ho potuto leggere questo racconto... intravedere questo mio ritratto così snaturato, senza rivoltarmi e neppure piangere [...].

Con X, cioè Suzanne Muzard, Breton aveva concluso Nadja sotto il segno della speranza e dell’idea dell’incontro necessario. Se Nadja aveva dimostrato di non essere la rivelazione a lungo attesa, bensì una figura del “presentimento”, X corrispondeva alle aspettative, giacché lo sviava “per sempre dall’enigma”, facendogli scorgere lo spuntare della bellezza “a fini passionali”, né dinamica né statica, ma convulsiva (BRETON, 1971: 183-187), ossia in grado d’attuare nell’intervallo fra le due dimensioni. Epicentro del sogno dell’agosto 1931, Suzanne Muzard aveva conosciuto Breton nel novembre 1927. Dall’incontro era nata una passione fulminante, celebrata nelle ultime pagine di Nadja. Durante i tramiti del divorzio, richiesto da Breton un anno dopo, Suzanne aveva sposato Emmanuel Berl, ma continuava a frequentare lo scrittore. Il momento del sogno è contrassegnato da una delle tante separazioni avvenute durante il rapporto, il quale si concluderà alla fine del 1931, per motivi materiali, come preciseranno i due amanti (BONNET, 1988:1507-1508).

Nel 1932 Breton non potè eseguire un aspetto importante di Les vases communicants: l’inserzione d’illustrazioni fotografiche, sulla falsariga di Nadja. Un gruppo d’immagini presenti nell’archivio fotografico di Breton2 dimostra che questi s’era impegnato nel riunire illustrazioni che avrebbero dovuto fungere da implicazioni non verbali, in grado di fornire un contesto spaziale all’immaginazione del lettore alle prese con giochi di parole, analogie e associazioni sotto forma di rebus (SPECTOR, 1997: 132). Fanno parte del gruppo due riprese dell’Albergo Reine des Alpes; le viste d’un fiume con un ponte, d’una vecchia casa affiancata da una targa con la scritta “Pont des Soleils”, d’una via di Castellane, nella quale risalta un portico; un ritratto di Breton seduto ad un tavolo rettangolare dell’albergo, intento a scrivere; una macchina da gioco con l’indicazione “tavola 2” sul retro. Tutte queste immagini sono in rapporto col capitolo in cui viene narrato il sogno, ma ad esse se ne sommavano altre: due riprese del volto di Breton che emerge da un tronco vuoto, le fotografie del cane e della figlia Aube e il ritratto del poeta nel Palais Idéal del Facteur Cheval, corredato dall’annotazione “tavola 7”. Solo quest’ultima sarà usata nell’edizione del 1955, nella numerazione indicata da Breton, ma ciò che importa ricordare in questa sede sono le cinque immagini connesse al sogno che permettono di proporre una lettura più complessa del resoconto.

Va rammentato che il primo capitolo di Les vases communicants ha come epigrafe il brano di Gradiva (1904), in cui Wilhelm Jensen presenta la giovane donna mentre attraversa la strada, sotto lo “sguardo sognante” di Hanold. La scelta di questo brano specifico è più che opportuna poiché dimostra non solo il desiderio di rivalizzare con Freud, il grande interprete del libro, ma anche la determinazione ad affermare un metodo proprio per l’analisi dell’attività onirica. Con le sue oscillazioni continue fra sogno e realtà, il libro di Jensen rispondeva appieno al proposito dello scrittore, insoddisfatto della scissione freudiana fra “realtà materiale” e “realtà psichica” (BRETON, 1996: 23).

Si possono adottare diverse strategie per analizzare le immagini scelte da Breton per il primo capitolo del libro. Una di esse, proposta da Jack Spector (1997: 134-135), consiste nel raggrupparle sotto alcune rubriche significative: 1– amore e morte (fotogramma del film di Murnau + quadro di Dalí); 2– libertà e probabilità meccanica (macchina da gioco associata al principio freudiano che i sogni possono rappresentare il proverbio “Il tempo è danaro”); 3– vincolo tra desiderio e realtà (immagine del ponte + Nosferatu + Il grande masturbatore + carta della Francia); 4– sessualità solitaria e sociale (Il grande masturbatore); 5– chiaroveggenza e percezione visiva (quadro di Giorgio de Chirico). Dall’analisi di Spector emergono alcuni dei temi centrali del capitolo: la dialettica fra spazio e tempo; la metafora del ponte come legame tra coscienza ed inconscio o tra due individui, che Breton può aver ripreso da Le pont traversé (1922), nel quale Jean Paulhan rifletteva sul ruolo della comunicazione attraverso il sogno; la masturbazione nonostante la vigilanza dei fantasmi/genitori; la chiaroveggenza, simboleggiata dalla stella a sei punte dell’opera di de Chirico, quale segnale dell’unione tra coscienza ed inconscio, del principio alchemico dell’immateriale e dell’idea che il mondo del sogno e quello della realtà fanno tutt’uno.

Un’altra possibile strategia è quella di considerare i legami esistenti fra le immagini scelte e il momento del resoconto in cui sono inserite. Il fotogramma di Nosferatu, il vampiro (1922) si collega infatti alle immagini del ponte e dei quadri di Dalí e de Chirico, e forma con essi una condensazione visiva tra le più significative, che non si limita alle spiegazioni razionali date dall’autore. Non sembra essere casuale il momento prescelto per inserire l’immagine del vampiro di Murnau: la rievocazione dell’abbandono della donna amata e la fine di una determinata idea dell’amore. La spiegazione della presenza del vampiro appare più tardi e riceve una connotazione sessuale dall’associazione alla “cravatta Nosferatu”, simbolo del pene. I riferimenti al film si moltiplicano: dall’orecchia pelosa del vampiro (che rimanda al collo della giraffa) al pipistrello visto sotto le arcate dell’albergo, dal paesaggio notturno delle Alpi provenzali che rievoca quello del film al ponte, simbolo sessuale molto evidente, come già affermato altrove.

L’autore dà un’interpretazione precisa della cravatta e del ponte. La prima simboleggia “la necessità di superare un certo numero di rappresentazioni affettive, d’aspetto paralizzante”; il secondo permette d’eliminare in modo immaginario “la parte consapevolmente meno assimilabile del passato”, dando al sogno l’aspetto d’un “salto vitale” e non solo di strumento di cicatrizzazione (BRETON, 1996: 57)3. Quale immagine Breton sceglie per rappresentare Nosferatu? Benché si tratti di un’immagine di morte, l’interpretazione di Marguerite Bonnet (1991: 36) va ripensata. L’autrice infatti vede in essa la ricerca di “un effetto di straniamento e di paura, alla deriva nei confronti del testo”. Se si ricorda il significato simbolico della figura del vampiro, la scelta di quel fotogramma specifico non sembrerà così dissociata dalla scrittura. Nosferatu comincia a disintegrarsi – e lo dimostra la mano destra quasi diafana – grazie al coraggio di Nina che gli dà il benvenuto e sconfigge con questo gesto i mali mortali che esso arrecava. Il miracolo operato dalla ragazza può corrispondere al “salto vitale” intravisto da Breton, se si rammenta che la figura del vampiro rappresenta simbolicamente un’inversione delle forze psichiche contro se stesso, un fenomeno d’autodistruzione (CHEVALIER; GHEERBRANT, 1991: 930). Nell’immagine del vampiro sul punto di dissolversi si può vedere un transfert simbolico che permette di dare una nuova dimensione all’abbandono sofferto da Breton, causa d’un trauma profondo: il poeta è piuttosto Nina che Nosferatu, poiché dimostra la propria capacità di superare la sensazione di strangolamento che l’assale nel momento in cui la cravatta appare nel sogno e di attraversare il ponte, simbolo della transizione fra due stati di spirito, fra due desideri in conflitto. Quest’idea sembra rafforzarsi con le considerazioni di Breton sul ruolo del passaggio del ponte sul fiume durante il sogno, che avrebbe un effetto terapeutico (BRETON, 1996: 53).

Le riproduzioni del Grande masturbatore di Dalí, e L’ indovino di de Chirico, associate dall’autore all’idea del mostro, sono passibili di un altro tipo di interpretazione, che le associa alle immagini del vampiro e del ponte. Le strane figure di Dalí e de Chirico, che per la loro tematica evocano rispettivamente la sfera della sessualità e quella della chiaroveggenza e della visione interiore, hanno altre due caratteristiche meritevoli di un’analisi. I due dipinti possono essere considerati materializzazioni visive dell’attività onirica, la quale conferisce alle immagini significati simbolici, epurati da ogni idea di gratuità o mostruosità. Nello straniamento e nella teatralità della composizione di Dalí, che porta a galla pulsioni libidinose, si può scorgere la proiezione della paura della castrazione e non soltanto il tema esplicito della masturbazione. Secondo l’ artista, il quadro rappresentava “un grande volto livido e cereo, dalle guance rosee e lunghe sopracciglia. Il naso immenso s’appoggiava a terra. La bocca era rappresentata da una cavalletta, il cui ventre in decomposizione rigurgitava di formiche. La testa finiva in un’ornamentazione di stile art nouveau” (apud: NÉRET, 2002: 27). In termini simbolici l’opera mette in rilievo due elementi: la figura femminile e il leone dalla grande lingua rossa. La figura femminile, rappresentata in posizione di fellatio, non è una creazione esclusiva della fantasia onirica di Dalí. Mentre Gilles Néret (2002: 27) accosta l’immagine alla cromolitografia d’una ragazza che odora un giglio, Dawn Ades (2004: 116-118) propone un’interpretazione più complessa, in cui si fondono ricordi d’infanzia e la figura della Beata Beatrix (c. 1863) di Dante Gabriele Rossetti. L’associazione dell’immagine femminile alla paura, che risale a un ricordo infantile, è corroborata dalla fonte iconografica ottocentesca, poiché Dalí proiettava nelle donne preraffaellite l’idea di “terrore” e di “ripugnanza”. Questo spiegherebbe l’aspetto petreo del volto femminile e del corpo maschile, raddoppiati nella testa del leone che rimanda a una gorgona e quindi alla paura della castrazione, se si prende in considerazione l’interpretazione data da Freud alla figura della medusa4. La presenza della cavalletta gigantesca può confermare quest’idea, se si ricorda che il pittore associava l’immagine dell’insetto alla figura paterna, proponendo una trasposizione del complesso di Edipo tramite il tema mitico del sacrificio del figlio (CORTÉS, 1997: 183).

A questa rappresentazione sconvolgente del desiderio sessuale, che Breton (1996: 53) associa alla figura di Nosferatu, corrisponde l’inquietante montaggio di segni culturali proposta da de Chirico, il quale riunisce su un’unica superficie un manichino, una costruzione architettonica di legno, uno strumento geometrico, un cavalletto con un dipinto riproducente un disegno d’architettura e un’ombra proveniente da una statua al di fuori del quadro. Se gli elementi riuniti da de Chirico non sono incongruenti, poiché rimandano all’attività artistica, la sorpresa proviene dalla figura del vaticinatore, essere senza viso e senza braccia, sulla cui fronte spicca una stella, simbolo del conflitto fra le forze spirituali e quelle materiali (CHEVALIER; GHEERBRANT, 1991: 404), che funge da occhio. La simbolizzazione dell’inconscio, presente nelle due immagini, si rafforza con la designazione “mostro” data ad esse da Breton. Che cos’è infatti un mostro? Un personaggio che discute le leggi, le norme e i tabù adottati dalla società a garanzia della propria coesione. Questa figura racchiude in sé tutto ciò che è represso dagli schemi della cultura dominante: i segni del “non detto” e del “non mostrato”, di ciò che è stato messo a tacere e di ciò che è stato reso invisibile. Se il mostro rappresenta l’“altro” predatore che esiste in ogni persona, non causa sorpresa la sua trasformazione in immagine positiva da parte dei surrealisti. Nel loro sistema, esso rappresenta l’irruzione del sogno in una vita concepita in termini molto restrittivi per proteggersi da due grandi pericoli: pulsioni e desideri. Nel caso del sogno di Breton, il mostro può essere associato a un rito di passaggio, nel quale l’uomo vecchio dev’essere sacrificato affinché possa nascere l’uomo nuovo, e all’immagine di un’angoscia generata da due atteggiamenti opposti: l’esaltazione desiderante e l’inibizione intimorita (CORTÉS, 1997: 18-19; AUDEGUY, 2007: 51; CHEVALIER; GHEERBRANT, 1991: 615-616).

La simbologia delle forze irrazionali e della resurrezione soggiacente alle quattro rappresentazioni scelte dal poeta permette di riunirle in un’unica grande figura, dalla quale rimane esclusa la quinta immagine del capitolo: la fotografia d’una macchina da gioco. Breton stabilisce un nesso fra quest’immagine, la donna amata che l’aveva abbandonato e il fantasma di Nadja, quando converte in temporalità le somme di danaro perse da lui e Sadoul durante il gioco: i 20 anni di X si contrappongono ai 65 della donna anziana con cui ha inizio l’itinerario del sogno. Si potrebbe avanzare l’ipotesi che l’immagine della macchina da gioco sia un ritratto in absentia di Nadja, giacché essa ricorda il caso presente nell’incontro del 1926 e alcuni atteggiamenti della giovane donna.

Curiosamente Breton (1996: 63-67) non include fra le illustrazioni di Les vases communicants l’“oggetto-fantasma” a cui si riferisce nel primo capitolo, subito dopo la discussione sulla presenza delle figure di mostri nell’arte dei primi decenni del XX secolo. Concepito durante una seduta di cadavre exquis (1927) e pubblicato nel dicembre del 1931 nella rivista Le Surréalisme au Service de la Révolution dopo aver sofferto una trasformazione, l’oggetto consisteva di una busta vuota, bianca o molto chiara, chiusa con ceralacca rossa, dotata di ciglia sul lato sinistro e dell’ansa di una tazza sul destro. Il gioco di parole, che era alla base della costituzione dell’oggetto (“cil” = “ciglia”; “anse” = “ansa”), aveva fatto sorgere la parola “silence” (“silenzio”), che poteva designarlo o corredarlo. Poiché stava compiendo un’indagine sui meccanisi del sogno, il poeta dà una dimostrazione del proprio metodo d’analisi e propone un significato per la “busta-silenzio”, la quale non poteva essere considerata una manifestazione gratuita dell’immaginazione. Finisce col concludere che si trattava d’un fantasma destinato ad un altro fantasma, nelle cui mani non sarebbe stato fuori posto.

Anche se circondato da un certo mistero, l’“oggetto poetico” suscita alcune domande nello scrittore: esso non dissimulerebbe “preoccupazioni profonde”, non sarebbe la spia di un’“attività psichica meno disinteressata”? Queste domande, non per caso, si fanno presenti dopo l’evocazione del significato sessuale della frase di Lautréamont sull’incontro fra un ombrello (uomo) e una macchina per cucire (donna) su un tavolo di disseccazione (letto come “misura comune” della vita e della morte). La conclusione a cui Breton arriva è di natura sessuale: i fantasmi sono sublimazioni delle figure dei genitori, i quali durante la notte svegliano il bambino per evitare che bagni il letto ed alzano le coperte “per vedere come manteneva le mani durante il sonno”.

Se questa riflessione ricorda il significato simbolico del quadro di Dalí, creando un’interpretazione di natura sessuale e riaffermando la centralità della figura di X nel sogno, vi è però una “crepa”, secondo Jack Spector (1997: 130-131): Breton adatta i meccanisi freudiani per non dover affrontare il contenuto doloroso racchiuso nella busta. Fantasma visibile, dotato di ciglia ma sprovvisto d’occhi, la busta presenta un enigma verbale e un emblema visuale che rimandano a un vaso che non comunica niente (associazione fra lettera e silenzio) poiché lo scrittore cerca di sublimare la delusione provocata dall’abbandono di X, trasformandola nella “categoria meravigliosa del fuori dal tempo”.

L’importanza del sogno per una comprensione totale della psiche umana, presente fin dall’inizio nella riflessione di Breton, è approfondita nel libro del 1932. Come ricorda Jean-Pierre Morel5, il poeta destinava tre spazi privilegiati alla manifestazione onirica, cercando di definire un significato particolare per ognuno di essi. Il sogno è importante per l’artista nella misura in cui gli fornisce i modelli di un’attività che non si restringe alla rappresentazione realista. L’esploratore della vita quotidiana incontra in esso la possibilità di un’organizzazione analogica di spazi ed avvenimenti sconcertanti a prima vista. All’uomo in genere, questo “sognatore definitivo”, l’analisi del sogno arreca “il senso più vivido di tutte le possibilità offerte dall’esistenza”. Se riuscisse a comprendere i propri sogni, l’uomo sarebbe in grado di capire la “necessità naturale” che guida la vita.

In questo senso è molto significativa l’immagine scelta come illustrazione del terzo capitolo, nel quale lo scrittore si sofferma sul ruolo dell’intellettuale nel presente. Alle direttive del Partito Comunista che mettevano in primo piano il pensiero oggettivo, Breton contrappone la necessità di un’articolazione della dimensione politica ai domini del desiderio, del soggettivo, del notturno e alla rivoluzione della vita interiore. Nel difendere l’importanza della conoscenza intuitiva, del sogno e del sentimento per la disamina della natura individuale in senso pieno, l’autore confida al poeta del futuro il compito di coniugare in una sola dimensione l’azione e il sogno, l’eredità dell’eternità e il presente, l’individuale e l’universale.

Nonostante vi siano nel testo diverse immagini liriche dedicate al lento svegliarsi di Parigi e alla bellezza femminile, la scelta dell’illustrazione non le tiene da conto. Breton preferisce ad esse la fotografia della visita fatta al Palais Idéal del Facteur Cheval, al rientro da Castellane, nell’estate del 1931. Solo apparentemente l’immagine di quell’architettura fantasiosa e ricolma di elementi onirici è estranea al testo. Lo scrittore infatti non ne parla, ma l’associazione dell’illustrazione alla discussione riguardante la necessità della conoscenza intuitiva e della disamina del processo di formazione delle immagini nel sogno con l’aiuto dell’elaborazione poetica non lascia dubbi sulla sua pertinenza. Per le tesi di Breton l’immagine della concretizzazione d’un sogno che travalicava l’immaginazione era l’illustrazione perfetta: il lavoro solitario e pertinace di Cheval, realizzato tra il 1879 e il 1912, era la dimostrazione esauriente dell’unione possibile tra azione e visione interiore. La scelta di una fotografia personale in cui Breton sembra fondersi col frutto dell’immaginazione fantastica di Cheval fa pensare che è lui, o piuttosto l’artista surrealista, il poeta del futuro invocato alla fine del capitolo in un processo di identificazione con quegli individui, spesso anonimi, che sentono “il bisogno irreprimibile di dar forma a questa o quella organizzazione di fantasie che vive in loro” (apud: MACHADO, 1991: 133)6.

La metafora dei “vasi comunicanti” raggiunge il culmine in quest’immagine. Se la presenza d’illustrazioni nel libro mirava a fornire una documentazione tangibile delle avventure mentali dell’autore (SPECTOR, 1997: 131), la sua fotografia in uno degli spazi del Palais Idéal diventa un’immagine paradigmatica. Situato all’entrata d’una grotta, con lo sguardo diretto verso l’esterno, Breton sembra svolgere il ruolo d’un mediatore fra l’azione e il sogno, fra “la coscienza oggettiva delle realtà e il loro sviluppo interno”, fra la conoscenza razionale e la conoscenza intuitiva. Finito il divorzio fra queste varie dimensioni, l’operazione poetica potrebbe essere fatta alla luce del giorno, senza essere più ammantata di un’aura di mistero e di miracolo (BRETON, 1996: 171-172). L’analisi del sogno del 26 agosto 1931 sembra rispondere a questo proposito poetico; grazie ad essa Breton riesce a far luce su un momento particolarmente doloroso della propria vita, a cui attribuisce la dimensione d’un “salto vitale” verso il futuro. L’aver piegato il pensiero di Freud ai propri bisogni è parte del gioco poetico, della ricerca d’una sintesi fra azione e sogno, amore e vita. È ciò che una frase di Nadja usata come epigrafe del terzo capitolo sembra dimostrare: bisogna cercare un nuovo tipo di percezione per attingere la visione poetica, per incontrare in una stella “il cuore di un fiore senza fiore”.


BIBLIOGRAFIA

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SPECTOR, Jack J. (1997). Surrealist Art and Writing, 1919/39: the Gold of Time. Cambridge: Cambridge University Press.

 

Note:

3L’idea del sogno come “salto vitale” deriva da Materialismo e critica empirica (1909) di Lenin, pubblicato in francese nel 1928. Il sogno, nella visione di Breton, opererebbe nei termini della legge generale del divenire: poiché elimina il negativo, diventerebbe un elemento dinamico a servizio della vita, in opposizione al legame col passato proposto da Freud (BONNET; HUBERT, 1992: 1360-1361).

48Nell’articolo “Le surréalisme spectral de l’éternel féminin préraphaélite”, pubblicato sul numero 8 di Minotaure (giugno 1936), l’artista afferma che il gruppo inglese aveva dipinto le donne “più desiderevoli” e “più orride”, che suscitavano “terrore ed angoscia”, quando si pensava di mangiarle. L’idea gastronomica è ripresa nella descrizione di tali figure come “fantasmi carnali dei ‘falsi ricordi’ dell’ infanzia”, come “carne gelatinosa dei sogni sentimentali più riprovevoli”. Nella visione di Dalí, il preraffaellismo “porta a tavola questo piatto sensazionale dell’eterno femminile, amenizzato da un pizzico morale, ma eccitante, di una ripugnanza rispettevole. Queste concrezioni carnali di donne ideali in eccesso, queste materializzazioni febbricitanti e ansimanti, queste Ofelie e Beatrici floreali e molli, provocano in noi, quando appargono nella luce dei loro capelli, lo stesso effetto di terrore, ripugnanza e seduzione non equivoca del tenero ventre di una farfalla tra la luce delle sue ali”.

5Vedi: “Breton and Freud”. In: <http://www.jstor.org/pss/464666>.

6L’interesse suscitato dall’architettura di Cheval è palese in diversi scritti di Breton. Nel poema “Facteur Cheval” (1932) celebra l’artista spontaneo, creatore d’un “oggetto onirico” monumentale. Nel “Messaggio automatico” (1933), lo presenta come “il maestro incontestabile dell’architettura e della scultura mediuniche” (BRETON, 1992: 383). Nella conferenza “Situazione surrealista dell’oggetto” (1935), la difesa dell’“irrazionalità concreta” nel campo architettonico trova un notevole punto d’appoggio nella figura del postino che “costruiva senza nessun aiuto, con una fede che non venne meno durante quarant’anni e appena con l’ispirazione tratta dai propri sogni, una meravigliosa costruzione, [...] nella quale aveva previsto un solo angolo abitabile per la carriola che gli era servita per trasportare i materiali, che aveva infine illuminato con questo semplice nome: il Palais Idéal” (BRETON, 1972: 133). Nell’articolo “Joseph Crépin” (1954), l’opera del postino è ancora una volta associata a manifestazioni mediuniche in virtù della sovrapposizione che s’era stabilita fra “esterno” ed “interno” (BRETON, 2002: 383, 393).


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