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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



La creatività nel lavoro psicoanalitico

di Claudio Castelo Filho
Traduzione di Serena Mancioppi


La stesura di questa presentazione è cominciata quando ho scritto il mio libro “Il processo creativo, trasformazione e rottura”, che si è sviluppato dalla mia tesi di dottorato in psicologia sociale alla USP ed è stato pubblicato dalla Casa do psicologo nel 2004, ne approfitto per fare un po’ di pubblicità dicendo che potete trovare il libro qui da Maura Books.

Il focus del libro è principalmente sulla produzione letteraria artistica scientifica e religiosa. Ossia: come nascono le opere d’arte, letterarie e musicali? Come nascono le teorie scientifiche? Cos’è il processo creativo?

Il libro si occupa anche delle relazioni tra gruppi e della loro brama per la nascita di un genio, che Bion paragona e fa coincidere ai mistici/messia, e ai conflitti che insorgono a causa di questa ansiosa aspettativa (che nasca un genio nel gruppo). Questo accadrebbe perché quando nascono geni creativi e innovatori sono percepiti come minacce all’Istituzione e risvegliano la paura di disordini sociali. Questo mi da occasione per introdurre ciò che segue – perché se la creatività nella pratica psicoanalitica, e il suo sviluppo nella coppia analista/paziente, è apparentemente valorizzata, questa è allo stesso tempo vista con preoccupazione, non solo da pazienti e analisti, ma anche dall’estabilishment psicoanalitico.

Ma continuiamo con il contenuto del libro: propongo un concetto sulla funzione delle arti e delle scienze. Per fare questo userò le idee e le teorie di Freud, Klein e Bion, in particolare quest’ultimo, per cercare di spiegare la relazione tra l’esperienza emotiva e la capacità di creare e pensare.

Faccio uso di una citazione di Henry James nel suo racconto Benvoglio :

come i maestri del suo mestiere, lui sembrava emanare qualcosa di quel vago magico mormorio – la voce dell’infinito- che si spia nelle pieghe della conchiglia marina. Proprio lui, una volta, ha fatto uso di questa piccola analogia e ha scritto una poesia, nella quale era melodiosamente raccontato, che le menti poetiche sparse nel mondo sarebbero come le piccole conchiglie che si trovano in spiaggia, tutte rimandano il rumore dell’oceano. Tutto ciò era, naturalmente smussato dalle sabbie del tempo, dalle onde della storia e da altri armoniosi concetti.

Con la pratica psicoanalitica, l’osservazione clinica ha permesso l’elaborazione di teorie. Le osservazioni sono fatte a partire dall’esperienza con singoli individui (negli studi degli psicoanalisti), ma permettono lo sviluppo di teorie che si possono applicare al funzionamento mentale di tutti gli esseri umani, allo stesso modo di come gli esperimenti di laboratorio permettono ai fisici di elaborare teorie che spieghino il funzionamento dell’universo. Nell’osservazione dell’individuo si può scorgere il gruppo, e viceversa. In psicoanalisi possiamo osservare la gruppalità interna all’individuo. Le sue relazioni con questi gruppi interni si riflettono nelle sue relazioni con il gruppo esterno. Le idee di contenitore e contenuto suggerite da Bion (1962), che qui riprendo, si sono sviluppate dall’osservazione delle relazioni di qualcuno con sé stesso e di quel qualcuno con il gruppo. La comprensione e la conoscenza della gruppalità interna in un individuo è in relazione diretta con i suoi movimenti nei gruppi esterni.

Il concetto psicoanalitico che mi orienta è quello dell’identificazione proiettiva, così come l’ha proposto Melanie Klain in “Note su alcuni meccanismi schizoidi”. L’espansione di questo concetto, è il decisivo sviluppo di contenitore e contenuto, proposto da Bion (2), e l’oscillazione tra la posizione schizo-paranoide e quella depressiva (in accordo con Klein, ma anche con l’evoluzione di questo pensiero a cui giunge Bion, con la sua teoria del pensiero. Anche le nozioni di Narcisismo e Social-ismo (3) sono fondamentali.

Bion, in Attenzione e interpretazione, parla di tre tipi di relazioni che possono stabilirsi tra il “genio-mistico” e il gruppo: il commensale, il simbiotico e il parassitario, le cui caratteristiche conducono rispettivamente a crescita, ristagno o implosione e distruzione da ambo le parti.

Arriviamo alle definizioni di Bion per queste relazioni, proposte nel libro Attenzione e interpretazione a pagina 95:

Con ‘commensale’ intendo dire una relazione in cui due oggetti ne condividono un terzo con benefici per tutti e tre. Con ‘simbiotico’ intendo una relazione nella quale uno dipende dell’altro, con benefici reciproci. Con ‘parassitario’ intendo rappresentare una relazione nella quale uno dipende dall’altro per dare origine a un terzo, che è distruttivo per tutti e tre

A pagina 104 dello stesso libro, Bion aggiunge: “il legame tra una mente e un’altra che le distrugge entrambe è la menzogna”


La posizione schizo-paranoide e depressiva

Inizialmente si pensava che ci fosse un’ evoluzione lineare dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva. Melanie Klein (1946), tuttavia, già stava usando il termine ‘posizione’ e non ‘fase’, in modo da definire più uno stato mentale che solamente una tappa nello sviluppo. Nonostante questo, dopo un po’, questa idea del passaggio dalla PS (4) (posizione schizo-paranoide) a quella D (depressiva) è stata usata, da alcuni psicoanalisti, quasi come un criterio di cura. Comunque Melanie Klein metteva in guardia dal fatto che stati di disgregazione dell’Io potevano essere sperimentati in diversi momenti della vita e ogni volta che si fossero verificate situazioni di difficoltà. Bion distinguerà la necessità di un oscillazione tra queste posizioni, in un movimento a pendolo, come condizione essenziale per la salute e lo sviluppo mentale. La fissità in uno qualunque dei due stati significherebbe un grave disturbo mentale. Da qui la formulazione PS ??D

In realtà questo cosa significa? Significa che a ogni integrazione depressiva, a ogni insight raggiunto, un nuovo mondo sconosciuto si svela, con un’infinità di elementi che mai prima d’ora si erano verificati e tra i quali si scorge una qualche relazione. Riuscendo a tollerare questa esperienza angosciosa e persecutoria, che è lo stare di fronte al nuovo (per lo meno ciò che non si è mai visto) e all’ignoto, può esserci, in quel caso, un’evoluzione verso la percezione di elementi che integrano quella dispersione. Quando ciò succede, c’è una precipitazione degli elementi dispersi in una configurazione che li unisce, portando una nuova esperienza depressiva (attraverso l’unione degli elementi fino a quel momento dispersi). Raggiunto un insight, subito dopo si ha una nuova esperienza di dispersione, di frammentazione SP di fronte al nuovo ambiente sconosciuto che si intravede da questa congiunzione di elementi che si è appena realizzata, e avanti così. Per esempio: le immagini captate dal Telescopio Hubble, rendono possibile la percezione di situazioni fino a quel momento mai immaginate. Nel momento in cui mostrano qualcosa di mai visto, pongono anche nuovi problemi mai pensati prima. Come collegare i nuovi dati che si sono ottenuti? C’è un’integrazione depressiva, una soddisfazione nel comprendere qualcosa di completamente nuovo, e allo stesso tempo, monta l’angoscia, di natura persecutoria, di fronte ai nuovi infiniti enigmi insiti in queste stesse percezioni. Tollerare ciò che ho finito di descrivere è caratteristico di una mente sana e della sua capacità di espandersi. Se le esperienze persecutorie davanti a ciò che non si conosce fossero intollerabili per la coscienza, questa rifiuterebbe di avvicinarsi a tutto ciò che fosse nuovo e mai visto, provocando un irrigidimento della mente e, alla fine, l’invecchiamento. Lo stato mentale più favorevole all’individuo, tanto per fare fronte alle necessità della vita, quanto per avere una buona qualità di vita, sarebbe quello in cui ci si può deprimere senza sentirsi in colpa (o colpevolizzarsi per il fatto di essere depresso), e nel quale ci si può sentire in colpa senza deprimersi (o essere depressi perché ci si sente in colpa). A questi stati mentali corrispondono le posizioni di Melanie Klein, nelle quali queste esperienze possono essere contenute e tollerate, Bion (5) le ha chiamate “pazienza” e “sicurezza” per distinguerle dalle connotazioni psicopatologiche dei termini schizo-paranoide e depressivo.

Le situazioni più drammatiche di intolleranza alle esperienze emotive, e il timore che siano dirompenti, sono osservabili nell’estrema chiusura di certi gruppi religiosi. Un medico che lavora in un convento mi ha raccontato la difficoltà che ha incontrato nel trattamento delle monache di clausura. Nella maggior parte dei casi non può vedere le sue pazienti e gli dà indicazioni solo sulla base delle informazioni che riceve a voce – questo, trattandosi di medicina, è molto rischioso. L’ingresso nel convento, costituisce, dal mio punto di vista, salvo in rari casi di vocazione mistica e religiosa, un tentativo di eliminare tutto ciò che è sconosciuto e inaspettato nella vita. Con la clausura, quindi con un gran restringimento dell’orizzonte, un grande impoverimento delle possibili esperienze che la vita offre, una rinuncia al proprio nome a e alla propria personalità, in nome dell’adozione di un modo di comportarsi standardizzato nella quale le differenze, le sorprese e le peculiarità di ciascuna devono essere soppresse, e attraverso anche l’adozione di un rigido cerimoniale rituale, si tenta di costruire l’illusione che un giorno ripeta il precedente, che tutti i giorni siano uguali, e che tutto sia sotto controllo (controllando anche, con i rituali, la divinità). Con la scusa di occuparsi della loro anima, mi sembra, quindi, che queste persone facciano di tutto per rifiutare il loro stesso spirito (la loro personalità), per restare con l’illusione che non c’è qualcosa di ignoto con cui è necessario confrontarsi. In questo contesto tutta la curiosità e la ricerca scientifica non hanno spazio. La creatività e la ricerca scientifica possono verificarsi solo in situazioni in cui si possono tollerare le angosce persecutorie caratteristiche della posizione schizo-paranoide e depressiva, ogni volta che un nuovo insight rivela un mondo differente da quello che si conosce.

La tata di uno dei miei fratelli, alla fine degli anni ’60 decise di entrare in convento. Su sua richiesta mia madre andò a farle visita e le domandò se era contenta della scelta che aveva fatto. La giovane suora rispose che era molto soddisfatta perché da quel giorno in poi non sarebbe più stato necessario pensare; la madre superiora avrebbe pensato al suo posto e le avrebbe indicato tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno e tutto ciò che avrebbe dovuto fare.

Un'altra conseguenza per una persona che finisce per scegliere questo tipo di “protezione” dall’angoscia dell’esistenza è l’impossibilità di abbandonare tale scelta nel caso in cui se ne penta. Dal momento che il suo equipaggiamento mentale non si è sviluppato, o si è addirittura atrofizzato per mancanza di uso e per totale incapacità di improvvisazione (possibile solo grazie all’integrità/integrazione degli aspetti egoici), si ritrova inadatta alla vita lontano dal riparo dell’istituzione religiosa (sostituta delle figure parentali di queste persone che, in un certo modo, permangono senza uscire dall’infanzia).

Questi stati religiosi possono verificarsi (e frequentemente è proprio ciò che accade) all’interno di istituzioni che si suppongono essere scientifiche, dove la paura del nuovo e del disordine può essere prevalente. Il timore che un membro si allontani o semplicemente proponga un’idea diversa da quella del gruppo è un espressione del fenomeno religioso in corso. La tendenza a omogeneizzare il pensiero gruppale, in modo da stabilire una norma di comportamento e pensiero per i suoi membri (non sto considerando qui un minimo di organizzazione necessaria allo sviluppo di una convivenza civile), passerebbe per la definizione di una condotta morale, di ciò che è moralmente giusto e moralmente sbagliato. La supposta “armonia” del gruppo è, in realtà, una finzione, perché i membri di questo tipo di gruppo generalmente vanno avanti ingannandosi, così che succeda ciò che si aspettano. Questo porta, inoltre, a un impoverimento del gruppo, visto che ciò che sarebbe caratteristico in ciascuno dei suoi membri e che potrebbe arricchire gli altri, scompare, o rimane sepolto a favore di un presunto ideale di gruppo.


Una teoria sul pensiero

Lo sviluppo della capacità di pensare i pensieri è legato alla possibilità di transitare dalla posizione schizo-paranoide (PS) (6) a quella depressiva (D), e vice-versa. La possibilità che queste oscillazioni si verifichino dipende dalla relazione tra contenitore e contenuto, ossia, se il contenitore è in grado di tollerare il contenuto (una percezione o idea nuova) o se il contenuto non è troppo intenso per il contenitore, che può arrivare a rompersi o addirittura a disintegrarsi, come è successo con il messaggio di cristo in relazione all’istituzione ebraica, che non sapeva e non poteva, in quel momento, accettarla. L’apprendimento dell’istituzione ebraica in relazione a questa esperienza, comunque, le ha permesso di affrontare altri dissensi nei tempi a venire (come ha fatto con Luria).

In “Una teoria sui processi di pensiero” (7) e “Apprendere dall'esperienza” (1962, cap.12), Bion propone l’idea che le identificazioni proiettive siano il modo primordiale e normale della mente di funzionare. Il bebè, incapace di fronteggiare le emozioni e i pensieri intensi che si impongono alla sua mente immatura, cerca un contenitore, un’altra mente, che possa accogliere ed elaborare quelle esperienze che lo fanno sentire sopraffatto e minacciato. La mente (seno) della madre, in generale, è ciò che è disponibile e che viene offerto per tale scopo. Nel caso in cui la madre sia molto angosciata e intollerante verso le sue esperienze emotive (dato che, alla fine, quello che succede, sicuramente, è che il bebè provoca nella madre emozione intense, che sono di lei mamma, visto che le identificazioni proiettive sono una fantasia onnipotente, come sottolineano Klein e Bion), lei respinge il contatto con queste esperienze, espellendole con violenza attraverso le sue stesse identificazioni proiettive. In realtà, coccolando il suo bebè, ciò che una madre sta facendo è, se questo è possibile, rimanere in contatto con le sue proprie emozioni provocate dalla relazione con il bebè. Lei può coccolare il bebè che è stata, che si “ricorda”, digerendo le sue stesse emozioni. In questo modo “insegna” a suo figlio bebè come si fa a elaborare le esperienze emotive e a gestire le sue. Il bebè sarebbe attento a ciò che la madre fa. Essendo in grado di accogliere le sue emozioni senza respingere ciò che sta vivendo, la mamma può riflettere su cosa fare e accogliere effettivamente il bebè e l’angoscia che questo prova. Quello che quindi viene introiettato dal bebè è un seno (mente) capace di accogliere, la tolleranza dell’ignoto e i limiti dell’esperienza. Questo seno introiettato può anche dare significato all’esperienza, diventando così un nucleo superegoico con queste qualità, questo è, accogliente, tollerante, riflessivo e più realista.

Nel caso in cui la madre (o l’adulto che si occupa del bebè) respinga il contatto con sé stessa (e con le sue angosce), ciò che il bebè introietta è un seno incapace di gestire le emozioni e ostile ad esse. Può, ancora, introiettare un seno che accoglie emozioni e pensieri, ma che li svuota dei significati che possono avere. Queste prime introiezioni, in accordo con Melanie Klein in “Le origini del transfert” (1952), costituiscono il nucleo primitivo del super-io. La qualità del super-io primitivo del bebè è equivalente al tipo di relazione che si è stabilita (o per lo meno è percepita come tale) tra lo stesso bebè, che fa identificazioni proiettive, e il seno (mamma) che le accoglie/pensa o le respinge/attacca. Il super-io, in accordo con Freud, equivale al padre e alla madre introiettati, o alle funzioni che questi svolgono per un bambino. Dalla sua qualità dipende una evoluzione soddisfacente nella vita di un individuo. Il super-io può funzionare come genitori che mantengono la capacità di pensare nel corso di circostanze difficili che i figli si trovano ad affrontare; o come genitori che si disperano e si arrabbiano di fronte alle avversità o di forti impatti emotivi, situazioni che diventano fonte di tremende difficoltà e intense sofferenze. Nel primo caso abbiamo un super-io sintonico con l’individuo (o con l’io); nel secondo caso un super-io distonico (8). Quando il super-io è sintonico, promuove lo sviluppo dell’io, nello stesso modo in cui farebbe un padre benevolo che si preoccupasse per lo sviluppo e l’emancipazione del figlio, aiutandolo in questo.

C’è anche la possibilità, nel caso in cui non ci sia nessun contenimento per le esperienze emotive del bebè, o per i limiti materni o a causa di elementi costituzionali del bebè, di una scissione forzata tra fisico ed emotivo. La madre si occupa delle necessità fisiche del bebè, ma non riesce a viverle o a fare proprie le esperienze emotive stimolate da questo contatto. Il risultato è una situazione in cui si sviluppa avidità per il bene e la soddisfazione materiale e un’incapacità di realizzazione sul piano emotivo, che produce ancora più avidità sul piano materiale, che aumenta come una valanga.


La funzione dell’analisi

La funzione di un’analisi sarebbe fondamentalmente di presentare una persona a sé stessa, in modo che possa diventare sé stessa. Perché si possa essere ciò che di fatto si è, è necessario tollerare e accettare ciò che si vive e di cui si fa esperienza. Di conseguenza, è necessario essere capaci di contenere ciò che si vive. Lo sviluppo di questa capacità avverrebbe all’inizio dell’esistenza, e dipenderebbe dal fatto che l’individuo abbia potuto contare su una madre che fosse in condizione di accogliere e gestire le identificazioni proiettive, accogliendo dentro di sé le esperienze emotive che ne risultano. Nel caso in cui la madre non ne fosse capace o non lo fosse abbastanza, l’analista avrebbe bisogno di saperlo fare e la sua relazione con il paziente aiuterebbe questo a sviluppare la capacità di contenere le proprie esperienze emotive.

Per quanto bravi siano stati i genitori di una persona, quando questa viene in analisi è perché sente una mancanza nello sviluppo del suo apparato per pensare i pensieri, cioè la sua mente.

I limiti a questo sviluppo possono non dipendere da limiti incontrati nella relazione con i genitori, ma piuttosto essere dovuti a fattori di natura costituzionale individuale, come un’intensa invidia costituzionale, così come hanno supposto Klein e Bion nei loro lavori.


Reverie, il sogno, il mito, l’arte, la teoria scientifica, l’equazione matematica

Nella mia esperienza, il lavoro principale dell’analista consisterebbe nella sua capacità di accogliere le identificazioni proiettive e aiutare i suoi pazienti a elaborarle. Poter tollerare di essere il bersaglio delle identificazioni proiettive, accogliendo i contenuti proiettati, è quello che permette a un analista (o a una madre) di esercitare una funzione che Bion, nel 1962, chiamò “reverie” e cioè, la capacità di digerire, sognare le esperienze emotive sentite come intollerabili o indigeste per la mente immatura del bebè o dell’analizzato. Posso tracciare un parallelo tra questa funzione psichica e la funzione fisica dell’allattamento. Qui la madre ingerisce alimenti solidi impossibili da assorbire per il bebè e li trasforma in latte, che lui può assumere. Con l’esperienza, il bebè crescendo potrà aumentare la sua capacità digestiva in modo da includere alimenti che prima non riusciva a metabolizzare (o digerire). Lo stesso succederà con le esperienze mentali se la madre o l’analista avranno sviluppato questa funzione mentale. L’analista, quindi, sarebbe capace di intuire (attraverso il contatto con le sue proprie esperienze) e sognare le esperienze in corso nel suo studio. Sognare significa poter riconoscere, nell’esperienza che si svolge, quali sono gli elementi che si presentano sempre insieme. L’unione costante di questi elementi sarebbe percepita attraverso un’immagine onirica, che sintetizzerebbe, come in un’equazione matematica (9), l’“essenziale”, l’anima di quell’evento. Essendo riconosciuti, gli elementi essenziali potrebbero, allora, essere nominati (ancorandoli al nome dato così che gli elementi non si disperdano) e, dopo, sarebbe possibile verificare quale significato attribuirgli. Scrittori, artisti, scienziati, principalmente quelli di genio, avrebbero la capacità di trasformare in linguaggio universale ciò che intuiscono (dalla loro esperienza di vita, dai dati sensoriali disponibili) e sognano. Sarebbero capaci di tradurre ciò che “intravedono” in espressione artistica, letteraria o in sistemi deduttivi scientifici (il calcolo algebrico sarebbe il modo più astratto di esprimere quello che si è intuito). L’aspetto geniale starebbe nel fatto di apprendere a sognare qualcosa che ha caratteristiche universali, rivelando agli esseri umani aspetti della loro realtà mai compresi prima che questi individui esprimessero le loro trasformazioni. Anche i miti generalmente assolvono questa funzione.

Questa condizione psichica non si sviluppa con l’apprendimento intellettuale. Non è qualcosa che si possa raggiungere con la lettura di tutte le opere di Freud, Klein, Bion, Winnicott, Lacan, o altri autori maggiori. Il massimo che si può raggiungere è imparare qualcosa che di fatto non si capisce. Sarebbe come poter definire cos’è il giallo in fisica senza avere l’esperienza di questo colore. Il sapere intellettuale sarà utile se l’esperienza che gli corrisponde può essere vissuta.

Bion suggerisce che per intuire, vedere l’inafferrabile, la realtà psichica non sensoriale, è necessario un allenamento alla rimozione di memorie e desideri. L’analista deve lavorare senza avere aspettative su ciò che troverà, su ciò che deve svilupparsi, succedere e ancor meno risolvere. Solo così potrà, eventualmente, catturare qualcosa che si è sviluppato dall’infinito senza forma, come postulato da Henry James nelle parole del suo personaggio Bentivoglio, o in accordo a ciò che ha proposto Charcot a Freud: che osservasse, osservasse, fino a che ciò che stava osservando gli dicesse, a lui osservatore, Freud, che cos’era, e non il contrario.

Per lavorare correttamente in analisi, un analista non deve avere prioris sul suo paziente. Non deve avere un progetto per lui o un modello di come dovrebbe essere. Deve rimanere disponibile per incontrare e indicare ciò che l’analizzato prova. Questo fa dell’analisi un lavoro creativo e non un lavoro di modellamento delle persone, come in una linea di montaggio di una fabbrica dove i prodotti devono corrispondere a un prototipo.

La funzione di un analisi sarebbe sostanzialmente di mettere una persona davanti a sé stessa, in modo che possa diventare sé stessa. Per essere ciò che effettivamente si è, è necessario tollerare e accettare ciò che effettivamente si vive e sperimenta. Di conseguenza è necessario saper contenere i proprio vissuti. Lo sviluppo di questa capacità comincerebbe all’inizio dell’esistenza, e dipenderebbe dal fatto che l’individuo abbia potuto contare su una madre in grado di accogliere e affrontare le identificazioni proiettive, accogliendo dentro di sé le esperienze emotive risultanti. Nel caso in cui la madre non ne fosse in grado, o non ne fosse sufficientemente in grado, l’analista avrebbe bisogno di esserne capace e nella sua relazione con il paziente sarebbe auspicabile che questo sviluppasse la capacità di contenere le sue proprie esperienze emotive.

La persona che è in grado di contenere ed elaborare le sue esperienze emotive – ossia, di incontrare sé stessa e di essere ciò che realmente è – può pensare e vedere attraverso sé stessa. Può, in questo modo, essere creativa! Non ha bisogno di sottomettersi (per lo meno non psichicamente) all’istituzione. Quando una persona non tollera le sue emozioni, ciò che sperimenta nel contatto con la realtà, durante le sue esperienze di vita, non può sviluppare un senso critico proprio, ha bisogno, per orientarsi, di morale, di certezza, e di conseguenza, non può funzionare in modo creativo. La persona creativa, d’altra parte, può essere vista come minacciosa da quelli che hanno bisogno di seguire una morale e una certezza, inoltre è una minaccia alla presunta sicurezza raggiunta con l’adeguamento all’istituzione e alla convinzione che la realtà, il mondo, sono quelli stabiliti dall’istituzione.

Lo psicoanalista creativo non è quello che riceve nel suo studio i pazienti con l’intenzione di trovare ciò che le teorie e l’istituzione psicoanalitica gli hanno detto che avrebbe trovato e visto. Ciò che interessa allo psicoanalista è l’ignoto, il mai visto, il mai pensato prima. Non c’è conferma di teorie o credenze psicoanalitiche. Le teorie psicoanalitiche non sono inutili, nel caso in cui siano intese come sonde in ciò che non si conosce, e non come ciò che spiega l’ignoto. Queste dovrebbero rimanere dimenticate nella mente dell’analista, quando incontra i suoi pazienti. Dovrebbero restare sotto forma di preconcezioni che possono realizzarsi nell’esperienza clinica, ma, in qualche modo, dovrebbero servire a “spiegare” ciò che sfugge all’insight dell’analista.


Una caso clinico

Un uomo di 45 anni lamenta molte difficoltà e problemi sul lavoro e nella vita personale. Ha raggiunto incarichi e titoli importanti.

Mi sento costantemente chiamato a intervenire come autorità morale e a dirgli come dovrebbe risolvere i problemi che mi porta, proprio come se fossi un padre, un rabbino, o un qualche guru – potrei essere uno psicoanalista che si considera un’autorità morale, o anche un guru. Siccome non penso che la mia funzione sia questa e neanche penso di avere la capacità di sapere ciò che è meglio per la vita di un'altra persona – e ancor meno desidero assumermene la responsabilità al posto di un altro – rimango tranquillo a dispetto dell’apparente disperazione del paziente e delle richieste implicite nelle sue parole perché io dica qualcosa e lo orienti rispetto a cosa fare.

Nel corso della seduta mi accorgo che la disperazione del paziente non mi commuove. Arrivo a dirlo al paziente per vedere se questo gli fa venire in mente qualcosa. Cosa stava succedendo perché nonostante il dramma che mi stava raccontando io non mi sentissi coinvolto? Poteva essere un problema di insensibilità mia, ma propongo che si consideri non sia questo il caso, o la mia reazione a qualcosa che stava succedendo li.

Il paziente mi ascolta un secondo e sente di non avere niente da dire. Nella pausa che fa la sua disperazione sembra essersi “disconnessa” per qualche istante e lui parla con me normalmente, senza alterazioni rilevanti.

Torna ai suoi piagnistei e il tono disperato riappare. Osservo che alle mie orecchie ciò che arrivava non era la voce e il modo di parlare di un uomo di 45 anni, ma il pianto e il modo di esprimersi di un bambino di 5 anni o anche un po’ meno. Segnalo il contrasto tra ciò che i miei occhi vedono – un uomo adulto e maturo cronologicamente – e ciò che le mie orecchie sentono, un bambino di 5 anni o meno, per il modo in cui sento il suo pianto e il tono che usa. Lui ascolta, non dice niente e torna a parlare dei suoi drammi.

Quando il paziente fa una nuova pausa, senza che io abbia aggiunto niente, vedo che si asciuga gli occhi con le mani e sembra che il suo dramma sia “scomparso”, per lo meno in quel momento. In quel momento mi viene in mente l’immagine di un’intervista con una grande signora del teatro, del cinema e della TV brasiliana, che avevo visto in televisione. In questo programma lei fa un riassunto della sua vita e della sua carriera. A un certo punto l’attrice inserisce nella sua narrazione, senza nessun preavviso, una performance di un suo pezzo di repertorio. Piange, si commuove intensamente, impersonando il personaggio. Finita la messa in scena, si asciuga gli occhi e la commozione scompare in un secondo dal suo viso. Lei commenta il pezzo che ha messo in scena e parla dell’autore del pezzo e della sua vita all’epoca in cui l’ha messo in scena.

Questo mi servì come esempio per la situazione che stavo vivendo con il paziente, e gli dissi:

Ho l’impressione che tutti i problemi di cui lei mi parla e per i quali mi chiede aiuto sono i problemi che lei vuole avere – non i problemi che lei veramente ha. I problemi che lei mi racconta sono quelli che lei pensa siano i problemi di un uomo adulto. In questo modo lei imita, inscena, i problemi che lei pensa debba avere un uomo adulto. Ciò che di fatto succede è che lei si sente come un bambino che si è messo i vestiti del padre e pensa che facendo questo avrà le risorse emotive e la maturità che l’uniforme le dà. Come se un soldato, solo indossando l’uniforme di un generale, potesse acquisire l’abilità e la scaltrezza di un soldato molto esperto che già ha affrontato molte battaglie. Ma lei si dispera quando si accorge che indossare l’uniforme, il vestito da “adulto”, non le ha dato la capacità di cui avrebbe bisogno per affrontare i fatti della vita da adulti. Lei ha pensato che i titoli, la sua posizione e gli incarichi che ha raggiunto le avrebbero dato la capacità di affrontarli. Eppure si vede con tutte le responsabilità senza sentire di avere le qualifiche richieste – come una recluta con la divisa da generale che deve prendere una decisione in battaglia. Lei è come un bambino che gioca a Monopoli – tuttavia quello con cui lei ha a che fare ha delle conseguenze reali! L’imitazione non le dà la capacità di cui sente di avere realmente bisogno. Stando così le cose, ciò che lei capisce di avere bisogno, qui con me, è di svilupparsi emotivamente per essere l’uomo che di fatto lei già è! Cioè che la sua età emotiva incontri la sua età cronologica e, in questo modo, lei sentirà di poter contare su una capacità sua, non imitata, di analizzare e affrontare ciò che si presenta, potendo pensare con la sua testa – questo eliminerebbe la necessità di avere qualcuno che pensi per lei e che le dica cosa fare in ogni momento della sua vita. (Lui fa costantemente riferimento alla necessità di chiedere un’opinione a Dio e al mondo su ciò che deve o non deve fare – siccome le opinioni divergono lui si dispera per non saper decidere. Decidere, a sua volta, richiede la maturità emotiva per assumersi e sopportare le conseguenze delle decisioni prese – anche questo per lui è insopportabile, come un bambino di fronte a situazioni serie.)

In questo momento il paziente capisce ciò che sto dicendo e dà senso al mio intervento. Ma, già poco dopo, capisco che desidera sapere come risolvere questa situazione e come comportarsi perché questo non sia più così.

Gli dico che la sua fretta per avere subito una soluzione, che lo dispensi dal lavoro di crescita e sviluppo, che è difficile, duro, sofferto, per qualcosa di rapido, magico, istantaneo, è all’origine della sua tendenza a sostituire a una crescita reale una crescita imitata – visto che l’imitazione può dargli l’illusione di qualcosa di fatto e raggiunto in un istante – liberandolo dall’angoscia e dai dolori di una crescita vera. Però, questa sua soluzione finisce per lasciarlo con un problema, perché l’imitazione che lo facilita e consola in un primo momento, dandogli l’illusione di uno sviluppo che realmente non ha raggiunto, finisce per impedirgli di crescere veramente e di avere una vera capacità critica propria sui fatti della vita, fatti che potrebbe affrontare in modo creativo.



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