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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Questioni relative alla "cura", al "miglioramento delle condizioni di salute",
alla normalità e l' anormalità: Psicoanalisi e Psicoterapie

di Claudio Castelo Filho
Traduzione di Mara Gentile


I

Durante una seduta, ascoltando un paziente, egli mi riporta un episodio accaduto ad un suo amico che, nell'arco di poco tempo aveva sofferto di due gravi problemi di salute ed ebbe bisogno di essere sottoposto a più di un intervento chirurgico in un intervallo di tempo molto breve.
Racconta che l'amico è sempre stato uno che apparentemente affrontava le sue difficoltà in modo coraggioso.
Una volta invece venne chiamato dai suoi familiari affinchè desse all'amico un appoggio "morale", perché questi era caduto in una specie di depressione, con intense crisi di pianto.
Rispose alla chiamata della famiglia e rimase a tentare, insieme con loro, di confortare il malato, ma percepì che poco poteva fare, infatti l'amico continuava ad essere afflitto, malgrado gli sforzi che faceva per mostrare al mio cliente di "stare meglio".
Quest'ultimo si risentì che l'amico si comportasse in modo più riservato di quello abituale.
Considerai con il mio cliente che mi pareva naturale che di fronte a tanti infortuni il suo amico potesse soffrire una depressione o sentirsi scoraggiato e che questa era una situazione normale.
Dall'altra parte c'è l'idea che essere triste o scoraggiato equivarrebbe a una malattia e comporterebbe che lui e i familiari dell'amico si sforzassero per curarlo, cambiando il suo stato d'animo.
Dopo aver riflettuto dissi al mio cliente che era possibile che l'amico si mostrasse più riservato con lui perché gli sarebbe stato molto penoso, oltre che soffrire il suo avvilimento e il suo dolore, aver bisogno di mostrare a quelli che lo circondavano uno stato di apparente miglioramento. Infatti vedeva l'angoscia e la pressione di chi gli stava attorno affinché mostrasse di stare meglio o di essere guarito.
Questa conversazione era associata alle aspettative del mio paziente che io lo "curassi" da sentimenti che considerava molto penosi e che, a mio vedere, parevano essere abbastanza naturali date certe circostanze della sua vita in quel momento ( seri problemi familiari).
Gli faccio anche capire che considererei qualunque tentativo mio di curarlo dai sentimenti penosi di cui soffriva, come un tentativo di mutilazione, infatti quella condizione era naturale e normale, dato il contesto in cui lui stesso stava vivendo situazioni abbastanza dolorose in cui era quindi normale sentirsi addolorati o afflitti.


II

In un altro esempio, un'altra persona che ascoltai (in seduta) fu colpita da una gravissima malattia che l'avrebbe portata alla morte nel giro di molto poco tempo. Al momento della scoperta rimase sconfortata e afflitta.
Mi diceva che tutta la sua famiglia si sforzava perché lei si mostrasse forte e combattiva davanti alla minaccia. La rimproveravano quando si mostrava abbattuta e angosciata.
Considerando la serietà della minaccia e la gravità del contesto esposto, pensai che sarebbe stato sorprendente se lei si fosse mostrata in altro modo, infatti lo shock era realmente enorme (io stesso, pur non essendo colui che era malato, provai una forte emozione quando fui informato della cosa e rimasi abbastanza scosso, successivamente,alla notizia della sua scomparsa).
Non mi spettava di essere un altro che tentava di tirarle su il morale, ma, al contrario, di essere qualcuno che la aiutasse ad accogliere il suo dolore e la sua depressione - accettandoli.


III

In un altro episodio mi ricordo di una giovane madre che si torturava perché non dava al suo bambino l'attenzione che secondo lei avrebbe dovuto essere in grado di offrirgli. La sua aspettativa era quella di non detestare mai o mal sopportare i doveri che aveva nei confronti di suo figlio.
Mi preoccupavo che la paziente si aspettasse da me qualche tipo di rimprovero per il fatto che lei non era capace di tutta la disponibilità e tolleranza nei confronti del figlio, che riteneva di dover avere.
Io, l'analista, certamente avrei avuto le capacità di cui lei si pensava sprovvista e avrei avuto un naturale diritto a disprezzarla per i suoi limiti.
Dall'altra parte, avrebbe sperato che il contatto con me l'avrebbe dotata dei mezzi necessari per diventare onnipotente e onnisciente, come io stesso sarei stato, nella sua idealizzazione.
Ragionai con lei sul fatto che era utile e vantaggioso che una madre potesse avere condizioni emozionali sufficienti ad evitare che la vita del bambino fosse più angosciosa di quella che già è naturalmente. Nonostante questo parametro, ciò non può essere un obbligo morale, infatti ogni madre può offrire a suo figlio ciò di cui dispone.
Considero come un problema quelle campagne sull'allattamento al seno che possano classificarsi come imposizioni morali e obblighi a questo tipo di allattamento.
Per molte donne questo compito può essere estremamente angosciante a tal punto che il risultato può essere molto più sfavorevole che se l'allattamento viene fatto con il biberon. L'angoscia provata dalle mamme, qualora non fosse rispettata, potrebbe portare maggiori danni psichici a loro e di conseguenza ai loro bambini.
Dissi alla paziente che poteva essere anche utile al suo bambino verificare che lei era una donna come tutte e le dissi di accettare i sentimenti di odio, irritazione, esaurimento e limitazione- e che viverli senza volerli estirpare poteva essere un' attitudine più sana di quella di forzarsi a mostrarsi disponibili quando realmente non lo si era.
Il modello di funzionamento mentale che sarebbe "assimilabile" dal bambino, nel caso in cui lei vivesse nell'obbligo morale di essere un petto inesauribile, sarebbe quello di un' esigenza sovra-umana (un super-ego esigente e senza considerazione dell'esperienza).

Mi sembra chiaro che quando lavoro parto dal presupposto che esiste la mente, o una personalità, o l'anima ( tentativi di nominare uno stesso fatto apprensibile, nonostante non lo sia sensorialmente) e che questa ha bisogno di essere rispettata.


IV

Il cliente, un uomo giovane, si irrita profondamente quando gli mostro la necessità di rattristarsi, di deprimersi, dal momento che considero che questi vissuti emozionali con i quali si rifiuta di entrare in contatto sarebbero fondamentali perché potesse dare senso a diverse sue esperienze, soprattutto quelle che vedo accadere in consultorio con me o davanti ai miei occhi.
L'affermazione precedente può apparire sorprendente, shockante o assurda, soprattutto se l'obiettivo del lavoro è psichiatrico o medico. Ho tentato, nonostante questo, di mettere in chiaro come sono arrivato a formulare tale affermazione.
Per cominciare, premetto che i modi in cui il paziente mi trattava nel consultorio erano quasi sempre aggressivi e di soliti mancanti di cortesia ed educazione. Molte volte i suoi modi erano francamente stupidi. Cercai, con tutta la mia pazienza, di mostrargli la bruschezza del suo comportamento. Lui non riusciva a riconoscere che ci fosse qualche forma di aggressività nelle sue maniere. A suo vedere, mi trattava nel modo più normale che potesse esserci. Tentai di dirgli che quello che lui pensava perfettamente normale potesse non essere percepito così dagli altri, a cominciare da me. Gli dissi, innumerevoli volte, che stavo tentando di aiutarlo a percepire qualcosa di importante quando gli raccontavo cosa faceva con me, e che era qualcosa che causava considerevole sconforto e malessere. Gli feci presente che fuori dal mio consultorio, difficilmente ci sarebbe stato qualcuno in grado di sperimentare quello che io sperimentavo con lui e di dirgli quello che stava succedendo, affinché lui potesse verificare quali fossero le sue personali responsabilità che lo portavano a vivere difficoltà e privazioni.
Nella sua vita di relazione, agendo nello stesso modo in cui agiva con me, e certamente non poteva essere in un modo con me e in un altro fuori, le persone dovevano reagire in modo irritato o proprio aggressivo, cosa che, secondo la mia esperienza, anche lui faceva con loro.
Non solo lui non ammetteva la possibilità di quello che gli stavo dicendo, come anche diceva che io gli parlavo così solo per causargli dolore. Cercai di parlargli in tutti i modi in cui mi era possibile, e cercai di mostrargli che era più tollerabile, per lui, pensare che io fossi l'ennesima persona che tentava di rendere la sua vita un inferno, nello stesso modo in cui era convinto che questo fosse ciò che gli facevano tutti coloro che gli stavano intorno, piuttosto che prendere in considerazione la sua responsabilità per i danni che lui stesso stava causando ai propri interessi.
Se lui avesse percepito ciò che stavo cercando di mostrargli, sarebbe rimasto triste, si sarebbe depresso, ma in un modo diverso da quel deprimersi a cui era abituato, sarebbe stato tale e quale a un bambino che si dispera nel vedere tutti i suoi giocattoli rotti e che, improvvisamente, percepisce che è stato lui stesso a romperli e che continua a farlo.
Sarebbe triste riconoscere questo, nonostante ciò, sarebbe l'unico modo con il quale questo comportamento potrebbe smettere di protrarsi.
Soltanto il dolore della tristezza dovuta al riconoscimento della propria responsabilità nel produrre danni avrebbe potuto portarlo a riconsiderare i suoi modi e, eventualmente, se avesse giudicato in questo modo, a riorientare la sua condotta.
Quest' uomo si lamentava profondamente del fatto che non gli fossero attribuite mansioni di responsabilità nel suo lavoro e anche che non fosse preso sul serio per le mansioni a cui aspirava.
Tentai di evidenziare, conformemente all'esperienza che avevo avuto con lui, che mi sembrava realmente poco probabile che gli fossero attribuite mansioni più serie, dal momento che lui si rifiutava di considerare, e conseguentemente, di assumere qualunque responsabilità che gli fosse attribuita.
Per esempio: da quando cominciammo il lavoro gli avevo affidato la chiave del mio studio perché potesse entrare e uscire senza dovermi disturbare nelle mie sedute e senza dover restare in attesa dell'uscita del paziente precedente.
Tuttavia, rarissime furono le volte in cui si ricordò di venire con la chiave, e quando arrivava, suonava al citofono. Mi diceva, in modo brusco e sprezzante, che non voleva saperne di custodire una chiave e di ricordarsi di dove la metteva.
La sua attitudine rivelerebbe il fatto che non prendeva in nessuna considerazione il riconoscimento della mia esitenza reale. Io ero appena "qualcosa", una cosa, che esisteva per ascoltarlo e per soddisfare la sue volontà. Quando io gli aprivo la porta, lui entrava come un principe perché non c'era niente di più naturale che un lacchè che svolgesse questa funzione.
Entrava e si sdraiava sul divano e rimaneva senza dire nulla, aspettando che io facessi qualcosa perché la sua situazione mutasse.
Quando parlava, generalmente irritato per il fatto di dover fare questo sforzo, si lamentava anche dei suoi colleghi e familiari, aspettandosi che io facessi qualcosa in relazione a loro o al mondo e che, come avessi la bacchetta magica, gli dessi tutti gli onori e i riconoscimenti che lui pensava di meritare.
Quando cercai di parlare dei modi che egli aveva nei miei confronti, ricevetti da parte sua manifestazioni di aggressività e violenza verbale. Cercai di richiamare la sua attenzione su questi fatti, a cominciare dal suo modo di comportarsi con me a quello che faceva con la chiave e alla sua reazione quando gli proponevo di riflettere sul modo di trattare una proposta di lavoro che gli facevo, cioè di pensare alle mie osservazioni e proposte di chiarimento. Lui reagiva con maggiore furia, non percependo ciò che queste situazioni avevano a che vedere con le sue difficoltà sul lavoro e nel suo sviluppo personale.
Gli dissi che si lamentava del fatto che non gli attribuissero incarichi di responsabilità al lavoro, ma che io vedevo che, avendogli dato una responsabilità come quella di custodire una chiave, lui si rifiutava di assumersela. Egli ribatteva con violenza dicendo che non vedeva nessuna relazione tra quello che gli dicevo e i suoi problemi sul lavoro, di screditamento da parte dei suoi colleghi.
Cercai di richiamare la sua attenzione sulla situazione presente in cui io gli proponevo di riflettere sul problema della chiave, ossia, gli stavo proponendo un compito, un lavoro, che era quello di rimeditare questo episodio, e senza neanche un istante di riflessione, lui già lo aveva rifiutato, si era esentato non tollerando e screditando il lavoro che gli era stato proposto. Richiamai la sua attenzione sul parallelo che c'era tra le situazioni da lui raccontate e le situazioni avvenute nel consultorio. Cercai di chiarire che se lui era una persona che rifiutava di assumersi la responsabilità di occuparsi di una chiave, che si da a un giovane quando è diventato più adulto, la chiave di casa, perchè inizi a considerare che ha sufficiente responsabilità per occuparsene, sarebbe stato difficile per i suoi colleghi o superiori doversi attenere a questo suo comportamento e dargli incarichi che richiedono responsabilità e disponibilità alla riflessione e al lavoro.
Il paziente ribattè che io non gli dicevo cosa fare, non gli dicevo come risolvere i suoi problemi e che non aveva appreso nulla da me.
Gli dissi che effettivamente non gli dicevo come risolvere i suoi problemi, che io cercavo di mostrargli quali erano perché potesse rifletterci sopra.
Intanto, quando gli proposi questo, lui reclamò che non gli dicevo cosa fare, come risolvere i problemi che pensava essere quelli reali della sua vita fuori dal consultorio.
Di nuovo tentai di fare un parallelo mostrando che lui reclamava che gli fossero imposti solo compiti senza importanza e senza rilevanza.
Gli dissi che ritenevo che questo doveva essere davvero così, dal momento che lui era una persona che non si disponeva a riflettere sui problemi che gli erano stati proposti, e che voleva solo che gli si dicesse come si doveva procedere, come uno che poteva solo essere diretto da altri.
Nessuno gli avrebbe affidato incarichi che potessero richiedere un'analisi immediata e che esigessero la disponibilità a risolvere in tempo il compito dato, senza che ci fosse qualcun altro a dirgli cosa fare.
In un primo momento il paziente addirittura riconobbe quello che gli proponevo, e disse che era vero ciò che aveva ascoltato, che verificava quello che gli stavo dicendo, ma in seguito, ci fu un voltafaccia ed egli disse di non sapere a cosa serviva tutta quella conversazione; che non riusciva a capire ciò che io pretendevo, che non vedeva nessun senso in ciò che gli dicevo.(1)
Commentai con lui che l'unica possibilità che aveva per arrivare a cogliere il senso di quanto gli proponevo di considerare, sarebbe stata quella di tollerare l'esperienza della tristezza e della depressione per quello che percepiva, in caso contrario non avrebbe potuto vedere ciò che gli mostravo. (2)
Egli reagì con violenza dicendo che tutti quanti sapevano che la tristezza e la depressione non servivano a niente, che nessuno voleva vivere questi stati e che addirittura ci sono alcune medicine che sono fatte proprio perché non si vivano tali sentimenti che non servono a niente.
Considerando ciò che lui pensava, gli chiesi cosa gli impediva di prendere le suddette medicine.
Egli reagì con fastidio dicendo che non credeva nelle medicine.(3) Proseguì dicendo che già era depresso, che già viveva sentendosi depresso e triste, e questo non serviva a niente.
Gli dissi anch'io che era depresso e triste, ma non della depressione e tristezza che io consideravo utile che egli vivesse.
La depressione e la tristezza che io pensavo fosse necessario che egli sperimentasse si sarebbero presentate appena avesse verificato la sua responsabilità in ciò che gli accadeva, in quanto, quelle cose di cui egli si lamentava, passavano per una sensazione di impasse e mancanza di speranza che erano associate al suo modo di comportarsi che realmente bloccava ogni possibilità. Egli percepiva solo, in modo schiacciante, la mancanza di prospettiva, di speranza - non la sua responsabilità in questo contesto. (O forse aveva un concetto molto particolare di ciò che significa essere responsabile).
Egli viveva un tipo di depressione, che poteva andare verso un caso psichiatrico di depressione se non avesse sperimentato l'altro tipo.
Quando pareva, ancora una volta, che stesse entrando in contatto con quello che gli avevo dimostrato, lui ricominciava a reagire in modo brusco e tutto si annullava e il lavoro doveva essere ripreso dall'inizio, con una fatica di Sisifo da parte mia.
Da un punto di vista medico o degli altri possibili approcci psicoterapeutici, questa depressione di cui soffriva avrebbe avuto bisogno di essere attaccata, egli avrebbe avuto bisogno di essere liberato da essa. Dal mio punto di vista, essa è corrispondente ad una percezione realistica di mancanza di prospettiva e speranza.
Questa depressione, se considerata e rispettata, potrebbe portare la persona a pensare a ciò che gli succede.
Se la meta fosse quella di liberarsi da questa "malattia" sarebbe perso il culmine in cui questa diventerebbe indicativa di una situazione reale che va considerata e lavorata. Fu questo a mio avviso che permise a Freud ciò di cui nessuno dei suoi contemporanei fu capace. Invece di tentare di liberare il paziente da ciò che lo tormentava, egli si dispose a verificare, prima di ogni altra iniziativa, che senso questo avesse.
Voglio precisare che considero entrambi i tipi di depressione come normali: nessuno sarebbe patologico, poiché corrisponderebbe all'apprensione della situazione vissuta dall'analizzando.
Il secondo tipo, quello che il paziente già vive, implicherebbe una situazione in cui una persona si deprime perché si sente perseguitata, chiusa in uno stato mentale che effettivamente annichilisce ogni tipo di speranza possibile. Questo stato mentale porta il paziente a una condizione di blocco. La sofferenza vissuta è qualcosa di naturale. La ricerca, pura e semplice, di eliminare lo stato di sofferenza lo priverebbe dell'accesso a ciò che gli segnala che qualcosa non va bene, o meglio, che qualcosa di molto serio sta accadendo. Sarebbe equivalente a sedare, anestetizzare il paziente e pensare che in questo modo il suo male è finito, senza considerare che il dolore a un segnale che qualcosa si sta complicando sarebbe un modo normale e necessario perché egli possa prendere coscienza del suo stato e, nel caso in cui sia in condizioni di pensarlo, di trattare effettivamente il suo problema.
Per quanto concerne il paziente, la questione sarebbe quella dell'intolleranza al contatto con il dolore che gli impedisce di riconoscere e occuparsi di ciò di cui dovrebbe. Quanto più tenta di liberarsi dal sintomo, pensando che questo sia il problema, ancora più difficile diventa il riconoscere e l'avere a che fare con la reale sofferenza, in un circolo vizioso infernale.
Allo psicanalista spetterebbe mantenere l'obiettivo finale della psicanalisi, dal momento che la psicanalisi sarebbe l'unica opportunità per poter considerare i "motivi" del fenomeno. Il lavoro dello psicanalista non è quello di alleviare il paziente dalle sue difficoltà, ma di aiutarlo a sviluppare le sue capacità di pensarle, facendo si che, in ultima istanza, lo psicanalista divenga non indispensabile.
L'obiettivo psicanalitico che sto considerando e con il quale lavoro è quello che privilegia lo sconosciuto - che equivale e insieme amplia l'idea di Freud dell'Inconscio- che, nella sua essenza, è ciò che non si sa.


IV - Aspettativa di miglioramento e cura e alcune delle conseguenze

Uno dei problemi dell'avere un'aspettativa di miglioramento e cura del paziente è che quest'ultimo si vede portato a produrre il miglioramento e la cura desiderata dall'analista, con l'intuito di fargli piacere e di essere da lui accettato. Il paziente percepisce intuitivamente, anche se non lo sa, le aspettative di cura e miglioramento che ha l'analista e la sua soddisfazione quando ciò si presenta. Il paziente può diventare un esperto nel produrre cura e miglioramenti che piacciono e gratificano il suo analista.
In generale, questi miglioramenti si presentano come racconti di come la sua vita è migliorata fuori dal contesto analitico.
Ad esempio, dice che si è sposato, ha iniziato a trattare bene i figli, trovato un buon impiego, cominciato ad avere considerazione degli altri, smesso di essere egoista, non ha tradito più il marito o la moglie, e una serie di altri cambiamenti, in generale strettamente legati ai valori morali stabiliti.
Tutti i pazienti, per quanto psicotici possano essere (o al contrario proprio se psicotici) intuiscono e captano nelle profondità della mente dell'analista, quali sono i suoi valori e i suoi desideri e possono, al verificare le aspettative dell'analista, passare a produrre in larga scala quello che lui (l'analista) spera senza che neanche lui se ne accorga.
L'analisi dell'analista è anche cruciale perché l'analista possa conoscere intimamente i suoi valori e preconcetti, in modo da riconoscere le proprie aspettative e desideri, potendo allontanarli quando li percepisce, o allontanare i suoi desideri di vedere realizzate aspettative e valori che gli sono propri, ma che possono essere alieni al paziente.

L'analista che ingenuamente crede(2) nei racconti del paziente relativi a ciò che succede nella sua vita fuori dall'analisi e non resta attento a quello che realmente fa l'analizzando nel suo consultorio e nella relazione che stabilisce con lui, sarà coinvolto nelle produzioni dell'analizzando e crederà che le cose stiano procedendo molto bene e che ha un paziente molto impegnato e collaborativo.
Il paziente (anche se non lo sa o non lo percepisce) è anche impegnato a produrre quello che l'analista spera da lui, il che è molto diverso dallo stare sviluppando le proprie capacità mentali, che a sua volta, potrebbero portarlo ad assumere posizioni e valori che possono essere molto diversi da quelli dell'analista, ma che sarebbero genuinamente suoi.
In una recente situazione della mia pratica analitica ho osservato un paziente il quale, appena gli dicevo qualcosa, immediatamente si mobilitava per mostrarmi il suo accordo con quello che io gli proponevo.
Nella mia osservazione, tuttavia, verificavo che non c'era stato il tempo minimo sufficiente per "digerire" o verificare effettivamente le proposte che gli avevo fatto. E anche non verificavo realmente, nei suoi assensi, qualcosa che avesse relazione con ciò che gli avevo proposto di pensare. Era apparentemente la stessa cosa, ma non lo era di fatto. Molte volte i suoi movimenti erano per mostrarmi che era libero da certi preconcetti del gruppo di cui fa parte, perché pensava fosse questo ciò che io mi aspettavo da lui. Nonostante egli si sforzasse a mostrarsi emancipato dai supposti valori "arcaici" di quel gruppo, io lo percepivo sottomesso e aderente ai valori che attribuiva a me, con i quali mi confondeva e ai quali credeva che io speravo che lui aderisse. Penso che nel cercare di mostrarsi emancipato, rimaneva ugualmente sottomesso, cambiando soltanto la forma esterna di autorità. Se io non mi rendessi conto di questa situazione e assumessi il ruolo che mi era proposto, potrei diventare un'apparente non autorità molto autoritaria. Una maniera in cui si può vedere in modo più semplice come questo accada, che non era esattamente il caso in questione, si da quando l'analizzando cerca di mostrare che ha abbandonato l' "oscurantismo retrogrado e morale" di qualche religione in cui crede, per assumere una religiosa non religiosità che sarebbe più "moderna" e che pensa sia quella del suo analista.
Ciò che non si sviluppa, di fatto, è un vero discernimento da parte sua. L'analista "moderno e distaccato" può pensare che il suo analizzando si è evoluto da una situazione medievale a un'altra più progredita e libera, senza verificare che lo status quo mentale dell'analizzando non ha subito nessuna alterazione .
Con il paziente in questione ho avuto l'impressione ( che comunicai a lui) che lui ritenesse che tutte le risorse dalle quali dipendeva per sopravvivere stavano fuori da lui, in un determinato gruppo, o in qualche autorità esterna. Quasi come un neonato si disperava per essere adottato, perché io lo adottassi, e nonostante fosse un uomo maturo e, da quello che diceva, professionalmente ben affermato, credeva nel suo intimo che se non fosse stato assimilato, adottato, accettato da me o da qualche altro gruppo che fosse il reale possessore di tutte le risorse necessarie alla sopravvivenza, sarebbe morto di inedia. In questo modo, lì con me, si sforzava, anche senza realmente capire ciò che gli stavo dicendo, per mostrare che condivideva quelle che pensava fossero le mie idee e i miei valori.
Se fossero stati altri i valori, lui avrebbe fatto la stessa cosa, dal momento che la scelta delle idee esposte non aveva alcuna importanza se non quella di dimostrare che le idee dell'autorità di altri o di un gruppo sono ugualmente le sue e ciò aveva rilevanza poichè da questo dipendeva per lui, la sua accettazione, assimilazione da parte dell'autorità e da parte del/ dei gruppo/i, da cui dipenderebbe la sua immediata sopravvivenza.
Così come sarebbe per un neonato, egli si disperava per vedersi ed essere "importante" per me, per il suo gruppo, o per i suoi genitori. Un bebè realmente avrebbe bisogno di essere importante per i suoi genitori o per colui da cui dipende.(3)
Solamente dopo aver conversato molto e avergli mostrato questa situazione sotto diverse angolazioni, sembra che questa abbia avuto realmente un senso per lui e lo ha portato effettivamente a riflettere sul suo stato mentale e sulle conseguenze di questo.


V - Il Panico

Le sindromi del panico sono di moda, all'ordine del giorno. A mio vedere, tali quadri sono vecchie conoscenze degli psicanalisti; sono ciò che Freud chiamò isterie da angustia o fobie, con nuove vesti e nomenclature che danno l'impressione si tratti di una cosa nuova.
In ciò che dice rispetto alla pratica psicanalitica nell'approccio a queste situazioni, considero che nel mantenersi all'interno di uno schema di lavoro fedele al modello medico, si corre il pericolo di perdere il vertice psicanalitico e il differenziale a cui questo vertice può portare.
Mantenendosi l'obliquità medico curativa, gli attacchi di panico sono trattati come malattie che hanno bisogno di essere estirpate. Il panico è visto come qualcosa di anormale che non avrebbe luogo. C'è una con-fusione del sintomo con il problema proprio. Anche il sintomo è percepito come qualcosa di sbagliato che non dovrebbe esistere. Considero questo un problema serio, infatti, a mio vedere, il sintomo, anche da un punto di vista medico, sarebbe qualcosa di adeguato e certo, esso indica che sta avvenendo un problema e che la sua manifestazione può essere ciò che di più adeguato c'è nel vigere( concretizzarsi) del problema.
Non sto dicendo che la psicanalisi sia una panacea e che risolve ogni situazione. Non credo che persone che attraversano forti crisi di panico che le portano a uscire con difficoltà dalle loro case o dalle loro stanze possano prescindere da farmaci, o qualunque tipo di aiuto che permetta loro una mobilità. Ritengo però, che certi approcci siano palliativi.
Nella mia esperienza clinica ho incontrato diverse persone che manifestavano le famose "sindromi da panico" e che dichiaravano spesso, dopo essere state curate, che qualcosa metteva in un certo stato di sospensione quello che vivevano, ma che la propria cosa, anche se apparentemente spenta o in sospensione, poteva essere riattivata in qualunque momento. Sarebbero, fino ad un certo punto, appena sospese le reazioni che questa paura porterebbe ad avere.
Queste persone si lamentavano anche del fatto che i farmaci le lasciavano apatiche e senza forza o non in condizione di affrontare altre attività che avevano bisogno di intraprendere nella vita. Oltretutto, c'è il problema che dopo un certo tempo, il farmaco comincia a perdere l'effetto, ha bisogno di essere cambiato, le sue dosi diventano ogni volta più alte, portando ad altre conseguenze secondarie.
Ciò che ho verificato durante le mie sedute è che le persone che lamentano crisi di panico, in generale, hanno un modo di affrontare ciò che le angoscia che ha come risultato quello di vivere il panico, un panico con motivazioni reali.
Nella mia osservazione, nel contatto che hanno con me, ciò che vedo spesso in loro è un attitudine a partire dall'ignoranza (tanto nel senso di non sapere o avere qualche contatto con ciò che gli dispiace, come in quello delle reazione che tendono ad essere volgari e violente), fino ad arrivare a tutti i tentativi di metterli in contatto con quello che percepisco le angosci o smentire le loro aspettative di come le cose dovrebbero essere.
Una persone che, per non percepire ciò che non gli piace o che lo angoscia, copre gli occhi, chiude le orecchie e rompe il contatto con qualunque stimolo che lo informi su ciò che non vuole sapere, si trova in una situazione molto complicata.
Si può immaginarli ciechi, sordi, privi di tatto, olfatto o qualunque altra percezione che gli indichi ciò che starebbe succedendo in un ambiente- o ancora, nel caso in cui sia mantenuta la percezione degli stimoli, che ogni senso emozionale che questi stimoli possono smuovere sia attaccato, in modo da vedere gli stimoli ma da non riuscire più a dare un senso ad essi.
Considerando questa situazione credo che entrare nel panico è la reazione più naturale possibile. Il panico, in questo contesto, è una reazione sana! E' (ciò che restò del) buonsenso che la persona sta manifestando. Attaccarlo o voler privare la persona di questa reazione è attaccare ciò che è rimasto di sano e pertinente in lui.
Da altri punti di vista più ordinari, il panico sarebbe qualcosa di sbagliato e doloroso che avrebbe bisogno di essere estirpato. Dal punto di vista psicanalitico, che sto qui proponendo, è una manifestazione molto adeguata e che indicherebbe la necessità del paziente di rivedere i modi che utilizza per affrontare ciò che lo angoscia.
Partire dall'ignoranza, negare la realtà odiata, o negare i significati di quello che si percepisce, è stato probabilmente un primo rimedio, utilizzato in mancanza di altre possibilità. Negare la realtà quando ancora si dispone, anche se in modo precario, di adulti (genitori o responsabili) per affrontare i fatti della vita è un caso, negare i fatti quando già ci si trova in una situazione in cui è necessario affrontare da soli i fatti, è un'altra storia.
Ciò che può essere più o meno utile in una tappa della vita, per affrontare timori o scoraggiamenti, sentiti come insormontabili, o per lo meno indesiderabili, può in un'altra tappa, costituirsi in un pregiudizio.
Il lavoro dell'analista non sarebbe quello di indicare il panico come un problema da essere risolto. Al contrario, sarebbe quello di indicare che il panico è la reazione adeguata alle "soluzioni" date dai pazienti alle loro angosce. Essendo questo verificato dal paziente, l'analista, nella sua condizione presumibilmente più evoluta nello stare a contatto con angosce e sofferenze, potrebbe aiutare il paziente a sviluppare le sue capacità per convivere, accettare e assimilare situazioni di maggiore angoscia, sconforto e frustrazione che si trovano di fronte. La persona più evoluta emozionalmente non è quella che si è liberata da angosce e frustrazioni, ma è quella che tollera livelli ogni volta più alti di angosce e frustrazioni.
Soltanto questa condizione abilita la persona ad avere a che fare con le difficoltà della vita.
Quanto più qualcuno possa rifiutarsi o vedersi incapace di avere a che fare con i sentimenti mossi dalle avversità o dalle frustrazioni (che sono i fatti che sarebbero differenti dai nostri desideri), più sarà incapace ad affrontare le situazioni della vita reale. Quanto più questa persona (senza accorgersene) capita in questa situazione, tanto più tenderà ad entrare nel panico quando si troverà di fronte i fatti della vita che non può evitare, nello stesso modo in cui può reagire un neonato che non ha esperienza di vita, né risorse sviluppate per affrontare ciò che arriva.
All'analista non spetta risparmiare il paziente. E' del sottrarsi da ciò che considera frustrante e spiacevole che il paziente soffre. Da un altro lato, diventare capace di riconoscere le avversità e le frustrazioni non è una garanzia contro la depressione, la tristezza, o le esperienze di abbandono.
La reale evoluzione implicherebbe la possibilità di accettazione e assimilazione di queste esperienze in momenti di difficoltà, senza che tali sentimenti impediscano all'individuo di continuare a pensare e funzionare (e, eventualmente, percepire opportunità che gli siano favorevoli).

Non risparmiare il paziente non implica l'essere violento con l'analizzando o nel volergli imporre delle "verità", ma implica l aiutarlo a confrontarsi con i fatti con i quali ha sempre rifiutato di entrare a contatto e con tutto ciò che egli possa considerare inaccetabile, perché non conferme con le sue aspettative e desideri. Affinché ciò sia possibile, lo stesso analista deve essere qualcuno in grado di tollerare angoscie e avversità, cominciando da quelle che emergono nella sua stessa pratica clinica.
L'analista non ha bisogno di presentarsi come un eroe o un super-uomo, ma deve essere qualcuno che al presentarsi di situazioni dolorose e difficili, possa accettarsi nella sua sofferenza e continuare a rispettarsi anche di fronte alla sua ignoranza e insufficienza, aspettando, in uno stato di fede (conforme alla definizione di Bion in " Attention and Interpretation" (6)) , l 'arrivo di una evoluzione.


VI - La questione della verità e dell'onestà

Freud già diceva, sin dall'inizio, che la psicanalisi è inseparabile dalla verità e dall'amore per la verità. Bion (1970) aggiunse scrivendo che la verità è inseparabile dalla salute mentale e è indispensabile perché ci sia la salute mentale.
Penso che questo sia il fattore limitante per la pratica e il beneficio che possa venire da una psicanalisi. L'analizzando ha bisogno di avere un minimo di interesse nella verità affinché questo lavoro possa compiersi. Quanto all'analista, perché possa praticare la psicanalisi, e non qualunque altro tipo di psicoterapia supportiva, avrà bisogno di avere come vertice la verità e l'onestà con il paziente, visto che sarebbe la mancanza di verità psichica che porterebbe il paziente in una condizione di penuria che lo porta a chiedere aiuto.
Molte volte sento pareri che vogliono che non si debba dire questo o quello a un paziente, poiché non li sopporterebbe.
In primo luogo voglio dire che ritengo sia una grande presunzione che io pensi e decida ciò che una persona sopporterà di ascoltare e sentire.
Questo tipo di problematica risulta più chiaro quando pensiamo a situazioni di adozione in cui i genitori pensano di non poter dire ai figli che sono adottati.
Tutte le persone che lavorano nella nostra area sono già stanche di sapere come questa decisione finisce con il portare considerevoli complicazioni nella mente di questi bambini adottati. In una qualche forma loro sanno che qualcosa gli sta venendo nascosta, che qualcosa non sta venendo detto, che c'è una menzogna nell'aria, menzogna che, come ha sottolineato bion, è veleno per la mente(7).
Per lo più, quello che non è detto, che sarebbe un fatto della vita, l'adozione in questo caso, passa ad essere concepito, tanto da chi non dice, tanto per chi rimane senza accesso alla verità, come qualcosa di realmente terribile, orrida, e per questo avrebbe bisogno di essere nascosta.
Un fatto reale passa ad essere uno stigma, una cosa che capita passa ad equivalere a una macchia, un nodo della personalità del bambino, destcco che non sarebbe un nodo nella personalità, ma un occultamento, l''adozione sarebbe vissuta come un nodo della sua personalità, tanto dai genitori che dal bambino stesso.
Ricordo che nella tragedia di Edipo il suo dramma si svolge a partire da una verità che gli è occultata e dalla quale è stato risparmiato dai genitori adottivi.
Nello stesso modo, ritengo che tutto ciò che uno psicanalista percepisca e che occulti al suo paziente, perché ritiene che non sia in grado di sopportare, percepire, finirebbe a creare una situazione simile a quella dell'adozione che ho appena finito di menzionare.
Il paziente in una qualche forma che qualcosa che l'analista sa non gli viene detta. Ciò che inizialmente sarebbe fatto dall'analista per risparmiare il suo paziente finirebbe con il stressarlo ancora di più, aumentando la sua persecuzione, infatti egli intuisce che qualcosa gli sta venendo nascosto, che la conversazione non è totalmente sincera.
Da un altro lato, la parola franca dell'analista può, a prima vista, sembrare una brutalità, ma invece, quando il paziente verifica che l'analista è onesto con lui, e che non gli nasconde nulla, passa, secondo la mia esperienza, a sentirsi più a suo agio e tranquillizato, per aver verificato che non ha "scheletri nell'armadio".
Nel constatare che la conversazione è realmente sincera, egli andrebbe a percepire che è veramente rispettato nella sua integrità, non è percepito come uno stupido incapace, per non dire altro.
Presupporre a priori che l'analizzando non sia capace di entrare a contatto con i fatti, sarebbe prenderlo poco in considerazione. Ad essere sincero, anche l'analista mostrerebbe la credenza che il paziente possa affrontare i suoi problemi in modo diverso da quello che fa, tutte le neurosi o psicosi sono, in ultima istanza, distorsioni o negazioni della realtà vista come intollerabile o inaccettabile.
Se l'analista considera che il paziente è realmente una persona senza risorse, sarebbe il caso di prenderlo in analisi? Penso che la psicanalisi non crei risorse in chi non le ha, può solo sviluppare le capacità esistenti ma ancora non sviluppate.

Situazione simile può essere vista nella relazione tra medici e pazienti affetti da malattie gravi. Considero disastroso e irrispettoso che il medico e i familiari decidano di poter occultare al paziente quello con il quale pensano che il paziente non potrebbe sopportare di entrare a contatto.
E' a mio avviso un affronto al diritto e all'autonomia del paziente. In qualche modo, in tali circostanze, la realtà finisce con l'imporsi.
Quando ciò avviene, può darsi che la persona che è stata illusa, ad esempio nel caso di una malattia mortale, si senta danneggiata per non aver avuto l'opportunità di decidere per se stessa, ciò che le sarebbe piaciuto fare degli ultimi mesi, giorni o ore della sua esistenza. Quando finalmente la realtà occultata si impone, può non esserci più nulla da fare.
Il Dr. Josè Longman (8) era solito dire che l'analisi non è per chi fa sconti, non è per chi vuole essere risparmiato.
Non ci sarebbe sviluppo possibile per chi vuole facilità e vuole essere risparmiato. Perché ci sia una crescita l'individuo ha bisogno di usare le risorse di cui dispone; se queste non saranno usate, non si svilupperanno.
Freud e Klein non risparmiarono i propri pazienti da quello che consideravano vero. Le ripercussioni sofferte furono considerevoli.
Penso che di solito ci si dimentica quando qualcuno dice: " Come si può dire questo a un paziente? Lui non lo sosterrà!", ciò che Freud (9) e Klein(10), ad esempio, osarono dire ai loro pazienti e ai loro contemporanei della pratica scientifica. In piena età vittoriana, Freud fu capace di parlare alle dame e alle signore puritane, e a signore dalle più rigide riserve morali, dei loro desideri di uccidere il padre (o la madre) e di dormire con il genitore del sesso opposto, quando non era quello dello stesso sesso. Penso che oggi si sia dimenticata la portata dell'impatto che tutto ciò dovette avere all'epoca di Freud, di come questo scioccò e inorridì coloro che lo asoltarono, tanto i pazienti quanto i colleghi. Non per questo egli smise di dire ciò che pensava, infatti, come ho sottolineato poco dall'inizio, Freud non distingueva la psicanalisi dalla ricerca della verità (conosci te stesso!).
Riusciamo a ricordarci quale fu il primo impatto delle nostre letture della Klein? Ricordiamo che ciò che lei scrive è ciò che disse ai suoi pazienti? Non sto difendendo discorsi rudi, c'è modo e modo di parlare a una persona. Non dobbiamo dimenticare che la persona con cui stiamo parlando sta soffrendo. ***
E' anche necessario trovare un modo di parlare tale che chi ascolta sia in grado di comprendere ciò che diciamo. Non si può parlare ad una persona molto concreta in una forma molto metaforica o astratta( d'altra parte se la persona fosse eccessivamente concreta o poco intelligente, una analisi potrebbe non essere fattibile).
E' necessario trovare il "language of achivement" (11), come dice Bion, il linguaggio del successo e del risultato, come si potrebbe tradurre nella nostra lingua.
Penso che possiamo aspettare di dire qualcosa al paziente se riteniamo di non aver trovato una maniera chiara e evidente di esprimere ciò che desideriamo comunicare, o se verifichiamo che il nostro giudizio possa essere compromesso da nostri coinvolgimenti emotivi o contaminato da un certo tipo di preconcetti. Ciò che diciamo inoltre non può essere accusa di ordine morale o religioso. Penso che ci spetti presentare i fatti in modo tale che i pazienti possano riflettere e non accuse di condotte inadeguate (in fin dei conti, chi può decidere di questo, se non le presunte autorità morali?). Penso che Freud nel parlare ai suoi pazienti della condizione edipica non li stava accusando, stava solo offrendo elementi non percepiti o pensati dai pazienti affinché loro, quelli che arrivavano a prenderne coscienza, potessero pensarli, elaborali. Inoltre elaborare non implica che si debba indirizzarsi su un certo tipo di condotta, comportamento o funzionamento, che sarebbe adeguato, o ipoteticamente confacente a una stabilita normalità.
Il risultato dell'elaborazione dovrebbe essere un incognita per l'analista (così come per l'analizzato) e non dovrebbe esserci "a priori" , infatti, ciò che faremmo, se si sapesse ciò che deve risultare, non sarebbe più psicanalisi, ma un altro tipo di attività psicoterapeutica, medica, pedagogica o preparazione morale e religiosa.
Non considero essere un problema che una persona riceva catechesi o orientamento pedagogico , o stesso una psicoterapia con caratteristiche pedagogiche, se fosse ciò che sta cercando o fosse questo ciò che realmente desidera avere. Sono approcci che permettono che molte persone si organizzino e funzionino in qualche modo nelle loro vite, posso essere inoltre molto utili per chi le cerca. All'analista spetterebbe chiarire l suo cliente, il più rapidamente possibile, la differenza tra questi approcci e ciò a cui mira la psicanalisi; l'autonomia del paziente, per mezzo dello sviluppo della sua capacità di pensare, che sarebbe possibile solo se il punto focale fosse nell'ignoto della sua realtà psichica. Questo dovrebbe essere fatto nell'attuazione della propria pratica da parte dell'analista, in modo tale da lasciar chiaro il suo vertice e ciò che privilegia.
Spetta all'analizzando decidere se gli interessa o no a quello che l'analista gli propone, anche quando si tratta di bambini, come ha ben sottolineato Bion (12)All'analista spetterebbe offrire a chi lo chiede ciò che sarebbe peculiare alla psicanalisi e che non incontrerebbe in nessun altro luogo. Se l'analista facesse qualcosa di diverso dalla psicanalisi, potrebbe privare chi a lui si è rivolto, da ciò che si propone, e che, nella pratica, non riterrebbe realmente avere alcuna utilità.
Il sollievo che potrebbe derivare da una psicanalisi, ma che non dovrebbe essere la meta da lei cercata (il sollievo), verrebbe con lo sviluppo della capacità di pensare da parte del paziente che lo abiliterebbe a vedere le questioni della vita dal punto di vista di chi si sente in impasse e che si trova a fronteggiarle a partire da differenti angoli di osservazione, questo lo doterebbe di un discernimento proprio, possibilità di scelta e autonomia.
Lo sviluppo della capacità di pensare si svilupperebbe a partire dalla contrapposizione tra le convinzioni che l'analizzando ha di come sono le cose e quello percepito dall'analista a partire dal punto in cui si trova dal quale potrebbe vedere ciò che l'analizzando non può dal punto che occupa. L'analista può contrastare l'angolo di percezione dell'analizzando con il suo, mostrando ciò che percepisce della situazione che condivide con l'analizzando che quest' ultimo non percepisce. Se l'analizzando sopporta questo contrasto, potrà verificare che c'è più di un punto nell'universo da dove potrà guardare alla questione che lo affligge e , eventualmente, percepire alternative a quello che vive come empasse considerando l'esistenza di diverse prospettive in grado di cambiare completamente la configurazione di ciò che vedeva inizialmente.
Nel vertice pedagogico, c'è il permanere di una idea di autorità, quindi di un unico punto di vista considerato, mentre nel vertice didattico, che sarebbe quello di tutta la psicanalisi, non solo delle così dette analisi didattiche, sarebbe possibile lo sviluppo della nozione di autorità ( e responsabilità) del proprio analizzando.
Per non essere autoritario e brutale, ma allo stesso tempo sincero, l'analista ha bisogno di essere capace di compassione e un modo per rendere questo possibile è attraverso la sua propria analisi, se questa sarà proficua e profonda, difficilmente egli sarà capace di scagliare la prima pietra percependo ciò che di umano c'è nell'altro.
In ogni caso, il fatto che l'analista sia capace di compassione e che cerchi un linguaggio che possa essere accessibile e rispettoso nei confronti del suo paziente, senza però privarlo della verità, non garantisce che abbia successo nel suo tentativo di comunicazione. L'interesse e la considerazione per la verità non possono essere soltanto suoi, c'è bisogno che ciò ci sia anche nel paziente. Affinché l'analista possa essere ascoltato, c'è bisogno che egli incontri, in qualche luogo, un interlocutore nel suo cliente che sia disposto ad ascoltarlo e che riconosca l'importanza dell'onestà. (14)
Vale la pena sottolineare che Bion chiamò l'attenzione sulla questione della dogmatizzazione delle teorie psicanalitiche e anche sull'intuizione di far diventare la psicanalisi e gli psicanalisti rispettabili, autorità conformi a un "establishment".
Egli, a sua volta, proseguì il suo lavoro investigativo al di là di quello che era considerevolmente accettabile e stabilito, e finì con l'essere considerato pazzo da molti dei suoi stessi colleghi. Psicanalisi non serve per produrre cittadini rispettabili. Se l'analisi serve ad aiutare una persona a incontrarsi con se stessa, non deve esserci "a priori" di come questo debba essere e, ancor meno, di come debba venire a pensare e funzionare in conformità con qualche valore pre-stabilito.
Il rispetto per l'autonomia del paziente deve tenere in conto gli svincolamenti e i percorsi che egli può voler dare alla sua vita, non importa quali siano. Come dice giustamente Bion, se un soggetto è per natura un ladro, la psicanalisi lo aiuterà a diventare un miglior ladro.
Ritengo che l'unica possibilità che una persona ha di avere accesso a un certo grado di felicità nella vita è quella di potersi sentire sufficientemente autonoma, libera da autorità di qualsiasi sorte (compresa quella dell'analista), per vivere in conformità con le sue proprie attitudini, valori, desideri. L'analisi può permettere che una persona verifichi quali realmente essi siano, durante il percorso dell'esperienza analitica. Questo non deve essere qualcosa che si sappia in anticipo, in caso contrario, come già detto prima, staremmo facendo un certo tipo di indottrinamento ( e conseguentemente, una violenza contro l'autonomia del paziente) e non psicanalisi. Il rispetto principale di cui una persona necessità, è quello della persona verso se stessa. Questo auto-rispetto è ciò che, a mio vedere, avrebbe permesso a un Freud, una Klein e un Bion, di restare fedeli a se stessi nonostante venissero considerati come "outsider" dagli stessi gruppi dei quali facevano parte. Freud trattato come una aberrazione per aver richiamato l'attenzione sull'Edipo e sulla sessualità infantile, tutto questo poteva essere frutto solo di una mente malata(14).
Se la sua preoccupazione fondamentale fosse stata quella di essere un rispettabile cittadino, innanzitutto, avrebbe fatto come Breuer, e si sarebbe sottomesso all'"Establishment", così come sarebbe stato "normale" aspettarsi.
Tuttavia, ritengo che l'unico modo possibile attraverso cui una persona sviluppi reale considerazione degli altri, un etica propria e onesta, come quella che difendeva Socrate, secondo Confort(15), in contrapposizione con i valori imposti dall'esterno , è che essa abbia reale considerazione di se stessa, della sua autonomia e scelte, qualunque esse siano.
Freud e la psicanalisi furono realmente rispettate solo perché egli ebbe reale considerazione di se stesso e dei suoi pensiero, nonostante fossero, non solo in quell'epoca ma ancora oggi, percepiti come devianti, perturbati e perturbanti.
Metto in evidenza inoltre il problema del desiderio della psicanalisi di diventare piacevole, rispettabile, normatizzante e nella norma. Insieme a questi primi tre fattori ci sarebbe l'interesse a farla essere commercialmente redditizia, un bene di consumo di massa. Questa congiuntura, nel caso prevalesse, la porterebbe sulla strada dell'annichilimento, così come avviene a tutto ciò che è un bene di consumo di massa. Come sottolineò Hanna Arendt(16), ciò che è prodotto per un consumo di massa è subito consumato e scartato, perché non ha maggiore consistenza e funzione , al di là di un intrattenimento passeggero e leggero.


Riferimenti bibliografici

Arendt, H. A Crise na Cultura:sua importância social e política.In Entre o Passado e o Futuro./São Paulo, Ed. Perspectiva, 2000.

Bion, W.R. (1963) Elements of Psycho-Analysis. In Seven Servants:Four Works by Wilfred R. Bion. New York, Jason Aronson, 1977.

Bion, W. R. (1970) Attention and Interpretation. In: Seven
Servants: Four Works by Wilfred R. Bion. New York, Jason Aronson, 1977.

Bion, W.R. (1978?) Supervisão 19**. Transcrita por José Américo
Junqueira de Mattos, da SBPSP.

Bion, W.R. (1992) Cogitations, London, Karnac Books, 1992.

Cornford, F. M. (1932) Antes de depois de Sócrates. São Paulo,
Martins
Fontes, 2001.

Freud, S. Complete Works, Standard.Edition. Londres, The Hogarth
Press, 1978

Jones, E.(1961), Vida e Obra de Sigmund Freud, Rio de Janeiro, Zahar
Ed., 1975.

Klein, M. ,The Writings of Melanie Klein, vols. I, II, III, IV.
Londres, The Hogarth Press, 1975


Claudio Castelo Filho
/Rua Carlos Sampaio, 304, conj. 72/
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Claudio Castelo Figlio è analista didatta alla SBPSP ( Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo), Mestre in psicologia clinica alla PUC-SP (Pontifícia Universidade Católica de São Paulo), Dottore in psicologia sociale alla USP (Universidade de São Paulo) e libero docente in psicologia clinica alla USP.


Traduzione dal portoghese di Mara Gentile

Note:
1) Cfr. Bion, 1963, sul funzionamento in K e anche in Klein, in cui la recrudescenza della posizione schizo-paranoide si da per evitare i dolori e i rimorsi della condizione depressiva.
2) So che questa è una situazione paradossale. Il paziente avrebbe bisogno di tollerare ciò che non sopporta per poter verificare qualcosa di rilevante. In tutto ciò, la presenza dell'analista potrebbe aiutarlo a considerare la possibilità di rivedere le sue credenze rispetto a ciò che è o non è intollerabile. Qualcosa che non è sopportabile nella tenera infanzia può esserlo nella vita adulta, o qualcosa che può essere stato insopportabile da avvicinare nel suo ambito familiare, per sua madre o per suo padre, può essere possibile con me. In qualche modo, c'è un punto che dipende solo dal paziente, che sarebbe la sua decisione di avventurarsi in un terreno che non gli è familiare. Questa è una situazione che solo l'analizzando può decidere e assumere, non importa quanto il suo analista possa pensare che gli sia utile. Se l'analizzando non si disponesse a tale passo, non ci sarebbe nulla che l'analista potesse fare. Per quello che si può dire rispetto al caso su menzionato, l'intolleranza al riconoscimento di un forte sentimento di invidia sarebbe anche un fattore importante nella produzione del quadro osservato.
3) Qui si può verificare che non importa quale approccio io abbia, sarei sempre "sbagliato", anche con il pregiudizio della propria coerenza del paziente, infatti egli afferma una cosa e in seguito il suo contrario, chiudendo la sua mente, trascinandola. Queste rotture mentali effettuate per evitare la depressione ( nel senso di Klein) starebbero alla radice del suo abbrutimento e della sua stupidità.
2) Vedere Bion, 1970, p. 102
3) Bion, 1992, p. 122
6) Bion 1970.
7) Bion 1970, cap. 11
8) Analista didatta della SBPSP, morto all'inizio degli anni '90.
9) Freud, S. Complete Works., Standar Ediction, Londres, The Hogarth Press, 1978.
10) The writings of Melanie Klein, Vol. I, II, III, IV, Londres, The Hogarth Press, 1975.
11) Bion, 1970, p.125
12) Supervisão 19 **
14) Supervisão 19 **, op.cit.
14) Ver Jones, E. , 1961, pp.278-279
15) Conford, F. M. (1932) Antes de deposi de Sòcrates. São Paulo, Martins Fontes, 2001.
16) Arendt, H., A crise na Cultura: sua importância social e politica. In: Entre o passado e o futuro. São Paulo, Ed. Perspectiva, 2000.


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