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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Le teorie nella mente dell’analista al lavoro

Lilia Bordone de Semeniuk, Alberto Solimano, Aníbal Villa Segura,
Samuel Zysman (coord.)




Introduzione

Può sembrare superfluo iniziare con il dire che nello svolgere il nostro lavoro quotidiano come analisti siamo utilizzatori di teorie e che – per quanto ci sia possibile – a volte tentiamo di introdurre alcune idee personali all’interno di un corpus teorico già esistente.

Tuttavia, intendiamo qui ribadirlo perchè questi fatti assumono una particolare rilevanza nella clinica. Nell’esercizio clinico è inevitabile prendere decisioni (quali l’opportunità e il contenuto di una interpretazione) e non possiamo ignorare che la messa in pratica di tali decisioni si realizza in un ambito a cui attribuiamo una finalità terapeutica. Come autori di questo lavoro condividiamo per vari motivi l’idea che queste affermazioni iniziali sono necessarie, dato che le teorie in generale – non solo la psicoanalisi – sono soggette al discredito che negli ultimi anni si è abbattuto sulla ragione e sulle sue possibilità di fornire spiegazioni condivisibili di ciò che percepiamo nel contatto con la realtà. Tra gli analisti - in verità tra gli utilizzatori di teorie in generale – a volte sembra prendere piede una certa confusione tra la genuina necessità del supporto teorico per il compito da svolgere e le distorsioni osservabili nella sua applicazione. Ciò si evidenza nell’uso dogmatico di qualunque teoria, incluse quelle che si dimostrano utili, e per questa ragione ci sono analisti che credono che un utilizzo masiccio della teoria si traduca automaticamente in rigidità e autoritarismo nella clinica. Pensiamo che la persistenza in tale confusione può portarci a credere che si possa lavorare a prescindere dalla relazione esistente tra i nostri interventi concreti e le teorie che li sostengono, cosa che ci esporrebbe al rischio di cadere prima o poi nell’improvvisazione o, peggio, in una autosufficienza megalomanica. In questo senso, se possiamo apprendere qualcosa dal metodo utilizzato da Freud lungo il suo fecondo lavoro, è il fatto che egli sottolineò consistentemente tanto la necessità di teorie che danno conto dei dati clinici, quanto quella di considerare questi dati come indicativi al fine di giudicare la validità delle teorie stesse. A questo punto conviene ricordare i criteri metodologici di Bion e di David Liberman: entrambi segnalano che come analisti realizziamo il nostro compito specifico nella seduta, ma che qualsiasi studio sistematico che proviamo a realizzare rispetto alle stesse sedute e sui presupposti teorici che ne stanno alla base può essere realizzato solo dopo, al di fuori di queste. Tale criterio, che tanto vuole tutelare lo sviluppo stesso della seduta come lavoro di ricerca successivo, ci permette di delimitare meglio l’oggetto della nostra presentazione: ci interessa studiare la qualità e la struttura delle nostre teorie, il loro posto nelle nostre menti e l’uso che ne facciamo durante le sedute, perchè nel lavoro con i pazienti usiamo costantemente le nostre menti e le teorie che queste contengono. Tali teorie, che gravitano permanentemente nel nostro lavoro, che lo vogliamo riconoscere o no, e la forma in cui lo facciamo, costituiscono il centro del nostro interesse. Tuttavia, sappiamo di non poterle considerare come principale oggetto di studio nel corso della seduta se non in seguito, perchè al contrario staremmo cambiando il senso della stessa, che deve passare inesorabilmente attraverso le necessità di cura del paziente.

Teore psicoanalitiche

Le teorie che sostengono la nostra azione terapeutica sono un insieme di enunciati di differente livello, la cui utilità consiste nell’offrirci la base di razionalità necessaria per fondare le nostre condotte e, tra queste, in modo particolare, le interpretazioni che dobbiamo dare durante il corso di qualsiasi trattamento. Gli enunciati teorici di differente livello a cui alludiamo sono, da un lato, quelli che esprimono ed esplicano i fatti immediati di una seduta. La loro sistematizzazione e la loro formulazione (in accordo con le possibilità di essere captati dal paziente in ogni momento) costituiscono il nucleo dell’interpretazione. D’altro lato, ci sono enunciati caratterizzati da un maggiore livello di astrazione e distanza, che fanno parte di quelle teorie definite intermedie. Al fine di questa sequenza, culminano gli enunciati metapsicologici. All’interno di questo contesto possiamo considerare la teoria della tecnica, con i suoi diversi presupposti che partono dai “consigli al medico” (Freud, 1912), in qualità di insieme di enunciati misti che a volte contengono termini teorici, a volte termini pratici che servono come regole di corrispondenza tra teoria e pratica. Ci si presenta quindi un panorama con un certo grado di complessità, a cui dobbiamo aggiungere ulteriormente qualcosa in più. Una di questi aspetti riguarda il fatto che tra le teorie che solitamente utilizziamo c’è quella dell’inconscio. Riguardo a ciò ed ai fini di questa presentazione, è sufficiente segnalare che non possiamo trascurare che l’osservazione e l’ascolto dei pazienti, sebbene costituiscano una attività cosciente e tributaria delle nostre capacità egoiche (o da un’altra prospettiva teorica, della parte adulta della nostra personalità, o dell’io idealmente plastico ecc), ha anche in modo ineludibile componenti inconsce ed irrazionali. Se riconosciamo di non essere completamente padroni dei nostri agiti, né delle nostre percezioni, né del loro accompagnarci nella vita di tutti i giorni, è difficile sostenere che potremmo esserlo mentre lavoriamo. In altre parole, l’uso che facciamo delle teorie per interpretare i nostri pazienti non è un atto così interamente razionale e neutrale come vorremmo che fosse; già Anzieu (1972) riassunse brillantemente questo punto di vista sostenendo che “l’interpretazione è un processo secondario infiltrato nel processo primario”. In verità, la preoccupazione per le condizioni soggettive che incidono decisivamente nell’impegno clinico degli analisti è quasi antica tanto quanto la stessa psicoanalisi, e possiamo datarla con la scoperta del controtranfert da parte di Freud (1910). L’idea che nessun analista può iniziare un trattamento al di là di ciò che permettono i suoi personali complessi fu una avvertenza basica che condusse a premettere la necessità che gli analisti si analizzassero e, inoltre, molti anni più tardi, a diverse ricerche che hanno come fine quello di spiegare la complicata relazione che manteniamo nella clinica con le nostre teorie. Da questo punto di vista, e dato che attualmente disponiamo delle teorie del transfert e del controtransfert, se ci atteniamo alle conseguenze logiche delle stesse potremmo comprovare che certi fatti passano in primo piano. Così registriamo che tanto le teorie sostenute in un lavoro o in una discussione, quanto quelle che sottostanno alle nostre formulazioni interpretative, vanno modificandosi in maggiore o minor grado a tal punto che noi stessi veniamo considerati nella classe dei fenomeni di cui si occupano tali teorie e che si trovano in qualunque relazione umana. Ciononostante, non si tratta tanto, o non solo, del grado di trasformazione che possono subire le “teorie che sappiamo di avere”, quanto del fatto che nelle nostre menti albergano “altre teorie che ignoriamo di avere” o, in altri termini: “teorie che possimo codificare come inconsce”. Manterremo per un momento quest’ultimo termine senza precisarlo ulteriormente e parleremo delle teorie inconsce come quelle che possono essere complementi o sviluppo delle prime, ma che possono anche essere differenti o contraddittorie rispetto a queste. Si tratta di un fatto per nulla banale se prendiamo in considerazione che è con la nostra mente, e con i suoi diversi modi di operare in generale, che ci avviciniamo al nostro giornaliero compito clinico. Introduciamo in questo modo il complesso ma affascinante panorama della mente dell’analista al lavoro. Sicuramente sarebbe più attraente immaginare che la mente stessa funziona (o dovrebbe funzionare) come uno strumento preciso ed affidabile, oggettivo, neutrale, nell’applicare efficacemente le conoscenze teoriche rispetto alle narrazioni del paziente. Purtroppo, questo non sembra essere possibile: possiamo solo accettare il fatto che è fallibile tanto quanto quella del paziente e, come disse Freud, non può lavorare più dei suoi propri limiti. Dobbiamo dunque, da un lato, pensare alle condizioni necessarie affinchè l’analista possa sviluppare bene ed in modo accettabile il suo compito. Dall’altro, ci tocca studiare accuratamente il percorso e le vicissitudini delle teorie nella nostra mente, avendo come scopo la possibilità di comprendere meglio ciò che facciamo e raffinare il nostro lavoro.

Nell’attuale panorama delle ricerche in psicoanalisi, questo tipo di studio potrebbe essere considerato in parte come una ricerca concettuale, dato che ci si riferisce ai diversi significati che diamo al concetto di teoria.

Inoltre, in parte, come una forma di ricerca empirica, non di risultati o di processi ma rispetto alla base (empirica) costituita dalle stesse teorie e dal “commercio” mentale che l’analista instaura con queste.

Precedentemente abbiamo fatto riferimento al concetto di inconscio (per ora in un senso ampio) di certe teorie che sono influenti nella nostra comprensione del materiale clinico e nell’utilizzo delle interpretazioni, anche se, in base a questo focus, si tratterebbe per ora di una approssimazione per lo più descrittiva del fenomeno.

Per avvicinarsi a tutto il grande complesso eterogeneo delle teorie che utilizziamo, noi analisti siamo soliti ricorrere allo studio del tranfert e del controtransfert e, in particolar modo, alla formulazione delle interpretazioni, perchè è in queste che possiamo investigare le forme in cui convivono e gli effetti delle loro diverse strutture interne. In Argentina, in seguito ai lavori di Racker e Grinberg sulle modalità del controtransfert, si svilupparono le ricerche di Liberman nel decennio tra il 1960 ed il 1970, basate sulla teoria della comunicazione e della linguistica. Egli utilizzava indicatori linguistici per dar conto del ruolo del paziente e dell’analista nel corso del processo, così come dell’effetto terapeutico o iatrogeno dell’applicazione delle sue teorie. Una preoccupazione simile guidò Joel Zac (1972) nel suo intento di spiegare come e dove si originano le interpretazioni nell’analista, cosa per cui introdusse i concetti di “Io razionale”, “Io irrazionale” e “Io privato”, la cui successione consente di intravedere le teorie con le quali ognuno opera e i prodotti dell’insieme. Rispetto alla nostra esposizione, dobbiamo anche menzionare lo studio sistematico delle sedute realizzato da Guillermo Lancelle e i suoi collaboratori (1990) con il proposito di “osservare ed effettuare inferenze appropriate ed oggettive sull’integrità delle manifestazioni cliniche, del modo in cui operano nella pratica le teorie che si adducono e come incidono la personalità e le concezioni dell’analista nella situazione terapeutica”. Anche Ricardo Bernardi si è interessato in particolar modo allo studio delle vicissitudini delle teorie, partendo dalla base empirica che consiste nei lavori pubblicati e nelle variazioni del numero di riferimenti biblilografici in autori di scuole diverse. I suoi studi (2003, p.219) gli hanno permesso di sostenere che “i cambiamenti nelle posizioni teoriche e tecniche non sono accompagnati da un esame sistematico delle differenti idee che sono messe in gioco, né da una specifica delle ragioni a favore o contro di queste”. Sebbene questa ricerca in particolare non abbia l’intento di avanzare ipotesi circa i meccanismi psichici che potrebbero essere implicati nel realizzare le differenti opzioni, le sue conclusioni servono come una eccellente guida per procedere nella chiarificazione dei destini delle teorie nelle nostre menti. Il gruppo di lavoro dedicato alla ricerca di questi problemi nella Federazione Europea di Psicoanalisi dispone di uno strumento di ricerca delle “teorie esplicite” e delle “teorie private” dell’analista o “griglia” (Canestri et al., 2003).1 Questa denominazione delle teorie (esplicite o pubbliche, implicite o private) partono dai concetti esposti da Joseph e Anna Maria Sandler in due lavori del 1983 in cui gli autori fanno un uso estensivo dei modelli topografico e strutturale di Freud per introdurre il modello delle tre “casse” (The tree box model).

Da questa prospettiva, definiscono le teorie implicite (private) dell’analista come un caso di costruzioni e schemi parziali che si trovano nel Pc, disponibili per ritornare coscienti quando superano la seconda censura (tra Pc e C). O, nei termini del modello menzionato, tra la seconda e la terza “cassa”. In altre parole, le teorie “implicite” o “private” restano definite come inconsce in un senso solamente descrittivo e possono eventualmente tornare “pubbliche” (o “esplicite”). Naturalmente, solo queste ultime sono consce. Come autori di questo lavoro riteniamo che tale coesistenza di diverse teorie nella mente dell’analista costituisca un fatto che merita di essere approfondito in modo particolare, specialmente per le già menzionate ripercussioni cliniche e per il suo correlato etico. Cercheremo successivamente di riunire alcune idee riferite ai differenti tipi di teorie e alla loro condizione di consapevolezza o inconsapevolezza, cominciando con alcune definizioni operative dei termini che utilizziamo.

TEORIA.

Ai fini di questa presentazione ci pare adeguado considerare la definizione di G. Klimovsky (1994), che considera come teorie un insieme di ipotesi interagenti tra loro, che tentano di spiegare un qualche aspetto della realtà ed eventualmente permettono alcune previsioni.

TEORIA ESPLICITA

E’ quella che l’analista riconosce come strumento proprio, ciò che lui pensa che vada a determinare il suo ascolto e la sua interpretazione o, per lo meno, quella che va a considerare come riferimento per dar conto della sua pratica; quasi sempre è una teoria “ufficiale” e questo significa che è condivisa da un gruppo o dalla scuola che l’analista considera di pertinenza. Per definizione è conscia o preconscia. Sono teorie esplicite quelle che un aspirante analista apprende nei seminari e nelle supervisioni didattiche.

TEORIA IMPLICITA

Chiamiamo in questo modo quella che è messa in atto determinando anche la pratica dell’analista, pur non essendo riconosciuta allo stesso modo della precedente. Il non riconoscimento suppone un ventaglio di differenti gradi di coscienza. Nell’introdurre questa nomenclatura, Sandler (1983) si riferiscono, come abbiamo detto, a teorie inconsce nel senso descrittivo del termine, quelle che sono localizzate nel Prec. e disponibili all’uso dall’analista in caso di necessità. In base a ciò, possono ritornare consce in un dato momento. Entrambi i tipi di teoria (implicite ed esplicite) non convivono dissociatamente, ma operano in forma congiunta nella comprensione del fatto psicoanalitico e anche nella sua interpretazione.

Proveremo ora ad ampliare l’approccio fondamentalmente strutturale e topografico a cui si appoggiano i Sandler, con un altro che possa includere meglio alcuni fatti osservabili nella clinica. Per questo, ci sembra utile riformulare gli stessi concetti da una prospettiva legata alla teoria delle relazioni oggettuali. Riteniamo che questo approccio possa migliorare l’esplicazione del carattere inconscio delle teorie implicite.

Cominciamo con il dire che è probabile che le teorie patiscano alcune vicissitudini simili a quelle degli oggetti interni, che sono soggetti a continui movimenti di cambiamento e rimodulazione. Prima di questo cambiamento, lo stesso processo di incorporazione può risultare differente. E’ probabile che le teorie entrino in un primo momento nello psichismo alla maniera di un apprendimento mimetico, in forma di ripetizione di ciò che è stato visto o ascoltato, senza che la sua completa significazione abbia la sfumatura specifica che avrà in seguito. Pensiamo che l’apprendimento mimetico possa essere compreso a partire dalla teoria dell’identificazione. Quando intendiamo spiegare il fenomeno mimetico attraverso la teoria kleiniana dell’identificazione, diventa evidente, sin dall’inizio, una relazione d’oggetto. Una cosa che si può osservare abitualmente è quella dell’analista in formazione che incorpora simultaneamente la teoria ed il modo di parlare del suo analista o del suo supervisore. E’ possibile spiegare questo fenomeno ricorrendo al concetto di identificazione proiettiva in un oggetto interno (Meltzer, Money-Kyrle) o a quello di identificazione adesiva (Bick). Supponiamo che un uso plastico ed adeguato delle teorie in ogni situazione clinica dipenderebbe dal predominio delle identificazioni introiettive dell’analista, cosa che sembra anche coincidere con ciò che Wisdom (1961), nel suo modello “planetario”, denominava introiezioni nucleari. Riteniamo che le identificazioni introiettive in senso stretto (o nucleari), per tutto ciò che questo concetto significa in termini di elaborazione e conoscenza realistica degli oggetti, relativizzano la possibilità di un uso dogmatico delle teorie e spianano il cammino per la scoperta da parte dell’analista clinico delle sue proprie teorie implicite.

In realtà, ciò che questo tipo di accostamento al problema che stiamo trattando suppone è che esiste una correlazione tra i differenti stati mentali possibili dell’analista e il destino delle sue introiezioni che in essi si realizzano, tra le quali dobbiamo considerare quelle che corrispondono alle teorie stesse e alle persone che le sostengono o le incarnano.

Risulterebbe molto difficile, per esempio, tentare una separazione totale nella nostra mente tra i concetti basici della teoria freudiana e la nostra ammirazione – inclusa la nostra simpatia – per la figura stessa del creatore della psicoanalisi e per il suo esempio di onestà intellettuale.

Allo stesso tempo, sappiamo – e ne siamo stati testimoni – che, sentendo ciò che proviamo per Freud, la messa in discussione delle sue teorie ed il tentativo di ampliarle o superarle produce ancora forti dibattiti e scontri personali, come se il rispetto per la sua opera costituisse un impedimento al fare ciò che egli stesso suggeriva, cioè modificare quegli aspetti delle sue ipotesi che lo richiedono.

Nella nostra scienza forse questo sarebbe uno dei migliori esempi del fatto che la vita delle teorie, il loro stesso destino nelle nostre menti e nell’ambito della comunità psicoanalitica, dipende da molti fattori che vanno al di la’ della loro logica interna e del grado di conoscenza che abbiamo di queste. Anche Stein, citato da Bohleber (2005), ha esaminato questo problema ed ha mostrato che i vincoli di lealtà possono a volte promuovere il pensiero clinico e anche perturbarlo, nel nascondere lacune nella teorizzazione e ritardandone la ridefinizione dei concetti. Una grande utilità di questo modo di focalizzare il legame con le proprie teorie consiste nel mettere in luce la relazione esistente tra la integrazione come stato mentale dell’analista e la sua possibilità di integrare teoria e clinica, a cui aggiungiamo il concetto di integrità etica introdotto da Rangell (Rangell, 1974; Zysman, 1997a, 2000). Andiamo ora a riprendere il tema del carattere inconscio delle teorie implicite per tentare di ampliarne la comprensione. Dal nostro punto di vista ci sarebbero almeno due categorie di queste teorie: una prima categoria sarebbe costituita da quelle che non sono rese pubbliche, da trovare sotto l’effetto della censura. Riteniamo che, quando è messo in atto in base ai modelli riferibili al metodo psiconalitico, ciò sarebbe dovuto alle domande che lo psicoanalista stesso si pone riguardo la teoria esplicita. Questa prima categoria, costituita maggiormente da teorie e modelli parziali, coincide con la descrizione dei Sandler che serve come base della “mappatura” e dota l’analista di strumenti che possono essere applicati quando ne sorge la necessità, in determinate situazioni cliniche in cui la teoria di riferimento sembra non essere utile nella sua versione ufficiale. Tuttavia, possiamo anche pensare all’esistenza di una seconda categoria di teorie implicite, che consisterebbe in un insieme di ipotesi, il cui carattere inconscio non deve essere solo spiegato in base all’azione della seconda censura, e ci sembra che il suo riconoscimento necessita di una o più ipotesi ausiliarie. Possiamo sostenere che non avrebbero conseguito la “pubblicazione” (nel senso dato da Bion) nella mente del proprio analista e l’ipotesi che avanziamo è relativa al fatto che si tratterebbe di teorie “in erba”, che necessitano ancora di una ulteriore elaborazione, che comincia con la loro presa di coscienza. Questo ci porta a segnalare che non dobbiamo sottostimare il valore potenziale delle teorie implicite come fonte di scoperte; ci sembra, per esempio ,che così si possa comprendere il modo con cui Freud potè arrivare a formulare – a partire dal caso di Dora – la teoria del transfert.

Possiamo inoltre sostenere che questa seconda categoria di teorie implicite ha punti in comune con il concetto di fantasia inconscia. Per arrivare a questa idea partiamo dalla nozione accettata del fatto che nel transfert e nel controtransfert si incontrano le manifestazioni cliniche delle fantasie inconsce. Tuttavia, le fantasie inconsce contengono sempre una qualche teoria, per precaria ed equivoca che sia, riguardo gli oggetti a cui si riferiscono, rispetto alle sue mutue relazioni e con lo stesso soggetto. In realtà, possiamo sostenere che è necessario nuovamente usare l’idea di teorie in erba, la cui validazione o confutazione non si è realizzata adeguatamente, basicamente, perchè coloro che le sostengono non sono arrivati a testarle in un processo razionale, posto a prova delle ipotesi. Lo stesso transfert può essere visto, a seconda dei vertici (Bion), come fantasia inconscia e come teoria del soggetto su se stesso. In quanto teoria, indubbiamente include in parte o in tutto una qualche teoria sessuale infantile del soggetto (Zysman, 1997b).

Ciononostante, questa teoria ammette di essere confutata attraverso l’interpretazione analitica, che offre al paziente la possibilità di riformularla in un modo più realistico e, per questo, meno patogeno. Rispetto a ciò vale la pena ricordare il senso dato da Etchegoyen (1981, 1986) nel riassumere i suoi punti vista sull’interpretazione transferale dello sviluppo psichico precoce: “ognuno di noi conserva un insieme di relazioni, ricordi e racconti che, a modo di mito familiare e personale, si sviluppano in una serie di teorie, con le quali affrontiamo ed ordiniamo la realtà, così come la nostra relazione con tutto il resto e con il mondo. Considero la parola “teoria” in senso stretto, come una ipotesi scientifica che pretende di spiegare la realtà e che può essere confutata attraverso i fatti, come insegna Popper (1962); e che a mio giudizio coincide con il concetto psicoanalitico di fantasia inconscia” (il sottolineato è nostro). Ci sembra possibile aggiungere a queste affermazioni che quella conosciuta come “racconto familiare del nevrotico” (Freud, 1909) è costituita, precisamente, da una tale congiunzione di miti personali, che si presentano in forma di teorie con le quali il paziente tenta di dar conto della sua storia e del suo stato attuale. Le stesse, che popolano il consultorio analitico, si incontrano con le teorie esplicite e implicite dell’analista che si esprimono nella interpretazione. Diremmo anche, infine, che i punti di vista che stiamo esponendo sono coerenti con i punti di vista che sottolineano la relazione intima tra fantasia inconscia e processi creativi, così come li descrive Segal (1991), a cui si rifà Steiner (2003). Sebbene Segal si riferisca fondamentalmente alla creatività artistica, sia essa del pittore o dello scrittore, ci sembra che non ci possano essere dubbi sul fatto che la capacità di formulare teorie è una espressione creativa esclusiva della mente umana, per nulla estranea agli altri tipi di creatività né carente nella forma di attrazione estetica.

Abbiamo inoltre, fin quanto possiamo vedere, le teorie esplicite e le due categorie di teorie implicite, la seconda delle quali abbiamo qui introdotto. Sappiamo che nel farlo abbiamo fornito un impronta che deve mostrare la sua validità nell’essere applicata: ciò apre alla comprensione della struttura delle teorie e della coesistenza di queste nella mente alla partecipazione dell’inconscio, non solo in senso descrittivo ma anche sistematico. Gli utilizzatori della teoria delle relazioni oggettuali non si sorprenderanno per questa proposta; ad ogni modo, ci sembra che la convergenza tra teorie inconsce e fantasia inconscia costituisca per gli stessi un qualcosa che può essere clinicamente osservabile e che la sua interpretazione costituisca il midollo della loro tecnica; a coloro che non lo sono possiamo dire che a noi sembra che abbia mostrato la sua validità e che si presti ad un ampliamento della “mappatura” che può offrire maggiori possibilità di applicazione. Resta solo che gli psicoanalisti in generale la considerino come una ipotesi che vale la pena considerare e che accettino di metterla alla prova.

A conclusione, ci sembra adeguato riportare alcuni concetti dell’epistemologo Larry Laudan (1986). Questo autore distingue i problemi che riguardano le diverse scienze e li classifica come “potenziali”, “anomali” e “risolti”. I primi sono quelli che emergono nella pratica e che per questo motivo mancano fino a questo momento di teorie. Tornando all’esempio del transfert, la scoperta del “falso ricordo” nelle isteriche da parte di Freud potrebbe ricadere in questa denominazione. Riguardo la discussione del caso di Dora, Freud, nell’epilogo dimostra già una conoscenza importante del fenomeno del transfert, pur tuttavia considerandolo come problema “anomalo”, non esplicandolo con una propria teoria e ricorrendo a teorie contigue: ignoranza, gelosia ecc. E’ solo con le formulazioni di “La dinamica del transfert” che Freud introduce una teoria comprensiva del transfert (ricordiamo che già nel 1910 aveva dovuto confrontarsi con le difficoltà del controtransfert), con la quale potremmo dire che era passato ad avere, nei termini dello sviluppo della sua teoria, un “problema risolto”. Si tratta di un tipo di teoria che secondo Laudan “si può considerare come problema risolto e funziona significativamente in qualunque schema di inferenza la cui conclusione è un enunciato del problema”.

Questo breve esempio ci sembra che consenta di vedere da vicino la interazione tra le distinte teorie nella mente di Freud, come le private emergano in un dato momento nello status di esplicite o pubbliche, e come al tempo stesso si passi dal riconoscimento di un problema alla formulazione di una teoria efficace per dar conto dello stesso.

Parole chiave:

Teorie; teorie esplicite; teorie implicite o private; fantasia inconscia; transfert; contratransfert; mappatura.

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Lilia Bordone <liliabordone@fibertel.com.ar>

Traduzione dallo spagnolo di Vincenzo De Blase

1 Uno di noi 8S.Z.) ha partecipato come relatore del progetto di “mappatura” ed ha presentato del materiale clinico nei recenti Congressi della IPA a new Orleans e a Rio de Janeiro (2004-2005).


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