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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Lacaniana



Jacques Lacan e il Trauma Del Linguaggio, Galaad, Giulianova, 2011

Alex Pagliardini



PRESENTAZIONI

Leggendo il libro di Alex Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, mi sono chiesto esplicitamente qualcosa che altre volte non mi chiedo, perché viene da sé. Di che cosa parla questo libro e per chi è scritto, a chi vuole parlare? È un libro di filosofia che si occupa di uno psicoanalista, Lacan? È un testo di psicoanalisi che, nella stessa linea di Lacan, chiede ai filosofi un aiuto per la chiarificazione dei concetti, pur volendosi irriducibile alla filosofia? Un Lacan antifilosofo? La lista degli antifilosofi è piuttosto lunga ed eterogenea, recluta loro malgrado personaggi molto diversi tra loro, da Lacan a papa Ratzinger da Julius Evola a Rudolf Carnap, insomma non ricaviamo molto da questa classificazione.
Entriamo nel testo e riprendiamo il titolo, per orientarci un po’. In effetti è un libro difficile. Il titolo, “Jacques Lacan e il trauma del linguaggio” è già una presa di posizione teorica piuttosto forte. Dire che il linguaggio è un trauma sembra escludere una concezione del linguaggio come strumento e come funzione, che da Aristotele a Chomsky è decisamente prevalente tra le teorie del linguaggio. Un passo in più: dire che il linguaggio è un trauma o produce un trauma, ci mette subito in piena psicoanalisi. Trauma è termine che si declina in discipline differenti: in psicoanalisi un’esperienza è traumatica quando resiste alla significantizzazione, alla simbolizzazione. Sono quelle esperienze non integrabili su cui Freud ha costruito la sua prima teoria dell’isteria e che Bion ha trattato come elementi indigeribili, gli elementi beta.
È merito dell’ultimo Lacan l’aver colto la dimensione traumatica del linguaggio. Anzi: se ricordiamo che per Freud l’evento cruciale per ogni soggetto umano è la castrazione, Lacan nel suo ultimo insegnamento dirà che la vera castrazione è la castrazione di godimento prodotta da linguaggio. A questo punto siamo sicuri: è un libro di psicoanalisi.
Il libro si compone di tre parti e da una bella introduzione di Rocco Ronchi, e comincia proprio così: “La nostra riflessione sul trauma del linguaggio prende avvio interrogando il punto di impasse, di fallimento, dell’azione del linguaggio”.
Abbiamo così messi in tensione il trauma del linguaggio e l’azione del linguaggio. E con essa la posizione del problema che attraversa l’intero libro: c’è un impossibile a dire, c’è un punto cieco del linguaggio e al linguaggio.
Sintetizzando in modo troppo arbitrario l’architettura del libro, si potrebbe forse dire che la prima parte, L’impossibile, si occupa del linguaggio a partire da qualcosa che Lacan chiama le leggi della parola. È il Lacan che con una mano tiene Lévi-Strauss e Marcel Mauss e con l’altra Kojève, quindi Hegel e Heidegger.
Credo di non far torto all’autore se considero il fulcro di questa prima parte “la negazione” freudiana, quello straordinario testo di Freud, del 1925, che in 4 paginette disegna le linee di forza del primo insegnamento di Lacan. Freud distingue diverse forme della negazione e mostra che la negazione nevrotica non cancella affatto quanto è negato ma in un certo senso lo ratifica. Lacan legge questo testo con il suo amico Jean Hyppolite, studioso di Hegel, e vede nella rimozione un’espressione del concetto dialettico hegeliano di Aufhebung: nella nevrosi negare qualcosa non significa cancellarlo ma restituirgli una vita imperitura. La cancellazione è conservazione: è questo il concetto di Aufhebung.
Di qui il passo seguente è l’idea del simbolico che uccide la Cosa e nello stesso momento la eternizza, dunque il simbolico produce propriamente la Cosa come perdita interna a se stesso, allo stesso simbolico che l’ha prodotta.
C’è una faglia interna al linguaggio: il linguaggio sorge a partire da una perdita prodotta dalla sua incidenza, funziona attraverso una perdita e riproduce costantemente una perdita. Lacan, in Funzione e campo designa come luogo della negatività, la giuntura tra Simbolico e Reale, questo luogo è il luogo del trauma, qui si colloca il trauma del linguaggio.
Sia Freud che Kojève ritengono che l’uomo non abbia una sua specificità naturale, privato dei binari precostituiti dell’istinto preso dai binari del simbolico, della dialettica del negativo – un altro riferimento qui è il Nietzsche, Genealogia della morale, perdita dell’istinto per l’essere umano.
Il trauma sarebbe allora il momento del deragliamento del naturale, il linguaggio che perverte i binari precostituiti dell’istinto sessuale.
Faccio cenno ad altri due punti, che aprirebbero ognuno uno spazio rilevante, di ricerca: il linguaggio come dono, con tutte le risonanze antropologiche e filosofiche, da Marcel Mauss e George Bataille. E ancora, la funzione della risposta: l’essere umano è l’essere che risponde.
Insomma, per incidenza del linguaggio, l’essere umano è l’essere in perdita, di presenza, di sapere istintuale, di autonomia.
La seconda parte, In principio era il marchio, tratta delle leggi del linguaggio: è il Lacan classico della teoria del significante, della struttura, dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Il riferimento principale è Ferdinand de Saussure, il grande linguista ginevrino, alla base dello strutturalismo. Pagliardini è alla ricerca dei punti critici dello strutturalismo di Lacan, e pertanto ne mette in luce la funzione del taglio. Qui si precisa uno dei termini della sua ricerca, la funzione dell’Uno. Non posso approfondire questo punto, il più complesso forse, quello più ricco di conseguenze cliniche e per certi versi di implicazioni filosofiche, a partire dal Parmenide di Platone. Tra l’Uno dell’operazione aritmetica del contare e l’Uno vertiginoso della teoria degli insiemi Lacan sembra mano a mano costruire la sua teoria psicoanalitica.
Centrale è il concetto di estimità, che Jacques-Alain Miller estrae da Lacan e che trova una precisa rappresentazione topologica nella superfice del toro. Qui, come in altri luoghi cruciali del libro, sembra che l’autore sia interessato alla regione di transizione, più che di intersezione, da un luogo all’altro, dall’Altro all’Uno, dal soggetto all’Altro, dalla parola al corpo, dal desiderio al godimento.
Il rapporto tra reale pulsionale e Altro simbolico verrà mano a mano interrogato fino ad arrivare, è il terzo capitolo del libro, al godimento Uno, chiuso in se stesso, autistico.
La terza parte, L’Uno, lalingua è espressamente dedicata all’ultimo insegnamento di Lacan, quello che rovesciando le sue concezioni precedenti mette sempre di più al centro la categoria, del reale. La lingua diventa lalingua, matrice essa stessa di godimento. Qui l’autore stringe un dialogo complesso tra filosofi francesi, Levinas, Derrida, Badiou, Deleuze e un italiano, Rocco Ronchi, per poi ritrovare nell’Uno del godimento la specificità della psicoanalisi.
Nella nevrosi l’Uno del godimento è immerso nell’Altro, nella psicosi l’Uno è l’Altro assoluto, non contaminato, dell’Altro, separato dall’Altro. Attraverso passaggi e citazioni molto precise Pagliardini arriva ad affermare: “L’Uno partecipa nell’Altro e dell’Altro – filosofia – l’Uno non partecipa, non si rapporta – psicoanalisi”.
La psicoanalisi sarebbe così il sapere della disgiunzione assoluta. Non entro nel merito della questione filosofica, posta con tanta decisione e chiarezza da Pagliardini. Certo che l’idea di alterità assoluta abita una certa teologia, mi pare.
I paragrafi conclusivi, Fallire e Fallire meglio, danno forse la cifra psicoanalitica della fatica di Pagliardini, “una breve testimonianza soggettiva della pratica analitica, ultimo accesso al trauma dell’Uno”. Il riferimento è l’ultimo insegnamento di Lacan, il primato dell’Uno e di lalingua, con la pratica analitica che diventa è “un’elucubrazione di sapere sul reale dell’Uno”, una difesa, una finzione necessaria, un sembiante, per trattare questo reale.
Per dirlo in termini freudiani: la libera associazione, la logica del significante di Lacan, si rivela da un certo momento in poi uno strumento spuntato, il sintomo resiste, il godimento si ripete compulsivamente. L’idea di Lacan è che il sintomo non è più solo l’espressione di un disagio, di una sofferenza del soggetto. Già in Freud il sintomo, sotto una maschera di sofferenza esprime anche un soddisfacimento deformato.
L’essenziale ora è che il sintomo è innanzitutto un’espressione del soggetto, il nucleo di godimento che lo costituisce, il marchio dell’Uno nell’Altro, il modo in cui il trauma di lalingua si è presentato come evento nella vita del soggetto, ed insieme il modo di rispondergli. Di nuovo la funzione della risposta. Pagliardini ne abbozza una formalizzazione, siamo a pag. 222 del libro, che provo a rifrasare così: il soggetto nasce nel campo dell’Altro, è il primo tempo dell’operazione di alienazione. Un significante primario, S1, resta in qualche modo agganciato su un godimento primitivo, pensiamo a una fissazione orale e si sottrae così alla pura combinatoria significante. È una sorta di azione dell’Uno del godimento, un elemento di lalingua che fa trauma. Questo S1 viene allora a incarnare due momenti: la fissazione traumatica e la risposta del soggetto al trauma. Un’intrusione di godimento che pietrifica il soggetto in un significante particolare e mostra la disgiunzione tra l’Uno e l’Altro, tra significante e godimento. Questo S1 diventato nucleo sintomatico sarà paradossalmente il marchio traumatico del godimento e la possibile uscita del soggetto dalla nevrosi: un essere di godimento che diventa il centro, il faro della vita del soggetto. La fine analisi diventa a questo punto, e paradossalmente, l’identificazione al sintomo, come un saperci fare, un saperci fare con il sintomo.
Dov’è allora il fallimento? Lacan dirà in quegli anni che il soggetto, il soggetto dell’inconscio è sempre felice. Sempre felice nello scacco, nell’impossibile ricongiungimento tra l’Uno e l’Altro, tra la Cosa e l’ideale.

Sergio Sabbatini

 

Questo di Alex Pagliardini è un libro bello e interessante; esprime un punto di vista per me inconsueto che mi ha fatto molto pensare. Ma non è solo l’impianto teorico da elogiare; va elogiata anche la ricostruzione storico-filologica, precisa ed approfondita, nella quale vengono seguite le vicissitudini di un problema centrale nel pensiero di Lacan: il fondo oscuro del linguaggio.
Il libro consta di tre capitoli, l’introduzione è di Rocco Ronchi. Ogni capitolo è dedicato ad un momento cronologico, ma tutti e tre hanno a che fare con il “trauma del linguaggio”, problema di cui si traccia una evoluzione diacronica, anche se l’autore trova già agli inizi spunti che saranno sviluppati in seguito. E sappiamo bene che delineare distinzioni precise nei testi di Lacan non è possibile, proprio per come lui concepisce lo svolgersi delle idee.
Per Pagliardini il problema ruota intorno a tre concetti-chiave: il tratto, cioè la cancellatura; il taglio, cioè la frattura; e il marchio, cioè l’incisione. Il trauma del linguaggio assume così figure diverse, che per l’autore vanno lette più come momenti di una spirale che si avviluppa, che non come bruschi capovolgimenti.
Nella prima fase, che va all’incirca fino agli anni ’60, per Lacan il linguaggio, ci dice Pagliardini, è già cancellatura e mancanza, ma è tuttavia ancora un territorio pregevole e apprezzato. Come se Lacan volesse dire: il linguaggio è un territorio fondamentale, ma non dobbiamo dimenticare che esso è mancante (un avvertimento sempre attuale per i filosofi che tendono ad ipostatizzare e a divinizzare il linguaggio).
Ma che cosa è che il linguaggio lascia fuori per Lacan? L’autore sottolinea che non si tratta del reale grezzo, della x sconosciuta di Kant; non è questo che disturba Lacan, il quale è antisostanzialista ed anticosista. Non è neanche la contrapposizione tra essere e non essere come la teorizza Sartre.
Lacan sembra piuttosto soffermarsi, nota l’autore, sul momento mentale che è all’origine del simbolico: la vertigine dell’astrazione da tutto, la capacità della mente di azzerare tutto in una sublime epoché. Siccome il linguaggio è già da subito intersoggettivo, la mente azzerante sfugge, e residua un io catturato e intrappolato. Questa vertigine del vuoto attrae molto Lacan, e da qui si mette in moto un peculiare processo psicoanalitico e filosofico.
Già in questo periodo infatti, nota l’autore, il pathos di Lacan va ben oltre il desiderio di riconoscimento. Egli è affascinato piuttosto dall’essere-per-la-morte di Heidegger, letto come la possibilità estrema di azzerare la realtà limitata, in una sorta di visione estatica nella quale vita e morte coincidono, e nella quale la morte va intesa non come il decesso, ma anzi come la morte della morte. L’autore ci mostra come Lacan abbia guardato fino in fondo questa corrente così profonda dell’animo umano, ed abbia compreso come la pulsione di morte di Freud vada intesa come il massimo del godimento.
Nel prosieguo del libro, Pagliardini ci racconta come, andando avanti negli anni, dal 1960 in poi – ma senza operare distinzioni troppo rigide – Lacan vada ancora oltre. Non si limita più a rilevare l’insufficienza del linguaggio nel fatto di lasciare fuori il godimento, ma ne comincia a vedere le carenze intrinseche (dal tratto al taglio). Lacan si sofferma sulla presenza di “significati enigmatici”, che “bloccano” il rinvio della catena significante, e ne rappresentano un inciampo: fino al delirio psicotico, che ci fa vedere la fragilità del rinvio e il crollo dei significati.
Il linguaggio si rivela essere un campo minato, un territorio che, lungi dall’essere una zona simbolica protetta, affonda le sue radici nella realtà del corpo. La pulsione, il sé, il corpo intrudono nel linguaggio; ma a Lacan, nota l’autore, non interessa salvare la trasparenza di questo territorio: a lui interessa seguire queste crepe per avvicinarsi al vero motore delle azioni umane; a lui non interessa velare e coprire, ma, al contrario, decostruire e distruggere queste coperture e difese, e cercare di fare emergere il godimento.
Lacan invita quindi a seguire la rottura del significante, senza cercare compensi o aggiustature, per far emergere quell’aspirazione all’uno, quell’eccesso di vita insofferente ai limiti, che è il godimento. Il “parlessere”, cioè qualcuno che sembra esprimere il non-senso, è molto più ricco di un soggetto intrappolato nel linguaggio che ha però rinunziato al suo desiderio; “lalingua”, lungi dall’essere svalorizzata in nome di una comunicazione congrua, ci apre brecce verso il godimento. Il linguaggio che comunica si pone in questa prospettiva come una difesa consolatoria rispetto all’eccesso di vita che urge.
L’autore alla fine del libro (peccato che sia solo alla fine) si chiede che cosa ne è a questo punto della psicoanalisi; aggiungerei, che ne è a questo punto della convivenza umana, della pace, del dialogo. Nessuna catastrofe - si legge nell’ultima pagina - perché la via costruita sulle difese si è rivelata infelice e violenta: molto meglio che ognuno arrivi al suo “frammento di uno” e che da lì imposti la sua vita.
Ma qui si affollano non poche domande: ci si chiede se il “frammento di uno” sia identico alla vertigine-eccesso di vita-pulsione di morte, o non abbia dovuto compiere un percorso, determinandosi e limitandosi. Come rispondono insomma Lacan-Pagliardini alle obiezioni che gli rivolgerebbero Hegel e Freud?
La vertigine dell’azzeramento di tutto prodotto dal pensiero non è sfuggita a Hegel, che nella “Fenomenologia dello Spirito” ne parla a proposito della libertà dello stoico. E’ questa una delle rare volte in cui un filosofo ha guardato questo momento dal punto di vista dell’individuo, senza appoggiarlo allo spirito o a Dio: in queste pagine il problema è quello di affrontare la morte come absoluter Herr, e non quello, come sarà in seguito in Hegel, di affrontare la morte dell’individuo per incontrare l’ambiente avvolgente dello spirito. Anche Derrida, nel suo bellissimo saggio “Cogito e storia della follia”, ci parla di questa vertigine angosciosa. Ma per Hegel una libertà che azzera tutto non può vivere, e va bene solo per morire (nel senso del decesso); Hegel cerca quindi i modi in cui la libertà possa espandersi nel mondo, accettando, entro certi limiti, limiti e determinazioni. Tutto si gioca allora sulla misura e la qualità di quei limiti. E’ l’onnipotenza del desiderio che va attenuata, non certamente la voglia di desiderare: come dire che questa deve abituarsi a rispettare i desideri degli altri.
E come si potrebbe rispondere a Freud, il quale ci mostra come, se non riesce a determinarsi e ad espandersi nella realtà, la libido si paralizza, diventando depressione o distruttività? Per questo io ritengo che in questo percorso, che necessariamente comporta un lutto e una rinunzia, sia preferibile enfatizzare e non massacrare i compensi che ci vengono dalla comunicazione, dagli affetti, da un impegno nella vita. Massacrare le cose umane mostrandone la caducità e la illusorietà è fin troppo facile, e che lo facciano certi filosofi non ci sorprende. Ma da quei filosofi più aperti e liberi che sono gli psicoanalisti forse ci aspetteremmo non solo una via negativa, ma anche qualche micro-progetto rivitalizzante, che ci potesse di nuovo ri-appassionare alla vita.

Marcella D’Abbiero

 

Avverto che qui non parlerò da psicoanalista, ma piuttosto da studioso di Lacan. Se dovessi parlare da psicoanalista, dovrei allora concentrarmi sulla copertina del libro, che riporta una scena di un film francese sul 1968. E questo non perché le immagini sarebbero più ‘inconsce’ della scrittura riflessiva, ma perché quando ho chiesto tempo fa ad Alex perché avesse scelto proprio quella immagine, lui mi ha risposto sinceramente di non saperlo. Se non si sa perché si è scelta una certa cosa, è l’Altro che lo sa, come diceva Lacan. Ma appunto, non mi occuperò dell’Altro di questo libro.

1.
Il merito maggiore del libro di Alex Pagliardini consiste nel fatto che egli riesca a combinare due atteggiamenti diversi rispetto alla fitta foresta del pensiero di Lacan. Chiamerei un atteggiamento “lacanologia alla Tarzan”, il secondo “lacanologia alla Macbeth”. Tarzan, in effetti, salta da un albero all’altro con destrezza, sa orientarsi in quelli che Heidegger chiamava Holzwege, sentieri che si perdono. Il limite di questa scioltezza alla Tarzan è che si vedono bene gli alberi, ma non si vede la foresta.
Macbeth invece vede proprio quello che, secondo la profezia, non doveva affatto vedere: che l’intera foresta di Birnam si muove verso di lui. E’ quindi lo sguardo che vede la foresta-Lacan dall’esterno, che la coglie in modo sintetico, magari per concludere che, ahimé, essa viene anche contro di noi.
Alex sa saltare come Tarzan e allo stesso tempo sa cogliere la forma globale che si muove. E’ certo più bravo di me, che mi limito allo sguardo Macbeth, non ho l’agilità di Tarzan.
Impegno di Alex è mettere a fuoco la funzione traumatica del linguaggio. Ora, il termine greco trauma significava ferita – in che senso allora possiamo dire che il nostro accesso al linguaggio ci ferisce per tutta la vita? E’ una ferita certo molto precoce, dato che, secondo gli embriologi, il feto già nel ventre materno ascolta la voce della madre e di chi le è vicino. Credo comunque che questa carica traumatica ci porti a una reazione contro ciò che ci ferisce, contro il linguaggio: il rancore. Quel che Nietzsche chiamava ressentiment. Secondo Alex, allora, siamo tutti veramente risentiti contro il linguaggio? E la condizione umana è quella di un eterno rancore contro il linguaggio?

2.
In effetti, Lacan prosegue una tradizione hegeliana che vede il linguaggio, il logos, come uccisione della cosa; che vede la ratio come accesso all’umanità in quanto perdita definitiva del Paradiso terrestre: la spensierata animalità. Una tradizione che Peter Sloterdijk chiama Miserabilismus – miserabilismo. Ovvero l’idea che l’essere umano o parlante è il prodotto di una miseria traumatica, che il logos ci infligge.
In effetti, Lacan non identifica l’animalità agli automatismi; per lui gli automatismi non sono naturali. Ciò che fa dell’essere umano un animale infelice è invece la sua alienazione originaria nel simbolico, per cui la sua vita viene irretita nel simbolico, sul versante di morte in cui essa si impiglia. Automatismi e ripetizioni sono effetti del linguaggio, il quale rompe la beatitudine immaginaria dell’animale. Farei risalire questa faccia di Lacan a una tradizione romantica che, da Rousseau a Bataille, passando per Marx, considera l’umanità in generale come perdita di una pienezza, come una separazione catastrofica dall’immediatezza della vita. Se interpretiamo il simbolico, l’Altro, come la Cultura in senso lato – come ciò che corregge e coarta la Natura, la deforma e la assoggetta – certamente il pensiero di Lacan si inserisce nel filone della “critica della cultura o della civiltà”, di cui anche Freud fu un campione, in particolare con “Il disagio della civiltà”. Il simbolico ci umanizza, certo, ma a costo di un innesto incancellabile della dimensione della morte nella vita.

3.
Da giovane, mi sembrava chiaro che l’originalità di Lacan fosse nel suo insistere sulla funzione della parola e sul campo del linguaggio. Mentre altre scuole analitiche insistevano sulle emozioni fondamentali, sulla relazione affettiva primaria madre-bambino, ecc.
Poi, in seguito, mi resi conto che Lacan non faceva altro che teorizzare, in modo sofisticato, quel che in fondo tutta la psicoanalisi ha sempre pensato e fatto. Quasi tutte le correnti analitiche più importanti considerano nocciolo della cura analitica l’aiutare a simbolizzare ciò che proviene dall’inconscio – affetti densi e informi, pulsioni indicibili, rappresentazioni pre-verbali. In Bion, ad esempio, l’analisi è trasformare gli elementi beta in alpha, grazie alla reverie di cui l’analista è capace. Quindi, Lacan radicalizzava un primato del simbolico sul reale e sull’azione che di fatto apparteneva a tutta la psicoanalisi. La sola differenza era che per Lacan la simbolizzazione era la condizione trascendentale dell’umanità in quanto tale, in quanto distinta da un’animalità tutta requisita nelle complementarietà immaginarie.
Eppure col tempo ho capito – meglio tardi che mai - che questo simbolico che ci umanizza viene concepito da Lacan come opera della morte. La coazione a ripetere, gli automatismi in cui consistono le psicopatologie, sono per lui effetti del simbolico. Il significante, il linguaggio, il sapere, hanno, come diceva Lacan, un effetto “letale”. Il simbolico uccide la cosa, insomma ci separa definitivamente dalla ingenua felicità animale. In Lacan, all’inverso della psicoanalisi del mainstream, all’origine c’è la simbolizzazione, ma alla fine occorre ritornare alla carne. Il Reale è la vita stessa prima e aldilà di ogni mortifera simbolizzazione.
La posizione di Lacan è paradossale. Molti esaltano Lacan per ciò che, di fatto, egli non ha cessato di denunciare: la parola come ‘free speech’. Di fatto, la sua pratica clinica risultava la più limitativa della parola che si possa immaginare. Le sue famose sedute brevi di fatto erano drastiche amputazioni al libero scorrere della parola. D’altro canto, la sua parola interpretante era limitata al minimo, mentre tutta l’efficacia dell’analista era nel suo agire, nel quando interrompere la seduta, insomma nel suo acting off potremmo dire (cosa diversa dall’acting out). Modello della pratica lacaniana divennero sempre più le performance di certi maestri zen, i quali ostentavano un profondo disprezzo per la comunicazione verbale e puntavano sulla densa realtà dell’atto – spesso, bastonando l’allievo.
Paul Lemoine raccontava che, nel corso della sua analisi con Lacan, le sedute diventavano sempre più brevi. Quando un giorno Lemoine gli chiese il perché, Lacan rispose: “Perché voglio renderle più solide!” Meno parola, più solidità. In generale, possiamo dire che la tecnica di Lacan è passata da un ideale di ”parola piena” a un ideale di “entr’acte solido”, che è una parola ridotta all’osso. Gli interessava quest’osso duro circuìto dalla parola. Nulla di più estraneo a Lacan del compiacimento logorroico della spontaneità, del parlare per il piacere di parlare, di una psicoanalisi come chat a pagamento. Invece occorreva restituire alla parola una gravità di atto e di impegno, una sua densità performativa.
E negli ultimi anni Lacan era diventato quasi muto. Ricordo i suoi ultimi seminari: disegnava tutto il tempo nodi alla lavagna, senza dir quasi parola. Il reale della scrittura aveva schiacciato lo sfavillio della parola.
Quindi Lacan, partito da una posizione logocentrica hegelianeggiante – la posizione per la quale tutt’oggi è celebre –, è approdato a una visione sempre più real-ista, dove quel che conta non è più la parola o il linguaggio, ma proprio ciò che la parola e il linguaggio mancano, un reale che orienta ed estenua entrambi. Uno slittare dal suo hegelismo originario a una visione matematizzante del reale. E mi sembra che Alex nel suo libro colga perfettamente questo slittamento.

4.
Si prenda un brano del libro di Alex:

Se Lacan nell’ultima parte del suo insegnamento ha così accentuato la dimensione del fallimento, crediamo lo abbia fatto per indicare che non c’è modo di trattare il reale e di difendersi dal reale – perché per Lacan dal reale, dal suo reale, occorre difendersi – che fallendone la presa e l’estrazione, fallendo la presa del reale e l’estrazione dal reale con l’elucubrazione di sapere e fallendo la presa del reale e l’estrazione dal reale con il saperci fare.

Cosa vuol dire Alex in questa frase? Io propongo di leggerla a partire da una radura filosofica. Credo che qui egli segnali l’uscita definitiva di Lacan dall’hegelismo che gli ha fatto da matrice. Come è noto, l’assunto di Hegel è che “tutto il reale è razionale”, che poi è una variante del principio di ragion sufficiente, “nihil est sine ratione”, nulla è senza qualche ratio, Lacan direbbe senza qualche logos. Il reale in Lacan è insomma il margine della ragione insufficiente, è qualcosa che non si può simbolizzare, insomma, non si può dar senso a tutto. C’è un reale irrazionale, per dir così. Da qui il fallimento di due forme di sapere – sapere teorico e saperci fare. Il reale è insomma ciò che ogni sapere esplicativo e saper fare cercano di afferrare, di comprendere o spiegare, ma fallendo la presa. Letto il cespuglio di Alex in questo modo, la foresta lacaniana sembra venirci incontro.

5.
Farei una sola critica al bel libro di Alex, e cioè che egli prende Lacan un po’ troppo sul serio. Ovvero, ci vuol trovare troppo senso. Questa mia critica è anche un’auto-critica, ve lo confesso. Prende troppo sul serio Lacan perché alcune sue massime famose – come “Non c’è rapporto sessuale” o “Cedelluno” o “La donna non esiste” o “là dove ça pense, Cosa pensa, io non ci sono” ecc. – non possono essere rese del tutto trasparenti, comprensibili: c’è un’opacità irriducibile nella parola-scrittura di Lacan, che sfida ogni tentativo di farne oggetto di trasmissione didattica. Questo nocciolo irriducibile al senso non è solo in Lacan, lo troviamo in vari modi nella scrittura di Nietzsche e di Benjamin, per esempio, ma anche nell’ultimo Heidegger e persino in Derrida. Il paragone con Nietzsche è forse il più eloquente.
Si prendano massime essenziali come “Dio è morto” oppure “l’eterno ritorno dell’uguale”. Molti libri, alcuni brillanti e acuti, sono stati scritti da filosofi eminenti per spiegare queste massime, interpretandole come si interpretano enunciati sibillini o delfici da cui decriptare il significato filosofico. Eppure in Nietzsche, come in Lacan, c’è un fondo opaco, idiosincratico, che resiste alla chiarificazione, cioè, direi, all’urbanizzazione della foresta. Per esempio, varie volte è stato spiegato “Dio è morto” in termini storicisti, col fatto che ad un certo punto gli umani si sono disfatti di Dio; e così è stato fatto per “Eterno ritorno dell’eguale” e simili. Eppure c’è qualcosa che chiamerei “puro evento di pensiero”, per cui “Dio è morto” va preso alla lettera, che la morte di Dio è evento storico opaco. Ed “eterno ritorno dell’eguale” evoca comunque una visione cosmica allucinatoria che una interpretazione esistenziale ricopre solo in parte. Certi filosofi, scrittori, artisti, producono opere che ad un certo punto ci gettano tra le gambe qualcosa come una pietra opaca, resistentissima alla transustanziazione in senso.
Certamente questi “eventi di pensiero” ci seducono perché hanno come una fosforescenza di senso, evocano in noi esperienze e pensieri che ci commuovono. Una sentenza come “Non c’è rapporto sessuale” ci fa pensare, ci ingravida di sensi, ma proprio perché essa non si scioglie nel mathema, in qualcosa di perfettamente trasmissibile. E così “Y a d’l’Un”, che certo significa “c’è dell’Uno” – concetto tutto da interpretare – ma che Lacan vocalizza come una lallazione infantile, come uno scatto sonoro, una piroetta di cui assaporare l’enigma. Certo è encomiabile che le scuole lacaniane e i commentatori cerchino di tradurre questi idiotismi concettuali, per dir così, ma occorre anche ricordare che in questa traduzione o esplicazione si consuma, inevitabilmente, un virtuoso tradimento. Si paragona la prosa di Lacan alla poesia di Mallarmé e alla prosa di Joyce, altri due autori dove sempre un osso duro di singolarità spezza la masticazione del senso. Io la paragonerei anche alla musica di Darius Milhaud, o ai dipinti di Max Ernst, le cui opere sono sempre indecise tra figurazione e astrazione, tra tonalità e atonalismo, tra insinuazione di un senso profondo e ironico gioco di non-senso.
In questo senso la scrittura e la parola di Lacan non ci parlano solo dell’estraneità del Reale al senso – l’estimità su cui Alex giustamente insiste - ma esse stesse esibiscono un reale indigeribile.

Sergio Benvenuto


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