PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> EPISTEMOLOGIA

PSYCHOMEDIA
SCIENZE E PENSIERO
Epistemologia



Metafora e costruzione del senso

Gian Paolo Scano



Oggetto di questo breve studio è la metafora come momento cruciale dell'agire terapeutico e punto di snodo nella significazione e costruzione del senso. Non si tratta di sottolineare, ancora e semplicemente, l'importanza o l'utilità della metafora nel contesto clinico e tecnico o di privilegiare una sorta di retorica della comunicazione terapeutica, ma di esplorare, piuttosto, il terreno della collocazione teorica di questo sfuggente meccanismo semiotico.
Nel modello freudiano la metafora si radicava profondamente nel tessuto analitico, situandosi come punto di snodo tra il livello astratto del modello, le articolazioni psicologiche della clinica, le procedure della tecnica. Freud cominciò la sua costruzione teorica a partire dalla congettura, nuova e specifica, secondo cui il sintomo ha un senso e la psicoanalisi si sviluppò come programma esplicativo e come strumento di inserzione del sintomo in un contesto di intelligibilità. La precoce definizione dei meccanismi di spostamento, condensazione e simbolizzazione come elementi costitutivi del lavoro del sogno e, più in generale, della dinamica e della economia dell'inconscio, predispose per la metafora un ruolo di articolazione privilegiata, collocandola come luogo essenziale della significazione, della manifestazione e del reperimento del senso nel sogno, nel motto di spirito, nell'atto mancato, nel lapsus come, a ben guardare, nel transfert. In questo contesto, essa si offriva, infatti, come punto di scambio, in cui potevano convergere la concezione stessa del sintomo, del significato, dell'interpretazione, del metodo e, in definitiva, della teoria del cambiamento. Conseguentemente la metafora si offriva come logica e naturale punta di diamante della procedura tecnica per eccellenza, cioè dell'interpretazione.
Oggi il paesaggio è cambiato. Non solo si è esteso il dubbio circa una "crisi dell'interpretazione", ma soprattutto, ad oltre venti anni dall'evento, la consapevolezza della morte della metapsicologia non è più bandiera di sparute avanguardie, quanto piuttosto, constatazione diffusa, (per quanto in genere tacita e talvolta contraddittoria), nel gran popolo degli analisti e persino nelle più ritrose organizzazioni istituzionali. Il terreno, in cui la metafora freudiana affondava le radici e fioriva, custodisce, ormai, la tomba vuota della metapsicologia. Certo, analisti e terapisti continuano a tessere e a interpretare metafore e, in modo, forse, non sostanzialmente differente, la metafora continua a svolgere il suo ruolo pur in assenza della tradizionale giustificazione teorica. E' tuttavia necessaria l' esplorazione e la ricerca di un differente terreno teorico, che possa illuminare e sostenere l'agire clinico. In tal modo potrebbe anche accadere di individuare nella metafora un anello importante per la ricostruenda teoria del cambiamento.
E' noto che la discussione post-metapsicologica si è arenata in un estenuante andirivieni tra la Scilla dell'oggettualismo naturalistico e la Cariddi ermeneutica, impaniandosi tra i veti incrociati che l' oggettualismo pone al "soggettualismo ermeneutico" e quelli, che di rimando, il pensiero ermeneutico restituisce all'oggettualismo "riduzionista" e "scientista". Si tratta di vedere se è possibile superare il pantano e, oltrepassando la "barriera Dilthey", individuare un "luogo", in cui la metafora possa svolgere il suo ruolo non solo clinico e tecnico, ma anche teorico.



1. Aristotele e Freud.

Considerata volentieri artificio seducente e mendace, la metafora è stata sempre oggetto di incerta considerazione: apprezzata incondizionatamente nell'ambito della poesia e della scrittura, per la sua attitudine a illuminare, con improvvise fiammate, la banalità del linguaggio, è stata, invece, tendenzialmente deprezzata in ambiti più rigorosi e severi. Pesa, in questa ambivalenza e sospetto, la disistima per il gioco retorico, la convinzione che la metafora sia essenzialmente ornamento formale, ma, a ben guardare, la diffidenza si nutre di un semplice dato di fatto: il parlare metaforico è, letteralmente, un parlare "mentendo". Naturalmente se si trattasse solo di questo, la metafora avrebbe scarsa rilevanza per l'agire terapeutico, al massimo potrebbe trovare breve attenzione in uno smilzo paragrafo sull'estetica dell'interpretazione.
Se si parte da una concezione di realismo ingenuo, da una visione denotativa del linguaggio, da una epistemologia normativa\oggettiva, da una conoscenza (e\o scienza) dell'oggetto osservato senza osservatore, allora la metafora appare gioco linguistico, serio, utile o ingannevole, da utilizzare con parsimonia in senso, appunto, "strumentale", "espositivo" o "didattico" allo scopo di illustrare con una immagine esemplare, intuitiva e calzante, un nesso, una configurazione, un enunciato, la cui verità, tuttavia, esiste in sé al di là del gioco o della forza espressiva della metafora. Se si parte, invece, da una visione più complessa della realtà e del linguaggio e si pensa alla "realtà" come effetto più che come causa della nostra esperienza; se, seguendo l'indicazione di von Foster, non si scambia la forma apparente (denotativa) del linguaggio con la sua funzione "connotativa", allora la metafora, oltre che operazione linguistica, può apparire forma di conoscenza, di costruzione della realtà sino a configurarsi come "un congegno esplicativo che non contiene nozioni causali" (Von FOSTER, 1987).. Se cioè si considera la "realtà" come una incessante costruzione circolare, in cui l'osservatore è a un tempo il costruttore della realtà osservata oltre che parte della stessa realtà, allora la metafora appare uno strumento di costruzione della realtà, di esercizio di schemi, di applicazione di isomorfismi, che costruiscono il mondo. In questa ottica, Bateson poteva affermare che la metafora non è "graziosa poesia, non è neppure buona o cattiva; è in effetti la logica sulla quale è stato costruito il mondo biologico, la caratteristica principale e la colla organizzativa di questo mondo di processi mentali" (G. BATESON, 1979). Su questo, del resto, i semiologi sembrano convenire: "Quando le figure retoriche sono usate in modo "creativo", esse non servono ad "abbellire" un contenuto già dato, ma contribuiscono a delineare un contenuto diverso" (U. ECO, (1975), 1999, p.347). Lakoff e Johnson, infine, hanno dato spessore a queste affermazioni, dimostrando che "il sistema concettuale umano è strutturato e definito in termini metaforici" (Lakoff G., Johnson M., 1998, p. 24).
Fu Aristotele a gettare le basi della metaforologia e in un modo, che, come spesso è stato notato, ha lasciato ben poco da aggiungere ai posteri(1). Ciò non dipende soltanto dalla tagliente chiarezza dello stagirita, quanto dalla natura stessa della metafora, aggeggio linguistico domesticabile dalla lingua, cui, per più di un verso sembra, però, sfuggire, benché della lingua essa sia, d'altro canto, fondamento e crogiolo. Aristotele, dunque, definì la metafora (POETICA 1457b,1-1458a,17) come ricorso a un nome di un altro tipo, come il trasferimento a un oggetto del nome proprio di un altro. Tale operazione può avvenire attraverso spostamenti da genere a specie, da specie a genere, da specie a specie o per analogia(2.) Nella sua illustrazione "metafora" è assunto come termine generico a indicare i tropi in generale(3). Non conta, per il nostro scopo, analizzare e discutere punto per punto, le quattro tipologie di metafora. Si può rimandare alla sintetica ed esemplare trattazione di U. Eco (1980), salvo annotare già da ora che, nel nostro contesto, risultano particolarmente significativi gli ultimi due tipi: quelle da specie a specie (metafora a tre termini: "il dente della montagna" = la cima sta al genere aguzzo come vi sta il dente) e quelle per analogia (metafora a quattro termini: "il tramonto della vita"= la vecchiaia sta alla vita come il tramonto sta al giorno). Le metafore da genere a specie ("mortali" > "uomini") e da specie a genere ("mille e mille" < "molti") hanno valore espressivo o estetico e, in qualche caso, anche emozionale, ma non aggiungono alcun quanto di conoscenza: ciò che la metafora rivela è già contenuto nei termini della sineddoche o della metonimia. Differente è la situazione per il quarto tipo, (e, parzialmente, anche per il terzo), che si lascia accuratamente descrivere secondo una formula proporzionale: A\B=C\D (la vecchiaia sta alla vita come il tramonto sta al giorno). Eco precisa, ed è annotazione importante, che, ad una accurata analisi, le metafore di terzo tipo risultano anch'esse a quattro termini e soprattutto che "questa formula proporzionale permette di rappresentare anche i casi di catacresi in senso stretto, in cui il metaforizzante sta per un termine metaforizzato che, lessicalmente parlando, non esiste" ( U. ECO, 1980, p.203). In questo caso la formula diventa A\B=C\x (il corpo sta al collo come la bottiglia sta a x; x= collo della bottiglia).
Nelle indagini dei semiologi, due aspetti sembrano più direttamente rilevanti per comprendere e illustrare il ruolo della metafora nell'orizzonte della psicoterapia: 1) le due formule appena indicate mettono in gioco elementi che sembrano travalicare l'ambito linguistico; 2) i meccanismi della metafora sono strettamente apparentati ai meccanismi freudiani del sogno: condensazione e spostamento.
Riguardo al primo punto, Eco, introducendo le caratteristiche generali dell'espressione metaforica, afferma che il discorso sulla metafora si muove intorno a due opzioni relative al linguaggio: se si assume che " il linguaggio è per sua natura, originalmente, metaforico, il meccanismo della metafora fonda l'attività linguistica e ogni regola o convenzione posteriore nasce per ridurre e disciplinare (e impoverire) la ricchezza metaforica che definisce l'uomo come animale simbolico"; se invece si parte dal presupposto che "la lingua (...) è meccanismo convenzionato retto da regole, macchina previsionale che dice quali frasi si possano generare e quali no, e quali tra le generabili siano "buone" o "corrette", o dotate di senso, (...) di questa macchina la metafora è il guasto, il sussulto, l'esito inspiegabile e al tempo stesso il motore di rinnovamento". L'opposizione ricalca quella tra physis e nomos. Se si assume che la metafora fonda il linguaggio, allora non si potrà parlare della metafora se non metaforicamente; se invece si assume che prima esiste una teoria della lingua come sistema di norme, allora la metafora si configura come "scandalo" e "violazione" e "il metalinguaggio teorico deve parlare di qualcosa per definire il quale non è stato costruito". Egli, concludendo, aggiunge che: "... la metafora suona a scandalo di ogni linguistica, perché è di fatto meccanismo semiotico che appare in quasi tutti i sistemi di segni, ma in modo tale da rinviare la spiegazione linguistica a meccanismi semiotici che non sono propri della lingua parlata. (...). In altri termini non si tratta di dire che esistono anche metafore visive (...) o che esistono anche - forse - olfattive o musicali. Il problema è che la metafora richiede spesso per essere in qualche modo spiegata nelle sue origini, il rinvio a esperienze visive, auditive, tattili, olfattive". (U. ECO, 1980, p.192). Insomma la metafora è violazione della lingua eppure dice qualcosa in un modo che la lingua non sa spiegare in virtù di un rimando a domini non linguistici e tuttavia essa è anche un meccanismo di generazione linguistica. In questa ottica la metafora non è un ornamento del discorso, ma strumento di conoscenza e in quanto tale promette di essere essenziale nell'agire terapeutico.
Riguardo al secondo punto, egli sottolinea, che nella metafora, e specificamente nella metafora per analogia, "due immagini si sovrappongono, due cose diventano diverse da sé stesse, ne nasce un ircocervo visivo (oltre che concettuale). Non si direbbe che ci si trova di fronte a una sorta di immagine onirica? E infatti l'effetto della proporzione instauratasi è assai simile a quello che Freud chiamava "condensazione": dove possono cadere i tratti che non coincidono, mentre si rafforzano quelli comuni. ... il risultato finale della proporzione aristotelica è proprio un processo affine alla condensazione freudiana, e (...) questa condensazione (...) può essere descritta nel suo meccanismo semiotico in termini di acquisto e perdita di proprietà o semi che dir si voglia" (U. ECO, 1980, p. 206). Già R. Jacobson (1956, pp. 80-82) aveva ricollegato i meccanismi descritti da Freud con la metonimia e la metafora e Lacan aveva sviluppato tale indicazione, assimilando lo spostamento alla metonimia e la condensazione alla metafora. Condensazione, spostamento e simbolizzazione sono i meccanismi del lavoro del sogno e, ovviamente, sono anche i meccanismi del "lavoro della nevrosi" e dell'inconscio secondo la codificazione metapsicologica. Nella teoria freudiana, però, il tema filtra ancora più a fondo. Nel VII paragrafo del saggio sull'Inconscio, approntando la risposta al problema della doppia trascrizione(4), Freud prende in esame due esempi di produzione verbale di una paziente schizofrenica raccolti da Tausk. La paziente si lamenta del fidanzato, che è un ipocrita, uno "storciocchi", "le ha storto gli occhi e, ora lei ha gli occhi storti, non ha più i suoi occhi, ora vede il mondo con altri occhi". Il secondo esempio è analogo. Freud commenta: "Nella schizofrenia le parole sono sottoposte allo stesso processo che trasforma i pensieri latenti del sogno in immagini oniriche, e che noi abbiamo chiamato processo psichico primario. Esse vengono condensate, e in virtù dello spostamento, trasferiscono interamente i loro investimenti l'una sull'altra; il processo può spingersi fino al punto che un'unica parola, a ciò predisposta dalla molteplicità delle sue relazioni, si assuma la rappresentanza di una intera catena di pensieri" (ib., p.83). In questo modo, come è noto, Freud giunge alla distinzione tra rappresentazione della parola e rappresentazione della cosa che consente una risposta al quesito della doppia trascrizione: non si tratta di due diverse trascrizioni dello stesso contenuto in località psichiche differenti, e neanche di due diverse situazioni funzionali dell'investimento nella stessa località; "la situazione è piuttosto la seguente: la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc. contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; Il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrainvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec" (ib., p.85). L'inconscio, dunque, è il non detto e non dicibile. Ciò cui è rifiutata la traduzione in parole e, proprio per questo, punto di insorgenza d'ogni possibile metafora nel sogno, nella nevrosi, nel discorso e nella vita quotidiana, dato che la metafora si pone necessariamente come interfaccia tra il non dicibile e il codice linguistico. Questo, dunque, è il terreno di fondazione della metafora freudiana, non solo in termini di meccanismo nel dominio del processo primario e del lavoro del sogno e del sintomo, ma anche e soprattutto in termini delle possibilità di svelamento e di accesso al significato. Se il sogno è la via regia all'inconscio, la metafora è a un tempo la serratura e la chiave della porta che ne delimita l'accesso; se il sintomo è metafora, l'interpretazione e la risoluzione di un sintomo equivalgono allo svelamento e disambiguazione di una metafora.
Le considerazioni dei semiologi sul ruolo del meccanismo di condensazione potrebbero lasciar pensare che vi sia, dunque, un valore aggiunto nelle ipotesi freudiane tale da rivalutare, almeno parzialmente, la metapsicologia. Si potrebbe cioè pensare che la metafora rivesta di per sé un ruolo di porta magica e segreta, in grado di funzionare come via breve, che, evitando magari le più ingombranti conseguenze della concettualizzazione fisicalista, ci consenta di riappropriarci direttamente della ricchezza concettuale della eredità freudiana(5).
Un tale passaggio in realtà non esiste: la postierla si apre in un vicolo cieco. C'è, infatti, nel pensiero freudiano una aporia insuperabile, che ha qualche attinenza con un noto limite del pensiero aristotelico. Per Aristotele, e a maggior ragione per la maggior parte del pensiero medioevale, le categorie linguistiche, i nomi, sono correlati alle categorie ontologiche, alle cose: le categorie linguistiche e le categorie ontologiche coincidono. Oggi sappiamo bene che non esistono garanzie ontologiche del significato, che la leggibilità di una metafora dipende dal contesto culturale e testuale, che ne definisce l'appropriatezza, consentendone la disambiguazione. Freud, monista e fisicalista, era ben lontano da pruriti ontologici, ma, la sua concezione della traccia mnestica, della memoria, del fantasma e, in generale, la configurazione dell'apparato e la logica del suo funzionamento, predeterminano una via obbligata nella impostazione e risoluzione del problema del significato, del significato dei sintomi, dei sogni e delle metafore. Anzi, nell'ottica freudiana, il problema del significato si pone in modo relativo. Egli presuppone che il significato è scritto nell'apparato psichico in una lingua di cui è stato possibile ricostruire grammatica, sintassi. Per lui come per l'archeologo, i significati "stanno lì", come Troia nella collina di Hissarlik: nel tell del sintomo il significato è presente, racchiuso e conservato nella matrice, che lo preserva e nasconde. Certo l'analista come l'archeologo deve avere l'idea e il desiderio di cercare e dissotterrare ciò che si è preservato grazie all'oblio della rimozione. L'accento non cade sul significato, ma piuttosto sulle regole dell'individuazione, della comprensione e della traduzione: il significato esiste! Freud non dubita che "nella vita psichica, nulla può perire una volta formatosi, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso, ad esempio, una regressione che si spinga abbastanza lontano, ogni cosa può essere riportata alla luce"(6) Non si tratta solo di convinzione o di opinione, ma della ragionata e, almeno dal punto di vista di Freud, mille volte provata affidabilità di una mappa, che
1) descrive lo strumento, che costruisce i significati secondo la logica della sua struttura (apparato psichico, evoluzione ontogenetica dell'apparato, teoria delle tracce mnestica e delle organizzazioni della memoria, rimozione originaria, regressione,...);
2) ricostruisce, a partire da quella straordinaria stele di Rosetta che è il sogno, grammatica e sintassi della lingua, in cui si codifica il significato inconscio;
3) indica le competenze e le conoscenze che sono necessarie all'analista per decrittare il senso latente;
4) istruisce le procedure euristiche necessarie a dirigere il lavoro "per via di levare" e, dunque, le corrette modalità tecniche di conduzione dell'analisi, comprese le precauzioni necessarie a preservare la purezza dei reperti da ogni intrusione di possibili contaminazioni eventualmente immesse da un inopportuno lavoro per la "via del porre"(7).
E' la Bedeutung così predefinita che rende possibile la Deutung e fonda l'interpretazione. E Bedeutung è il fantasma(8)!
Dietro questa impostazione, che ha giustificato per tre quarti di secolo una presunzione di scienza normale per la psicoanalisi, appare, tuttavia, una concezione della "realtà" e della "conoscenza" ancorata non solo all'oggettualismo naturalistico, ma persino a una sorta di realismo ingenuo qualificabile come prekantiano prima ancora che come positivistico(9). Questa concezione del significato, che sostiene una concezione della metafora e un metodo per la sua utilizzazione come "scientifico" grimaldello per forzare i segreti dell'inconscio, è definitivamente morta con la metapsicologia.
Ma se non esiste un punto di vista che possa garantire la reperibilità di significati "oggettivi" o almeno "soggettivamente oggettivi"" cosa ci potrà salvare dalla regressione infinita delle metafore?

2. la realtà e il reale
In un recente lavoro S. Benvenuto(10) incrocia questo stesso sito teorico e filosofico, seppure a partire dal problema della crisi della interpretazione. Egli analizza le posizioni di Jacques-Alain Miller e di Jean Laplanche, i quali, per vie diverse, tentano di aggirare il circolo ermeneutico e di trovare un qualche "punto fermo", nel mentre che Benvenuto stesso cerca di districare il medesimo nodo, mirando, tuttavia a un differente "al di là dell'interpretazione". I due autori, pur con intenti differenti, convergono nel rigettare l'idea che l'analisi sia un processo ermeneutico, un continuo esercizio di reperimento di "senso": "in ambedue i casi, il far senso - o il tradurre, come preferisce dire Laplanche - è piuttosto alla sorgente del sintomo e della nevrosi, lo scotto da pagare per "far senso" o "tradurre". L'analista opera nel senso contrario - Miller parla di "rovescio dell'interpretazione", Laplanche di "anti-ermeneutica" (Benvenuto, 1999, p.3). Benvenuto vede riemergere in queste posizioni la pretesa illuminista che, rigettando come mito o delirio tutto ciò che anima la vita umana, punta all'oggettività di qualcosa di elementare, a una causa prima che, in quanto causa, non ha senso, e che va rintracciata al di là di tutti i nostri miti interpretativi. Nel suo giudizio, Laplanche e Miller restano loro malgrado impaniati in un linguaggio oggettualista e si attengono, comunque, a una variante strutturalista dell'ideale scientista, secondo cui i soggetti sono sistemi di segni (o significanti) che è possibile ricostruire, uscendo in tal modo dal "circolo ermeneutico" e dalle spirali dell'interpretazione e del mito. Egli ha buon gioco nel mostrare che tali posizioni cadono inesorabilmente sotto i colpi della critica ermeneutica, che l'anti-ermeneutica è pur sempre una ermeneutica e che "de-tradurre" è pur sempre "tradurre". Ammettere che non si può uscire dal circolo ermeneutico non implica, tuttavia, la conclusione scettica secondo cui una interpretazione vale l'altra e ogni interpretazione sarebbe arbitraria. Qui comincia l'impresa personale di Benvenuto. Egli accetta le implicanze del circolo ermeneutico: "in psicoanalisi oggetto e soggetto non sono separati, ma appartengono allo stesso circolo, sono fasi e momenti di una stessa "storia" e questo implica "che la psicoanalisi non è né sarà una scienza, nel senso metodico delle Naturwissenschaften: in queste, difatti, il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto non appartengono mai alla stessa "sostanza" (Ib. p.4), tuttavia "le interpretazioni non sono equivalenti (...) non perché alcune sarebbero vere (o direbbero qualcosa di elementare o di originario) e altre false. Ma (...) perché alcune interpretazioni, a differenza di altre, hanno grazia - ci fanno intravedere un reale che nessun discorso, per quanto oggettivo, potrà dire. E questa evocazione ek-statica di un reale provoca un'emozione di verità nel mondo" (Ib.)
Il discorso di Benvenuto incrocia il nostro perché, nel tentativo di chiarire tale "evocazione ek-statica del reale", egli si rivolge alla metafora: "La metafora tende a rivelarci qualcosa che resterebbe nascosto nel discorso non-metaforico; ci impressiona in quanto pare una rivelazione della "realtà" di ciò che viene alluso. (...) in genere la metafora è una riflessione sulla cosa metaforizzata, e, come ogni riflessione, punta a rivelare e scoprire: la metafora non è strutturalista, non si accontenta della "forma del contenuto" che ogni lingua presume e impone, ma cerca di portarci verso la cosa stessa, al di là della sua forma semantica. Come la luce lunare, la metafora dà luce a qualcosa degli enti (...) che altrimenti resterebbe implicito, buio, tacito. La metafora quindi ci commuove nella misura in cui mira al reale delle cose - anche se, mirandolo, non lo raggiunge mai, perché il reale vero, Ding an sich, la chose, non può esser detto. La pulsione interpretante degli esseri umani ci fa amateurs du réel, ma ci lascia sempre e solo, tra le mani, metafore". Infine, più sinteticamente, aggiunge: "La metafora, analizzando un concetto, ci spinge verso la cosa che il concetto ricopre; da una pura estensione semantica, ci porta al di là della lingua, verso la cosa stessa" ( Ib., pp.12-13).
La sua soluzione, se ben lo intendo, implica tre passi successivi: 1) C'è un agire nell'analisi che opera tacitamente, dietro la scenografia interpretativa; 2) perciò non dobbiamo rinunciare all'interpretazione bensì allargarne la concezione; 3) questo agire interpretante, offrendo un'angolatura, consente al soggetto di distogliersi dalle sue interpretazioni, che aveva preso per realtà, di modo che "il suo essere rigettato verso il reale gli dà un brivido di verità". L'azione interpretante (come azione e\o come discorso) dell'analista non fa che sostituire metafore con altre metafore. Al di là di tutto quello che dice, l'analisi funziona se fa qualcosa; se riporta il soggetto alla vita reale. E a ciò che è veramente vitale del reale: il mutamento. L'analisi può staccare il soggetto dalle sue interpretazioni che hanno perso grazia perché sono diventate anacronistiche. L'analisi, via metafore che fanno effetto, può produrre l'effetto di riportarci nel tempo reale.
Le riflessioni e argomentazioni di Benvenuto sono apprezzabili e anche l' intenzione e la direzione di marcia. Avendo (evidentemente) rinunciato alla alternativa naturalistica, egli si attesta nel circolo ermeneutico e controlla i documenti di viaggio di un lacaniano e di un (tutto sommato) "ortodosso", che pretendono di varcare quelle porte, arrivando tuttavia a un bordo (o un porto?) di oggettività soggettiva. Di lì non si passa. Anche il controllore tuttavia ha le sue angustie: ci sono le metafore e le interpretazioni delle metafore, che sono metafore, ancora metafore, sempre metafore: come evitare la regressione infinita delle metafore? Benvenuto non ha bisogno di un porto e non necessita, quindi, al di là delle colonne d' Ercole del circolo ermeneutico, di attingere le Isole Fortunate di una certezza obbiettiva. Egli può accontentarsi di un orizzonte, della possibilità che l'interpretazione proponga una angolatura, in cui il "senso" si manifesta come una "certa curvatura" e la psicoanalisi scommettendo sull'interpretazione mantiene aperta la prospettiva del reale come irriducibile all'oggettività. Tale prospettiva, tuttavia "è un quasi-nulla": non la si tocca mai, la si ricostruisce solo" perché "Il reale è simile al punto di fuga che possiamo ricostruire nei quadri, e che risulta dalla convergenza delle varie linee prospettiche - questo punto non è quasi mai nel quadro". In questo orizzonte la metafora è una sorta di transitabile\intransitabile porta al limite tra la "realtà" e il "reale".
Si può essere d'accordo, come direzione di massima, con le istanze indicate da Benvenuto: con il ruolo attribuito all' azione, all'azione interpretante e alla metafora. Si può anche condividere il significato attribuito al "reale" come punto di attrazione tensionale. Egli si preoccupa di una riflessione che miri alla saggezza dell'agire e non intende produrre teorie. Si può andare oltre? Una teoria dovrebbe spiegare proprio ciò che Benvenuto evoca come direzione e come orizzonte dell'azione. Dovrebbe spiegare l'azione e l'azione interpretante, la metafora e la sua miracolosa (altrimenti) capacità di scollare la realtà dal reale; dovrebbe forse rendere più operativa la cifra del "reale" senza per questo necessariamente banalizzarla: in fondo la teoria quantistica della luce non ha ancora banalizzato i tramonti, i cieli stellati o i capolavori luministici di Caravaggio.

3. Oltre la "barriera Dilthey"

Non vi è un bypass che aggiri il circolo ermeneutico qualora si percorra la strada dell'interpretazione né un tunnel segreto che salvaguardi la soggettività senza ridurla in un quadro naturalistico, qualora si avanzi, invece, lungo la via dell' epistemologia normativa. Eppure la barriera diltheyana non è un ineluttabile muro di Berlino. E' che non c'è una via breve, che consenta di conservare il mondo quale è stato disegnato dalle teorie, cui siamo giustamente affezionati. Nemmeno la metafora è un "apriti sesamo"! Perciò prima di riprendere a riflettere sulla metafora è necessario dissipare un equivoco, che fonda a un tempo tanto il mito naturalistico quanto, per opposizione e reazione, il corrispettivo mito ermeneutico(11.) L'equivoco consiste nell'abitudine a pensare che la seduta sia un laboratorio, in cui si costruisce una "scienza" e/o uno studio tecnico in cui si applicano i metodi derivati da quella scienza. L'equivoco nacque molto tempo fa nello studio\laboratorio di S. Freud, complici la sua formazione di fisiologo nel laboratorio di Brucke, la conseguente (e ovvia) assunzione della epistemologia fisicalista, la sua fame di ricerca orfana, in quel momento, di laboratorio e d' oggetto. Freud non amava la medicina e sono note le circostanze che lo indussero ad abbracciare la professione medica, le vicissitudini che lo spinsero ad occuparsi di "nevrotici", la non ovvia scelta di praticare l'ipnosi sulla scorta di Charcot e di Bernheim. E' altresì noto come, per questa via, egli giunse a definire un programma di comprensione e spiegazione delle nevrosi e come in tal modo gli accadde di "innamorarsi" della psicologia. La "malattia" dei nevrotici mostrava, infatti, una sostanza "psichica" ed egli costruì, per via psicologica, un organo, la "psiche", in cui lo scienziato poteva trovare l'oggetto di studio, il medico quello della cura. Certo l'organo reale è il cervello e Freud scrisse la sua "psicologia per neurologi" guardando al cervello, ma le intenzioni, i desideri e le dimenticanze non sono suscettibili di essere osservate in vitro e, seppur riluttante, egli accettò di utilizzare il metodo clinico come unica possibilità per osservare metaforici vetrini di un metaforico organo metaforicamente malato, nel mentre che, come medico, si adoperava per guarire l'organo e il malato. Il modello medico poteva, infatti, collocare agevolmente il "paziente" nella doppia posizione di "vetrino" da analizzare e di "organo malato" su cui intervenire, secondo una ripetizione metaforica dell'intervento medico nell'ambito del metodo clinico. La costruzione teorica fornì l'anello mancante, trasformando l' "ammalato" in apparato psichico e le sue parole in dati, in informazioni criptiche lacunose, attivamente deformate dalla struttura e dal funzionamento dell'apparato (censura). In tal modo l'analista-medico si trovava trasformato in analista\osservatore\ricercatore, che, a partire dalle informazioni ricevute dal vetrino e dalla decrittazione delle informazioni lacunose, poteva inferire il quadro dei fattori e dei significati subsoggettivi e, in tal modo, costruire e validare una teoria. Contemporaneamente, a partire dalla teoria così costruita, egli poteva rivestire i panni dell'analista-tecnico applicativo, che, utilizzando le parole alla stregua di un bisturi immateriale poteva provocare il riequilibrio dei processi di investimento nell'apparato, ossia quelle variazioni energetiche tra i complessi di rappresentazioni, che costituiscono la "chiave d'investimento" a partire da cui si producono i sintomi. Per questa via il metodo clinico si trasformava in un immateriale laboratorio d'indagine, che tuttavia funzionava contemporaneamente anche come metodo di intervento; tramite queste mediazioni, cioè, il metodo euristico originario si trovava trasformato in una inattesa variante del metodo scientifico-sperimentale, che Freud non esitò a considerare "scientifico". E' questo il punto di nascenza del "dispositivo epistemico freudiano" (Funari) e il crogiolo della "nuova scienza dello psichico". In questo modo la psicoanalisi nacque da una metafora, dalla duplicazione metaforica dell'intervento medico e del dispositivo sperimentale del laboratorio, nell'ambito del cosiddetto metodo clinico.
Le circostanze di questa nascita da una metafora hanno fortemente influenzato e determinato la storia della disciplina, dando vita ad alcune "evidenze ovvie", che traggono forza non dalla logica, ma dall'imprinting, dall'abitudine e dai meccanismi conservativi dell'istituzione. La più basilare di tali evidenze è l'idea che la seduta sia un luogo in cui si conosce, si ricerca , si fa scienza e si costruisce teoria e, via via, che oggetto di tale scienza sia la "psiche"; che il punto di vista della psicoanalisi sia di conseguenza necessariamente intrapsichico, e che la psicoanalisi sia una scienza conchiusa e autonoma, singolare nell'oggetto, nel metodo, nella logica interna e nelle caratteristiche della acquisizione delle prove. Parte essenziale dell'equivoco, infine, è la convinzione inerziale che la forma della teoresi psicoanalitica non possa essere che questa. Queste evidenze ovvie convergono, quindi, nell'idea che lo studio del terapista sia un laboratorio in cui un osservatore scienziato studia un (soggetto)-oggetto, costruisce una teoria su tale oggetto e applica tecniche, derivate da tale teoria, per modificare, linearmente e nel senso voluto, tale (soggetto)oggetto. Nella concezione freudiana, cioè, P (il paziente, anzi la sua "psiche") è l'oggetto dell'osservazione, della teoria e dell'intervento. La teoria così costruita (t(P)) consente di istruire il terapista riguardo alle azioni e procedure adeguate da mettere in essere per cambiare P (metodo e tecnica); in tal modo la terapia si configura come una scienza applicata.
Non vi è alcun bisogno di attendere a complicate analisi ermeneutiche per dimostrare l'improponibilità di questa Scilli naturalistica. La psicoanalisi stessa ha dimostrato con la sua storia complessiva, (che da questo punto di vista si configura come uno straordinario quanto imprevisto e non voluto, esperimento di epistemologia sperimentale), l'erroneità dell'assunto naturalistico. E' noto che sin dall'inizio l'attuazione dello schema naturalistico incontrò due grosse difficoltà. Freud si avvide che, anzittutto, P oppone "resistenza" e, in secondo luogo, che egli interagisce con il terapista (transfert). Egli non minimizzò queste risultanze, che contraddicevano l'assunto naturalista, ma le costrinse nella teoria tramite due ipotesi ad hoc: la resistenza, come espressione della stessa forza causativa del sintomo, l'interazione, come riproposizione di un vissuto pregresso (transfert). In tal modo, però, egli neutralizzò le caratteristiche intersoggettive della situazione duale, considerandole e accettandole come caratteristiche ineliminabili del dispositivo e, in secondo luogo, ridusse i "fenomeni" della resistenza e del transfert a caratteristiche naturalistiche e autoctone del vetrino. Egli riuscì così a mantenere fisso il quadro concettuale, ma a costo di un duplice riduzionismo che sembra il punto di origine delle future confusioni. La situazione intersoggettiva, la resistenza e il transfert non sono, infatti, "rumore", ma componenti essenziali dell'oggetto che, impedendo al vetrino di "essere un vetrino", lo costringono a comportarsi come un vetrino che interagisce autonomamente con il microscopio! E' la soggettività di P che emerge, in ciò che Freud concettualizzò come "resistenza" e come "transfert". Man mano, però, anche il microscopio si accorse che la "neutralità" (indifferenz) non lo salvava dal comportarsi in modo analogo al vetrino, manifestando vissuti e azioni, che sembravano modellati nella stessa pasta della resistenza e del transfert. Così, nella forma del controtransfert, si fece spazio anche la soggettività del terapista e nel rapporto tra transfert e controtransfert si impose la specifica realtà intersoggettiva e affatto naturalistica della diade terapeutica.
In questo modo, a fronte della epistemologia naturalistica dell'osservatore, emergeva una epistemologia differente: quella propria cioè dell'oggetto osservato, della coppia e dei suoi sottosistemi soggettuali. Questa epistemologia emergente, per quanto compressa nel carapace naturalista, si impose alla teoria fisicalista, che per principio doveva escluderla. Non fu così forte da imporre, in tempi brevi, la falsificazione della teoria, ma innescò e istruì un processo di successive riformulazioni e soprattutto invase progressivamente tutto lo spazio scenico tanto che transfert e controtransfert divennero, man mano, semplicemente la "cura", sino al definitivo tracollo della metapsicologia nella seconda metà degli anni '70 .
In realtà, (e ciò è ben chiaro oggi, non tanto e non solo alla luce del circolo ermeneutico, ma anche e soprattutto alla luce dell'epistemologia genetica e sperimentale), transfert e resistenza altro non erano se non l'insopprimibile evidenziarsi dell'epistemologia interna della coppia terapeutica e della struttura del sistema che essi costituiscono. Nella coppia terapeutica infatti non vi è uno scienziato-osservatore che osserva un (soggetto)oggetto bensì un "sistema osservato-che-osserva" interagente con un altro "sistema osservato-che-osserva".
Se si sostituisce questo assunto all'originario presupposto normativo e naturalistico si possono trovare risposte convincenti al riduzionismo fisicalista e, contemporaneamente, alle fondate critiche ermeneutiche, ma si può anche tagliare l'erba alla pretesa ermeneutica che la psicoterapia esuli dall'ambito delle scienze, scavando un varco nel muro diltheyano. In questa prospettiva, lo studio del terapista non è un laboratorio né sperimentale né epistemico, ma più logicamente il luogo in cui avviene una cura tramite una relazione interpersonale, che funziona secondo le modalità proprie di tutte le relazioni tra soggetti. In questa scena tra terapista e paziente si salda un accoppiamento strutturale in cui prevale, al di là delle teorie e delle tecniche, l' epistemologia interna del sistema e dei due sottosistemi che lo compongono (autonomia). Il sistema osservato-che-osserva può assumere, tra le altre cose, quelle caratteristiche che si è soliti sintetizzare con l'espressione "circolo ermeneutico", ma evidenzia e sottolinea che anche l'interpretazione è, prima d'ogni altra cosa, "azione".
Nulla impedisce tuttavia che ciò che avviene nello studio del terapista possa essere assunto come oggetto di studio e di osservazione da uno scienziato-osservatore neutrale ed esterno, a partire da una epistemologia esterna (eteronomia) e mediante l'utilizzazione di tutti i metodi osservativi e sperimentali che riuscirà a inventarsi. Oggetto di indagine tuttavia, non sarà P, ma la coppia P-T, anzi la registrazione degli eventi interattivi tra P ed T. La teoria emergente non sarà conseguentemente una t\P ma piuttosto una t\P-T.
In questa ottica, l'osservatore-scienziato e il terapista non coincidono più: la costruzione della teoria e l'azione terapeutica pertengono a due momenti e a due domini logicamente, e non solo logicamente, differenti. Le conoscenze e le teorie che lo scienziato riuscirà a elaborare e che potrà fornire a T, saranno utili al terapista nella sua attività di direzione della terapia e funzioneranno come bussola e mappa, ma l'utilizzazione di questo punto di vista "esterno", sarà sempre e inesorabilmente sottostante al punto di vista "interno", interno alla coppia e interno al sottosistema T, come sistema-osservato-che-osserva e parallelamente al sistema P come sistema-osservato-che-osserva. Non si tratta, dunque, di scegliere tra "descrizione\spiegazione" e "vissuto\comprensione", ma di comporre in modo circolare i due domini e i due punti di vista secondo uno schema che, del resto, non è esclusivo della psicoterapia.
In questo orizzonte epistemologico, qualunque intervento tecnico non potrà essere inteso come strumento per produrre cambiamento in modo lineare. Da questo punto di vista, nemmeno la metafora, quindi, è una via breve che permette di attingere significati (ultimi, elementari, oggettivi), nel senso in cui il sogno è la via regia verso l'inconscio, né è un miracoloso "apriti sesamo" chissà come intessuto nel velo di Maia che la realtà distende sul "reale" e attraverso cui il "reale" in qualche modo trasuda, ma,semplicemente, un modo di funzionare, esprimere, comunicare e auto-comunicare proprio di Homo sapiens sapiens nel suo mondo soggettivo e intersoggettivo. Sulle caratteristiche di questa modalità di espressione propria degli umani ci informano, semiologi e linguisti, cioè gli scienziati-osservatori, che professionalmente se ne occupano, così come neuroscienziati, biologi, etologi, antropologi ci soccorrono con le loro ricerche riguardo ai loro territori specifici. Certo, la semiotica prescinde dal soggetto "trascendentale" o "concreto" della semiosi, se non come "uno tra i possibili referenti del messaggio o del testo" o, in quanto presupposto di ogni enunciato, come "uno degli elementi del contenuto veicolato" (U. ECO, (1975), 1999, p. 376)(12.) La psicoterapia si occupa invece essenzialmente del soggetto e, specificamente, di questo preciso soggetto con il suo corpo, la sua storia e la sua specifica significazione.
A partire da questa cornice di riferimento si può ora tornare alla metafora per osservarla e studiarla nel contesto della interazione terapeutica.


4. La metafora finalmente in gioco.


Se si considera che il sogno, spesso, è puro tessuto di metafore e che i sintomi consentono frequentemente delle potenti traslazioni metaforiche, non stupisce che si sia parlato e si parli della metafora soprattutto in relazione alla interpretazione e alla sua efficacia, correttezza, vigore. Certamente il terapista, nella sua attività interpretante, ricorre a metafore, ma una sottolineatura essenzialmente "tecnica" rischia, da un lato, di ridurre la metafora al ruolo di strumentale procedura o di artificio tecnico-espressivo, dall'altro, di perpetuare l'idea che in una terapia ci sia, in ogni caso, un interpretante e un interpretato secondo una direzione comunque lineare. Non sembra questo il ruolo e la funzione peculiare della metafora nella relazione terapeutica. Del resto, una specificazione tecnica della metafora sfiora da vicino il paradosso: non esiste, un algoritmo per costruire metafore e, tantomeno, un algoritmo per costruire metafore, "nuove", "aperte", "creative". Da questo punto di vista la metafora non pertiene alla tecnica né può essere ridotta a strumento dell' interpretazione. Essa trova, piuttosto collocazione nell' ambito dell'attività interpretante complessiva del sistema duale e, all'interno di questo, di ciascuno dei due sistemi soggettuali che lo compongono. In questa ottica, il ruolo della metafora in terapia non è differente da quello che essa svolge nella relazione intersoggettiva e nella comunicazione in generale in ragione della sua funzione fondamentale: quella di promuovere quel vissuto, che Benvenuto indica icasticamente come "evocazione ek-statica di un reale" che "provoca un'emozione di verità nel mondo". La metafora sembra poter promuovere questo vissuto in virtù della sua collocazione nel discorso, della sua natura di aggeggio linguistico, che rinvia a meccanismi semiotici, che non sono propri della lingua parlata e che richiede, per la sua costruzione e interpretazione, il ricorso a materiali ed esperienze che non sono primariamente o esclusivamente linguistiche. Essa in tal modo può talvolta lacerare il carapace denotativo del linguaggio quotidiano, rendendone, per un momento, immediata e tangibile la natura e funzione connotativa(13). Essa ci consente di andare oltre le denotazioni del "dizionario" aprendo i files dell' "enciclopedia" anche di quell'aspetto dell'enciclopedia, che riguarda le esperienze che sono singolarmente nostre o gli aspetti di quelle esperienze, che, pur comuni, sono, in quanto vissute da noi, segnatamente nostre. Forse ciò non autorizza l'affermazione secondo cui la metafora ci fa intravedere il "reale" oltre il velo di Maia della "realtà". In senso stretto, si tratta, infatti, di un altro "mito", che ha la sua radice di verità nel fatto che, quando ciò accade, abbiamo la sensazione di accedere a una realtà più profonda del nostro vissuto e della nostra comprensione dell'altro o del mondo o del nostro essere con l'altro o nel mondo(14). Tutti, e non solo i poeti, possono avere questa esperienza forte del "reale" e talvolta è un'esperienza che fa "fare cose", che "cambia" i punti di vista o le prospettive come accadde a Paolo sulla via di Damasco o, forse, più banalmente, come accade a quanti si innamorano. Non dovrebbe stupire più di tanto che in una relazione terapeutica, caratterizzata da un forte attaccamento e da una dichiarata focalizzazione su sé stessi, sul proprio vissuto e sul proprio "mondo", tutto ciò possa accadere con maggior probabilità e frequenza.
E', dunque, in questo contesto più ampio che è necessario collocare la metafora onde descriverne la funzione e il ruolo nell'interazone terapeutica e, anzi, in tal modo è possibile disegnarne e coglierne con maggiore chiarezza persino gli aspetti che sono più prossimi alla tradizionale attività interpretante. Un paziente può costruire una metafora per:

* per esprimere un vissuto particolarmente forte e significativo relativo a un evento interattivo nel qui e ora;
* per rappresentare una configurazione relazionale, che caratterizza un momento del processo terapeutico o un suo importante passaggio;
* per connotare la sua esperienza complessiva della terapia in un lungo arco temporale(15);
* per significare un qualche aspetto del suo personaggio o per descrivere "personaggi" importanti nel tessuto della sua storia;
* Per esprimere il significato profondo, codificato o emergente, di eventi o momenti importanti, della sua autobiografia.
Analogamente il terapista può servirsi di una metafora per esprimere la sua comprensione di qualcuno di questi elementi del vissuto di P o per definire la configurazione di rapporto tra P e un personaggio della sua autobiografia o anche per significare, se lo riterrà opportuno, un suo proprio vissuto emergente nell'interazione o designare quanto, dal suo punto di vista egli ritiene stia accadendo nell'ambito della coppia terapeutica.
In tutti questi casi la metafora interviene in modo semplice e immediato secondo un livello (e una funzione) che si può, per brevità, indicare come "descrittivo" o "espressivo". La metafora può esprimere in modo potente e creativo una configurazione di senso, che il paziente ha già letto o legge nella sua storia, che il terapista coglie nel raccontarsi di P o che, in qualche modo, emerge nel discorso. In tal modo essa svolge un ruolo molto prossimo alla tradizionale pratica dell'interpretazione, di cui, anzi, sembra costituire il momento più elevato e incisivo.
L'ascendenza naturalistica della psicoanalisi ha indotto, e spesso induce ancora, a pensare che il significato, al cui svelamento mira l'attività interpretante, debba essere pensato come "esistente", come già "dato". Questa convinzione acquista relativa verosimiglianza qualora venga limitata e ristretta al cono temporale della storia di un soggetto, in cui il vissuto di un sintomo, il significato di una sofferenza o di una paura, il racconto di una esperienza, o persino la storia dell' infanzia o quella familiare sono in genere codificati in una narrazione ripetitiva, che assume un carattere di almeno apparente fissità, in cui si può pensare un significato stabilito e preformato. In questi casi sembra normale riferirsi a un "contenuto" o a un "significato", che il soggetto intende comunicare o persino che egli possa comunicarlo al di là della intenzione o della consapevolezza. Per il terapista si tratterà piuttosto di esprimere la propria comprensione di queste esperienze o di questi vissuti oppure la percezione da parte sua di qualcosa, che il soggetto riesce a esprimere, ma non a comunicare oppure la sua percezione di un "senso", che in qualche modo si manifesta nella trama del racconto, ma sfugge a una più precisa veicolazione espressiva.
Parlare di un significato già "esistente" è, tuttavia, una riduzione espositiva, che esemplifica, ma non giustifica la nostra convinzione intuitiva, secondo cui i significati esistono in noi in maniera indipendente, come sembrerebbe suggerire la nostra quotidiana esperienza di comunicatori e di destinatari di messaggi. Spesso, infatti, tendiamo a pensare a noi stessi come se avessimo, da qualche parte, un file, in cui in una qualche lingua (forse il meese!), teniamo scritte in bell'ordine le cose che pensiamo e sentiamo; crediamo che poi, al momento giusto, sia sufficiente andare con il nostro mouse mentale a quel preciso punto dello schermo della nostra coscienza riuscendo quindi a tradurre in parole comprensibili anche agli altri i significati, che riteniamo di possedere in forma più chiara di quanto ogni tessitura di parole possa esprimere.
Se partiamo dal presupposto che quello che chiamiamo "Io" è sostanza di racconto e che noi siamo il nostro raccontarci, allora persino il nostro comprendere noi stessi non è così semplice da giustificare e definire e ci appare anche non così differente dal nostro comprendere gli altri. Se ci collochiamo in questa prospettiva, infatti, diventa verosimile pensare che non abbiamo un approccio diretto e immediato al nostro magazzino di significati, che non possediamo un cestino in cui i nostri significati sono contenuti come delle mele a cui, di volta in volta, il nostro traduttore in parole attribuisce il nome corretto e che, invece, sia il nostro raccontarci e raccontarcelo a costruire il significato. Da questo punto di vista noi produciamo senso, lo comprendiamo ed esprimiamo nel momento stesso in cui lo costruiamo. Tuttavia anche in questa ottica si possono elencare delle occorrenze, in cui si può pensare al significato come a qualcosa che "c'è". Così è, per esempio, quando P racconta una storia relativa alla sua vita quotidiana o all'infanzia oppure se propone una narrazione che può essere equiparata ai ritornelli - racconti, ma anche considerazioni, riflessioni, osservazioni - che, essendo state dette più volte e quasi codificate, hanno, per così dire, un valore semantico quasi fisso o, quantomeno, che noi riteniamo quasi fisso. Parimenti, se una persona, nel giro di qualche seduta mi racconta tutta la sua storia, oltre ai significati da essa intesi, che posso in qualche modo comprendere, posso anche individuare ulteriori significati, che emergono dall'insieme della struttura del racconto, dalla grammatica e sintassi narrativa, dalla natura dell'intreccio, dalla successione di certi eventi e così via. Questa evenienze sembrano conferire verosimiglianza all' esistenza illusoria del "file di significati". Naturalmente, non è affatto detto che cogliere il significato corrisponda semplicemente a comprendere correttamente il racconto del parlante (anche dell' "Io" parlante). Spesso abbiamo a che fare con un senso, un meta-senso, un meta-meta-senso.
In tutti questi casi, in maniera certo semplicistica e per brevità, potremo anche dire che c'è un significato, ma forse è più corretto dire che il significato, tanto per il parlante quanto per il destinatario del messaggio, si costruisce nel momento stesso in cui viene costruito e scambiato e che ciò talvolta avviene in modo esplosivo con la creazione di una metafora.
P può utilizzare metafore per esprimere sé stesso, un suo vissuto o una generalizzazione di vissuti. S, per esempio, è immersa in un continuo e costante bagno di angoscia e panico, che dura per un lunghissimo periodo punteggiato da una serie di sogni caratterizzati dalla presenza di un pesce. Il pesce è sempre prossimo a morire, "perché il mare si è ritirato", perché "è rimasto imprigionato in una pozza che, sotto il sole, si sta prosciugando", perché lei "lo raccoglie boccheggiante, ma non riesce a trovare il mare". Nell'ultimo di questi sogni S e T corrono cercando il mare con il pesce boccheggiante e ormai prossimo a morire, ma il mare non si trova, non è dove dovrebbe essere, ci si perde, succedono intoppi, finché, finalmente: ecco il mare! La stessa paziente, qualche tempo dopo, sogna di ritrovarsi con un bambino in braccio, "il bambino è piccolissimo, avvolto in stracci, rigido, come una bambola o una piccolissima mummia. Nessuno vuole quel bambino, che peraltro a tutti gli effetti sembra morto". S tuttavia se lo tiene sempre stretto, sempre con sé, sui tetti, in cui vive come una barbona con i gatti e con il suo bambino-bambola-mummia.
Il motivo per cui sia il terapista che il paziente si ritrovano a costruire metafore nell'intento di esprimere-esprimersi non è differente da quello che spinge qualunque parlante nella vita quotidiana o persino lo scrittore e il poeta nella loro attività creativa. Si tratta della necessità di "dar nomi alle cose", di forzare il codice denotativo o il dizionario a esprimere una connotazione, per la quale non esiste una parola oppure ne esistono di troppo fruste tanto da ottundere piuttosto che rivelare la sensazione, il vissuto, l'intreccio di concatenazioni di senso o di percezioni di senso. In questi casi la metafora amplifica la percezione non solo del destinatario, ma anche del creatore della metafora. Una volta che la metafora o la catacresi è stata creata e compresa, allora, esattamente come nella lingua pubblica, ognuno dei due membri della coppia può utilizzarla in senso quasi denotativo, nel dialetto proprio di quella coppia, a esprimere e denotare l'intera bolla di significati. Così il pesce boccheggiante e il bambino-bambola-mummia significano il faticoso viversi, spaventato e quasi senza speranza, di S, ma anche la progressiva modificazione di questo vissuto, mentre il bambino-bambola traduce una intera posizione nel rapporto col mondo e con sé stessa, che non può essere indicata né con una parola né con una frase perché si riferisce a una rete complessa di significati e di relazioni tra significati.
Le metafore terapeutiche più significative emergono, però, nel contesto della storia messa in scena dalla coppia terapeutica. Il luogo e il tempo di nascenza è variegato e può riferirsi all'intera recita, a un intero atto, a una singola scena o a un elemento parcellare di una scena. La creazione di queste metafore che consentono di dire il senso è la parte più nobile della pratica interpretativa, che tuttavia non è da intendere come azione del terapista bensì come azione della coppia terapeutica, una co-azione, una co-costruzione e non necessariamente l'esplicitazione verbale dell'isomorfismo, che costruisce la metafora, è opera del terapista, spesso è invece condotta dal paziente in prima persona con i suoi sogni e, talvolta, anche con i suoi sintomi; il terapista, spesso, non ha che da raccoglierne i frutti. In questo processo, il sogno è naturalmente l'ambito privilegiato. L'inconscio freudiano, del resto, è costruito nella sua grammatica e sintassi con operazioni metaforiche e metonimiche. Certo oggi non pensiamo più all'inconscio come a un "luogo" e neppure come a un registro sottordinante, almeno non nel senso freudiano rappresentazionale e ideativo secondo cui l'inconscio, implica una significazione a sé stante, separata e fissa, che istruisce in modo segmentale e preordinato la coscienza in senso contenutistico e rappresentazionale. Da questo punto di vista tendiamo anzi a rovesciare il baricentro di significazione del sogno(16) e preferiamo piuttosto pensare al sogno come al prodotto della processazione parallela, come fusione di molteplici versioni, (che prende naturalmente l'avvio e non solo l'avvio, dalle, vicende, desideri, paure o preoccupazioni della vita quotidiana o dalla riflessione sulla nostra personale vicenda), che poi, svegliandoci, ordiniamo in una storia e a cui poi "diamo un significato". Non vi è alcun boss segreto, che possiede le coordinate segrete del nostro "Io" più profondo e che, nottetempo. in lingua onirica cifrata, ci informa rispetto alla sua-nostra identità, indicando desideri, valutazioni e progetti. E' vero piuttosto il contrario. La riflessione e l'analisi del proprio personaggio, il tentativo di scoprirne i lineamenti e la sostanza o l'analisi delle vicende interattive (cosa sta effettivamente succedendo tra me e te?) producono talvolta metafore, che producono sogni la cui lettura può produrre nuove configurazioni di senso e, forse, nuove metafore.
La proprietà di condensare ed esprimere deriva alla metafora dalla sua natura solo parzialmente linguistica, cui si è più volte fatto riferimento: sia per la sua costruzione che per la sua interpretazione si rende spesso necessario un rinvio a materiali visivi, auditivi, tattili, olfattivi oppure a sensazioni o memorie di esperienze, di sentimenti o emozioni , a qualcosa che solo metaforicamente potrebbe essere indicato come lo spettro dei colori del vissuto. Ciò è tanto più vero in una terapia in cui il codice e l' enciclopedia, da cui si ricavano le proporzioni fondanti le metafore, non sono semplicemente un sostrato socioculturale, linguistico ed esperienziale comune, ma, al di là di questo, il rimando, spesso, è a un codice e a una enciclopedia altamente idiosincratici, in cui sia il terapista che il paziente per comprendere le proporzioni stabilite dall'altro, devono trovare corrispettivi nel proprio personale codice ed enciclopedia. E' probabile che, quando questo lavoro di reciproca traduzione nelle proprie "connotazioni" si traduce in buone metafore, al di là della comprensione, si produca più di un meta-senso riguardo al sentirsi compresi e riguardo al vissuto della comunicazione e relazione. Come Gill (Gill, 1995). ha sottolineato a proposito della interpretazione in generale, l'attività metaforizzante, sia nel versante della costruzione che in quello della comprensione e disambiguazione, è anzittutto una "azione", che in modo relativamente indipendente dai contenuti, implica in sé e per sé dei significati, soprattutto dei significati relativi all'ambito della relazione intersoggettiva e dell' essere con. Su questo si tornerà più avanti.
Alla riuscita di queste metafore possono concorrere anche altre proprietà che i semiologi attribuiscono alla metafora. E' noto, ad esempio, che anche una metafora "vecchia" in un nuovo contesto può rivitalizzarsi e riproporsi come nuova oppure, come annota Eco, che "esistono inopinati passaggi da sostanza semiotica a sostanza semiotica in cui quella, che nella sostanza x era una metafora spenta, ridiventa metafora inventiva nella sostanza y" (U.ECO,.1980, p. 233). Queste, occorrenze sono altamente probabili all'interno del dialetto di una coppia terapeutica, in cui, per così dire, spesso si riforma un codice o si acquisiscono nuovi elementi della enciclopedia. Da questo punto di vista la situazione del paziente e del terapista, presentano tratti di somiglianza con quella del poeta che, all'interno del contesto estetico, "pone sempre i propri tropi come primi perché obbliga a vederli in modo nuovo e perché dispone una tale quantità di rimandi fra i vari livelli del testo da permettere una interpretazione sempre nuova dell'espressione in gioco"(U.ECO, ib.). Proprio la situazione terapeutica crea un punto di vista, un modo nuovo di guardare ai propri vissuti, che favorisce la possibilità che il soggetto si avvicini in modo nuovo e vergine alla particolare tipologia di semiosi, che riguarda il manifestare (e l'automanifestarsi) il proprio mondo interno. Ciò vale anche per il terapista riguardo alla novità del vissuto e del paesaggio interno dell'altro. La stessa situazione rende altamente probabile il ripetersi di una esperienza che è comune rispetto alle metafore. A tutti accade una volta o l'altra di capire come per la prima volta una vecchia metafora perché magari per la prima volta riusciamo a "vedere" le caratteristiche dell'oggetto metaforizzante come potrebbe accadere a qualcuno, che, trovandosi in campagna nel corso di un violento temporale e vedendo querce e giunchi potrebbe scoprire per la prima volta la "flessibilità del giunco" e la "solidità della quercia", comprendendo in modo nuovo una frusta metafora. In una terapia che funziona non è difficile indovinare che reiterate pulizie o persino restauri delle lenti permettano al soggetto di vedere per la prima volta cose che ha sempre visto. Del resto è esperienza comune dei terapisti sentirsi dire "questo l'ho sempre saputo eppure solo adesso mi sembra di saperlo!".
Concludendo la sua trattazione della metafora, U. Eco annota che "per troppo tempo s'è pensato che per capire le metafore occorresse conoscere il codice o l'enciclopedia: la verità è che la metafora è lo strumento che permette di capire meglio il codice (o l'enciclopedia). Questo è il tipo di conoscenza che riserva"(p. 234). Questa affermazione ha naturalmente un surplus di senso qualora si pensi a quei particolari aspetti del codice e della enciclopedia, che entrano in gioco in una terapia.
Questa considerazione introduce il tema della "conoscenza" e del ruolo della conoscenza nella terapia. Come è noto, la psicoanalisi ha sempre congetturato che la conoscenza, (l'insight, che consegue alla interpretazione), sia l'effettivo fattore mutativo, l'agente responsabile del cambiamento desiderato. Questa secolare ipotesi non ha ricevuto alcun consistente conforto dai dati, seppur non definitivi, della ricerca, che sembra invece corroborare l'alternativa opposta secondo cui il cambiamento appare, piuttosto, funzione di un intreccio di fattori che hanno a che fare con il rapporto e con l'esperienza di una nuova relazione. E' tuttavia verosimile pensare che l'esperienza di una terapia produca necessariamente "conoscenza" e di conseguenza conoscenza che modifica il comportamento. L'analisi sin qui condotta mostra che l'attività metaforizzante consente, anzitutto, una miglior conoscenza del "codice" e dell' "enciclopedia" e, in secondo luogo, promuove la permeabilità delle connotazioni proprie dei due soggetti che compongono la coppia terapeutica. Si è anche visto che la costruzione e disambiguazione delle metafore è, al di là degli specifici contenuti di ogni metafora, in sé e per sé una "azione" e che implica dei significati in quanto "azione" attinenti, soprattutto, alla relazione e all' essere con. Questi elementi sembrano poter offrire un nuovo punto di vista utile per impostare il problema della conoscenza e del cambiamento in una nuova chiave. Per poter comprendere meglio il ruolo della metafora nel processo terapeutico, nella "conoscenza" e nel cambiamento, si può ora considerare un tipo differente di metafore o, forse, più precisamente, un differente e più misterioso aspetto della funzione metaforica, che sorpassando il livello espressivo sembra concorrere alla costruzione di un senso "che non c'è".


5. "Cosa si prova ad essere un pipistrello?"

Un giorno S osservò: "nel mio lavoro di insegnante ho naturalmente man mano appreso che spesso gli studenti rispondono meglio a stimoli positivi piuttosto che ai rimproveri o alle punizioni ... lo so e sono in grado di comportarmi di conseguenza... ma è un sapere che riguarda gli altri... o forse anche me, ma a un livello superficiale... esteriore... non so come dirlo... ma è come se, a un livello più profondo, io non sappia cosa è "positivo"... è come una incapacità a riconoscerlo, una mancanza... come se non avessi una effettiva esperienza del "rispondere al positivo"... ". S, che ha una madre schizofrenica e un padre da sempre vissuto come estraneo e come profondamente indifferente, spiega con il rimando a questa condizione la sua strana incapacità.
Questa semplice osservazione merita qualche riflessione. Potrebbe essere, infatti, un esempio semplice di senso "assente" o, meglio, di senso presente nel codice, ma assente nell'enciclopedia del vissuto. L'esistenza di pagine bianche o di pagine scritte in una lingua sconosciuta nella personale enciclopedia di ciascuno potrebbe essere assai frequente soprattutto in relazione ai quadri emozionali, che riguardano quei vissuti, che indichiamo come "fiducia", "sicurezza", "comprensione", "accetazione", "riconoscimento". In questi casi, cosa potrebbe significare per T "comprendere"? Viene da pensare al "pipistrello" di Nagel! Nell'ambito del dibattito sul problema mente-corpo, Nagel si interroga sul "Che cosa si prova ad essere un pipistrello?" e argomenta sulla impossibilità per un umano di comprendere la pipistrellità o per un pipistrello di comprendere l'umanità. "Ogni fenomeno soggettivo - egli scrive - è sostanzialmente legato a un singolo punto di vista e pare inevitabile che una teoria oggettiva e fisica debba abbandonare quel punto di vista" onde l'essenza oggettiva della coscienza pipistrellare risulterebbe inaccessibile, senza per questo poter essere negata allo stesso modo in cui l'oggettivamente soggettivo "cosa si prova ad essere un uomo?" sarebbe parallelamente inaccessibile a un pipistrello o a un marziano intelligenti(17.) Nagel sottolinea la necessità di considerare nella mente e nella soggettività una sorta di "resto" irriducibile. A ben pensarci, però, non è forse necessario rivolgerci ai pipistrelli per riuscire a circoscrivere un tale "resto" è sufficiente interrogarsi su " che cosa si prova ad essere S o Giacomo o Maria?". In ogni soggettività c'è un resto analogo alla pipistrellità nageliana, un ambito privato, profondamente idiosincratico, un al di là da ogni discorso, da cui sembrano sgorgare le metafore più rilevanti, nuove e conoscitive di un processo terapeutico.
Nella risposta critica al saggio di Nagel, Hofstadter annota che "Nagel nel suo articolo non sembra aver riconosciuto (...) che il linguaggio (fra le altre cose) è un ponte che ci consente di penetrare in un territorio che non è il nostro". I pipistrelli non hanno alcuna idea di che cosa si provi ad essere un altro pipistrello, perché "non hanno una moneta universale per lo scambio delle idee". Noi abbiamo il linguaggio, la gestualità, l'arte, la musica,, una sorta di "moneta universale" che rende i punti di vista più modulari, più trasferibili, meno personali e meno idiosincratici". Hofstadter aggiunge:
" Il linguaggio è un mezzo pubblico per lo scambio delle esperienze più private. Ogni parola è circondata, in ogni mente, da un ricco e inimitabile alone di concetti e sappiamo che, per quanto ci sforziamo di portarlo in superficie, ne perdiamo sempre una parte. Possiamo al massimo darne un'idea approssimata. (...). Grazie ai mezzi per lo scambio dei memi (...), come il linguaggio e i gesti, possiamo sperimentare (talvolta in modo vicariante) che cosa si provi a essere o a fare x. Non è mai una cosa autentica, ma che cos'è poi una conoscenza autentica di ciò che si prova ad essere x?. Non sappiamo neppur bene che cosa si provava a essere noi dieci anni fa: lo possiamo dire solo rileggendo il nostro diario, e anche così, mediante una proiezione! E' sempre un modo vicariante. Peggio ancora, spesso non sappiamo neppure come abbiamo potuto fare ciò che abbiamo fatto ieri. E tutto sommato, a pensarci bene, non è neppure tanto chiaro che cosa si provi a essere me in questo momento. E' il linguaggio che ci caccia in questo problema (permettendoci di vedere la questione) e che ci aiuta anche a uscirne (in quanto è un mezzo universale di scambio di pensieri, che consente di rendere condivisibili e più oggettive le esperienze). Tuttavia esso non può farci arrivare fino in fondo"(18)
Il linguaggio rompe la chiusura e permette lo scambio. Il linguaggio però oltre che moneta, relativamente affidabile, di scambio dei vissuti e dei significati privati, è inesorabilmente anche ciò che ci caccia nell'imbroglio nageliano: il linguaggio (tutto il linguaggio) è l'interfaccia, il medium che separa (e congiunge) il grande mare dell'intersoggettività, che respiriamo, dal piccolo lago della soggettività, in cui nuotiamo, lo specchio in cui riflettiamo ciò che siamo e il mondo nel quale viviamo; ciò con cui si costruisce l' Io dal noi e il noi dall'Io; ciò con cui il mondo "materiale" viene "costruito", "compreso", "spiegato", "valutato", " scambiato", "modificato"...; ciò con cui i "significati" vengono modellati nelle intersezioni cangianti dell'interno e dell'esterno, dell'io e del tu, del qui e del là, dell'adesso e dell'allora, del non più e del non ancora.
Grazie al linguaggio possiamo, comunque, accreditarci della possibilità di accedere a una certa "comprensione" dell' "umanità obiettivamente soggettiva", ma che dire della "tuità", cioè del tuo "profondo, oggettivamente soggettivo essere tu"? o persino che dire della mia "meità", "il mio profondo, obiettivamente soggettivo essere me stesso"? o ancora della nostra noità, il nostro "oggettivamente intersoggettivo essere noi"? L'ambito della meità, della tuità e della noità, potrebbe essere, almeno per comodità, indicato come un "resto irriducibile" (analogamente alla pipistrellità per un umano e all'umanità per un pipistrello), che tuttavia è anche l'ambito in cui più profondamente si muovono le psicoterapie, ma anche quello cui fa riferimento la funzione connotativa del linguaggio, in cui sembrano appunto pescare le metafore .
Le teorie psicologico-cliniche, (forse perché sono nate nell'ambito di una epistemologia dell'oggetto osservato e quindi a partire da codici linguistici, in cui i significati sono predefiniti secondo una comprensibile esasperazione denotativa), minimizzano qualcosa che pure sembra ovvia a chiunque sieda sulla poltrona del terapista. P e T si scambiano certo parole e, in tal modo, dei significati codificati, ma questo è solo l'aspetto più superficiale ed esteriore, anzi, il necessario strumento dello scambio, infatti, essi tentano soprattutto di scambiarsi vissuti e questo è molto più complicato. Essi sono organismi chiusi nella loro meità; non hanno esperienza della tuità; sperimentano insieme una noità, ma ciascuno a partire dalla sua meità. Il linguaggio rappresenta l'apertura di questa chiusura, ma non nasce, se non parzialmente, per esprimere la meità o la noità, quanto piuttosto per denotare azioni e cose e, per quanto attiene ai vissuti, esso è piuttosto una sorta di generale sedimento dell'esperire umano, che paradossalmente genera la mia meità verbalizzabile, permettendomi di dire "Io", nel momento stesso, in cui la traduce e informa a partire da categorie intersoggettive più generali e obiettive.
Spesso nella stanza di terapia si vive intensamente l'esperienza di questa chiusura, l'impossibilità di entrare nella meità dell'altro, l'esteriorità invincibile del linguaggio, la difficoltà a percepire, anche e soprattutto, forse, la concreta noità, che sta avvenendo e che stiamo sperimentando ognuno nella relativa chiusura della sua meità. Questo scambio, tuttavia, avviene, (quantomeno, noi siamo convinti che possa avvenire e avvenga) e sappiamo indicare con sostantivi, aggettivi e con un, per lo più muto, riferimento a emozioni e sentimenti conosciuti, il vissuto di questa esperienza. In tutti questi casi la metafora appare più utile del consueto linguaggio denotativo come strumento di scambio.
La possibilità di "comprendersi" sembra poggiare sull' esistenza, tra T e P, di alcuni isomorfismi e su quelli che essi possono percepire-istruire-riconoscere nel procedere della trama della loro storia. Un isomorfismo, secondo la bella definizione di Hofstadter è "una trasformazione che conserva un'informazione". " Si parla di isomorfismo - egli spiega - quando due strutture complesse si possono applicare l'una sull'altra, cioè far corrispondere l'una all'altra, in modo tale che per ogni parte di una delle strutture ci sia una parte corrispondente nell'altra struttura, in questo contesto diciamo che due parti sono "corrispondenti" se hanno un ruolo simile nelle rispettive strutture". Il concetto di isomorfismo è un concetto essenzialmente matematico, ma può essere anche usato in modo allargato. "Riconoscere un isomorfismo tra due strutture note - scrive Hofstadter - fa compiere un notevole passo avanti nella conoscenza; io sostengo che la percezione di isomorfismi è ciò che crea i significati nella mente umana"(19)
Nel nostro caso, per quanto non si tratti di strutture di cui si possa dire che "sono note", c'è sicuramente isomorfismo tra la mente-cervello di P e quella di T nel senso della struttura dell'intelligenza e della struttura dei rispettivi apparati che producono/recepiscono messaggi e codificano/decodificano significati. Questa concordanza di base non ci fa tuttavia procedere di molto, se non assicurandoci la fiducia che c'è una mano che incide in modo corretto il disco, un giradischi che traduce correttamente i solchi in suoni, un orecchio che recepisce correttamente i suoni, un cervello che ne ricava configurazioni di emozioni, una mano che ... e così via in modo circolare(20). Anche all'interno e cioè nella modulazione della musica suonata dal disco ci sono isomorfismi possibili. P e T vivono nella stessa cultura, nello stesso flusso di avvenimenti e utilizzano lo stesso codice linguistico; hanno avuto una famiglia, una madre, un padre, dei fratelli (forse); ambedue sono andati all'asilo e alle elementari, sono stati parte di un clan di adolescenti ... ma, naturalmente, la famiglia di S era una cosa del tutto diversa dalla famiglia di T, che non ha avuto una madre schizofrenica. La madre di M, invece, è morta che M aveva due anni. Cosa è "una famiglia con una madre schizofrenica" o con "una madre morta quando avevo due anni"? più ci si avvicina ai particolari della storia soggettiva di una persona più gli isomorfismi svaniscono. Come fa il T a comprendere S o M se una famiglia "con una madre schizofrenica" o con "una madre morta quando avevo due anni" è presente nel suo codice, ma non nella enciclopedia del suo vissuto? Il problema si pone in modo ancora più stringente per P. L'essere "compreso", "accettato", "amato"..., lo sperimentare "gioia", "fiducia", "abbandono" o qualunque altro sentimento o emozione sono certamente presenti nel codice di ogni paziente, ma in che modo saranno presenti nella enciclopedia personale di S che ha costruito la sua meità, tuità e noità più essenziale nel rapporto con la sua "madre schizofrenica"? Nel libro personale di S ci sono pagine inesorabilmente bianche per me e nel mio libro ce ne sono altre inesorabilmente bianche per lei. A questo livello non ci sono isomorfismi e, dunque, anche la funzione "descrittiva" o "espressiva" della metafora può risultare impotente riguardo alle pagine bianche del libro di ciascuno.
Se in questi ambiti la metafora ha ancora un ruolo sarà piuttosto quello di fungere da schema o da ponte per la costruzione di isomorfismi nuovi, prestandosi a un tempo come strumento atto a consentire l'esportazione di forme nuove dal mondo della meità o noità indicibile in quello del detto e del dicibile. In questo caso la metafora avrebbe una funzione non semplicemente "espressiva" ma "espressiva e costruttiva" e non sarebbe un fenomeno essenzialmente linguistico, o meglio sarebbe tale solo successivamente: una volta detta. In un primo momento tempo essa dovrebbe configurarsi piuttosto come il timido e oscuro proporsi di una relazione tra differenti vissuti, di una struttura, di uno schema che veicola aspetti della meità, della noità o della tuità. Se il terapista o il paziente "trovano" una buona metafora ciò che diventa dicibile e viene poi effettivamente detto è solo il termine "metaforizzante" che sta al posto del metaforizzato, il quale tuttavia può restare nascosto, non detto e persino non dicibile. In tal modo si crea o si segmenta e costruisce la struttura che talvolta può essere anche detta per la prima volta o detta per la prima volta in modo nuovo. E' in questo modo che la metafora potrebbe concorrere alla costruzione del senso, anche di un senso "nuovo". Il meccanismo linguistico più prossimo a quanto sto cercando di illustrare è la catacresi secondo la formula A\B=C\x (il corpo sta al collo come la bottiglia sta a x : x="collo della bottiglia").
Nella formula x può stare per elementi molto differenti, anzi per classi diverse di elementi:
1) per un sentimento o per una emozione, che il soggetto può conoscere in maniera puramente denotativa, ma cui non corrisponde un effettivo "vissuto", la gioia, per esempio o lo slancio affettivo o la commozione. Sentimenti, emozioni, affetti, possono talvolta esistere nel dizionario, ma non negli strati profondi della enciclopedia esperienziale di una persona;
2) per una posizione in relazione a sé stessi o agli altri come la sicurezza, l'abbandono, la fiducia, l'apertura, la gratitudine, il sentirsi accettato, amato, compreso... ;
3) per un settore intero dell'esperienza come può essere l'intero ambito sessuale, che nell'enciclopedia personale potrebbe essere del tutto assente e negata, oppure connotata negativamente come privazione, possesso, invasione, paura, rabbia...;
4) oppure per un intero buco nero che esplode in un sintomo, che si configura come un metaforizzante, cui corrisponde un metaforizzato non detto, sconosciuto, non dicibile e precluso.

In questi casi il metaforizzante (o meglio, come si vedrà, la sequenza e la rete dei metaforizzanti) potrebbe comportarsi come una sorta di ponte o come un "uomo di legno" che sorregge, fungendo da forma o da struttura sostitutiva e di passaggio e fornendo a un tempo uno schema o gli elementi di uno schema, che possono consentire l'emergere di una configurazione di significato e man mano anche il disegno accennato e indistinto di un metaforizzato, che in tal modo può apparire come senso all'interno della percezione del proprio vissuto.
Se una persona non ha mai effettivamente esperito la "fiducia" in che modo potrà "conoscerne il senso", al di là del dizionario, se non attraverso qualcosa che consenta la formazione di una sorta di catacresi a rovescio, in cui il termine, già esistente nel lessico, viene animato da un vissuto nuovo che si va formando nella sua enciclopedia?

6. L' ecosistema della metafora costruttiva

Se qualcosa del genere accade nelle costruzioni terapeutiche, si tratta di una straordinaria prestazione che non può essere giustificata con una imprevedibile "magia" del gioco linguistico, ma che sembra piuttosto rimandare, oltre che alle caratteristiche della metafora come fenomeno semiotico, all'esercizio della semiosi nell'ambito del particolare ecosistema in cui nasce la metafora "terapeutica" e in cui anche il transfert (e il controtransfert) tradiscono una struttura metaforica.
L'ecosistema della metafora terapeutica è la situazione intersoggettiva, il fatto che la terapia si fa in due. All'inizio si cominciò a farla in due perché ogni applicazione del metodo clinico prevede, naturalmente, il medico e il paziente. Presto, tuttavia, Freud si accorse di quello strano "fenomeno" che chiamò transfert. A partire dai vincoli della sua visione naturalistica, egli lo interpretò come irruzione nel setting di una tranche del passato del paziente, soprattutto del passato infantile. Oggi si potrebbe dire che il P (ma anche il T) vive la situazione di relazione con T e struttura la storia di questa relazione secondo una trama, al cui interno sono riconoscibili varie, contemporanee e successive, microtrame e microcanovacci, che modulano la storia e il vissuto della storia secondo modalità contemporaneamente generali e individuali. La messa in atto, lo svolgimento e la sequenza del canovaccio e dei canovacci non è tuttavia una produzione idiosincratica di P, ma una coproduzione dei due attori. Non è semplice spiegare come e perché questo avvenga e forse paradossalmente non lo si è ancora capito abbastanza. Il fatto è che quando un P e un T si ritrovano nello spazio-tempo definito dal setting, accade qualcosa del genere e ci sono buone ragioni per pensare che la modificazione di P sia essenzialmente correlata con l'instaurarsi di un solido legame con T, di una relazione profonda o, meglio ancora, nei termini di Maturana e Varela, di un potente "accoppiamento strutturale" (Maturana H., Varela H., 1992).
Il setting, sembra, infatti, funzionare, non solo come un "separatore" e un "contenitore", ma anche come una sorta di placenta relazionale, in grado di generare un accoppiamento strutturale tra T e P e di legare i due sistemi in un unico sistema T-P. Questa capacità generatrice non è certamente una miracolosa virtù del setting, casualmente e fortunatamente scoperta da S. Freud, come la penicillina da Fleming, essa potrebbe essere piuttosto una caratteristica generale degli ecosistemi semantici umani, una sorta di "legge" propria del nostro universo semantico. Si può congetturare che tale capacità generatrice sia riconducibile, in concreto, all'azione di fattori quali la continuità, l'aspettativa di lunga durata, il clima di ascolto, la sicurezza del costante e garantito esserci di T ecc., ma che, in ultima analisi, essa possa e debba essere spiegata con l'esistenza di una essenziale omologia tra i due sistemi, in virtù della similare storia di accoppiamenti strutturali, da cui sono emersi i sistemi T e P, omologia e similarità, che si traduce in un sostanziale isomorfismo di struttura e di funzionamento. Si può, ancora più specificamente, avanzare la congettura, che si possa ricondurre tale isomorfismo ai sistemi bio-psicologici dell'attaccamento, che costituiscono la porta di ingresso nel sistema semantico per ogni cucciolo della specie(21)ma anche lo stampo in cui si forgiano in modo modulare gli "Io", che replicano tale sistema. Se è così non stupisce che le trame e i canovacci, che si snodano nel setting. abbiano per lo più a che fare con le situazioni connesse all'attaccamento-distacco, accettazione-rifiuto, comprensione-incomprensione, conferma-disconferma, dipendenza-autonomia, amore-odio, passività-attività, affermazione-negazione, collaborazione-competizione, dentro-fuori ecc. Entro i limiti stabiliti dal setting, le regole dell' interazione sembrano essere, infatti, quelle proprie di ogni accoppiamento strutturale tra due "Io" e riguardare perciò quegli snodi elementari della comunicazione, che caratterizzano le opposizioni appena elencate. Questi snodi sono, in modo relativamente indipendente dal contenuto, dei canali elementari, che hanno significato e valore in quanto tali e in quanto tali suscitano reazioni e controreazioni. Essi devono essere intesi come snodi semantici connessi a configurazioni emozionali, sceniche e narrative, che caratterizzano la relazione seppure a partire dal collo d'imbuto delle codificazioni soggettuali, che si costruiscono per ogni soggetto nella storia pregressa dei suoi accoppiamenti strutturali. Attraverso tali snodi e canali, scorre l'effettiva scena intersoggettiva, che può confermare o disconfermare, il quadro delle previsioni e delle risposte emozionali del soggetto, rafforzare o perturbare le sue consapevoli e soprattutto inconsapevoli codificazioni riguardo alle transazioni intersoggettive, sino alla possibilità di scrivere pagine nuove nella sua autobiografia emotiva. Infatti, al di là dei contenuti e al di là delle definizioni "meta" (interpretative, ad esempio), si susseguono nella trama dell'interazione delle "scene" silenziose, che ciascuno dei due attori marca continuamente di valore e di significato, attivando le emozioni connesse e i sentimenti adeguati e istruendo le conseguenti configurazioni di risposta. Il concreto e silenzioso esercizio di queste regole e l'effettiva contrattazione, che si sviluppa nella scacchiera da esse disegnata, modula la semantica elementare delle relazioni, che man mano potrà confermare o modificare la modalità consueta di marcatura(22)
In questo contesto relazionale e semantico, ciò cui si riferiscono il termine e il concetto di transfert, sembra evidenziare una struttura simile a quella della metafora o, meglio, a una concatenazione complessa di metafore: l'azione, il desiderio, il sentimento, il vissuto o l'emozione di P sta a una parola, un'azione, un aspetto, un atteggiamento (o un sentimento o un'emozione inferiti) di T, (in un momento preciso della storia che si sta svolgendo) come l'azione, il desiderio, il sentimento di P ( espresso tuttavia, in genere, attraverso metonimia e sineddoche) sta ad x. Tradizionalmente ad x veniva dato un valore fisso: x stava per una figura importante del passato infantile di P, padre o madre. Al di là della verosimiglianza o anche della effettiva, frequente "evidenza" soggettiva, la determinazione di questa specie di "costante", rispondeva alla concettualizzazione freudiana del transfert come "ripetizione" e alla concezione e ricostruzione dello sviluppo psicosessuale. Attribuire un valore costante a x può, tuttavia, risultare riduttivo e schematico, favorire le interpretazioni stereotipe e, in definitiva, banalizzare e svuotare l'impianto metaforico. In realtà la x in questa formula proporzionale appare, invece, straordinariamente flessibile; essa sembra, infatti, configurarsi piuttosto come una funzione, che, in virtù dei percorsi semantici, tanto culturalmente comuni e condivisi quanto soggettivamente singolari e idiosincratici, può rimandare a infinite marche e a differenti sememi e da qui ad altre marche e ad altri sememi. La x acquista, cioè, valore nella rete dei percorsi che si accendono nella struttura topologica della rete semantica complessiva a seconda dei nessi, che il soggetto di volta in volta annoda nella sua attività di significazione. Non solo. Ogni qualvolta la x acquista un valore, esso modifica quello degli altri termini della proporzione, e, anzi, può costringere alternativamente e persino contemporaneamente ciascuno di essi ad assumere il ruolo di una nuova x e così via per ciascuno dei termini sino a coinvolgere l'intera circolarità del campo semantico. In genere metafore differenti, in uno stesso contesto, definiscono dei campi di significato o di valore per ciascuna delle possibili incognite.
Tentando di sintetizzare in uno schema si potrebbe dire: sia A\B=C\x la metafora in questione, per esempio la metafora che costituisce il nesso centrale di un sogno; la proporzione che essa stabilisce risulta dipendente e\o modificata da una rete di altre metafore presenti nel contesto prossimo o remoto in cui anche A, B, C, appaiono di volta in volta come delle funzioni determinate da altre proporzioni metaforicamente espresse. Cioè la metafora emerge da una bolla metaforizzante che potrebbe essere espressa dalla formula:
x1\x2=x3\x4
in cui ognuno dei quattro elementi assume un valore che è determinato dalla rete di metafore cui è connesso o cui si connette e che quindi determina di volta in volta il valore della proporzione metaforica espressa dalla metafora onirica. In concreto, la metafora A\B=C\x non ha, al di là delle apparenze, un valore fisso. Infatti il valore del rapporto C\x è determinato da A, B e C, che a loro volta possono essere delle x nella rete delle metafore topologicamente vicine (A1\B1= x1\D1; A2\x2=C2\D2 ecc.)
Queste proporzioni esprimono differenti valori semantici per ciascuno dei termini della metafora principale, che di volta in volta può essere riformulata con x differenti o nello stesso contesto, in un sogno, per esempio, oppure in tempi e contesti differenti in rapporto agli eventi che accadono o alle modificazioni del vissuto.
Si veda questo esempio:
"Sono in una casa che è mia, ma non è assimilabile a nessuna casa mia. C'è uno, un personaggio maschile che ha riempito la casa di pezzi smembrati di persone che taglia e fa a pezzi. Lo spazio è occupato da cadaveri fatti a pezzi, pezzi di gambe, di braccia, di visceri, teste, occhi... dappertutto. In tutto questo macello mi abbraccia e mi invita come a passi di danza. Io sono schifata; gli chiedo qualcosa e lui mormora che ha cominciato a far questo dal '53!" (anno di nascita di N.). Mi metto a portare fuori casa tutto questo macello riempendo sacchi e sacchi da immondezza, portandole fuori dalla porta e ammucchiandole fuori, ma l'impresa è impari. Poi vedo mia madre che guarda fissa fuori dalla finestra assente. Io la chiamo per chiederle aiuto, ma lei non si cura di me; risponde cose incomprensibili. Comincio a piangere e a urlare "Mamma!... mamma!... mamma! e mi sveglio piangendo e urlando".
In questo caso la x potrebbe essere: "chi è il personaggio maschile?". La sognatrice attribuisce alla x il valore "mio padre" nel contesto stesso del sogno ("ha cominciato a far questo dal '53", anno di nascita della P), ciò le consente di leggere il sogno, osservando che ha sempre attribuito la follia alla madre, ma ora vede con chiarezza che, in un certo senso, il padre è altrettanto folle e che ha cominciato sin dal '53 a "tagliare a pezzi le persone" e a riempire la "sua casa" di " pezzi di gambe, di braccia, di visceri, teste, occhi ". Nel sogno, tuttavia, sono facilmente riconoscibili una serie di metafore interconnesse: "Sono in una casa che è mia, ma non è assimilabile a nessuna casa mia", "cadaveri fatti a pezzi, pezzi di gambe, di braccia, di visceri, teste, occhi...", "mi abbraccia e mi invita come a passi di danza", porto fuori casa e ammucchio "sacchi e sacchi da immondezza", inoltre il contesto del sogno rende metaforizzanti anche gli elementi che per sé non lo sono: il padre, la madre, la richiesta d'aiuto... Se si da alla x il valore T( T= personaggio maschile), la metafora centrale del sogno potrebbe essere così formulata: la terapia sta alla mia "casa" come l'essere riempita e il portare fuori questi pezzi smembrati sta alla casa del sogno. La proporzione così stabilita è modificata dalle metafore satelliti, che definiscono la mia casa , la casa del sogno, il personaggio maschile, l' abbraccio e l' invito alla danza, l'azione di liberare la casa dai sacchi di immondezza... e ancora T in quanto metaforizzato attraverso il padre e attraverso la madre (ciò che T sta facendo sta ai miei bisogni come "l'azione di mio padre sta alla casa piena di pezzi di cadavere" e \o come le "parole incomprensibili" di mia madre stanno alla mia richiesta disperata"). La metafora onirica circoscrive cioè un universo di "sensi" possibili e affatto unidirezionali.
In passato il problema si poneva essenzialmente in termini di interpretazione giusta o vera e, al di là di ogni caso concreto, la teoria permetteva di pensare a una "interpretazione vera" del sogno ( la "via regia verso l'inconscio") mentre la tecnica si preoccupava di definire le procedure per giungere a una interpretazione il più vicino possibile a quella "vera". Ciò corrispondeva al ruolo attribuito alla conoscenza (in termini di riconoscimento del significato inconscio) nel cambiamento. Oggi il problema sembra piuttosto risiedere nella possibilità per P di modificare la sua bolla metaforica e di accedere a una possibilità di scelta nella determinazione della proporzionalità codificata. Ciò che sembra effettivamente importante non è tanto stabilire se il personaggio maschile del sogno metaforizza il terapista in quanto "fantasma" o in quanto metafora del padre, quanto piuttosto l'effettivo valore che la metafora assume e assumerà nel concreto vissuto di S. Ciò che è essenziale per il cambiamento sembra, infatti, la possibilità di vivere\costruire una metafora nuova, in cui l'azione di x possa assumere un significato differente rispetto alla "casa" attuale di S: ancora e sempre pezzi sanguinolenti e orridi di membra o qualcosa di meno atroce o persino di accettabile e di cui ci si possa fidare? Il problema, dunque, riguarda, da un lato, la possibilità per S di costruire un "senso" differente e nuovo nella sua "casa", dall'altro, il che cosa deve avvenire nella coppia terapeutica perché ciò possa accadere. In passato questa alternativa è stata semplificata nella discussione psicoanalitica con la contrapposizione tra "interpretazione" ed "esperienza correttiva". Questa nozione, tuttavia, in quanto si riferisce a una "esperienza" progettata e tecnicamente decisa da T, può risultare ambigua pericolosa e intrusiva e, comunque, non sembra rendere conto della complessità del processo di costruzione del senso. Nell'ambito dell'accoppiamento strutturale, che lega T e P si sviluppa una "storia". La forma e il contenuto della narrativa assumono un andamento e una configurazione che è determinata dalla singolarità di quella coppia e dall'accadere degli eventi interattivi che la disegnano. E' verosimile che tale storia riproponga in forma metaforica una sorta di quesito della sfinge, decisivo per P, che si riferisce al luogo o ai luoghi del senso precluso. La metafora transferale si riferisce a tale quesito e la possibilità che P attribuisca alla sua x un valore nuovo e inaudito dipende certo dalla disambiguazione delle metafore emergenti, ma dipende soprattutto da un effettivo e nuovo essere con, che si realizza nella noità e che P potrebbe poter scegliere come risposta nuova e inattesa al suo quesito.
La congettura, dunque, è: 1) che l'interazione tra T e P può determinare eventi nuovi, inattesi e perturbanti al livello degli snodi semantici propri di una relazione intersoggettiva intensa; 2) che la struttura metaforica del transfert può consentire la produzione di un senso nuovo; 3) che le caratteristiche della metafora rendono in qualche modo dicibile il senso così costruito.
La metafora interviene in questo processo sia in quanto azione (accanto a molte altre possibili forme di azione) sia in quanto meccanismo semiotico.
Riguardo al primo punto, è stato oramai ripetutamente fatto notare, soprattutto e in primo luogo da Gill, che anche l'interpretazione ( o la non interpretazione), è prima d'ogni altra cosa un fatto, una azione. Anche la creazione di una metafora è prima d'ogni altra cosa una azione, come pure la sua disambiguazione e comprensione, magari attraverso una nuova metafora. Quando un terapista comprende e traduce in una metafora il tentativo del paziente di esprimere la sua meità o quando per disambiguare la metafora di P va a cercare le correlazioni delle proporzioni costruite da P nelle pagine più segrete del suo codice e della sua personale enciclopedia e quando rinunciando alle disambiguazioni stereoptipe cerca di cogliere le connotazioni delle cangianti x presenti nel mondo metaforico di P egli sta anzitutto facendo uno sforzo, spesso non semplice, di apertura, di comprensione e di dislocazione nel mondo dell'altro. In questo modo egli prima d'ogni altra cosa sta costruendo una effettiva noità e si sta adoperando per comprendere la tuità dell'altro. Se questo lavoro di reciproca traduzione nelle proprie "connotazioni" si traduce in buone metafore e nella reciproca e contemporanea sensazione di comprensione e di effettiva comunicazione, inevitabilmente si produce anche un meta-senso riguardo al sentirsi accolti, accettati e compresi. Questa esperienza della tuità e della noità può essere una perturbazione potente per le contestualizzazioni consuete di P e può produrre non una "esperienza correttiva", ma un vissuto che a posteriori può risultare "correttivo" nel senso che pian piano può colmare una assenza e scrivere una pagina nuova. L'ipotesi è che nel tentativo dei due membri della coppia di esprimere\comprendere, tramite la creazione e reciproca disambiguazione delle metafore, si crei nella realtà della noità vissuta un dismorfismo rispetto alla connotazione consueta di P, che dipende dalla collezione enciclopedica delle sue forme di essere con e la possibilità, dunque, di creare nuovi isomorfismi. Nel caso di S e del suo sogno, per esempio, si tratta della possibilità di includere, forse per la prima volta, nella sua enciclopedia, un accadimento imprevisto e cioè che x non riempia la casa di pezzi sanguinolenti e non guardi in modo assente o risponda con parole incomprensibili alle sue richieste. In questo senso, metafore buone e aperte possono nascere nell'effettivo legame di una storia aperta e densa di scambio e comunicazione affettiva, in un essere con differente e nuovo non per progetto, ma per sviluppo effettivo della storia.
In secondo luogo la metafora, in virtù della sua caratteristica generale, quella di "fornire una comprensione parziale di un tipo di esperiena in termini di un altro tipo di esperienza" (Lakoff, Johnson, 1998, p.190) può fornire schemi per l'espressione di un significato di per sé sconosciuto e assente tramite l'utilizzazione di questa o di quella esperienza con cui il P può, utilizzando percorsi suoi, instaurare una similarità. Questo lavoro della metafora può essere favorito dalla flessibilità e dalla relativa variabilità della bolla metaforica transferale. Si è detto, infatti, che il transfert sembra avere una struttura simile a quella della metafora. Si tratta, tuttavia, di una metafora singolare. Essa emerge, infatti, nel discorso per lo più secondariamente nel corso e per virtù del lavoro di disambiguazione: le metafore che emergono nei sogni, nelle comunicazioni e nelle interpretazioni sono metafore derivate, sono "metafore di una metafora", laddove la metafora transferale contestualizza il vissuto in quanto vissuto non il vissuto detto o dicibile. Le metafore "dette" sono metafore di una metafora non detta e non dicibile, sono il tentativo incessante di dirla e contemporaneamente il corso d'opera della sua disambiguazione. Si potrebbe, quindi, congetturare che le possibilità concrete di cambiamento siano vincolate al grado di flessibilità e chiusura della bolla metaforica transferale.
La metafora, infine, rimanda ad ambiti non linguistici: visivi, uditivi, tattili, cenestetici... ma rimanda anche agli ambiti emozionali e al vissuto profondo dei sentimenti. Questa affermazione assume maggiore rilevanza e spessore qualora la si collochi nell'orizzonte neuropsicologico tracciato da A. Damasio con le sue ricerche sulla emozione, i sentimenti, la coscienza. Anzi, queste riflessioni sul ruolo della metafora nella costruzione del senso e, in definitiva, nella determinazione del cambiamento, hanno preso l'avvio dalla teoria delle emozioni di Damasio e, in particolare, dalla nozione di "marcatore somatico", esse sono, anzi, strettamente correlate e connesse a tale orizzonte teorico(23) Ogni corroborazione osservazionale e sperimentale della teoria di Damasio può essere assunta come un incoraggiamento a proseguire nella elaborazione e precisazione di queste congetture; una loro disconferma implicherebbe invece la necessità di una una revisione, anche radicale.




7. Conclusione

Proprio la riflessione sulla metafora, come costruzione, interpretazione e azione, sembra indurre a sottoscrivere lo slogan ormai frequente del: "c'era una volta l'interpretazione!" La ipervalutazione della interpretazione, (che implica anche la paradossale svalutazione dell'azione e l'allargamento abnorme dell'area di competenza della tecnica), sono conseguenze logiche della concezione originaria del dispositivo epistemico freudiano e del suo orizzonte epistemologico. La posizione di preminenza attribuita alla interpretazione poggia, infatti, su due caposaldi concettuali della più antica teoria e cioè: 1) l'antico asserto secondo cui il sintomo nasce sulla base di un rimosso onde la "rivelazione" e coscientizzazione del rimosso sono strumentalmente necessarie per il suo superamento; 2) l'assunto secondo cui il determinante del vissuto è, in ultima analisi, pulsionale. Il dominio della interpretazione, trova così la sua radice e legittimazione nei lontani tempi della teoria del trauma e del "falso nesso" e la sua giustificazione nel periodo d'oro dell'analisi del rimosso. Da un punto di vista epistemologico, invece, la posizione tradizionale sembra implicare una accezione molto limitativa della conoscenza e dei processi di conoscenza, che rimanda a modelli di stampo oggettualistico, derivati dalla visione positivistica in cui la psicoanalisi è nata. Al di là di ciò, tuttavia, l'ipervalutazione della interpretazione sembra implicare anche degli errori fattuali. La pratica psicoanalitica della interpretazione nasce, infatti, essenzialmente come "decodifica" di un testo lacunoso o falsato, sogno, lapsus o sintomo, in cui il senso, deterministicamente dato, è nascosto. E' inutile sottolineare quanto ciò si armonizzasse con la concezione classica della nevrosi. L'esercizio della decodifica mantiene certamente il suo ruolo, dato che ogni forma di psicoterapia ha, comunque, a che fare, se non con un testo, certo con una "narrativa", ma forse le forme della emergenza del senso sono più varie e complesse rispetto alla lettura del senso fossilizzato nel sintomo o nascosto nell' enigma del sogno. Paradossalmente, tuttavia, la relativizzazione dell'attività interpretante del terapista, apre la strada a un allargamento del ruolo dell'interpretazione come "azione interpretante" della coppia terapeutica e al suo interno dei due soggetti che la compongono. Solo un eccesso di intellettualizzazione può considerare la ricodifica come un lavoro di semplice sostituzione di una codificazione verbalizzata con un' altra. La codifica nella psicogenesi avviene nella interazione; l'assunto, certamente generico, che sottostà a gran parte di queste riflessioni, è che anche la ricodifica, avviene nella interazione, l'interazione terapeutica. In questo ambito, la metafora, grazie alle sua caratteristiche semiotiche, sembra costituire un tassello essenziale nel rendere possibile il cambiamento.


Bibliografia

BATESON G., Mente e natura: un'unità necessaria, Adelphi, Milano, 1979
BENVENUTO S., L'interpretazione e il reale. ,1999, www.Psychomedia.it
DAMASIO A. R., L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995.
DAMASIO A.R. ; Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000
ECO U., Metafora, Enciclopedia, vol. IX, Einaudi, Torino 1980, p. 191.
ECO U., (1975), Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1999
FOESTER H. von, Sistemi che osservano,Astrolabio, Roma 1987.
FREUD S., Il disagio della civiltà, (1929), OSF, X.
- L'inconscio (1915), OSF, VIII.
GILL M.M., Psicoanalisi in transizione, Cortina, Milano, 1996
HOFSTADTER D.R., Godel, Escher, Bach, Adelphi, Milano, 1984,
HOFSTADTER D.R., DENNETT D.C., L'Io della mente , Adelphi, Milano, 1985
LAKOFF G., JOHNSON M., Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 1998.
LAPLANCHE J., PONTALIS J-B., Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, 1974
MATURANA H., VARELA H., L'albero della conoscenza, Garzanti, Milano, 1992.
MINSKY M., La società della mente, Adelphi, Milano, 1989.
NAGEL Cosa si prova a essere un pipistrello?, in HOFSTADTER D.R., DENNETT D.C., L'Io della mente, , Adelphi, Milano, 1985.
SCANO G.P., La nozione di interazione e il suo significato per il metodo e la teoria, 2000, www.psychomedia.it


Note:

1 "...delle migliaia e migliaia di pagine scritte sulla metafora, poche aggiungono qualcosa a quei primi due o tre concetti fondamentali enunciati da Aristotele. Di un fenomeno su cui pare che ci sia tuttto da dire, in effetti è stato detto pochissimo. La storia della discussione sulla metafora, è la storia di una serie di variazioni intorno a poche tautologie, forse a una sola: la metafora è quell'artificio che permette di parlare metaforicamente" U. Eco (Metafora, Enciclopedia vol. IX, Einaudi, Torino 1980, p. 191.

2 I semiologi tendono attualmente a definire tanto la metafora quanto la sineddoche e la metonimia in termini piuttosto di connessione inter e infra-sememica.: "La connessione tra due semi uguali sussistenti all'interno di due diversi sememi (o di due sensi dello stesso semema) permette la sostituzione di un semema con un altro (metafora), mentre lo scambio del seme per il semema e del semema per il sema costituiscono la metonimia." U. Eco, (1975), Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1999, pp. 351-352.

3 "... siccome per molti autori il termine /metafora/ ha indicato ogni figura retorica in genere - così è stato per Aristotele e per Tesauro - considerandola, come disse il venerabile Beda, "un genus di cui gli altri tropi sono specie", parlare della metafora significa parlare dell'attività retorica in tutta la sua complessità. E chiedersi, anzitutto, se sia miopia, pigrizia o qualche altra ragione che ha spinto a operare sulla metafora questa curiosa sineddoche, prendendola come parte rappresentativa del tutto. Ne emergerebbe subito, e si cercherà di dimostrarlo, che è molto difficile considerare la metafora senza vederla in un quadro che includa necessariamente la sineddoche e la metonimia: tanto che questo tropo che fra tutti sembra il più originario apparirà invece come il più derivato, risultato di un calcolo semantico che presuppone altre operazioni semiotiche preliminari. Curiosa situazione per una operazione che, fra tutte, è stata da molti riconosciuta come quella che ne fonda ogni altra." . U. Eco, 1980, p. 191.

4 Quando un atto psichico viene trasposto dal sistema Inc nel sistema C "dobbiamo supporre che questa trasposizione comporti una nuova fissazione, per così dire una seconda trascrizione della rappresentazione in causa, che può dunque essere contenuta in una nuova località psichica, e accanto alla quale continua a sussistere la trascrizione inconscia originaria" ? (L'inconscio, (1915), OSF, VIII, p.57).

5 Sono state indicate analoghe "vie brevi" la più nota delle quali è probabilmente l'ipotesi della Bucci sul processamento in parallelo del linguaggio non verbale, che consentirebbe una traduzione neometapsicologica della nozione di processo primario. L'ipotesi della Bucci si colloca, tuttavia, in una ottica sperimentale e contiene dunque le previsioni per la sua conferma o disconferma.

6 S. FREUD, Il disagio della civiltà, (1929), OSF, X,. p. 562.

7 Il riferimento è alla nota metafora freudiana che assimila il lavoro dell'analista a quello dello scultore, il quale procede appunto per la "via del levare" le porzioni "inutili" di materiale, rivelando la statua nel blocco della materia.

8 "Nella cura lo psicoanalista cerca infatti di enucleare, dietro i prodotti dell'inconscio come il sogno, il sintomo, l'acting out, le condotte ripetitive, ecc., il fantasma sottostante. I progressi dell'indagine mostrano spesso che anche certi aspetti della condotta, che sono molto distanti dall'attività immaginativa e sembrano a prima vista determinati soltanto dalle esigenze della realtà, non sono altro in realtà che dei "derivati" dei fantasmi inconsci. In questa prospettiva, tutta la vita del soggetto si rivela come modellata, strutturata, da ciò che si potrebbe chiamare, per sottolinearne il carattere strutturante, una fantasmatica" J. .LAPLANCHE, J-B. PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Bari, cit., !974, p. 165.

9 Questa impostazione, d'altro canto, si scontra con un altro assunto basilare della teoria psicoanalitica classica, quello secondo cui la realtà acquista significato solo all'interno del continumm psicologico di ogni soggetto, di ogni apparato psichico. Rapaport scriveva : "Tutti noi abbiamo un nostro mondo privato in cui ogni oggetto della cosiddetta realtà ha uno specifico significato mediante il quale è o diviene parte della nostra continuità psicologica. In altre parole, le tacite implicazioni per la teoria psicoanalitica dell'ingiunzione "dimmi tutto e arriveremo alla radice della questione" implicano per la teoria psicoanalitica che tutti gli oggetti del mondo esterno - oggetti animati, inanimati, umani, inumani - siano per l'individuo come delle figure in un suo sogno, come in Alice nel paese delle meraviglie, dove si dice "Non svegliatele perché tutti noi siamo nel suo sogno e se la svegliate tutti noi scompariremo". Se si volesse essere veramente precisi bisognerebbe dire che questa è una delle implicazioni epistemologiche della teoria psicoanalitica". Il che naturalmente è vero anche per l'analista, nel cui continuum, oggetti animati, inanimati, umani, inumani e, dunque, anche il paziente, saranno come figure in un suo sogno. La corretta inferenza rapaportiana rischia di giungere a considerare la situazione analitica come uno pseudo-incontro tra due solipsismi in cui ognuna delle due "menti" dialoga con l'imago dell'altra, una imago costruita autarchicamente con i materiali disponibili nel proprio continuum. Anche le informazioni provenienti "obiettivamente" dall'altro "organismo" (percezioni, parole...) saranno, infatti, decodificate a partire da contenuti mentali autoctoni appartenenti a tale continuum. In questo modo si pone un problema non semplice riguardo alla possibilità stessa di concepire una qualunque modificazione nel continuum sia del paziente che dell'analista. Nella pietra di fondazione della psicoanalisi è già scritta sin dalle origini, l' aporia che porterà al dissidio tra fisicalismo ed ermeneutica e, in ultima analisi alla morte della metaspicologia.

10 S. BENVENUTO, L'interpretazione e il reale, 1999, www.Psychomedia.it

11 Ho sviluppato in modo più ampio le argomentazioni sintetiche, che costituiscono oggetto di questo paragrafo, in un saggio sulla interazione, recentemente pubblicato in rete, a cui rimando: SCANO, G.P. La nozione di "interazione"e il suo significato per il metodo e per la teoria http://www.psychomedia.it/pm/human/epistem/scano.htm

12 "...Il soggetto di ogni attività semiosica non è altro che il risultato della segmentazione storica e sociale dell'universo (...). Questo soggetto si presenta nella teoria dei codici come un modo di vedere il mondo. (...). La semiotica ha un solo dovere: definire il soggetto della semiosi attraverso categorie esclusivamente semiotiche: e può farlo perché il soggetto della semiosi si manifesta come il continuo e continuamente incompiuto sistema di sistemi di significazione che si riflettono l'uno sull'altro". In questa ottica soggetto della semiotica è la semiosi: "La semiosi è il processo per cui gli individui empirici comunicano, e i processi di comunicazione sono resi possibili dai sistemi di significazione. I soggetti empirici, dal punto di vista semiotico, possono solo essere identificati come manifestazioni di questo doppio (sistematico e processuale) aspetto della semiosi". U. Eco, Trattato di semiotica generale, cit., p.377, (passim) Sottolineature di U. Eco.

13 I termini "connotazione" e "denotazione" sono utilizzati in questo scritto in senso esteso rispetto alla loro definizione nell'ambito della semiotica, in cui si ha codice connotativo quando il piano dell'espressione è un altro codice e, dunque, ciò che costituisce una connotazione in quanto tale è il fatto che essa si istituisce parassitariamente sulla base di un codice precedente e che non può essere veicolata prima che il contenuto primario sia stato veicolato" (U. Eco, Trattato di semiotica generale, cit., p.83). Poiché qui ci si occupa essenzialmente del soggetto concreto della semiosi, il sottocodice connotativo considerato è quello privato e specifico del soggetto storico parlante. Un uso analogamente allargato viene riservato alle nozioni di "dizionario" e di "enciclopedia".

14 I semiologi forniscono una assai semplice spiegazione della folgorazione estatica che la metafora sembra regalare:"I gioco retorico, tracciando connessioni imprevedibili (o scarsamente previste o sfruttate), rivela fertili contraddizioni. Poiché esso ha avuto luogo tra le branche del semema, e poiché ogni nodo di queste branche è a sua volta origine di un nuovo semema (...) la sostituzione retorica stabilisce nuove connessioni e consente di percorrere l'intera area del Campo Semantico Globale, mettendo a nudo la sua struttura "topologica". In questa attività le selezioni contestuali e circostanziali vengono di frequente a sovrapporsi, si commutano l'una nell'altra, corti circuiti di ogni genere creano contatti imprevisti. Quando il processo si verifica con rapidità e connette punti distanti tra loro, si ha l'impressione psicologoca di un "salto" e il destinatario, mentre ne avverte confusamente la legittimità, non riesce a individuare con chiarezza tutti i passi che, all'interno delle catene semiche, uniscono i punti apparentemente sconnessi. Come risultato, il destinatario crede che l'invenzione retorica sia l'effetto di una intuizione "folgorante" e inspiegabile, una rivelazione, una illuminazione (il "Linguaggio abitato dalla Verità Poetica"), mentre in realtà il mittente ha semplicemente colto con estrema rapidità il circuito delle concatenazioni che l'organizzazione semantica gli permetteva di percorrere. U. ECO. Trattato di Semiotica generale, cit., pp.353-354.

15 S, di cui si parlerà più avanti metaforizza, per esempio, la terapia come "viaggio" e, nel corso di alcuni anni, costruisce sogni che sfruttano numerose variazioni del viaggiare o possibili occorrenze di un viaggio (in treno, in bicicletta, in auto, la perdita di documenti e bagagli...).

16 . Dal punto di vista freudiano il sogno parte da un significato (desiderio inconscio), in quanto tale "indicibile", che prende a nolo, vampirizzandolo, un "significato dicibile" (desiderio preconscio, residuo diurno...), quindi attraverso meccanismi, che possono tradursi in gran parte in metonimia e metafora, si compone un testo lacunoso, oscuro, censurato, che è poi ciò che al mattino ci raccontiamo, tramite ulteriore elaborazione, come sogno. Per Freud il sogno è un "testo" che veicola un messaggio in codice, dal mio "me" inaccessibile" al mio "me" cosciente.

17 T. NAGEL Cosa si prova a essere un pipistrello?, in D.R.HOFSTADTER, D.C. DENNETT, L'Io della mente, Adelphi, Milano, 1985, pp. 379-391.

18Ib., pp. 401-402 (passim).

19 HOFSTADTER D.R., Godel, Escher, Bach, Adelphi, Milano, 1984, p.54.

20 La metafora è di Hofstadter, che la utilizza nella discussione del concetto di significato. . D.R. HOFSTADTER, Godel, Escher, Bach, cit. , pp. 171-191.

21 Una ipotesi molto stimolante, che ha, forse, delle possibilità di essere sviluppata in riferimento a questo e ad altri punti del processo terapeutico, è stata avanzata da M. Minsky. Egli distingue tre tipi di apprendimento: nell'apprendimento ordinario i segnali di successo o fallimento inducono a "modificare i metodi per raggiungere la meta"; Nel caso di interferenze esterne che incutono timore "l'allievo può modificare la descrizione della situazione stessa"; nel caso di segnali di successo o di ricompensa connessi con l'attaccamento, l'allievo cambia le mete considerate degne di essere perseguite". M. MINSKY, La società della mente, Adelphi, Milano, 1989, p. 339. Una prospettiva differente, ma parimenti interessante e promettente, è quella prospettata da Damasio con la congettura del "marcatore somatico".

22 Sull'interazione e sulle regole e caratteristiche dell'interazione rimando al già citato. La nozione di "interazione"e il suo significato per il metodo e per la teoria.

23 Una più precisa definizione e descrizione di questa connessione con le ipotesi di Damasio (DAMASIO A. R., L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995; Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000) supererebbe i limiti di un breve studio sulla metafora. A questo tema dovrà essere dedicato un ulteriore lavoro specificamente centrato sul rapporto tra emozioni, sentimenti e metafora.


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> EPISTEMOLOGIA