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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicodramma



Lo psicodramma analitico nella cura delle psicosi schizofreniche

di Giulio Gasca



Sia per la sua flessibilità, legata all'integrare in sé strumenti analogici e strumenti verbali, che per la sua possibilità di agire in modo profondo ed intenso sulla personalità globale, lo psicodramma è stato frequentemente usato, ricorrendo ad accorgimenti tecnici diversi, nella terapia delle psicosi schizofreniche.
Citeremo qui di seguito, prima di esporre l'impostazione da noi elaborata, alcune esperienze precedenti che ci sono apparse significative.

Alcune esperienze precedenti su psicodramma e schizofrenia.
Anzitutto J.L. Moreno (1946) (1980) il quale ha posto in rilievo particolarmente la funzione degli Io Ausiliari (fino a suggerire uno psicodramma individuale, in cui cioè il gruppo è costituito da un solo paziente attorniato da un numero più o meno grande di persone già esperte in psicodramma che devono non soltanto integrare l'Io incompleto del protagonista, ma anche costituire intorno a lui una sorta di mondo ausiliario, per riportarlo da una realtà costituita prevalentemente da elementi illusori ed allucinatori alla realtà propriamente detta. Moreno sottolinea particolarmente l'utilità di aiutare il paziente a sviluppare la propria realtà privata come farebbe un drammaturgo o un poeta, cogliendone ed elaborandone e vivendone fino in fondo il significato.
Anceline Schutzemberger, prendendo le mosse da casi trattati dallo stesso Moreno, teorizza lo psicodramma di allucinazione nel quale il paziente è invitato a giocare deliri ed allucinazioni come se fossero veri, mentre l'équipe curante è impegnata a comprenderlo cercando di entrare nel suo mondo, così da capire le condizioni perché il paziente possa a sua volta uscire dal mondo dell'incomunicabilità per entrare in quello del comunicabile.
Bour, che si basa su un'esperienza estremamente ampia fatta in ospedale psichiatrico con pazienti schizofrenici particolarmente gravi ritiene utile iniziare introducendo elementi catalizzatori, cioè oggetti (ad esempio un secchio d'acqua, la fiamma di una lampada a spirito, un palloncino e una zolla d'argilla concretizzanti i quattro elementi) dotati di un forte riferimento simbolico in se stessi o in relazione ad un particolare momento attraversato dal gruppo o da uno dei pazienti. (Possono così divenire catalizzatori in specifiche circostanze un gomitolo di filo, un calamaio, una piantina in un vaso) ciò incoraggia anche gli schizofrenici più confusi o autistici a drammatizzare collettivamente dati temi.
Si ottiene così il duplice risultato di stabilire una comunicazione tra loro e con i terapeuti, e di crerare ciò che Bour chiama punti di cristallizzazione nel protoplasma indifferenziato della loro esperienza cioè un punto di partenza o un principio d'ordine a partire dal quale essi possano riprendere ad esprimersi e ad agire con senso e coerenza.

Lo psicodramma analitico individuativo
Ma in questa sede esamineremo le applicazioni dello psicodramma individuativo, il modello da noi usato, nella terapia della schizofrenia. Con soggetti normali o nevrotici la dinamica terapeutica e analitica di esso può venire illustrata attraverso il seguente schema (n. 1).

Così va letto lo schema: il vertice superiore rappresenta le dinamiche di gruppo che, in un gruppo di psicodramma, possono anche venir viste come i ruoli che ciascun membro assume in relazione a quelli che attribuisce agli altri. Tali ruoli si esplicitano sia nell'interazione diretta, sia con il presentarsi di ciascuno, raccontando e drammatizzando specifici espisodi della propria vita, sia ancora con lo stile con cui ognuno impersona i ruoli che viene chiamato a rappresentare nelle scene portate dagli altri partecipanti.
Il vertice inferiore destro rappresenta i ruoli che ciascun membro ha avuto nella sua storia passata o che hanno avuto persone per lui significative. Le freccie che uniscono i due vertici rappresentano rispettivamente lo strutturarsi dei ruoli assunti qui ed ora in gruppo col sommarsi, fondersi e modularsi, per essere adeguate alle nuove situazioni, delle esperienze passate, e il riemergere di ricordi attivati dalle particolari dinamiche del gruppo terapeutico.
Il vertice inferiore sinistro si riferisce ai ruoli intrapsichici (funzioni, modelli interiori, complessi autonomi) spesso rappresentati dai personaggi dei sogni, delle fantasie e dei deliri. Tali nostri ruoli interni strutturano il mondo interiore, dando un senso al caotico fluire di rappresentazioni, immagini e impulsi, allo stesso modo in cui i ruoli esterni strutturano i percetti del mondo circostante in una realtà, dotata di significato e costituita da relazioni interpersonali.
Ora (freccie a doppio senso dal lato inferiore) tali parti interiori si costituiscono prendendo a modello particolari aspetti di persone incontrate nel mondo esterno e, a loro volta, attraverso un processo di proiezioni e assimilazione, influenzano il modo in cui vediamo tali persone.
La stessa relazione infine vi è (come indicato dallo schema) tra ruoli interni attivati dalla dinamica del gruppo in ciascun membro e ruoli assunti/attribuiti di volta in volta nel gruppo stesso.
La scena che verrà drammatizzata viene tratta per lo più da un evento della storia passata di un membro del gruppo (vertice inferiore destro) o da sogni e, più di rado, fantasie o deliri (vertice inferiore sinistro) eccezionalmente da eventi successi in precedenza, nel gruppo stesso.
La scena costituisce l'interpretazione della rete di relazioni prima esposte: vivendo e nello stesso tempo cogliendo riflessivamente il senso della propria parte giocata, confrontando il qui ed ora del gruppo col là e allora della scena evocata, riappropriandosi, attraverso il cambio dei ruoli, delle proprie parti proiettate su altri nel mondo reale o in quello onirico, i protagonisti sono portati a comprendere non solo razionalmente, ma in tutto il loro spessore le relazioni tra dinamica di gruppo, mondo interiore e storia della vita di ciascuno.
Ciò permette di prendere coscienza delle motivazioni e del senso dell'agire attuale, dell'origine dei sintomi, della difficoltà a liberarsi da essi, delle zone d'ombra del mondo intrapsichico, dei suoi conflitti e delle sue potenzialità.
In secondo luogo porta all'analisi dei fenomeni transferali, intesi sia come ripresentarsi in gruppo dei modelli costituiti delle relazioni passate, sia come il manifestarsi attraverso l'articolazione delle relazioni con altri (pazienti o terapeuti) del mondo interiore di ciascuno.
In terzo luogo porta all'assunzione di un atteggiamento di soggetto, capace di dare un senso assumendo un atteggiamento responsabile, alla propria storia di vita interiore.
Ma tale modello presuppone nei pazienti del gruppo una sufficiente capacità di entrare e uscire dai ruoli e di connettere ed integrare la molteplicità di esperienze che si trovano ad affrontare e non è perciò tout court applicabile ad un gruppo di schizofrenici gravi.

Considerazioni sulla schizofrenia: come applicarvi lo psicodramma?
Il modello eziopatogenetico della psicosi schizofrenica da noi seguito nasce dalla necessità di conciliare tra loro una molteplicità di dati obiettivi esatti, riferiti e interpretati però parzialmente in modelli incompatibili tra loro. Ci muoviamo dalle classiche descrizioni di Bleuler, Kraepelin, Schneider, per soffermarci poi sui ricchissimi studi sperimentali e le analisi della struttura del pensiero che vanno da Kasanin a Cameron, e contrapporre alle indubbie dimostrazioni di una predisposizione genetica con relative teorie biologiche, valide almeno in una parte dei casi, l'altrettanto certa dimostrazione dei complessi fattori legati alla dinamica familiare, la cui estrema importanza è evidenziata al di là di ogni dubbio dagli studi sistemici (Lidz, Bowen, Wertheim, tanto per citarne alcuni) le cui osservazioni sono assai sintone alla nostra teoria dei ruoli. Infine approfondiamo quelle teorie che, da McReynolds a Ciompi, sono state capaci di sollevarsi al di sopra dell'unilateralità del singolo punto d'osservazione, per fornire una spiegazione integrata di più punti di vista, solco in cui noi stessi ci collochiamo.
Il futuro schizofrenico, vuoi per una innata intolleranza alle situazioni ambigue, comportanti percetti non integrabili in modelli pre esistenti, vuoi per un livello troppo elevato di incongruenza dei messaggi strutturanti della matrice familiare, tende a rimanere all'interno di un numero limitato di ruoli rigidi e ipersemplificati, così da evitare tutte quelle situazioni che, a causa delle incoerenze, presenti ma non esplicitabili, nei codici del sistema familiare, lo precepiterebbero in una situazione che vive come caotica e incomprensibile. Ma con il suo crescere (pubertà, servizio militare, conclusione degli studi, ricerca di un impiego, età per il matrimonio) o il mutare dell'equilibrio familiare (morte, malattia, partenza di un componente), nuove, spesso contraddittorie, richieste lo obbligano ad uscire dal repertorio di ruoli sicuri e collaudati. Egli non dispone di meta-modelli interiori per selezionare nella massa di percetti che a lui pervengono dal mondo circostante e da quello intrapsichico, quelli rilevanti dagli irrilevanti, quelli pertinenti da quelli non pertinenti allo specifico nuovo ruolo richiesto. Poiché è attraverso i ruoli che noi interpretiamo i contesti e, articolando e integrando tali contesti, ci creiamo un'immagine del mondo, il paziente si trova così gettato nella confusione che caratterizza la fase acuta della malattia. Pensa in modo sconnesso, iperinclusivo (vale a dire anziché farsi condurre da un filo logico nel costruire una sequenza di concetti per ogni concetto viene sopraffatto, trascinato in molteplici direzioni da tutti i possibili collegamenti, tra cui non ha modo di fare una scelta).
La stessa incapacità di meta-selezionare e integrare in un modello, facendolo emergere dallo sfondo dei molteplici modelli possibili si manifesta nell'incoerenza dell'affettività, del comportamento e nei collegamenti di pensiero, affetti e azioni tra loro (la dissociazione e l'ambivalenza bleuleriana) e nel mescolare rappresentazioni e fantasie con percezioni (allucinazioni) e giudizi di realtà (percezioni deliranti).
Per proteggersi da tale caos, per lui assai ansiogeno il paziente ricorre ai classici meccanismi di difesa propri della schizofrenia e che come abbiamo rilevato altrove (Gasca - Taverna) sono rivolti non a tener lontano ciò che è doloroso o riprovevole, ma ciò che è ambiguo e confusivo. Lo strutturarsi e l'estendersi graduale di tali meccanismi caratterizza gli aspetti cronici della schizofrenia, che nella nostra esperienza si può dire si sovrappongono e coesistono a lungo con gli aspetti acuti, in relazione alla diverse forme cliniche.
1) La limitazione del campo (tipica della forma residuale e della forma simplex dove si impone così precocemente da mascherare la fase acuta): il paziente gioca solo ruoli che non comportino ambiguità e contraddizioni, ignorando o evitando tutti gli aspetti più complessi della realtà interpersonale.
2) La rinuncia a strutturare gli eventi secondo un modello coerente (tipica della forma ebefrenica) che lo porta a lasciarsi vivere in modo passivo e frammentario i percetti che via via gli si presentano, assumendo atteggiamenti fatui o stolidi.
3) L'assimilazione sistematica ad un modello rigido e semplificato (tipica delle forme paranoidi) che si traduce nel razionalismo morboso descritto da Minkowski. Tale struttura difensiva ci permette di comprendere particolarmente bene il delirio cronico, che, a differenza del fluido, mutevole incoerente delirio acuto, tende, col passare del tempo ad imprigionare sempre più la complessità del mondo in un unico, uniforme, rigido schema interpretativo, cui a priori ogni evento viene riferito.
Potremmo anche dire che nella fase acuta lo schizofrenico tende a servirsi dei segni (cioè quei significanti verbali o analogici che, totalmente definiti nell'ambito di un sistema logico-linguistico coerente, permettono un ragionamento adeguato e provocano comportamenti conformi alle aspettative degli altri) come fossero simboli (cioè quei significanti propri sia dello spazio interiore, immaginale, che della creatività artistica che contengono più di quanto al presente sia esplicitabile alla coscienza: essi, appartenendo contemporaneamente a più linguaggi logici, spesso incompatibili o non traducibili tra loro, sono per così dire sospesi tra una molteplicità di riferimenti possibili e ne esprimono la tensione verso una nuova sintesi).
Lo schizofrenico acuto ha perciò difficoltà ad interpretare coerentemente la realtà, specie interpersonale, avendo perso l'uso della dimensione sociale (l'insieme di definizioni, regole, aspettative, modi di procedere consensualmente validati) dei propri ruoli.
Al contrario, col procedere della cronicizzazione, lo schizofrenico sempre più sopprime la funzione simbolica, in quanto usa anche quelli che nel normale sono simboli (e in quanto tali danno accesso alla dimensione della possibilità, evocando progetti interiori che si sviluppino cogliendo nuovi punti di vista e collegamenti suscettibili di aprirsi verso nuove soluzioni) come segni. E' allora la dimensione immaginale dei propri e degli altrui ruoli ad essere perduta: la visione del mondo si semplifica e si impoverisce, la progettualità si cristallizza in forme rigide e stereotipate fuori del tempo, cui si contrappone una progettualità altrui altrettanto cristallizzata che riduce gli altri a nulla più che manichini che esistono solo per svolgere ripetitivamente una funzione uguale e contraria alle intenzioni del paziente.
Come in tutte le tecniche di terapia analogica, il primo passo, anche nello psicodramma, consiste per la cura della schizofrenia, nel restituire ai segni la funzione di segno ai simboli la funzione di simbolo. La prima operazione è realizzabile a partire da situazioni che attivino nel paziente i suoi ruoli esterni ancora conservati e relativamente sani in interazioni legate prevalentemente alle dimensioni sociale e somatica in modo che l'interpretazione sia verificabile secondo modelli semplici e univoci nel qui ed ora per poi passare gradualmente a situazioni più complesse e dai significati più sfumati.
La seconda (che sembra corrispondere agli psicodrammi di Moreno, Ancelin Schutzemberger e Bour, sugli schizofrenici, ma nel nostro caso agisce spesso sul paziente impoverito o destrutturato e non solo sul delirio florido) si realizza creando una specifica cornice di regole che vanno assolutamente rispettate, all'interno della quale sia possibile al paziente esprimere il proprio mondo interiore in totale libertà al di fuori delle categorie riduttive vero/falso, giusto/sbagliato, buono/cattivo che, con la loro presenza contraddittoria, hanno reso micidiali i messaggi doppio-legame e le aspettative di ruoli - a doppio- legame nella matrice familiare di origine.
Le immagini-drammi così sviluppate, fuori dal mondo solipsistico, cui l'ambiente lo costringeva, possono, attraverso l'incontrarsi, lo scontrarsi, il confrontarsi, il riconoscersi nello spazio intersoggettivo, acquistare forma e senso non più solo per il singolo individuo, permettendogli di riprendere rapporto con la realtà circostante.

Problemi e obiettivi della prima fase o fase pedagogico formativa
Il funzionamento del gruppo di schizofrenici rispetto a quello per nevrotici, nella prima fase, può essere esemplificato da questo schema: le dinamiche di gruppo, la storia personale, la storia interna spesso si mescolano e sovrappongono. In altri casi sono rigidamente distinte, cosicché sembra pressoché impossibile evidenziarne le correlazioni.
La scena giocata ha l'effetto di portare a poco a poco il paziente a ristabilire i confini tra i tre modi di essere e a coglierne le correlazioni (che erano rappresentati dalle frecce a duplice direzione del primo schema) in modo articolato e fluido.
Ciò avviene attraverso l'acquisizione o il recupero delle seguenti funzioni.
Per quanto riguarda gli aspetti acuti, iperinclusivi, (che, come si è detto coesistono a lungo, magari in forma latente, con quelli cronici riduttivi).
1) la capacità di assumere una parte, sia nel rievocare le scene della propria vita, sia partecipando a scene altrui.
Il paziente spesso ha difficoltà a rapportarsi ad una scena concreta. Ora nello psicodramma le scene devono essere caratterizzate da un luogo e da un tempo specifici, cui sono riferite, e da personaggi definiti che in esse sono intervenuti.
Inizialmente il paziente confonde invece e sovrappone momenti diversi, mescola il se stesso di allora col se stesso narrante, terapeuti, Io ausiliari con altri medici o psicologi del passato; altre volte sembra incapace di concludere una scena e, se non interrotto dal conduttore, giocherebbe interminabilmente eventi collegati solo perché consecutivi.
Chiamato a giocare da altri ha difficoltà a ricordare, o a attualizzare espressivamente, organizzandole in ruolo, le istruzioni del protagonista: spesso gioca in modo rigido spento, meccanico, oppure mescola alla parte elementi estranei presi dalla sua storia personale.
2) Distinguersi come soggetto dal ruolo giocato, cioè riuscire a vivere ed esprimere una parte assunta in passato, anche se al presente non ci si identifica più con essa e rapportarsi ad essa riflessivamente senza farsene riassorbire (ad esempio "ho riprovato la rabbia di allora, ma adesso mi rendo conto che anche l'altro aveva delle ragioni e che io esageravo").
Può così (Gasca Gazale 1990) realizzare la consapevolezza di avere un'identità che si esprime attraverso un insieme di ruoli integrati tra loro, senza esaurirsi in alcuno di essi.
Lo sviluppo dei due primi punti, che poco a poco il paziente riacquisisce attraverso il gioco, comporta per così dire reimparare a distinguere la figura dallo sfondo, il rilevante dall'irrilevante, rispetto ad un contesto e ad un progetto dato, funzione la cui perdita, è, come abbiamo mostrato precedentemente, il tratto centrale della schizofrenia.
3) Partecipazione al pensiero collettivo: il paziente a causa di messaggi contraddittori e caotici del sistema familiare da un lato e l'incoerenza e la perdita della funzione legata ai segni ed alle comunicazioni consensualmente validate, basate su essi, dall'altro, si rinchiude in se stesso (autismo) anche perché il mondo interpersonale circostante, divenuto imprevedibile e inaffidabile, quando visto attraverso i suoi schemi di pensiero, perde di significato. Gli altri, sia che lo giudichino secondo criteri di comportamento sano (incoraggiando residui ruoli sani superficiali, ma al prezzo di rendere sempre più alieni i nuclei più vivi della personalità del paziente), sia ancora non lo contraddicono perché "ai matti si dà sempre ragione" privandolo di una reale possibilità di relazione, non fanno che rendere più profonda e immutabile tale solitudine interiore.
In una trattazione (Gasca 1991) per altro parziale e non sistematica dello psicodramma con gli schizofrenici, ha mostrato l'utilità di una situazione condivisa in cui ricordi, deliri, abnormi o strane interpretazioni della realtà, convinzioni avute in passato e poi criticate, eventi della storia di ciascuno che la memoria e la malattia possono aver deformati sono confrontati, senza giudicare del vero o del falso, del sano o del malato, tra pazienti che nonostante la diversa gravità dei sintomi, hanno vissuto esperienze singolarmente simili. Ciò non solo favorisce un riesame critico dei propri contenuti deliranti attraverso il confronto con le esperienze altrui, ma anche uno sforzo per capirli in base alle proprie esperienze e sentimenti, che assai raramente abbiamo riscontrato in altre circostanze.
Avevamo altrove già osservato (Gasca, Gazale 1990): nel momento in cui il paziente accetta il ruolo e trasporta nel "qui ed ora" una situazione che è stata per lui "là e allora" si passa da una mancanza di sfumature all'acquisizione di sfumature via via più complesse.
Appena le rigide difese sono, anche impercettibilmente, attenuate dalla percezione della possibilità di un cambiamento non catastrofico, il paziente accetta i ruoli propostigli dagli altri, divenendo via via più disponibile a esprimere sfumature e differenziazioni.
Scoprendo i ruoli comuni di sé e degli altri, attraverso il gioco, e quindi in situazione non ansiogena (in quanto nel gioco le situazioni sono esplicitamente costruite, al di fuori del conseguimento di un fine reale e perciò si possono mettere tra parentesi i criteri antinomici vero/falso e buono/cattivo) è possibile introdurre differenziazioni e riconoscere somiglianze tra la propria posizione e quella degli altri.
L'altro allora non è più vissuto come minaccia all'identità del paziente e nella mente di questi acquista un proprio tempo ed un proprio spazio, viene riconosciuto come diverso da sé (e dai ruoli-manichino complementari al ruolo rigido giocato dal paziente), ma per alcuni aspetti simile e da questo momento d'incontro ha inizio il percorso verso la vicinanza e compartecipazione affettiva.
Si deve inoltre rilevare come il fatto di assumere, nell'interagire cogli altri nei giochi, degli specifici ruoli ed il riportare ogni situazione di gruppo, anche la più magmatica, ad una scena comportante un gioco di ruoli definito, abbia una funzione strutturante sull'emergere di materiale ambiguo o non organizzato.
Nello psicodramma analitico individuativo, purché correttamente condotto (ce lo confermano venticinque anni di esperienze) non ci è mai accaduto di veder slatentizzare una psicosi, mentre a volte un paziente sul punto di cadere in un episodio acuto riusciva a recuperare il controllo.
Altri tipi di gruppo - ad esempio: T group - sconsigliati perché pericolosi ai portatori di psicosi latenti, presuppongono nel loro svolgimento una sistematica messa in crisi dei ruoli di volta in volta assunti dai partecipanti; gettano così i pre-schizofrenici che si tenevano aggrappati ad un'identità rigida e semplificata, in una molteplicità di riferimenti possibili tali da attivare un processo iperinclusivo in cui il soggetto perde l'orientamento. Ma nello psicodramma i ruoli definiti, confluenti in scene altrettanto definite in cui sfocia ogni dinamica di gruppo, costituiscono un elemento che polarizza, articola ed decodifica secondo un principio d'ordine il caos evocato, permettendo ad ognuno di organizzare in un suo ruolo i percetti emergenti.
Per quanto riguarda poi gli aspetti cronico-riduttivi della schizofrenia è estremamente importante che il paziente sia portato a mettersi in gioco, anche ripetendo scene banali. A volte, come un archivista, che non disponga di un adeguato strumento per classificare e quindi ritrovare i documenti dell'archivio, non riesce, pur volendo, a ricordare scene importanti o significative, che emergono magari improvvisamente dopo che per cinque o sei sedute ha giocato episodi del tipo "ieri sono stato in pizzeria".
Altre volte, come osservato da Stradella (1992) viene a lungo giocata una scena fissa con ruoli stereotipati, all'essere accaduta della quale il paziente attribuisce talora la sua attuale situazione di malato.
Altre volta ancora il paziente gioca solo quando viene chiamato in scene altrui. Può accadere che si specializzi in ruoli quali il cameriere, il guidatore del tram, il barista che interpreta con sorprendente scioltezza e facilità. In realtà non è affatto sorprendente: tali ruoli, che rappresentano un tipo generico di funzione sociale e alla pura dimensione sociale sono ridotti, sono per lo schizofrenico cronico assai più semplici di quelli che ognuno di noi impersona nella vita di tutti i giorni, con la loro dimensione soggettiva, immaginale, ricca di infinite sfumature, di infiniti risvolti intrapsichici.
Ma il giocare ripetutamente tali parti, per quanto irrilevanti siano, o povere e superficiali, o rigide da sembrar pietrificate, porta poco a poco, attraverso lievi sfumature, a volte introdotte inavvertitamente, o attraverso varianti indotte dai giochi altrui, a dare spessore e profondità a ruoli stereotipati, a integrare in ruoli più complessi parti prima vissute come frammentarie, fino a restituire a loro quella dimensione immaginale, quella funzione di tramite tra mondo interiore e mondo esterno che, con la cronicizzazione, si era perduta.
In effetti la funzione strutturante dei ruoli giocati in un contesto di gruppo che, in base alla nostra teoria, dovrebbe giovare particolarmente nelle forme acute, si mostra terapeuticamente efficace ancor più nelle forme croniche: infatti organizzando il materiale ambiguo o incoerente, che in qualche modo si muove ai margini dei ruoli stereotipati, permette al paziente di accoglierlo e di integrarlo nella sua esperienza, senza essere costretto a rifugiarsi vieppiù nei meccanismi di difesa schizofrenici che sopra abbiamo descritto.
Di converso l'articolarsi ed il differenziarsi dei ruoli sani ed anche dei ruoli irrealistici (dal sogno dell'allucinazione) sotto la stimolazione variegata del gruppo, che si aspetterebbe utile soprattutto a rivitalizzare le forme croniche, fornisce dei catalizzatori, nel senso in cui Bour usa tale parola, cioè nuclei di interazione di ruoli coerenti e significativi che forniscono al paziente acuto un principio di orientamento nel caos iperinclusivo.
Già W hitmont aveva osservato che la drammatizzazione può essere definita come uno sforzo conscio e deliberato per trovare un'espressione simbolica ai fatti dell'inconscio (tensioni troppo vaghe ed indefinite, angosce ed emozioni fluttuanti, fantasticherie apparentemente improduttive) per attualizzarle nella realtà. Il nostro modo di lavorare nella prima fase ha, come si vede, molto in comune con i modelli di Moreno, Schutzemberger e Bour, ma noi poniamo molto meno l'accento sui contenuti per quanto talora affascinanti, delle creazioni deliranti dello schizofrenico, per concentrarsi soprattutto sui fattori formali che gli impediscono di dare coerenza al mondo interiore e di esprimersi nel mondo esterno.
Forniamo alcuni dettagli tecnici per quanto riguarda questa frase:
1) l'intervento del conduttore consiste piuttosto nello stimolare i pazienti a giocare soprattutto che nell'indirizzarli su scene particolarmente incisive. E' bene che il paziente fatuo, inerte o passivo giochi almeno una scena ogni seduta, anche se banale e irrilevante o confusa. Ma compito centrale e non facile del conduttore è far, per quanto possibile, rispettare le regole soprattutto:
a)non lasciare che i pazienti parlino troppo a lungo (monologhi o dialoghi) senza che la cosa sfoci in un gioco: uno psicodramma non è un dibattico o un'assemblea.
b) Ognuno ha diritto ad un suo spazio e lo spazio del protagonista, a gioco deciso, è sacro; chi ha accettato una parte nel gioco di un altro deve recitarla, per quanto riesce, secondo le istruzioni, gli altri ascoltare senza disturbare.
c) Devono essere eseguiti scrupolosamente certi rituali quali il passare dal cerchio del gruppo allo spazio scenico e poi ritornare in un gruppo quando il gioco è finito, oppure il cambiare di posto fisicamente quando si cambia di ruolo.
Ovviamente le regole devono essere imposte con decisione, ma nei termini e con le modalità comprensibili a ciascun paziente: le esortazioni verbali sono inutili a coloro per i quali il linguaggio è divenuto un labirinto dalle mille uscite. Così può essere necessario prendere per mano e portare in mezzo alla scena o anche abbracciare per tranquillizzarlo un paziente particolarmente ansioso, oppure muovendosi in tacita intesa con gli Io ausiliari, iniziare un gioco attorno al protagonista logorroico per ricondurlo alla regola attraverso l'esempio e l'interazione. Si possono invece permettere alcune cose che in un gruppo di nevrotici non sono ammesse (ad esempio che un paziente che regge poco la tensione si assenti per fumare una sigaretta in corridoio). Ma, al di là di questo, il rispetto delle regole è non solo essenziale al funzionamento del gruppo ma anche, per le ragioni su esposte, un fattore terapeutico e una cornice necessaria perché i vissuti più folli (che talora i pazienti sono reticenti a confessare in pubblico) possono venire espressi liberamente, accettati ed elaborati.
Nei gruppi di psicodramma analitico con soggetti nevrotici o normali il gioco è caratterizzato da cambi di ruolo frequenti e rapidi, sottolineati da doppiaggi incisivi e da sequenze di più giochi con lo stesso protagonista in cui talora si scioglie improvvisamente la scena per passare ad un'altra da essa evocata. Ciò nel paziente normale spesso spezza schemi stereotipati e fa emergere connessioni impreviste ed elementi inconsci e significativi.
Ma tutto ciò non deve assolutamente essere fatto coi pazienti schizofrenici, a causa della loro bassa tolleranza all'emergere di percetti non integrati e della loro difficoltà a configurare ruoli di volta in volta adeguati alle diverse situazioni. Certi pazienti devono giocare nella scena solo la propria parte, altri possono effettuare un solo cambio di ruolo (con un personaggio con cui riescano facilmente ad immedesimarsi) e solo dopo aver ben acquisito la capacità ad entrare ed uscire dai ruoli potranno farne più di uno. Il cambio con personaggi del delirio, o con le "voci" delle allucinazioni acustiche, assai utile a volte per sciogliere la rigidità del mondo delirante e, restituendo a tali parti dissociate un'intenzionalità, creare le premesse per integrarle in sé, è una difficile scelta strategica che va fatta al momento opportuno e dopo averla ben ponderata.
1) Infine è essenziale la presenza in gruppo di Io ausiliari. Questi devono avere non solo una buona conoscenza e controllo di sé, ma anche delle dinamiche di psicodramma. Perciò non importa a quanta analisi individuale o altre tecniche terapeutiche si sono sottoposti, è essenziale abbiano una lunga esperienza di psicodramma, fatta nel ruolo di pazienti, una conoscenza teorica dei principi dello psicodramma individuativo ed è meglio abbiano almeno iniziato una formazione per psicodrammatisti. La loro funzione non è tanto, come nel modello moreniamo, di costruire un mondo ausiliario, quanto di equilibrare le dinamiche iperinclusive del gruppo.
Ci spieghiamo con un esempio: un paziente comincia a giocare una scena nella quale emergono elementi per lui ambigui, che lo rimandano ad una molteplicità di collegamenti difficilmente integrabili tra loro. Sceglie per le altre parti pazienti che a loro volta aggiungono collegamenti originali, sconnessi o magari sensati nel loro mondo delirante, ma lontani da ogni senso comune.
In breve si può innescare una sorta di processo a catena che sfocia in una totale incoerenza. Compito degli io ausiliari (in genere il protagonista spontaneamente sceglie a giocare nella sua scena un numero equilibrato di Io ausiliari e di altri pazienti, ma può essere necessario talora un suggerimento del conduttore) è rimandare attraverso i propri vissuti al paziente un'immagine unitaria e integrata di lui stesso, dei sentimenti suoi o dei suoi interlocutori e delle possibili connessioni tra la scena evocata e la personalità globale del paziente che si ha avuto modo di conoscere attraverso le scene delle sessioni precedenti. E' chiaro che ciò rende consigliabile, dopo ogni seduta, momenti di supervisione che coinvolgano gli Io ausiliari.
Nella nostra esperienza il numero ottimale di Io ausiliari va da un terzo alla metà dei pazienti presenti.

La seconda fase o fase analitica.
Tale fase si sviluppa all'interno di un gruppo maturo poco a poco, quando si siano realizzati gli obiettivi della fase precedente. In genere coesistono pazienti in fase iniziale e pazienti in grado di condurre giochi più incisivi e strutturati. La presenza dei primi non crea problemi ai secondi, che usano propri spazi in genere in apertura, più raramente in chiusura di seduta, mentre i loro giochi forniscono elementi interpretativi utili a organizzare l'esperienza caotica dei pazienti acuti o a rievocare ricordi significativi nei cronici. In questa fase è di particolare utilità ed efficacia portare il paziente ad elaborare le connessioni tra le sue manifestazioni patologiche e la dinamica della famiglia schizofrenogenica. Le tecniche di psicodramma e la teoria dei ruoli da essa derivata si sono rivelate particolarmente adatte per approfondire le dinamiche familiari (Gaia 1992, Gasca, Ehrhart, Moro, Palazzi 1992; Gasca, Molinari, Taverna, Farneti 1992) costituendo per così dire un elemento di continuità tra mondo intrapersonale e transpersonale (Moreno 1961).
La tecnica della seconda fase, sostanzialmente affine a quella di un gruppo per nevrotici, non verrà qui di nuovo descritta specificamente. Ma riporteremo in breve quattro casi ad esemplificazione di come la sintomatologia iniziale divenga, attraverso l'analisi psicodrammatica, comprensibile in termini di dinamiche familiari. Ovviamente essendosi i trattamenti protratti per anni, riporteremo solo una piccola parte delle scene utili ad illustrare la nostra analisi. Il lavoro svolto in ogni caso fu enormemente più complesso e i moltissimi elementi emersi non sarebbero comunque riducibile ad un'interpretazione lineare.
1) Aldo, all'atto dell'inserimento in gruppo, appare totalmente confuso, incoerente, con disturbi formali del pensiero e temi deliranti a contenuto mistico e taumaturgico. Frequentando il gruppo di psicodramma unitamente ad altri gruppi di terapia analogica, il pensiero si riordina gradualmente e i temi deliranti scompaiono lasciando emergere tratti di personalità alquanto stereotipati. In gruppo però il paziente appare capace di giocare solo scene in cui parla con terapeuti o saggi consiglieri, assai idealizzati: i discorsi che ne emergono si riducono a esortazioni morali assai vaghe e astratte. Per parte sua il paziente esprime solo le emozioni di maniera previste nel ruolo di un bravo ragazzo normale. Dopo circa due anni a poco a poco il paziente comincia a portare scene familiari che delineano una madre tremendamente materna, buona e iperprotettiva che non vede e disconferma ogni aggressività dando dei figli un'immagine idealizzata, ma priva di ogni tratto conflittuale. Il padre, autoritario spesso coi figli, è trattato come figlio maggiore dalla moglie, che non vuole sia contraddetto perché (dalla nascita del paziente ora trentenne) si teme gli venga l'infarto.
Una sorta di mito familiare viene a questo punto giocato: il fratello ha i sintomi iniziali di una poliomelite e il piccolo Aldo (lui solo) se ne accorge, avverte i familiari e così lo salva. Comincia così poco a poco a chiarirsi che ruoli rigidi adattati, da bravo ragazzo, bravo figlio, bravo fratello, (modalità difensiva: limitazione del campo) ma anche i tratti taumaturgici del delirio acuto sono risposte ad un rigido ideale materno di cui è prigioniero e al di fuori del quale si sente perso. Dopo tre anni e dopo aver espresso in gruppi frequentati in parallelo (sociodramma immaginale e arte terapia) dei possibili ruoli e immagini aggressivi e/o competitivi, in un contesto in cui poteva farlo senza legarli alla sua persona reale, il paziente finalmente riesce, giocando un'imposizione subita dal padre, ad esprimere violenti sentimenti aggressivi verso di lui.
I giochi successivi (frequenta il gruppo per altri due anni) evidenziano una personalità ricca e complessa e trattano variamente della famiglia, del lavoro, dei sogni, delle nuove prospettive, in maniera critica e flessibile. Il paziente elaborato il distacco dalla famiglia di origine, si sposa con una donna assai religiosa e di buoni sentimenti come la madre, ma è in grado di giocare in gruppo il senso di mancanza di spazio suscitatogli da tale rapporto e riesce a modificarne gli equilibri con esito soddisfacente.
2) Albino all'atto dell'inserimento in gruppo appare disposto a parlare esclusivamente del suo delirio di veneficio. Anche attraverso le scene giocate, che riguardano solo tale argomento, cerca o di convincere i presenti della persecuzione cui è sottoposto o di ottenere dal conduttore (che non considera ostile, ma ritiene abbia contatti coi persecutori) informazioni sul perché lo drogano. Dopo due anni e mezzo di frequenza (anche qui affiancata da altri gruppi analogici), quasi per fare un piacere al conduttore, accetta, come vede fare ad altri pazienti, di giocare scene della sua infanzia. In seguito porta tali scene sempre più volentieri perché lo distraggono dalle preoccupazioni legate al veneficio. Si evidenzia la figura di un padre etilista che terrorizzava moglie e figli al rientro a casa montando, dice il paziente, sul cavallo matto cioè venendo trascinato da quelle emozioni aggressive che il paziente attribuisce, quando le avverte lui stesso, a droghe somministrategli dai baristi col caffè o trasmessegli attraverso prese elettriche. L'anno successivo, tra molte scene familiari, il paziente gioca la presenza immanente di una persecutrice: una donna di potere ignota, che gli fa fare le cose agendo di nascosto e minaccia la sua identità. Immediatamente dopo il paziente gioca una scena in cui la madre in duce lui e i fratelli a fare ciò che lei vuole agendo in modo subdolo, prospettando ad esempio il rischio di fare arrabbiare il padre (i cui veri desideri sono però ignorati). Emerge in seguito come il padre, in un periodo in cui per lavoro si era recato col paziente adolescente in un'altra città, lontano dalla moglie, non bevesse e non fosse affatto aggressivo. E come il paziente in famiglia, preso tra le richieste del padre di responsabilizzarsi da adulto e le disconferme della madre, che lo vedeva prima piccolo poi malato, fosse travolto dalla tensione che si traduceva in disturbi somatici che spiegava come effetto di droga. Sempre più cosciente delle dinamiche familiari, il paziente dopo cinque anni di gruppo gioca un'altra scena con un barista-avvelenatore dalla quale improvvisamente emerge una chiave per interpretare il delirio. Poiché le tensioni tra padre e madre non potevano essere decodificate in famiglia, le collere del padre, che fuggiva l'atmosfera familiare rifugiandosi al bar, venivano attribuite all'alcool. Il paziente, per non agire come il padre aveva deciso di rimanere rigorosamente astemio, ma anche limitandosi al caffè avvertiva le stesse tensioni: solo una droga nel caffè poteva spiegare tutto ciò senza chiamare in causa temi non esplicitabili in famiglia. Il paziente stesso arrivò poi a collegare le droghe inviate con le prese elettriche con l'elettricità che si avvertiva nell'atmosfera familiare. Nei periodi successivi, pur non guarendo completamente, Albino apparve capace di un atteggiamento più critico verso il delirio, e di una buona comprensione dei conflitti familiari. I suoi discorsi e i giochi in psicodramma (frequentò il gruppo per altri due anni) si rivolsero verso una gamma di argomenti assai più ricca e variata.
3) Paolo, dopo un episodio acuto di totale confusione, a diciotto anni, strutturò un delirio che dissimulava assai bene: i vicini di casa e le donne che incontrava lo disprezzavano e dileggiavano per cui meditava feroci vendette. Per oltre un anno in gruppo dissimulò il delirio, giocando scene di banale vita quotidiana. Ma a poco a poco attraverso il confronto con gli altri il cambio di ruoli cominciò a porsi il dubbio che il dileggio che leggeva negli sguardi o credeva cogliere in frasi dette a bassa voce poteva essere frutto della cattiva opinione che egli aveva di se stesso. Gioca alcuni suoi gesti aggressivi gravi (incendi appiccati, un tentativo di vetrioleggiare una ragazza) ed è assai fiero di riuscire ora, dopo aver elaborato le situazioni che li evocano in psicodramma, a controllare i suoi impulsi aggressivi. Gioca molte scene dell'infanzia che, come frammenti di un puzzle, a poco a poco permettono di ricostruire un quadro. Brevi spezzoni ripetuti progressivamente si collegano, si ampliano, acquistano un senso, diventano una storia: la madre litigiosa, aggressiva manifesta un violento disprezzo per il padre: questi appena arrivato a casa, si chiude in camera, per non sentirne i continui rimbrotti, ma la madre manda Paolo, bambino di pochi anni, ad insultare il padre attraverso la porta chiusa. A diciassette anni il paziente, convinto che in casa occorra, come dice sempre la madre, un uomo, assume un atteggiamento caricaturalmente autoritario, da padre severo verso la madre stessa e il fratello minore. Ma inaspettatamente padre, madre e fratello ritrovano l'accordo e fuggono letteralmente in un altro alloggio, lasciandolo solo in casa. Paolo cade in uno stato di totale confusione e dopo un lungo periodo di ricovero si richiude in casa (nello stesso ruolo del padre sconfitto e isolato che si chiudeva in camera) dove si sente insultare attraverso la porta dei vicini.
Anche se non ha completamente elaborato tali dinamiche Paolo, dopo sette anni di psicodramma, sembra essersi liberato dal delirio persecutorio (è però ancora ipersensibile alle critiche) riesce perfino a trovare lavoro e ad avere qualche relazione non conflittuale con persone dell'altro sesso.
4) Angelica, al suo arrivo al nostro centro colpisce per il contrasto tra la perfetta eleganza degli abiti e l'ordine della persona e l'atteggiamento rigido, la mimica immobile, l'assenza di iniziativa, il mutismo. Come in parecchi altri gruppi, anche nel gruppo di psicodramma per oltre un anno la partecipazione si riduce ad assistere passivamente. Poi, a poco a poco, mostra con la mimica di partecipare a quel che vede, si muove, dice qualche commento, infine, stimolata, gioca brevi scene, poco significative, con i membri della famiglia: più avanti primo a essere messo in rilievo è il padre, scialbo, inerte, che le presta attenzione solo quando lei lo infastidisce con le sue stereotipie di comportamento, per rimproverarla. Poi il fratello, epilettico con improvvisi scoppi di violenza di cui Angelica ha molta paura. Sceglie per tale parte un paziente che subito dopo gioca una scena dell'infanzia nella quale egli distrugge una bambola.
Come evocate da questa scena violenta Angelica ricorda le bambole (ne ha ancora un armadio pieno, tenuto in ordine perfetto dalla madre). Infine gioca una serie di scene in cui la madre la veste e la cura come fosse una bambola. Dopo tre anni di psicodramma la paziente è in grado di muoversi e parlare abbastanza da ricostruire una scena complessa, in parte basata su ricordi, in parte su racconti materni: quando aveva due anni si ammalò di meningite e (nonostante, come abbiamo controllato da altre fonti, fosse guarita senza residui) la madre non volle prendere atto della sua guarigione: continuò sempre ad accudirla come se si fosse fermata all'età di due anni. Sempre curatissima ed elegantissima nella sua immobilità aveva in effetti il ruolo di bambola della madre. Poco dopo aver preso atto di tale dinamica la paziente iniziò un cammino difficile e conflittuale che la portò infine a lasciare la famiglia e costruirsi una sorta di vista autonoma. Frequentò il gruppo di psicodramma in totale per cinque anni.
Per i pazienti esaminati e per altri vogliamo però sottolineare che risultati notevoli e stabili nel tempo hanno sempre richiesto una frequenza sostanzialmente regolare al gruppo di psicodramma per un minimo di cinque anni. E inoltre che ad esso fossero affiancati altri gruppi di terapia analogica, quali il sociodramma immaginale (Gasca, Scatogni, Valente 1989; Gazale Valente 1992) particolarmente efficace nell'attirare, sviluppare, esprimere i ruoli interni potenziali, ed altri gruppi espressivi quali arte terapia o terapia a mediazione corporea. Tali gruppi hanno sostituito forse i catalizzatori di Bour che noi non siamo soliti usare. Al paziente schizofrenico infatti, finché non abbia raggiunto un'adeguata capacità di riflettere e rielaborare nel proprio teatro interno i problemi messi a fuoco dall'intervento analitico, sia esso effettuato attraverso lo psicodramma o attraverso altre tecniche, è necessario mantenere integre e usare nei contesti appropriati quelle che abbiamo definito funzione dei segni e funzione dei simboli grazie a stimolazioni costanti, variate nelle tecniche e nei contenuti, ma ben coordinate per uno spazio di parecchie ore giornaliere.

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Lo psicodrammaanaliticonellacuradellepsicosi schizofreniche.RIPETUTO

Sia per la sua flessibilità, legata all'integrare in sé strumenti analogici e strumenti verbali, che per la sua possibilità di agire in modo profondo ed intenso sulla personalità globale, lo psicodramma è stato frequentemente usato, ricorrendo ad accorgimenti tecnici diversi, nella terapia delle psicosi schizofreniche.
Citeremo qui di seguito, prima di esporre l'impostazione da noi elaborata, alcune esperienze precedenti che ci sono apparse significative.

Alcune esperienze precedenti su psicodramma e schizofrenia.
Anzitutto J. L.Moreno (1946) (1980) il quale ha posto in rilievo particolarmente la funzione degli Io Ausiliari (fino a suggerire uno psicodramma individuale, in cui cioè il gruppo è costituito da un solo paziente attorniato da un numero più o meno grande di persone già esperte in psicodramma che devono non soltanto integrare l'Io incompleto del protagonista, ma anche costituire intorno a lui una sorta di mondo ausiliario, per riportarlo da una realtà costituita prevalentemente da elementi illusori ed allucinatori alla realtà propriametne detta. Moreno sottolinea particolarmente l'utilità di aiutare il paziente a sviluppare la propria realtà privata come farebbe un drammaturgo o un poeta, cogliendone ed elaborandone e vivendone fino in fondo il significato.
Anceline Schutzemberger, prendendo le mosse da casi trattati dallo stesso Moreno, teorizza lo psicodramma di allucinazione nel quale il paziente è invitato a giocare deliri ed allucinazioni come se fossero veri, mentre l'équipe curante è impegnata a comprenderlo cercando di entrare nel suo mondo, così da capire le condizioni perché il paziente possa a sua volta uscire dal mondo dell'incomunicabilità per entrare in quello del comunicabile.
Bour, che si basa su un'esperienza estremamente ampia fatta in ospedale psichiatrico con pazienti schizofrenici particolarmente gravi ritiene utile iniziare introducendo elementi catalizzatori, cioè oggetti (ad esempio un secchio d'acqua, la fiamma di una lampada a spirito, un palloncino e una zolla d'argilla concretizzanti i quattro elementi) dotati di un forte riferimento simbolico in se stessi o in relazione ad un particolare momento attraversato dal gruppo o da uno dei pazienti. (Possono così divenire catalizzatori in specifiche circostanze un gomitolo di filo, un calamaio, una piantina in un vaso) ciò incoraggia anche gli schizofrenici più confusi o autistici a drammatizzare collettivamente dati temi.
Si ottiene così il duplice risultato di stabilire una comunicazione tra loro e con i terapeuti, e di creare ciò che Bour chiama punti di cristallizzazione nel protoplasma indifferenziato della loro esperienza cioè un punto di partenza o un principio d'ordine a partire dal quale essi possano riprendere ad esprimersi e ad agire con senso e coerenza.

Lo psicodramma analitico individuativo.

Ma in questa sede esamineremo le applicazioni dello psicodramma individuativo, il modello da noi usato, nella terapia della schizofrenia. Con soggetti normali o nevrotici la dinamica terapeutica e analitica di esso può venire illustrata attraverso il seguente schema (n. 1).
Così va letto lo schema: il vertice superiore rappresenta le dinamiche di gruppo che, in un gruppo di psicodramma, possono anche venir viste come i ruoli che ciascun membro assume in relazione a quelli che attribuisce agli altri. Tali ruoli si esplicitano sia nell'interazione diretta, sia con il presentarsi di ciascuno, raccontando e drammatizzando specifici episodi della propria vita, sia ancora con lo stile con cui ognuno impersona i ruoli che viene chiamato a rappresentare nelle scene portate dagli altri partecipanti.
Il vertice inferiore destro rappresenta i ruoli che ciascun membro ha avuto nella sua storia passata o che hanno avuto persone per lui significative. Le freccie che uniscono i due vertici rappresentano rispettivamente lo strutturarsi dei ruoli assunti qui ed ora in gruppo col sommarsi, fondersi e modularsi, per essere adeguate alle nuove situazioni, delle esperienze passate, e il riemergere di ricordi attivati dalle particolari dinamiche del gruppo terapeutico.
Il vertice inferiore sinistro si riferisce ai ruoli intrapsichici (funzioni, modelli interiori, complessi autonomi) spesso rappresentati dai personaggi dei sogni, delle fantasie e dei deliri. Tali nostri ruoli interni strutturano il mondo interiore, dando un senso al caotico fluire di rappresentazioni, immagini e impulsi, allo stesso modo in cui i ruoli esterni strutturano i percetti del mondo circostante in una realtà, dotata di significato e costituita da relazioni interpersonali.
Ora (freccie a doppio senso dal lato inferiore) tali parti interiori si costituiscono prendendo a modello particolari aspetti di persone incontrate nel mondo esterno e, a loro volta, attraverso un processo di proiezioni e assimilazione, influenzano il modo in cui vediamo tali persone.
La stessa relazione infine vi è (come indicato dallo schema) tra ruoli interni attivati dalla dinamica del gruppo in ciascun membro e ruoli assunti/attribuiti di volta in volta nel gruppo stesso.
La scena che verrà drammatizzata viene tratta per lo più da un evento della storia passata di un membro del gruppo (vertice inferiore destro o da sogni e, più di rado, fantasie o deliri vertice inferiore sinistro) eccezionalmente da eventi successi in precedenza, nel gruppo stesso.
La scena costituisce l'interpretazione della rete di relazioni prima esposte: vivendo e nello stesso tempo cogliendo riflessivamente il senso della propria parte giocata, confrontando il qui ed ora del gruppo col là e allora della scena evocata, riappropriandosi, attraverso il cambio dei ruoli, delle proprie parti proiettate su altri nel mondo reale o in quello onirico, i protagonisti sono portati a comprendere non solo razionalmente, ma in tutto il loro spessore le relazioni tra dinamica di gruppo, mondo interiore e storia della vita di ciascuno.
Ciò permette di prendere coscienza delle motivazioni e del senso dell'agire attuale, dell'origine dei sintomi, della difficoltà a liberarsi da essi, delle zone d'ombra del mondo intrapsichico, dei suoi conflitti e delle sue potenzialità.
In secondo luogo porta all'analisi dei fenomeni transferali, intesi sia come ripresentarsi in gruppo dei modelli costituiti delle relazioni passate, sia come il manifestarsi attraverso l'articolazione delle relazioni con altri (pazienti o terapeuti) del mondo interiore di ciascuno.
In terzo luogo porta all'assunzione di un atteggiamento di soggetto, capace di dare un senso assumendo un atteggiamento responsabile, alla propria storia di vita interiore.
Ma tale modello presuppone nei pazienti del gruppo una sufficiente capacità di entrare e uscire dai ruoli e di connettere ed integrare la molteplicità di esperienze che si trovano ad affrontare e non è perciò tout court applicabile ad un gruppo di schizofrenici gravi.

Considerazioni sulla schizofrenia: come applicarvi lo psicodramma?

Il modello eziopagenetico della psicosi schizofrenica da noi seguito nasce dalla necessità di conciliare tra loro una molteplicità di dati obiettivi esatti riferiti e interpretati però parzialmente in modelli incompatibili tra loro. Ci muoviamo dalle classiche descrizioni di Bleuler, Kràpelin, Schneiler, per soffermarci poi su ricchissimi studi sperimentali e le analisi della struttura del pensiero che vanno da Kasanin a Cameron, e contrapporre alle indubbie dimostrazioni di una predisposizione genetica con relative teorie biologiche, valide almeno in una parte dei casi, l'altrettanto certa dimostrazione dei complessi fattori legati alla dinamica familiare, la cui estrema importanza è evidenziata al di là di ogni dubbio dagli studi sistemici (Lidz, Bowen, Wertheim, tanto per citarne alcuni le cui osservazioni sono assai sintone alla nostra teoria dei ruoli. Infine approfondiamo quelle teorie che, da McReynolds a Ciompi, sono state capaci di sollevarsi al di sopra dell'unilateralità del singolo punto d'osservazione, per fornire una spiegazione integrata di più punti di vista, solco in cui noi stessi ci collochiamo.
Il futuro schizofrenico, vuoi per una innata intolleranza alle situazioni ambigue, comportanti percetti non integrabili in modelli pre esistenti, vuoi per un livello troppo elevato di incongruenza dei messaggi strutturanti della matrice familiare, tende a rimanere all'interno di un numero limitato di ruoli rigidi e ipersemplificati, così da evitare tutte quelle situazioni che, a causa delle incoerenze presenti, ma non esplicitabili nei codici del sistema familiare, lo precipiterebbero in una situazione che vive come caotica e inconmprensibile. Ma con il suo crescere (pubertà, servizio militare, conclusione degli studi, ricerca di un impiego, età per il matrimonio) o il mutare dell'equilibrio familiare (morte, malattia, partenza di un componente), nuove, spesso contraddittorie, richieste lo obbligano ad uscire dal repertorio di ruoli sicuri e collaudati. Egli, non dispone di meta-modelli interiori per selezionare nella massa di percetti che a lui pervengono dal mondo circostante e da quello intrapsichico, quelli rilevanti dagli irrilevanti, quelli pertinenti da quelli non pertinenti allo specifico nuovo ruolo richiesto. Poiché è attraverso i ruoli che noi interpretiamo i contesti e, articolando e integrando tali contesti ci creiamo un'immagine del mondo, il paziente si trova così gettato nella confusione che caratterizza la fase acuta della malattia. Pensa in modo sconnesso, iperinclusivo (vale a dire anziché farsi condurre da un filo logico nel costruire una sequenza di concetti per ogni concetto viene sopraffatto, trascinato in molteplici direzioni da tutti i possibili collegamenti, tra cui non ha modo di fare una scelta).
La stessa incapacità di meta-selezionare e integrare in un modello, facendolo emergere dallo sfondo dei molteplici modelli possibili si manifesta nell'incoerenza dell'affettività, del comportamento e nei collegamenti di pensiero, affetti e azioni tra lorro (la dissociazione e l'ambivalenza bleuleriana) e nel mescolare rappresentazioni e fantasie con percezioni (allucinazioni) e giudizi di realtà (percezioni deliranti).
Per proteggersi da tale caos, per lui assai ansiogeno il paziente ricorre ai classici meccanismi di difesa propri della schizofrenia e che come abbiamo rilevato altrove (Gasca-Taverna) sono rivolti non a tener lontano ciò che è doloroso o riprovevole, ma ciò che è ambiguo e confusivo. Lo strutturarsi e l'estendersi graduale di schizofrenia, che nella nostra esperienza si può dire si sovrappongono e coesistono a lungo con gli aspetti acuti, in relazione alle diverse forme cliniche.
1) La limitazione del campo(tipica della forma residuale e della forma simplex dove si impone così precocemente da mascherare la fase acuta): il paziente gioca solo ruoli che non comportino ambiguità e contraddizioni, ignorando o evitando tutti gli aspetti più complessi della realtà interpersonale.
2) La rinuncia a strutturare gli eventi secondo un modello coerente (tipica della forma ebefrenica) che lo porta a lasciarsi vivere in modo passivo e frammentario i percetti che via via gli si presentano, assumendo atteggiamenti fatui o stolidi.
3) L'assimilazione sistematica ad un modello rigido e semplificato (tipica delle forme paranoidi) che si traduce nel razionalismo morboso descritto da Minkowski. Tale struttura difensiva ci permette di comprendere particolarmente bene il delirio cronico, che a differenza del fluido, mutevole incoerente delirio acuto, tende, col passare del tempo ad imprigionare sempre più la complessità del mondo in un unico, uniforme, rigido schema interpretativo, cui a priori ogni evento viene riferito.
Potremmo anche dire che nella fase acuta lo schizofrenico tende a servirsi dei segni (cioè quei significanti verbali o analogici che, totalmente definiti nell'ambito di un sistema logico-linguistico coerente permettono un ragionamento adeguato e provocano comportamenti conformi alle aspettative degli altri) come fossero simboli (cioè quei significanti propri sia dello spazio interiore, immaginale, che della creatività artistica che contengono più di quanto al presente sia esplicitabile alla coscienza: essi, appartenendo contemporaneamente a più linguaggi logici spesso incompatibili o non traducibili tra loro, sono per così dire sospesi tra una molteplicità di riferimenti possibili e ne esprimono la tensione verso una nuova sintesi).
Lo schizofrenico acuto ha perciò difficoltà ad interpretare coerentemente la realtà specie interpersonale avendo perso l'uso della dimensione sociale (l'insieme di definizioni, regole, aspettative, modi di procedere consensualmente validati) dei propri ruoli.
Al contrario, col procedere della cronicizzazione, lo schizofrenico sempre più sopprime la funzione simbolica, in quanto usa anche quelli che nel normale sono simboli (e in quanto tali danno accesso alla dimensione della possibilità, evocando progetti interiori che si sviluppino cogliendo nuovi punti di vista e collegamenti suscettibili di aprirsi verso nuove soluzioni) come segni. E' allora la dimensione immaginale dei propri e degli altri ruoli ad essere perduta: la visione del mondo si semplifica e si impoverisce, la progettualità si cristallizza in forme rigide e stereotipate fuori del tempo, cui si contrappone una progettualità altrui altrettanto cristallizzata che riduce gli altri a nulla più che manichini che esistono solo per svolgere ripetitivamente una funzione uguale e contraria alle intenzioni del paziente.
Come in tutte le tecniche di terapia analogica, il primo passo, anche nello psicodramma, consiste per la cura della schizofrenia, nel restituire ai segni la funzione di segno, ai simboli la funzione di simbolo. La prima operazione è realizzabile a partire da situazioni che attivino nel paziente i suoi ruoli esterni ancora conservati e relativamente sani in interazioni legate l'interpretazione sia verificabile secondo modelli semplici e univoci nel qui ed ora per poi passare gradualmente a situazioni più complesse e dai significati più sfumati.
La seconda (che sembra corrispondere agli psicodrammi di Moreno, Ancelin Schutzemberger e Bour, sugli schizofrenici ma nel nostro caso agisce spesso sul paziente impoverito o destrutturato e non solo sul delirio florido) si realizza creando una specifica cornice di regole che vanno assolutamente rispettate, all'interno della quale sia possibile al paziente esprimere il proprio mondo interiore in totale libertà al di fuori delle categorie riduttive vero/falso, giusto/sbagliato, buono/cattivo che, con la loro presenza contraddittoria, hanno reso micidiali i messaggi doppio-legame e le aspettative di ruoli-a-doppio legame nella matrice familiare di origine.
Le immagini-drammi così sviluppate, fuori dal mondo solipsistico, cui l'ambiente le costringeva, possono attraverso l'incontrarsi, lo scontrarsi, il confrontarsi, il riconoscersi nello spazio intersoggettivo acquistare forma e senso non più solo per il singolo individuo, permettendogli di riprendere rapporto con la realtà circostante.

Problemi e obiettivi della prima fase o fase pedagogico formativa
Il funzionamento del gruppo di schizofrenici rispetto a quello per nevrotici, nella prima fase, può essere esemplificato da questo schema: le dinamiche di gruppo, la storia personale, la storia interna spesso si mescolano e sovrappongono. In altri casi sono rigidamente distinte, cosicché sembra pressoché impossibile evidenziarne le correlazioni.
La scena giocata ha l'effetto di portare a poco a poco il paziente a ristabilire i confini tra i tre modi di essere e a coglierne le correlazioni (che erano rappresentati dalle frecce a duplice direzione del primo schema) in modo articolato e fluido.
Ciò avviene attraverso l'acquisizione o il recupero delle seguenti funzioni.
Per quanto riguarda gli aspetti acuti, iperinclusivi, (che, come si è detto coesistono a lungo, magari in forma latente, con quelli cronici riduttivi).
1)La capacità di assumere una parte, sia nel rievocare le scene della propria vita, sia partecipando a scene altrui.
Il paziente spesso ha difficoltà a rapportarsi ad una scena concreta. Ora nello psicodramma le scene devono essere caratterizzate da un luogo e da un tempo specifici, cui sono riferite, e da personaggi definiti che in esse sono intervenuti.
Inizialmente il paziente confonde invece e sovrappone momenti diversi, mescola il se stesso di allora col se stesso narrante, terapeuti, Io ausiliari con altri medici o psicologi del passato; altre volte sembra incapace di concludere una scena e, se non interrotto dal conduttore, giocherebbe interminabilmente eventi collegati solo perché consecutivi.
Chiamato a giocare da altri ha difficoltà a ricordare, o a attualizzare espressivamente, organizzandole in ruolo, le istruzioni del protagonista: spesso gioca in modo rigido spento, meccanico, oppure mescola alla parte elementi estranei presi dalla sua storia personale.
2) Distinguersi come soggetto dal ruolo giocato cioè riuscire a vivere ed esprimere una parte assunta in passato, anche se al presente non ci si identifica più con essa e rapportarsi ad essa riflessivamente senza farsene riassorbire (ad esempio "ho riprovato la rabbia di allora, ma adesso mi rendo conto che anche l'altro aveva delle ragioni e che io esageravo").
Può così (Gasca Gazale 1990) realizzare la consapevolezza di avere un'identità che si esprime attraverso un insieme di ruoli integrati tra loro, senza esaurirsi in alcuno di essi.
Lo sviluppo dei due primi punti che poco a poco il paziente riacquisisce attraverso il gioco, comporta per così dire reimparare a distinguere la figura dallo sfondo, il rilevante dall'irrilevante, rispetto ad un contesto e ad un progetto dato, funzione la cui perdita, è come abbiamo mostrato precedentemente, il tratto centrale della schizofrenia.
4) Partecipazione al pensiero collettivo: Il paziente a causa di messaggi contraddittori e caotici del sistema familiare da un lato e l'incoerenza e la perdita della funzione legata ai segni ed alle comunicazioni consensualmente validate, basate su essi, dall'altro, si rinchiude il se stesso (autismo) anche perché il mondo interpersonale circostante, divenuto imprevedibile e inaffidabile, quando visto attraverso i suoi schemi di pensiero, perde di significato. Gli altri sia che lo giudichino secondo criteri di comportamento sano (incoraggiando residui ruoli sani superficiali, ma al prezzo di rendere sempre più alieni i nuclei più vivi della personalità del paziente), sia ancora non lo contraddicano perché "ai matti si dà sempre ragione" privandolo di una reale possibilità di relazione, non fanno che rendere più profonda e immutabile tale solitudine interiore.
In una trattazione (Gasca 1991) per altro parziale e non sistematica dello psicodramma con gli schizofrenici, ha mostrato l'utilità di una situazione condivisa in cui ricordi, deliri, abnormi, strane interpretazioni della realtà, convinzioni avute in passato e poi criticate, eventi della storia di ciascuno che la memoria e la malattia possono aver deformati, confrontati, senza giudicare del vero o del falso, del sano o del malato, tra pazienti che nonostante la diversa gravità dei sintomi, hanno vissuto esperienze singolarmente simili ciò non solo favorisce un riesame critico dei propri contenuti deliranti attraverso il confronto con le esperienze altrui, ma anche uno sforzo per capirli in base alle proprie esperienze e sentimenti, che assai raramente abbiamo riscontrato in altre circostanze.
Avevamo altrove già osservato (Gasca, Gazale 1990): nel momento in cui il paziente accetta il ruolo e trasporta nel "qui ed ora" una situazione che è stata per lui "là e allora" si passa da una mancanza di sfumature all'acquisizione di sfumature via via più complesso.
Appena le rigide difese sono, anche impercettibilmente, attenuate dalla percezione della possibilità di un cambiamento non catastrofico, il paziente accetta i ruoli propostigli dagli altri, divenendo via via più disponibile a esprimere sfumature e differenziazioni.
Scoprendo i ruoli comuni di sé e degli altri, attraverso il gioco, e quindi in situazione non ansiogena (in quanto nel gioco le situazioni sono esplicitamente costruite, al di fuori del conseguimento di un fine reale e perciò si possono mettere tra parentesi i criteri antinomici vero/falso e buono/cattivo) è possibile introdurre differenziazioni e riconoscere somiglianze tra la propria posizione e quella degli altri.
L'altro allora non è più vissuto come minaccia all'identità del paziente e nella mente di questi acquista un proprio tempo ed un proprio spazio, viene riconosciuto come diverso da sé (e dai ruoli-manichino complementari al ruolo rigido giocato dal paziente), ma per alcuni aspetti simile e da questo momento d'incontro ha inizio il percorso verso la vicinanza e compartecipazione affettiva.
Si deve inoltre rilevare come il fatto di assumere, nell'interagire cogli altri nei giochi, degli specifici ruoli ed il riportare ogni situazione di gruppo, anche la più magmatica, ad una scena comportante un gioco di ruoli definito, abbia una funzione strutturante sull'emergere di materiale ambiguo o non organizzato.
Nello psicodramma analitico individuativo, purché correttamente condotto (ce lo confermano venticinque anni di esperienze) non ci è mai accaduto di veder slatentizzare una psicosi, mentre a volte un paziente sul punto di cadere in un episodio acuto riusciva a recuperare il controllo.
Altri tipi di gruppo - ad esempio: T group . sconsigliati perché pericolosi ai portatori di psicosi latenti, presuppongono nel loro svolgimento una sistematica messa in crisi dei ruoli di volta in volta assunti dai partecipanti; gettano così i pre-schizofrenici che si tenevano aggrappati ad un'identità rigida e semplificata, in una molteplicità di riferimenti possibili tali da attivare un processo iperinclusivo in cui il soggetto perde l'orientamento. Ma nello psicodramma i ruoli definiti, confluenti in scene altrettanto definite in cui sfocia ogni dinamica di gruppo, costituiscono un elemento che paralizza, articola e decodifica secondo un principio d'ordine il caos evocato, permettendo ad ognuno di organizzare in un suo ruolo i percetti emergenti.
Per quanto riguarda poi gli aspetti cronico-riduttivi della schizofrenia è estremamente importante che il paziente sia portato a mettersi in gioco, anche ripetendo scene banali. A volte, come un archivista che non disponga di un adeguato strumento per classificare e quindi ritrovare i documenti dell'archivio non riesce, pur volendo, a ricordare scene importanti o significative, che emergono magari improvvisamente dopo che per cinque o sei sedute ha giocato episodi del tipo "ieri sono stato in pizzeria".
Altre volte, come osservato da Stradella (1992) viene a lungo giocata una scena fissa con ruoli stereotipati, all'essere accaduta della quale il paziente attribuisce talora la sua attuale situazione di malato.
Altre volte ancora il paziente gioca solo quando viene chiamato in scene altrui. Può accadere che si specializzi in ruoli quali il cameriere, il guidatore del tram, il barista che interpreta con sorprendente scioltezza e facilità. In realtà non è affatto sorprendente.


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