PM --> H P ITA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOTERAPIA DI GRUPPO


PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING GRUPPALE
Psicoterapia di Gruppo



Gruppi monosintomatici: quali rischi, quali vantaggi?

di Fiora Pezzoli



Abstract: Si analizzano le origini storico-sociali dei gruppi monosintomatici e viene individuato nel difettoso svolgimento dei processi che regolano la trasmissione della vita psichica tra generazioni la principale caratteristica dei pazienti che andranno a formare tali gruppi: pazienti tossicodipendenti o con disturbi alimentari.
Il parziale o totale fallimento del processo identificatorio rende impossibile il costituirsi di una "alterità interna", ne deriva perciò una difficile definizione della propria identità.
Si prosegue in un esame degli elementi problematici e di quelli facilitanti il processo terapeutico.



Le origini

Col termine "gruppi monosintomatici" solitamente ci si riferisce a gruppi psicoterapeutici con pazienti che presentano una sintomatologia omogenea. Le aree d'intervento oggetto di sperimentazione più frequente negli ultimi vent'anni sono state: quella della tossicodipendenza, dell'anoressia/bulimia e quella della malattia terminale. In questo mio lavoro mi occuperò solo delle prime due aree in quanto non mi sono mai dedicata, in modo specifico, della malattia terminale.

Come è noto, l'opinione dei classici della psicoterapia di gruppo non è favorevole all'utilizzo di questo strumento in presenza di patologia omogenea tra i membri del gruppo.
Foulkes (1975), ad esempio, pur non ritenendo utile "parlare degli individui in termini di etichette convenzionali e rispondere in questi termini alla questione dell'indicazione e della controindicazione" reputa che per la costituzione di un gruppo di psicoterapia (riferisco le sue stesse parole) "uno dei punti più importanti da tener presente ... (sia) il bagaglio culturale generale, ... lo status sociale, l'intelligenza e l'età. Questo è assai più importante delle diagnosi formali che, invero, preferiamo siano eterogenee."

Altri autori (E.Nash, J.A.Johnson, J. Frank, N. Loche) ritengono controindicato il gruppo per tossicomani e alcolisti. Yalom (1970) paventa per questi pazienti il rischio che alberga nella loro tendenza al passaggio all'atto. Altri autori come Slawson (1964), A.Wolf e E.K. Schwartz (1970), estendono la controindicazione anche ai perversi, agli ossessivi e ai fortemente narcisisti. Diciamo che ci sarebbero stati pareri sufficientemente autorevoli per scoraggiare ogni tentativo di cura gruppale con pazienti monosintomatici.

Nei fatti però le cose sono andate diversamente. Va ricordato che tra gli anni Trenta e Sessanta si sono diffusi i gruppi di auto-aiuto con finalità di sostegno reciproco nell'affrontare le difficoltà collegate a specifiche patologie particolarmente invalidanti (diabete, tumori, infarti, miastenia grave, malattie mentali, paralisi, malattie ossee ecc). La più antica è l'associazione degli Alcolisti Anonimi (1935) nata sulla base dei principi e dell'ideologia che animavano il movimento luterano dell'Oxford Group, gruppo protestante che aveva come fine la rinascita spirituale di tutta l'umanità (Noventa, Nava, Oliva ). Le prime esperienze provenienti dalla Gran Bretagna, si propagano un po' ovunque nel mondo, ma è negli Stati Uniti che si radicano maggiormente. Nascono la Narcotics Anonimous nel 1953 e la Fatties Anonimous nel 1967, inoltre la Smokers Anonimous, Delinquent Anonimous, Divorcees Anonimous, Suicide Anonimous ed altri ancora.

La tendenza degli individui a raggrupparsi tra simili per tentare di curarsi è spontanea e rispecchia la naturale propensione umana alla socialità. Infatti i gruppi di auto-aiuto si sono costituiti sulla base di una spinta interiore che va al di là di qualsiasi teorizzazione terapeutica. In essi l'obiettivo prioritario è quello di ovviare alla solitudine e all'esclusione sociale che caratterizza molte situazioni di disagio per tentare di trasformare un'esperienza negativa in qualcosa di costruttivo e proficuo (A.H.Katz e E.I. Bender 1976).

Mi sono riferita ai gruppi di auto-aiuto perché ritengo di poterli considerare come i precursori degli attuali gruppi terapeutici monosintomatici. Credo infatti che gli psicoterapeuti e gli psicoanalisti si siano trovati di fronte ad una realtà che aveva già assunto in modo autonomo una sua fisionomia, che si presentava in una forma nuova a livello sociale e che risultava stimolante per la sperimentazione. D'altronde Foulkes ma soprattutto Bion si erano trovati ad utilizzare la loro formazione psicoanalitica in situazioni assolutamente non canoniche e le loro riflessioni hanno costituito un incentivo per indagare nuovi campi ed individuare nuovi strumenti utili anche allo sviluppo delle teorie psicoanalitiche. Se è lecita la soddisfazione per l'accettazione da parte dei professionisti degli stimoli presentati dall'evoluzione sociale, ritengo però sia utile smorzare gli entusiasmi riflettendo anche sull'ipotesi che possa essersi verificata una collusione tra pazienti e terapeuti in nome della sperimentazione. Inoltre, sarebbe anche interessante porre attenzione al dilagare dell'approccio fenomenologico di catalogazione dei disturbi psichici (ansia, attacchi di panico ecc.) non solo in ambiente psichiatrico.

Stiamo di fatto assistendo a fenomeni di "contaminazione" tra ambiti diversi senza, per ora, essere in grado di valutarne gli effetti. Le cosiddette "patologie della dipendenza", che riuniscono sia il fenomeno della tossicodipendenza sia quello dell'anoressia/bulimia come rifiuto/dipendenza dal cibo, costituiscono una categoria spuria in quanto in essa possono rintracciarsi strutture di personalità diversificate. Dice Margaron (1997): "Alcoolismo e tossicomanie sono delle manifestazioni transnosografiche che non rispondono ai criteri dei sistemi di classificazione basati su tale ipotesi etiopatogenetica (cioè un'unica struttura psicopatologica) e vanno intesi come l'espressione di una vulnerabilità psicologica più generica dell'individuo". Anche J. Bergeret sostiene: "Non esiste una struttura psichica profonda e stabile specifica dell'addiction".

Purtuttavia possiamo notare che i pazienti che formano i gruppi di cui stiamo parlando, presentano in maniera diffusa un difettoso svolgimento dei processi psichici che regolano la trasmissione della vita psichica tra le generazioni. Mi riferisco in particolar modo ai fallimenti nella formazione delle identificazioni, cosa che conduce a gravi difficoltà nello stabilire legami affettivi e, come dice Kaes (1998), intralcio alla costituzione di " un'alterità interna soggettivata".

Un caso clinico 1:

A questo proposito mi viene in mente il caso di una mia paziente: Marcella, una ragazza di 21 anni con problemi di anoressia/bulimia, appartenente ad una famiglia dell'alta borghesia industriale settentrionale, vissuta in una piccola città di provincia fino alla morte della mamma, avvenuta quando lei aveva 18 anni e trasferitasi poi a Milano per frequentare l'università.

I problemi alimentari erano sempre esistiti. Ricorda infatti di essere sempre stata una bambina grassottella e poi un'adolescente obesa. A periodi alterni la madre la sottoponeva a diete a lei molto sgradite perché le sentiva espressione di una non accettazione della sua persona. Costretta ad essere "la migliore" a scuola, riporta ottimi risultati fino a circa la metà dell'ultimo anno del liceo, poi è colta da una incapacità di concentrazione e da un assoluto rifiuto dello studio. Riesce a concludere la maturità in modo non brillante e si iscrive all'università senza poi frequentarla.

La concomitanza tra la morte della madre e l'insorgere dei suoi problemi scolastici non viene da lei considerato significativo. Lei detestava sua madre e ritiene di essersi sentita contenta che fosse morta. Dall'età di 14/15 anni aveva infatti ingaggiato con lei un duro scontro per ottenere spazi di libertà che le venivano negati ma che lei comunque riusciva a strappare. Aveva iniziato una vita sessuale promiscua e completamente scissa da qualsiasi sentimento.
I racconti sulla sua famiglia descrivono una madre molto passiva e asservita al marito da cui era continuamente maltrattata e, allo stesso tempo, estremamente esigente e vessatoria con la figlia e un padre seduttore che l'aveva più volte insidiata e, a suo dire, col beneplacito della madre.

Marcella riferisce con rabbia che suo padre e sua madre non erano vissuti felicemente nemmeno nella fase iniziale della loro relazione. Infatti il padre non amava la madre e lo aveva detto a chiare lettere fin dall'inizio tant'è che non la voleva sposare. Non si è ben capito come la mamma fosse riuscita ad ottenere il matrimonio ed anche a mettere al mondo Marcella. Quello che traspare chiaramente è che la piccola era cresciuta in un ambiente in cui vigeva un interesse assoluto per la formalità (una casa molto elegante, con mobili antichi, quadri preziosi, un elevato livello di scolarizzazione di tutti i componenti la famiglia allargata) che nascondeva un enorme squallore emotivo. La mamma detestava il marito che conduceva una vita completamente staccata dalla famiglia, era infatti costantemente fuori casa, formalmente per motivi di lavoro e rientrava solo raramente per il week-end.

Marcella aveva vissuto un lungo periodo della sua esistenza tentando di farsi accettare sia dalla madre che dal padre e poi, ed un certo punto, si era ribellata.

Quando a 19 anni scoprì di poter vomitare le enormi quantità di cibo che ingurgitava, riuscì a dimagrire e ad assumere un aspetto piacevole. Cosa che le dava molte soddisfazioni e che usava come esca per ottenere gratificazioni narcisistiche accompagnate dal piacere sadico di poter poi rifiutare i pretendenti. Lei infatti non ricavava nessun piacere dall'attività sessuale a cui si dedicava con impegno ma il godimento era legato esclusivamente al sentirsi ricercata e desiderata.


Il processo identificatorio

Questo caso mi sembra esemplifichi con chiarezza come l'impossibilità di effettuare identificazioni positive con la madre abbia condotto Marcella in una condizione di patologia molto grave in cui non le è possibile accettarsi e le sono preclusi i legami affettivi. Marcella è ossessionata dal timore di assomigliare a sua madre, sia fisicamente, sia moralmente. La considerava infatti una persona senza alcuna dignità, che aveva visto, come lei stessa diceva: "indecentemente elemosinare" un segno d'interesse da parte del marito e che non aveva esitato ad utilizzare sua figlia per tenere formalmente legato a sé un uomo che non la voleva.

L'identità personale si forma attraverso una serie di processi di identificazione che si verificano durante la crescita e che hanno un ruolo centrale nel determinare la capacità di creare relazioni oggettuali. Inoltre l'identificazione è l'operazione attraverso cui si fonda la struttura interna dell'Io e del Super-Io; perciò ogni evento che ostacola o distorce questo processo non potrà non avere ampie ripercussioni sulla personalità dell'individuo. L'evento patologico che sfocerà poi in condotte tossicomaniche o anoressico/bulimiche può perciò collocarsi ai vari livelli del processo identificatorio. In molti casi il fallimento risale alle fasi più arcaiche dello sviluppo mentre in altre a quelle più avanzate.

L'identificazione primaria, cioè il modo primitivo di costituzione della propria soggettività sul modello dell'altro si sviluppa se l'ambiente intersoggettivo in cui il neonato è immerso è in grado di garantire uno spazio mentale perché l'Io possa formarsi ed evolve in una progressiva differenziazione dall'altro in forza della "rinuncia pulsionale" dettata dal "divieto" rappresentato dalla metafora edipica.

Nel caso di Marcella, la preoccupazione narcisistica materna impedisce il formarsi di uno spazio perché l'Io possa costituirsi liberamente non ottemperando alla funzione di nutrimento dell'immagine di Sé e dell'autostima tipica della funzione di allevamento; inoltre l'abuso paterno, unito alla presenza incostante e malevola, rendono difficile il processo di mentalizzazione e di formazione di oggetti interni sicuri e affidabili.

In generale possiamo dire che quanto più è fragile il narcisismo parentale tanto maggiori sono le aspettative rivolte ai figli che si trovano sommersi nel magma ossessivo del narcisismo patogeno dei genitori e impediti nella costituzione di una alterità interna.


Il fenomeno dell'associazionismo anonimo

Possiamo perciò dire che il fenomeno dell'associazionismo anonimo trova la sua motivazione proprio in una esigenza intrinseca alla patologia stessa; come dice de Polo (1998) "l'individuo o gli individui che si sentono messi in discussione al livello dei propri sistemi di riconoscimento sono costretti a cercare nel legame di gruppo una nuova versione della propria ideologia personale riguardante le proprie origini ..... Sentirsi simili è la premessa per il recupero di una sicurezza di Sé"

Tanto lo schema ascetico dell'anoressica quanto l'infinita compulsione della bulimica e del tossicodipendente procedono secondo il principio di esclusione dell'Altro. Inoltre, anche buona parte dei comportamenti violenti, autoaggressivi o eteroaggressivi propri delle posizioni tossicomaniche e anoressico/bulimiche possono farsi risalire all'incapacità di riconoscimento dell'Altro (G. Giaconia, 1998) .

Le ricerche sia in campo neurologico/psichiatrico sia in campo psicoanalitico hanno evidenziato connessioni tra tali condotte e le alterazioni inquadrabili nella trasmissione transgenerazionale della vita psichica legate all'attività del Preconscio quali: scomparsa precoce dell'oggetto, disturbi della separazione, traumi cumulativi e sovradeterminati, lutti non elaborati. Come dicevo, l'identificazione primaria "diretta, immediata, precedente ad ogni concentrazione su di un qualsiasi oggetto" (Freud 1923) si stabilisce nelle primissime fasi della vita ed è collegata al consolidarsi di un legame di attaccamento primario e all'esperienza dell'illusione. Ora, proprio questa identificazione, questo attaccamento, questa illusione sono disturbati o impediti dalle condizioni ambientali sopraddette. Esse interferiscono o addirittura inibiscono la costituzione del sistema Preconscio che, essendo retto dal processo secondario, rende possibile l'accesso alla simbolizzazione, al linguaggio, alla categoria della differenza (tra i sessi e tra le generazioni) e a quella del nome (cioè il sistema di definizione dell'identità propria e altrui).


Gruppi monosintomatici, processo terapeutico e rete di contenimento

Così definito il tipo di disturbo prevalente nei pazienti che si coagulano intorno ad una sintomatologia, si può ora cercare di individuare quanto i gruppi monosintomatici facilitino il processo terapeutico e quali problemi teorici e tecnici aprono.

Innanzitutto si pone un problema di tipo logistico, non tanto nei termini di reperimento di pazienti, che, come è noto, si presentano numerosi alle specifiche istituzioni di riferimento (Sert, Centri per il trattamento dei disturbi alimentari ecc.) ma quanto alla possibilità concreta di una loro regolare presenza nei gruppi. A questa difficoltà si sono trovate delle risposte concrete che prevedono che qualcuno (a volte un genitore o un parente o un amico o un operatore ecc.) si faccia carico di accompagnare il soggetto alla seduta per il periodo necessario ad una assunzione dell'impegno in prima persona. Però, anche se così il problema risulta in parte ovviato, rimane comunque il fatto che queste persone arrivano alla psicoterapia raramente per libera scelta ma molto più frequentemente per un impasto di costrizioni, spinte autonomistiche, ricatti, desideri di rivalsa, disperazione. Viene reso perciò necessario ed indispensabile un "contenimento" fuori dalla psicoterapia.

Per fronteggiare questa esigenza si sono mobilitate strategie diverse che, con differenti approcci, sono per lo più giunte a costituire intorno al paziente una rete di specialisti (medici, assistenti sociali, educatori, infermieri) per poter far fronte alle varie e diversificate situazioni di emergenza. Inoltre spesso risulta indispensabile un allontanamento, almeno temporaneo, dalla famiglia e questo fa sì che si debba ricorrere a istituzioni residenziali. A seconda dei casi: ospedali, cliniche, comunità ecc.

Un altro problema tecnico è costituito dal "pagamento". Nei gruppi per tossicodipendenti e per anoressiche/bulimiche solo raramente i pazienti stessi provvedono economicamente al pagamento della psicoterapia. Per lo più sono le istituzioni pubbliche che indirettamente si accollano questo onere oppure lo fanno i genitori. Viene a crearsi perciò una sorta di collusione tra le fantasie onnipotenti dei pazienti e la realtà della terapia. Spesso, trattandosi di persone che ritengono di essere in diritto di avere un qualche risarcimento per ciò che è loro mancato, l'assenza del pagamento in prima persona sollecita fantasie revanchistes.

Inoltre la psicoterapia si svolge solitamente all'interno di una istituzione collegata ad altre istituzioni, tra cui quella inviante che ha il compito di formulare il progetto complessivo che, in molti casi, comprende anche spazi dedicati ai genitori o ai parenti del paziente. Come si vede la psicoterapia, in questi casi, costituisce solo un momento di un intervento molto più articolato e perciò soggetto a disorganizzazione e disguidi. Quanto tutto ciò si ripercuota sull'andamento psicoterapeutico non è stato ancora sufficientemente studiato. Per di più, nel vasto panorama dei gruppi terapeutici monosintomatici, molteplici sono gli approcci e i modelli di riferimento che vengono utilizzati (sistemico, gruppoanalitico, comportamentista, conversazionalista) e, quantunque siano state effettuate delle ricerche nel tentativo di conoscere le linee di tendenza più seguite, l'esiguità dei campioni e la scarsità delle risposte hanno reso i risultati poco significativi. Lo scenario rimane perciò variegato e vago.


Terapia come condivisione della sofferenza

Ma, ritornando ai gruppi a conduzione psicoanalitica, l'elemento che coralmente viene indicato come terapeutico è quello della condivisione della sofferenza. La sofferenza di doversi nascondere o esibire in una coatta dinamica degli opposti. Pensando alle tossicodipendenze, in ogni storia personale, troviamo un periodo più o meno lungo in cui il paziente cela le proprie pratiche tossicomaniche fino a giungere ad una aperta ammissione solo a causa dell'evidenza sintomatologica. In molti casi all'ammissione si affianca anche la pervicace negazione dello stato di dipendenza testimoniata dalla frase: "Si, mi faccio, ma posso smettere quando voglio!"

Se ci riferiamo al fenomeno dell'anoressia/bulimia, c'imbattiamo quasi sempre in situazioni lungamente tenute nascoste affiancate dal relativo carico di angoscia di poter essere scoperte. In entrambe le situazioni vediamo che è affidato al sintomo il compito di rivelare il malessere psichico sottostante. Soggiacente all'angoscia relativa allo svelamento vi è il desiderio di esibire la propria fantasia di autogenerazione sostenuta dalla difficoltà d'identificazione e di riconoscimento delle proprie origini.


Quesiti di base

Rispondere ai tre quesiti basilari per ogni essere umano è di vitale importanza.

- Chi sono? (Sono uomo o donna?)
- Da dove vengo? (Chi mi ha generato e in che modo?)
- Qual è la mia funzione nel mondo? (Cosa posso fare nei termini di relazione e scambio con gli altri?)

Nei casi di cui ci stiamo occupando, dare una risposta risulta molto difficoltoso perché sono per lo più mancate le condizioni ambientali perché la risposta possa essere formulata e questo perché, come dice Bion (1987), "non si può avere una relazione direttamente con se stessi senza l'intervento di una specie di levatrice mentale o fisica. Pare che abbiamo bisogno di 'rimbalzare' su un'altra persona, di avere qualcosa che rifletta indietro quello che diciamo, prima che esso possa diventare comprensibile" .
Cioè abbiamo bisogno che qualcuno "contenga" e ci "rimbalzi" un'immagine di noi stessi che non ci è nota.

Questa funzione è originariamente sostenuta dalla madre quando si fa portavoce delle stimolazioni interne e esterne del bambino. E' la funzione di "reverie" di cui parla Bion. Ora, la situazione gruppale può risultare di grande beneficio da questo punto di vista. Soprattutto se assumiamo il modello di pensiero di Anzieu (1976) del "gruppo come sogno", un luogo di desideri ancora irrealizzati, un'area transizionale in cui è possibile che si crei lo spazio necessario allo sviluppo della separatezza.

Il costituirsi di quest'area è, per certi versi, facilitata dalla situazione gruppale, soprattutto nei gruppi monosintomatici. L'essere portatori di una medesima problematica riduce l'angoscia persecutoria e di frammentazione tipica della presenza dell'estraneo. Il sentirsi simili però, per un lungo periodo in questi gruppi, equivale ad assomigliare all'Altro e non a riconoscere nell'Altro quegli aspetti di sé, sentiti come estranei a sé stessi. La funzione del terapeuta, in questa fase, oltre ad essere indispensabile, è particolarmente delicata.
Va comunque detto che si tratta del momento più difficile di ogni lavoro terapeutico di gruppo e che l'aspetto di sostegno fornito da questa somiglianza è favorevole a che ciascuno non si senta solo di fronte al cambiamento e facilita indubbiamente la permanenza al gruppo. Problema non da poco quando si ha a che fare con pazienti la cui propensione al "passaggio all'atto" è molto pronunciata. Però è anche vero che la tendenza a rimanere nell'anonimato dell'identificazione col sintomo (sono un tossicodipendente sono una bulimica, sono un'anoressica) è molto forte e persistente.


Caso clinico 2: anonimato e identificazione col sintomo

Ricordo un periodo molto travagliato in un gruppo di psicoterapia per tossicodipendenti sfociato in una seduta in cui Franco porta il tema dell'eliminazione di un tatuaggio che aveva sul polso e che lo rendeva riconoscibile in certi ambienti permettendogli di non essere considerato un "infiltrato".

Lui è molto titubante di fronte ai contrastanti moti del suo animo: uno desideroso di eliminare la vecchia identità malavitosa e l'altro che, come dice lui, "teme di non essere più nessuno e di non sapere più chi è il nemico e chi è l'amico". Dopo l'enunciazione del problema di Franco, il gruppo rimane silenzioso per un po', poi ci sono vari interventi tendenti a chiarire la possibilità o l'impossibilità di eliminare col laser il tatuaggio. Poi Andrea, che era stato sino ad allora in silenzio dice: "Non c'entra niente, ma mi viene in mente che sabato in discoteca Giuseppe e Tommaso (due compagni di comunità) mi hanno presentato due loro cugine. Erano anche carine e io mi sono chiuso, non sapevo cosa dire, mi veniva da sudare ed ho pensato che avrei voluto dire che sono sieropositivo. ... Poi mi sono detto che sono scemo!"

Il periodo precedente questa seduta era stato pieno di agiti angosciosi e faticosamente il gruppo iniziava a comporsi. L'intervento di Franco e quello successivo di Andrea rendono tangibile come l'identificazione con la propria patologia sia radicata e come sia difficile sostituire il proprio riferimento identificatorio con la vera realtà del sé. In Franco questi è scritto sulla pelle, in Andrea è scritto in tutto il corpo. Tutto il "corpo gruppale" discute sulla possibilità del cambiamento. In verità le speranze non sembrano essere molte, infatti il gruppo è scettico sulla possibilità di eliminare il tatuaggio: "è troppo costoso, è troppo doloroso".


Gruppi monosintomatici e processi di individuazione

In effetti il lavoro terapeutico è costoso e doloroso. Il gruppo si trova in un momento di sofferenza intensa che, in questo caso, prelude per Franco all'inizio del processo d'individuazione.

Gli strumenti a disposizione del terapeuta sono quelli di sempre, nei gruppi omogenei come nei gruppi eterogenei, solo che in quelli eterogenei si è favoriti dalla maggiore diversità e singolarità di ciascun soggetto. Non voglio dire che nei gruppi monosintomatici i pazienti siano tutti uguali e che l'unicità della persona venga a mancare ma che le gravi carenze o la mancanza della funzione della simbolizzazione può impedire che si avvii il processo terapeutico. Questo avviene quando il livello di "omogeneità" è troppo elevato. Da qui l'importanza della selezione dei partecipanti al gruppo.

Direi che in un gruppo monosintomatico può avviarsi il processo terapeutico solo se ciascun componente si trova, rispetto agli altri, ad un livello diverso del processo identificatorio. In caso contrario ci si troverà di fronte ad una sequela di "passaggi all'atto" che sgretoleranno il gruppo e impediranno il suo costituirsi. A questo proposito mi sembrano molto interessanti gli studi di Kaes sullo sviluppo del sistema Preconscio. Egli afferma: "... la formazione e l'attività del Preconscio ha come condizione quella di essere iscritta nell'intersoggettività. ... Nel processo associativo e specialmente nelle sue modalità gruppali, l'attività del Preconscio di un soggetto si mette al lavoro o si inibisce nel contatto con l'attività psichica preconscia di un altro soggetto: come nei primi tempi della differenziazione dell'apparato psichico, la formazione del Precoscio è tributaria dell'Altro, essenzialmente dalla sua attività di rappresentazione di parole indirizzate a un altro. ... Il processo associativo nel gruppo funziona come un dispositivo di metabolizzazione che rende possibile il rilancio dell'attività del Preconscio utilizzando tutte le risorse dei processi primari, secondari e terziari. (Kaes 1998).

La psicoterapia di gruppo risulta quindi particolarmente utile ai soggetti di cui ci stiamo occupando proprio in quanto promotrice di un "rilancio del Preconscio" che permette loro di colmare il deficit strutturale attraverso il processo associativo gruppale che fornisce a ciascun partecipante la possibilità di trovare nell'altro "la parola che gli fa difetto nel momento in cui è senza rappresentazione di parola" (Kaes 1994)
Lo abbiamo visto prima nella situazione clinica che possiamo chiamare "del tatuaggio" in cui Andrea, solo dopo aver ascoltato le parole di Franco e quelle del resto del gruppo può esprimere la sua angoscia relativa all'identificazione con la sieropositività e rendersi conto di quanto questa identità sia inibente. L'associazione collegata alle parole di Franco porta in superficie una tematica che, a questo punto, può venir affrontata.


Un altro esempio

Il gruppo si sta soffermando sulla soddisfazione data dal veder crescere bene i propri figli e sul compiacimento nell'accorgersi di riuscire a raggiungere obiettivi quasi insperati. Paolo elenca le cose importanti raggiunte:

1. Il lavoro, commenta: "importantissimo!"
2. La casa
3. Gli amici

- Giorgia dice: "E Cristina (la partner di Paolo) in quale punto la metti?".
- Paolo risponde: "Cristina non è un punto, lei c'è, è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita e spero di vivere con lei fino alla fine".
- Giovanni: "Allora è una cosa grossa?!"
- Paolo: "Grossissima!"
- Giorgia dice che queste parole di Paolo la commuovono, è la prima volta che si esprime senza difese. Dice: "Mi sono venute le lacrime agli occhi".
- Paolo: "Anche a me!" e aggiunge che quando Giorgia, nelle sedute scorse aveva parlato dell'indurimento del suo animo dopo la morte della madre è rimasto molto colpito e vi si è ritrovato. Infatti, anche lui, dopo la morte del padre ha cercato di congelare il proprio dolore, non voleva sentirlo e ha cominciato a scappare.
- Giovanni è turbato, il parlare di morte gli fa venire in mente la mamma che è morta mentre lui era in comunità e si accorge quanto i sentimenti a lei collegati siano ancora molto confusi.
- Mara mi guarda intensamente, sembra voler parlare con gli occhi. Anche lei ha la mamma con un tumore e nella seduta precedente aveva detto di temere di perderla.

Lo snodarsi della catena associativa gruppale è in questo caso molto evidente. Le parole di Giorgia risvegliano in Paolo sentimenti soffocati, che, una volta espressi, sollecitano Giovanni a riflettere sui propri e ad accorgersi che si trovano in uno stato ancora magmatico. Questo, a sua volta, muove emozioni molto intense in Mara che le esprime con la mimica. Durante la seduta, iniziata con discorsi che apparentemente sembravano scollegati, poco per volta emergono emozioni profonde che possono evidenziarsi grazie al lavoro associativo reso possibile dallo scambio verbale tra i membri del gruppo.


Prospettive

Per concludere credo si possa dire che, come ho cercato di argomentare, il lavoro terapeutico con gruppi monosintomatici è molto oneroso ma non privo di prospettive. Trattandosi di patologie che invadono molto aspetti della vita del paziente risulta indispensabile approntare strumenti ampi e collegati gli uni agli altri. Ma è proprio l'estensione e la complessità dell'intervento a provocare difficoltà consistenti sia in termini organizzativi sia in termini metodologici.

Credo che sino ad ora, nonostante siano già state effettuati studi e ricerche, ci troviamo ancora con molto cammino da percorrere . Inoltre la modificazione dei costumi conduce a cambiamenti anche nelle condotte patologiche e questo richiede continui adeguamenti degli strumenti per affrontarle.

Non ho preso in esame in questa sede, per ragioni di spazio, la possibilità di affiancare o di far precedere o di far seguire alla psicoterapia gruppale tranches di psicoterapia individuale. Esistono a questo proposito delle interessanti esperienze tra cui quella ormai sperimentata da molti anni da Dina Wardi con i figli dei sopravvissuti dell'Olocausto. Può aprirsi perciò un'altra opportunità di riflessione di cui potrò occuparmi un'altra volta.


Bibliografia:

Anzieu D. (1976), Il gruppo e l'inconscio, Borla, Roma

Bergeret J. (1982), Toxicomanie et personalité, Paris PUF

Bion W. (1987), Discussioni con Bion, Loescher, Torino

de Polo R. (1998), Indicazioni e controindicazioni alla psicoterapia di gruppo, contributo lettto all'APG il 10/6/1998

Foulkes S.H. (1975), Group Analitic Psychotherapy: metod and principles, La psicoterapia gruppoanalitica: metodo e principi, Astrolabio, Roma, 1976

Frank J.D.(1952), Behavioral Patterns in Early Meetings of Therapeutic Groups, Am.J. Psychiatr.108

Frank J.D. (1955), Some Values of Conflict in Therapeutic Groups, Group Psychother., 8

Freud S. (1923), L'Io e l'Es, OSF vol 9, 491

Giaconia G. (1998), Perché la violenza, in Psiche no 1/1998

Johnson J. A. (1963), Group Psychotherapy: a pratical approach, Mc Graw Hill, New York

Kaes R. (1994), La parola e il legame, Borla, Roma 1996

Kaes R. (1998), Il disagio del mondo moderno, in Psiche no 1/1998

Kaes R. (1998), I processi associativi nei gruppi: le alleanze inconsce e il lavoro del Preconscio, contributo letto a Milano il 17/10/1998 in un incontro promosso dall'APG

Katz A.H. - Bender E. (1976) The strenght in u.s.: Self-Help Groups in the modern world, Franklin Watts, New York

Locke N. (1961), Group Psychoanalisis Theory and Tecnique, University Press, New York, Psicoanalisi di gruppo, Guaraldi, Firenze, 1974

Margaron H. (1997), Il labirinto della dipendenza, il pensiero scientifico editore, Roma 1997

Nash E.,Frank J. E altri (1957), Some Factors Related to Patiens Remaining in Group Psychotherapy, Int. J. Group Psychother., 7

Noventa A., Nava R., Oliva F. (1990), Self-Help, Ed Gruppo Abele, Torino, 1990

Slavson S.R. (1964), A text-book in Analitic Group Psychotherapy, Inter. University Press, New York

Wardi D. (1990), Le candele della memoria, Sansoni, Milano 1993

Wolf A. e Schwartz E.K. (1970), Beyond the Coch, Scienze House, New York, Oltre il divano dello psicoanalista, Etas Kompass, Milano, 1974

Yalom I.D. (1970), The therapy and Practice of Group Psychotherapy, Basic Books, New York, Teoria e pratica della psicoterapia di gruppo, Boringhieri, Torino, 1994


PM --> H P ITA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> PSICOTERAPIA DI GRUPPO