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Magia, sciamani e guaritori



Publio Elio Aristide e i Discorsi sacri, Asclepio, i Sogni e l'Asklepieîon di Pergamo

di Lanfranco Cordischi



Publio Elio Aristide (Publius Aelius Aristides) 1 - la presenza del praenomen Publio e del nomen Elio indicano il godimento della cittadinanza romana mentre il cognomen Aristide (in greco, Aristeídes), invece, l’appartenenza alla nazionalità greca - è uno dei massimi rappresentanti della cosiddetta Seconda sofistica, ossia di quel movimento retorico e culturale, che si sviluppa nel mondo ellenofono nel corso del II secolo d.C. (e che conoscerà un revival nei momenti meno turbolenti del IV secolo d.C.). Si tratta di una corrente che, nel clima della perduta grandezza (e della svanita libertà) del passato, guarda nostalgicamente al periodo glorioso della Grecia e, cioè, all’età classica, esprimendosi, dal punto di vista formale, in un linguaggio desueto e modellato su quello degli antichi prosatori attici, in primis su quello dei retori del IV secolo a.C.2 Di quell’altissima stagione storico - culturale e, soprattutto, dei sommi oratori del passato, come ad esempio, un Isocrate o un Demostene, però, gli scrittori della Seconda sofistica, non solo hanno perso lo slancio e la grandezza ma, soprattutto, ne hanno smarrito (né poteva essere altrimenti) la passione politica. Quest’ultima, del resto, era sostanzialmente impossibile nel II secolo d.C., quando la nazione ellenica altro non era se non una soltanto, fra le numerose etnie inglobate nell’immensa compagine dell’impero romano sicché, all’epoca, l’impegno politico - civile dei Greci si era ormai ridotto per lo più a misere beghe di carattere municipale o a patetiche querelles fra le diverse città, assimilabili piuttosto alle nostre moderne liti di condominio. Nella maggior parte dei casi quindi, questa situazione non poteva lasciare spazio ad altro che a una retorica fondamentalmente fatua e disimpegnata. Ad ogni modo, a differenza dell’età moderna, in cui la parola ‘retorica’, ha assunto una connotazione negativa, con un significato implicito di qualcosa di prolisso, artificioso, falso e sostanzialmente inutile, l’arte del parlare, nell’antichità, era considerata una fra le massime espressioni della personalità umana.

Certo, come già detto, una cosa è la grande oratoria del periodo classico, un’altra la retorica dei rappresentanti della Seconda sofistica. Ciò non toglie, però, che la fama di questi ultimi presso i contemporanei sia stata enorme e paragonabile soltanto a quella di cui godono oggi i divi del cinema o i cantanti di fama internazionale. Il loro successo fu dovuto anche dal vuoto lasciato in campo spirituale dalla speculazione filosofica durante i primi due secoli dell’impero. Infatti, se filosofia e retorica, nel periodo classico, si erano spesso combattute per la supremazia assoluta nel controllo dell’educazione, fino a raggiungere, nel corso dell’Ellenismo, una sostanziale parità, bisognerà attendere il III secolo d.C., perché, con il Neoplatonismo, appaiano nuovi contributi al pensiero e alla riflessione filosofica.

Sotto il nome di Elio Aristide sono a noi giunte 53 orazioni (I - LIII), di cui alcune certamente non di suo pugno.3 Nell’ordinamento tradizionale, i Discorsi Sacri (Hieroì lógoi) corrispondono ai numeri XLVII-LII: si tratta, quindi, di sei discorsi, di cui l’ultimo, però, incompleto. La prima traduzione in italiano, senza il testo greco a fronte, ma con bella ed esauriente introduzione e ricco apparato di note, dei Discorsi sacri è quella di Salvatore Nicosia,4 nella quale i sei discorsi sono numerati da I a VI: a tale traduzione e numerazione degli Hieroì lógoi faremo pertanto riferimento nelle pagine seguenti.

Senza averne la statura, Elio Aristide pensava di essere un redivivo Demostene (IV, 18 s. Nicosia) o un nuovo Isocrate e di quest’ultimo grandissimo oratore arrivò perfino ad imitare i titoli: come lui infatti, anche Aristide scrisse, ad esempio, un Panatenaico (Panathenaikós: Or. I Keil = I Lenz – Behr), ma è appunto in questa pedissequa adesione e vuota imitazione di modelli così remoti ed irraggiungibili, che la produzione aristidea mostra uno degli aspetti meno piacevoli e accattivanti della Seconda sofistica. Forse l’opera più celebre di Elio Aristide è il Panegirico di Roma (Eis Rhómen: Or. XXVI Keil), scritto, o nel 144 oppure, più probabilmente, nel 154 d.C. 5 durante il regno di Antonino Pio, in cui si tesse il più alto elogio dell’impero di Roma, anche se lodi agli imperatori e all’impero romano si trovano sparse qua e là anche in altri discorsi del retore. Benché poco rilevante dal punto di vista letterario a causa dello stile involuto e delle frequenti ripetizioni, il Panegirico di Roma s’impone al nostro interesse per il fatto che esso restituisce l’immagine più chiara dell’impero romano proprio nel periodo di massimo accordo fra borghesie urbane provinciali e direzione politica centrale, un’età di relativo equilibrio, iniziatasi col regno di Adriano, che raggiunse l’apice sotto l’imperatore Antonino Pio per continuare, in gran parte ancora, durante il regno di Marco Aurelio. Non è un caso, quindi, che proprio all’epoca di Antonino Pio, risalgano migliaia d’iscrizioni esaltanti l’imperatore e l’eternità dello Stato romano.

Senza entrare nell’analisi del discorso, per quello che a noi interessa, basterà qui ricordare soltanto che il retore giudica in maniera molto positiva il rilevante sviluppo urbanistico che aveva avuto luogo nell’impero ad opera dei Romani: un processo questo, cui lo stesso Elio Aristide aveva potuto assistere di persona in giovane età, quando il filelleno Adriano aveva fondato - proprio nella spopolata regione natale del futuro oratore e, cioè, la Misia (nell’Asia Minore interna) - ben tre nuove città: Adrianutere, Adriani ed Adrianea. Dei Romani poi, Elio Aristide esalta la sollecitudine, da essi dimostrata, nei confronti della popolazione ellenica dell’impero e sottolinea che, a loro merito, era da ascrivere il fatto che, nelle città greche, stessero ormai rinascendo le istituzioni del passato insieme ai loro tipici edifici, come i ginnasi, le fontane, i colonnati. Solo i cittadini, per Aristide, sarebbero gli ottimi, destinati a governare, mentre le masse popolari, non toccate o solo superficialmente lambite dalla dominante cultura greco – romana, avrebbero avuto solo il compito di ubbidire. E tuttavia, proprio queste masse, in ogni parte dell’impero, rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione e perciò potevano costituire - ed, effettivamente, presto avrebbero costituito durante la terribile crisi del III secolo d.C. – un pauroso ed incontrollabile potenziale eversivo, appena che l’allontanamento fra masse rurali e civiltà urbana provinciale avesse raggiunto il punto di non ritorno, ossia la rottura definitiva. Insomma, ciò che Elio Aristide non vede o preferisce non vedere, è il quadro che si manifesta appena si esce da queste città pur così ricche di templi, colonnati e ginnasi: ovunque, rapimenti, violenze, brigantaggio, insicurezza per le strade, capillare diffusione di credenze magiche e delle più incredibili superstizioni.

Un’immagine assai più fededegna di questa differente ed oscura realtà ci è fornita, invece, dal romanzo. Nato nel mondo greco di età tardo – ellenistica - nell’ambito, è vero, di una cultura prettamente urbana, ma con forti influssi orientali - questo genere letterario conobbe una vastissima diffusione. Si tratta, infatti, di una ‘letteratura di consumo’ che, potendo annoverare tra i suoi fruitori anche i ceti medio – bassi ed i semi - illetterati, fornisce un quadro molto più veritiero, rispetto a quello della letteratura aulica o ufficiale, della realtà rurale o, meglio, extraurbana del mondo antico. Tale genere letterario, inoltre, continua a svilupparsi per buona parte dell’età imperiale romana, producendo le sue opere migliori però, piuttosto in latino che in greco. Basterà ricordare, a tal proposito, lo straordinario - sebbene a noi giunto solo in frammenti - Satyricon del grande Petronio Arbitro (vissuto nell’età neroniana) e le splendide Metamorfosi (Metamorphoseon libri), note anche con il titolo l’Asino d’oro, dello scrittore africano Apuleio di Madaura (vissuto nel II secolo d.C.), un autore questo, che subì fra l’altro anche un processo per magia, del quale ci è rimasta una viva testimonianza nella sua Apologia (il cui titolo esatto nei manoscritti è però il De magia liber). Ma, la situazione generalizzata d’insicurezza accompagnata da credenze di tipo magico e superstizioso, appena descritta, non riguardava solo le campagne, ma era viva anche all’interno delle stesse splendide città di cui parla Aristide, ove fluttuava un’illimitata angoscia del vivere, una grande paura del domani ed una fondamentale irrazionalità quasi altrettanto pervicaci quanto quelle delle plebi rurali analfabete o semialfabetizzate: prova evidente ne è lo stesso Elio Aristide con i suoi scritti più sbalorditivi, e cioè proprio con i suoi autobiografici ed allucinati Discorsi sacri. Pochi furono gli scrittori o gli intellettuali che poterono – o, semplicemente, vollero - sottrarsi a questa irrazionalità e superstizione sempre più dilaganti nel mondo antico a partire dal II secolo d.C., in particolare dai suoi due ultimi decenni, ed assolutamente trionfanti nel III. Citeremo qui soltanto il brillante scrittore Luciano di Samosata - originario della Siria, ma profondamente ellenizzato – che visse proprio all’epoca di Elio Aristide e di Apuleio: nelle sue scanzonate opere infatti, Luciano si divertì ad ironizzare, per esempio, sul modo romanzato e fantasioso di scrivere la storia da parte dei suoi contemporanei (nell’opera intitolata In che modo si debba scrivere la storia) oppure non indietreggiò dal dileggiare, in maniera bonaria, le supreme divinità dell’Olimpo come Zeus, Hera, Apollo o Hermes, etc. (nei Dialoghi degli Dei), oltre a smascherare l’astuto impostore Alessandro di Abonoteîchos (nell’Alessandro Pseudoindovino, 13 – 19), che si vantava di essere stato discepolo di Apollonio di Tyana, un misteriosa figura di mago, mistico e filosofo, della quale tutto è discusso, perfino l’esistenza: Alessandro infatti, fu il creatore del falso oracolo di Glýkon, un grosso serpente addomesticato portato da Pella in Macedonia, presunta reincarnazione di Asclepio, cui si tributò un culto almeno in Paflagonia, Dacia e Mesia e, forse, perfino in Roma stessa all’epoca di Antonino Pio (ma anche più tardi), serpente questo, immortalato tanto in immagini scultoree quanto nelle coniazioni monetali dell’epoca e con il quale l’abile Alessandro era riuscito ad ingannare non solo le plebi incolte, ma perfino eminenti personalità dell’amministrazione imperiale romana, tra cui l’anziano proconsole d’Asia Rutilianus.

Ad ogni modo, dopo queste premesse di carattere generale, per comprendere meglio Elio Aristide, è indispensabile qualche cenno biografico, soprattutto in relazione alle vicende che sono all’origine dei suoi Discorsi sacri. Nato, come già si è avuto modo di accennare, in una zona interna della Misia nel 117 d.C., Elio Aristide proveniva da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Il luogo della nascita, non localizzabile con esattezza, è da situare comunque, nella zona nord -orientale rispetto a quella che da lì a breve sarebbe divenuta, per volontà dell’imperatore Adriano, la già ricordata città di Adrianutere, nel cui nome, appunto, l’imperatore aveva voluto immortalare il ricordo di una sua fortunata battuta di caccia proprio in quella zona.6 Questa regione interna dell’Asia Minore era abbastanza impervia e poco densamente popolata ed, inoltre, piuttosto lontana e mal collegata alle più importanti città greche della costa egea, come, ad esempio, Smirne, Efeso e Mileto. In tale regione, la famiglia di Aristide era in possesso appunto di una fattoria (I, 43; III, 13, 16, 20, 41; IV, 28, 49; V, 10 Nicosia), che rimarrà sempre un punto di riferimento per il retore, vicino ad un santuario di Zeus Olimpio (I, 43; III, 41; IV, 1 s., 21, 48 s., 71, 105; V, 10, 47 Nicosia) - di cui il padre Eudemone, quasi certamente anch’egli già cittadino romano, era sacerdote - e ad un tempio di Asclepio (IV, 49 Nicosia). L’importanza sociale della famiglia di Aristide è dimostrata, oltre che dal godimento della cittadinanza romana da parte del retore e, come già detto, forse già da parte del padre, dal possesso di svariati beni immobili non solo in Misia, ma pure nella lontana Smirne (dove il retore aveva una casa oltre ad una villa in periferia), nonché dalla partecipazione di Aristide alla vita politica di tale città. La sua infanzia trascorse, appunto, nella casa paterna, affidato alle cure di una nutrice (I, 45; II, 41; III, 16; IV, 10 Nicosia), chiamata Philouméne (Filomena), la persona a lui più cara (I, 78; Nicosia), che lo allevò insieme ai suoi figli, e di vari tropeheîs - ossia, schiavi pedagoghi - in particolare, Zosimo (menzionato con o senza nome anche dopo la sua morte: cfr. I, 66, 69, 71 s., 74 - 76; II, 9; III, 3, 12, 16, 37, 47 Nicosia; forse anche IV, 41 Nicosia; e ancora, IV, 69, 103 Nicosia) ma anche Epagato (IV, 54 Nicosia) e Nerito (III, 15 Nicosia). Fu probabilmente questo entourage a potenziare una latente inclinazione di Aristide al misticismo e alla superstizione. Ad ogni modo, per la nutrice soprattutto, ma anche per i precettori, Aristide nutrì un affetto abbastanza sincero, tanto più sorprendente, se confrontato con la quasi totale assenza di ricordo delle figure genitoriali. Come tutti i giovani di elevata condizione sociale, dopo l’apprendistato domestico, Elio Aristide iniziò a frequentare altre località ed altri maestri e poiché, all’epoca, la retorica non solo era considerata la più nobile attività intellettuale, ma anche per il fatto che a tale tipo di studi Aristide si sentiva particolarmente portato, il giovane si dedicò dapprima ad acquisire una solida base linguistico - letteraria presso Alessandro di Cotieo, del quale sarebbe rimasto poi amico e che avrebbe conquistato più tardi una certa fama, a Roma, come insegnante di greco del futuro imperatore Marco Aurelio. Studiò poi presso due famosi sofisti, Aristocle di Pergamo e Polemone di Laodicea sul Lico ed, infine, durante un soggiorno ad Atene – imprescindibile, all’epoca, per tutti i rampolli delle famiglie altolocate - ebbe la fortuna di conoscere il più celebre oratore del momento, il carismatico Erode Attico. Ma, per un giovane altolocato come Elio Aristide, tutto ciò non poteva bastare. Infatti, in maniera simile al grand tour in Italia che, nei secoli XVIII e XIX, i bennati giovani Nord - europei dovevano compiere a completamento della propria educazione, anche per i rampolli delle buone famiglie del periodo tardo - repubblicano e imperiale romano, oltre alla cultura acquisita sui libri, erano ritenuti indispensabili i viaggi.

Sappiamo, per esempio, di un suo soggiorno in Egitto, intorno al 141/142 d.C., di cui ci resta un ampio resoconto nel Discorso egiziano (Or. XXXVI Keil), sebbene nello stesso periodo, abbia luogo la manifestazione di una non chiara malattia (Or. XXXVI Keil, 49, 91), che forse lo costrinse a tornare anzitempo a Smirne e, nei confronti della quale, Aristide non seppe far altro che chiedere soccorso a Serapide, il grande dio dalle valenze guaritrici, creato dai teologi di corte del primo dei sovrani greci d’Egitto, Tolomeo Sotér, nel tentativo di sintetizzare, in un’unica figura divina, le credenze religiose elleniche con quelle dei sudditi egiziani. Quest’imprecisata malattia rappresenta il primo negativo indizio di quel profondo disagio psicofisico, che di lì a breve avrebbe colpito - in maniera gravissima - il retore, oltre a costituire la prima evidente manifestazione di quella propensione al misticismo nei confronti della malattia, che è tipica di Aristide.

E fu proprio un viaggio, e cioè, quello intrapreso nella capitale dell’impero durante l’inverno del 143/144 d.C., a ventisei anni d’età, a scatenare con tutta la sua forza, in Aristide, la terribile malattia psicofisica al cui esordio si è appena accennato, un viaggio questo, dal quale il giovane certamente doveva aspettarsi ben altri risultati, dal momento che un soggiorno a Roma, per un promettente ed ambizioso retore come Aristide, peraltro ormai culturalmente maturo, costituiva, senza dubbio, la consacrazione definitiva del valore e del talento raggiunti nella pratica dell’oratoria.

Non è un caso, quindi, che nei Discorsi sacri Aristide non racconti nulla della sua permanenza a Roma, durata ben sei mesi, e che insista invece, in maniera ossessiva, sulle disastrose vicende di quel viaggio, tanto all’andata che al ritorno, individuando in esso, appunto, la causa scatenante di tutti i suoi mali (II, 5, 60 - 70; IV, 2, 32 - 37 Nicosia). È senza dubbio inutile narrare qui, nei dettagli, le sventurate peripezie di quel viaggio cruciale. Basterà soltanto ricordare che l’andata ebbe luogo via terra in condizioni disastrose e che durò ben cento giorni rispetto ai trenta normali; che, dopo l’arrivo a Roma, i medici sottoposero Aristide a radicali quanto inutili cure, sicché fu deciso di riportarlo indietro, almeno per farlo morire in patria, e che le disavventure del viaggio di ritorno, questa volta via mare, non furono affatto minori, sicché quando il giovane retore riuscì finalmente a raggiungere Mileto, peraltro dopo essere miracolosamente scampato ad un naufragio, si sentiva così prostrato da non riuscire a reggersi in piedi; solo a piccole e faticose tappe, Aristide poté alla fine raggiungere Smirne, ritenendosi ormai completamente spacciato. Tra l’inizio e la fine del viaggio era passato ormai quasi un anno.

A Smirne, Aristide trascorrerà alcuni mesi assai importanti, sia per quanto concerne il decorso della sua malattia, sia per quanto riguarda gli sviluppi futuri della sua personalità. Se, da un lato, infatti, il giovane malato arriverà a convincersi in maniera definitiva dell’assoluta inutilità della medicina scientifica, dall’altro, l’atteggiamento di Aristide nei confronti della malattia inizierà sempre più a propendere verso quelle forme di misticismo e d’irrazionalismo quasi ottuso, cui abbiamo precedentemente accennato. In questo difficilissimo momento, saranno dapprima Iside e Serapide (III, 45 s. Nicosia), le due grandi divinità d’Egitto, a dargli speranze di salvezza.

Sarà proprio a Smirne, però, in questi terribili mesi, che gli si rivelerà per la prima volta il dio guaritore per eccellenza, Asclepio, che, in sogno, gli ordinerà di camminare a piedi nudi e di fronte a tale comando - a sogno ormai finito, ma come in stato di veglia - Aristide risponderà con l’acclamazione rituale “Grande è Asclepio!”,7 aggiungendo immediatamente poi: “l’ordine è eseguito!”; dopo di che, come narra lo stesso Aristide, sarebbe venuta la chiamata del dio, il quale avocava a sé i bisognosi prima di essere invocato, ed il trasferimento di Aristide nell’Asklepieîon di Pergamo (II, 7 Nicosia). Siamo ormai nell’estate del 145.

Ed è appunto da questo sogno che inizia, per l’oratore, un rapporto che continuerà poi per tutto il resto della sua vita. Da questo momento in poi, ogni atto, ogni scelta, dalla meno importante alla più significativa, sarà regolata oniricamente dal dio, una relazione questa, che a Pergamo, si rafforzerà ulteriormente.

Seguendo le prescrizioni del medico divino, Elio Aristide riuscirà, se non a recuperare la salute e l’equilibrio mentale, almeno a convivere con i suoi innumerevoli malanni, in una continua alternanza di ricadute e ‘miracolose guarigioni’, ma soprattutto, col tempo, sarà in grado di riprendere l’attività oratoria, unico suo vero interesse,8 che aveva dovuto interrompere a causa della malattia (IV, 14, Nicosia; cfr. anche IV, 69 Nicosia), riuscendo a compiere di nuovo, per tale ragione, anche numerosi viaggi in qualità di conferenziere itinerante. A parte questo, sappiamo che Aristide impiegò molte delle sue capacità oratorie per ottenere l’esenzione dagli incarichi pubblici, che le autorità volevano imporgli (ad es.: IV, 71 ss. Nicosia), e che anch’egli cadde vittima, anche se poi riuscì a guarire, della terribile peste, detta ‘antonina’ o ‘di Galeno’, scoppiata nel 165 (o 166) d.C. fra i soldati romani impegnati nella campagna bellica condotta da Lucio Vero contro i Parti, peste questa, che si diffuse ben presto in tutte le zone dell’immenso impero decimandone la popolazione (II, 38 ss.; IV, 9 Nicosia). Le tracce della vita del retore si perdono dopo il 180 d.C., nei primissimi tempi, dunque, del regno di Commodo.

A questo punto, prima di procedere, sarà forse opportuno fornire qualche cenno chiarificatore su Asclepio, il dio cui Aristide affidò la propria salvezza, e sul culto a lui tributato.

Il greco Asclepio (Asklepiós, Asklapiós, Aschlapiós, etc.),?divenuto poi Esculapio fra i Latini (Aesculapius, ma anche Aisclapius, Aiscolapius, etc) fu in origine un eroe (come tale appare infatti in Omero), verosimilmente il patrono dei medici, che solo più tardi divenne dio della medicina,9 vantando almeno per parte di padre la nobilissima nascita dal dio Apollo; quanto alla madre, le versioni più diffuse della leggenda parlano di Coronide (Koronís), figlia del re tessalico Phlegýas. Ad ogni modo, il dossier mitologico di Asclepio si presenta alquanto scarno e riguarda quasi esclusivamente eventi e fatti relativi alla sua nascita e morte. Per quanto concerne la nascita, il mito - o, meglio, la variante più celebre di esso - parla dell’esposizione di Asclepio da parte della madre subito dopo il parto, dell’allattamento del neonato da parte di una capra e della miracolosa scoperta dell’infante effettuata da un pastore. Anche le circostanze della morte e della successiva divinizzazione non sono chiarissime: secondo una tradizione, Asclepio sarebbe stato ucciso dal fulmine di Zeus per il fatto che non si limitava a guarire i malati, ma che era arrivato perfino a resuscitare i morti; poi, però, su richiesta di Apollo, egli sarebbe stato richiamato in vita e divinizzato. Ad ogni modo, dopo l’elevazione al rango divino, Asclepio preferì sempre vivere sulla terra, memore di essere stato un mortale, e precisamente presso i suoi santuari, in primo luogo, in quello di Epidauro. Il resto della vita e delle imprese di Asclepio rimane alquanto oscuro: sostanzialmente sappiamo che apprese la medicina e la caccia dal centauro Chirone (Cheíron o Chíron) e che ebbe una moglie (Epióne) e dei figli, tanto maschi, come Macháon e Podaleírios, che femmine, come Iasó, Panákeia, Ygieía (queste ultime, evidenti personificazioni di particolari virtù mediche e risanatrici del padre).10

La scarsa consistenza mitologica di Asclepio conferma con ogni evidenza che abbiamo a che fare con un personaggio - originariamente e sostanzialmente - estraneo al pantheon delle grandi divinità della Grecia.

Ad ogni modo, il culto di questo parvenu fra gli dei dell’Olimpo, dotato peraltro di uno spiccato carattere oracolare, emerge quasi improvvisamente nella città greca di Epidauro, in Argolide (Peloponneso Nord – occidentale), a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. In tale località, infatti, prima del culto di Asclepio, fioriva quello di Maleátas, un dio d’incerta origine, ma di probabile carattere oracolare e risanatore anch’esso, più tardi assimilato ad Apollo (Apóllon Maleátas). Non è escluso che il motivo dell’installazione di Asclepio nel santuario di Maleátas dipenda dalla probabile somiglianza fra le due divinità, anche se non si ha alcuna certezza in merito.

Ad ogni modo, già verso la fine dello stesso secolo, Asclepio riuscì a conquistare il primo rango ad Epidauro,11 anche se Apóllon Maleátas non scomparve del tutto: per privilegio puramente formale, infatti, quest’ultimo continuò ad essere menzionato, nei documenti del santuario, prima di Asclepio.

Del resto, lo stesso Apollo, o fin dalle origini oppure in un dato momento dell’evoluzione della sua personalità divina, ebbe o assunse una connotazione risanatrice. Per esempio, non moltissimo tempo dopo l’originaria introduzione del suo culto - da datare verosimilmente nella seconda metà del VI secolo a.C. - a Roma, ove e quando al dio fu consacrato un Apollinare (vale a dire, un’area di culto in suo onore nei prata Flaminia, non lungi dal Campidoglio), nel 433 a.C., a causa di una pestilenza (Livio, 4, 25, 3), si arrivò a votare un tempio ad Apollo medicus (l’appellativo è tramandato da Livio 40, 51, 6), corrispondente al greco Apóllon Alexíkakos (= ‘Apollo che allontana i mali’), tempio questo che fu dedicato nel 431 a.C. dal console Cn. Iulius. 12

Ad ogni modo, dopo l’affermazione ad Epidauro, il culto di Asclepio iniziò a diffondersi anche in altre località, dove, infatti, la ‘casa madre’ di Epidauro prese a fondare, già dal V secolo a.C., delle vere e proprie filiali, sebbene alcuni santuari in suo onore fossero, a loro volta, derivazioni di succursali, sicché, a poco a poco, gli Asklepieîa si moltiplicarono un po’ ovunque nel mondo antico. Col trascorrere dei secoli, la fama del dio medico assurse ad un livello tale che egli poté essere sincretizzato perfino con Zeus, il re degli dei, e, nella tarda antichità, addirittura essere considerato, da parte dei Cristiani, uno dei più temibili avversari del loro credo, se non addirittura il più temibile in assoluto. Per quanto concerne gli Asklepieîa, senza dubbio essi erano dei veri e propri centri di culto ma, nello stesso tempo, anche degli ospedali o, meglio, dei sanatori; spesso, almeno nel caso dei più celebri (ad esempio, Epidauro, Cos, Pergamo), si trattava di località amene, immerse nel verde, con fonti d’acqua medicamentosa o ritenuta tale, in cui potevano svolgersi spettacoli, specie in ricorrenza di festività, e che ospitavano biblioteche o luoghi per il riposo, l’attività fisica e lo studio (ed anche preziose opere d’arte). A parte i malati, quindi, nei più importanti Asklepieîa accorrevano anche le persone sane o per onorare il dio o per svagarsi oppure per esercitare discipline di carattere fisico e / o intellettuale. Numerosi, com’è ovvio, erano i medici, che a volte fondavano, nel santuario stesso, le loro scuole; anche gli addetti al culto però, erano in possesso di più o meno rudimentali nozioni di carattere medico: nell’antichità, infatti, medicina templare (ossia quella esercitata dai ministri del culto) e medicina scientifica, seppure distinte, non furono mai in opposizione fra loro. Una caratteristica connessa con il culto, il carattere oracolare e, soprattutto, guaritore del dio della medicina, è la pratica di dormire all’interno del santuario in attesa di un sogno risanatore, un uso questo, noto in italiano col nome di ‘incubazione’;13 in genere, i santuari ospitavano un edificio apposito per il rito.14 Da Aristide veniamo a sapere però che l’incubazione poteva essere praticata anche altrove rispetto ai luoghi deputati (II, 71, 80 Nicosia), anche se questa opportunità parrebbe essere stata riservata soltanto ai personaggi di riguardo, come appunto il retore, e non ai comuni pellegrini. Di questa pratica, per Asclepio, abbiamo testimonianze certe di carattere letterario, fra cui, a parte la fondamentale attestazione del Pluto di Aristofane (620 – 770), una delle più importanti è costituita proprio dai Discorsi sacri di Aristide (cfr. I, 43; II, 71, 80; III, 7 Nicosia) ma sono poi da ricordare anche Filostrato (Vita di Apollonio di Tyana, IV, 11); Giamblico (Sui Misteri, 3, 3); Plauto (Curculio, I, 1, 61 s. e II, 1, 216 - 222, 260 - 263) e Cicerone (Sulla Divinazione, II, 59, 123: nel passo di Cicerone si fa riferimento anche a Serapide). Per quanto concerne Aristofane, celebre è il brano del già ricordato Pluto (620 – 770), nel quale il poeta comico greco descrive, nel 338 a.C., la miracolosa guarigione, presso l’Asklepieîon del Pireo, di Pluto (Ploûtos), il dio della ricchezza, dalla cecità da cui era afflitto. Certo, Pluto è una figura inventata, così come lo sono Asclepio, Iasó e Panákeia, introdotti fra i malati; ciò non toglie che molti aspetti della descrizione riproducano la realtà effettiva, per esempio, la preparazione dei giacigli dei malati, lo spegnimento delle lucerne, l’ordine di tacere e di dormire, l’applicazione di vari rimedi, l’intervento dei serpenti sacri, etc. Il dio della medicina, infatti, era autore di vere e proprie ‘guarigioni miracolose’ (o, almeno, ritenute tali), attribuite al suo intervento diretto o indiretto durante i sogni per incubazione (in altri casi però, anche diversamente). Queste ‘guarigioni miracolose’, note nella letteratura archeologica anche con il nome di sanationes, a noi moderni sono ben attestate anche da numerosi documenti epigrafici provenienti da ben cinque Asklepieîa: Epidauro, Atene, Lebena (isola di Creta), Roma (santuario sull’Isola Tiberina) e Pergamo; per quanto concerne quest’ultima località poi, fortunati ritrovamenti archeologici ci hanno restituito parte della lex sacra che regolamentava, in maniera rigorosa, il rito dell’incubazione e dove si parla, in particolar modo, delle offerte da effettuarsi a varie divinità, oltre, naturalmente, ad Asclepio.15 Fra le testimonianze papiracee, particolare interesse riveste un’aretalogia di Imuthes – Asclepio, contenuta in un papiro di Ossirinco, ove si parla di una duplice guarigione operata dal dio medico, benché non attraverso la canonica pratica dell’incubazione: la prima guarigione è quella della madre dell’ignoto autore del testo papiraceo da una febbre malarica, operata dal dio risanatore in sogno; la seconda invece è la sanatio da una malattia - che potrebbe essere forse una pleurite al polmone destro - in cui era piombato il figlio della donna miracolata, guarigione la quale era stata operata dal dio attraverso un sogno del paziente, che sebbene non venga narrato, ci viene detto però esattamente corrispondente ad una visione del dio medico, avuta e poi raccontata dalla madre del malato, mentre la donna era in stato di veglia e ad occhi aperti, dunque, attraverso un’allucinazione.16

Per tornare all’incubazione vera e propria, è importante sottolineare che nell’edificio apposito per questa pratica i malati passavano la notte, in attesa di un sogno risanatore, sia che il dio stesso guarisse in sogno il malato, sia che, agendo come medico di consulto, prescrivesse utili indicazioni diagnostico – terapeutiche, talvolta ricorrendo anche a simboli onirici; è ovvio, che a tutto ciò non dovessero essere estranei i ministri del culto.

Ma, come spiegare il successo delle cure per incubazione? A parte il fatto che, certo, non ci si preoccupava di redigere i resoconti dei fallimenti,17 in primo luogo, c’è da considerare che, almeno in parte, le malattie risolte in tal modo, non dovevano essere letali e avrebbero avuto, comunque, un esito positivo da sole. Molte di queste malattie, inoltre, dovevano essere di carattere psicosomatico, senza contare poi, che i malati - nel loro rapporto con il dio, di cui l’incubazione costituiva il momento più intenso - si trovavano a vivere un’esperienza assai profonda dal punto di vista religioso nonché di fiducioso abbandono (del resto, anche oggi, determinante per ogni guarigione è il feeling tra medico e paziente) né, infine, è da trascurare la tendenza autoterapeutica della mente (Selbstheilungstendenz der Psyche). Insomma, al successo delle cure per incubazione concorrono più fatti di carattere psicologico e medico: l’essenziale ricorso alla sfera onirica fa leva diretta sull’inconscio, come pure sull’atteggiamento dell’infermo verso la propria malattia, nonché favorisce l’enorme potere dell’autosuggestione, senza contare poi che i segnali e simboli contenuti nei sogni, la cui interpretazione era per lo più lasciata ai sacerdoti e ai ministri del culto (ma talora, anche a conoscenti, amici o allo stesso sognatore), si concretizzava nell’impiego delle soluzioni messe a disposizione dalle conoscenze mediche dell’epoca, che, accumulate nel corso dei secoli, in alcuni casi almeno, potevano aiutare a guarire i pazienti. Ma, come non sospettare, a volte almeno, il dolo, seppure a fin di bene? È questo il caso, per esempio, delle guarigioni miracolose di presunte infertilità femminili, che potrebbero, attivamente e materialmente, essere state risolte dagli stessi ministri del culto, attraverso rapporti sessuali con le pazienti, il cui sonno poteva forse essere reso più profondo tramite la somministrazione di droghe.

Ad ogni modo, i sogni hanno sempre avuto un’importanza grandissima nella storia dell’umanità, in primo luogo, perché tutti gli esseri umani (oltre che molte specie animali), fanno reiteratamente quest’esperienza e, poi, perché i sogni hanno un certo potere condizionante nella vita di ciascun individuo, tanto nella fattispecie dei sogni veri e propri, ossia dei sogni ‘sognati’ quanto in quella dei sogni ad occhi aperti o ‘allucinazioni’. L’esperienza onirica però, non si riduce affatto alla sfera prettamente individuale, nonostante la preminente autoreferenzialità del sognatore durante il sonno, perché i sogni rispecchiano anche le società che li hanno prodotti e vengono così ad assumere anche una dimensione sociale (si pensi ad esempio, alla ricca simbologia onirica che è un patrimonio comune dell’inconscio collettivo, anche se poi uno stesso simbolo può assumere significati diversi a seconda di chi lo sogna). Poiché i sogni rappresentano un’esperienza così diversa da quella della quotidianità e del reale, è ovvio che gli uomini di ogni cultura e latitudine si siano interrogati su di essi, cercando di afferrarne l’impalpabile essenza, l’origine, i possibili significati e la funzione. E le risposte sono state - e sono - di volta in volta diverse. Non solo, ma a complicare il tutto, si deve considerare il carattere polisemantico dei sogni, sicché il fenomeno onirico, pur così universale, appare essere un affascinante, quanto spesso disperante, campo d’indagine. Non stupisce, quindi, che anche nell’antichità classica, già dall’età di Omero, sia possibile rintracciare un certo interesse per la dimensione del sogno. I sogni possono essere indotti dagli dei o dai defunti, possono essere veritieri o ingannatori, possono essere funesti o benevoli nei confronti di chi li fa. Tra i sogni più celebri narrati da Omero, si possono ricordare qui l’apparizione del defunto Patroclo ad Achille (Iliade, XXIII, 62 ss.), quello di Athena che appare in sogno a consolare Penelope (Odissea, IV, 793 ss.), e soprattutto il sogno dell’aquila che si abbatte sulle oche (Odissea, XIX, 535 ss.), fatto da Penelope ed interpretato da un Odisseo sotto le mentite spoglie di mendicante, come premonitore della futura vendetta dello stesso Odisseo nei confronti dei Proci, un’interpretazione nei cui confronti Penelope rimane alquanto scettica, perché, a suo parere, i sogni non sempre si avverano, una costatazione questa, cui la donna aggiunge poi la teoria secondo la quale due sarebbero le porte da cui fuoriescono i sogni, una di corno e l’altra d’avorio: solo i primi sarebbero veritieri, mentre gli altri avvolgerebbero la mente d’inganni, una concezione questa che sarà ripresa molti secoli dopo da Virgilio (Eneide, VI, 893 ss.). Fin dalle origini dunque, la riflessione sul sogno è incentrata sulla possibilità o meno che esso possa predire il futuro per mezzo di un’immagine simbolica, che necessita di un’interpretazione, nonché sul tentativo di stabilirne natura ed origine, anche se il tutto resta incardinato nei limiti della prerogativa ritenuta più importante del fenomeno onirico, vale a dire quella che concerne la sua potenzialità premonitrice. Molti, dopo Omero, furono gli autori che si occuparono del problema onirico, dando di volta in volta, risposte diverse, anche se per lo più fortemente condizionate dalla concezione, diffusa e popolare, dell’origine divina e del carattere divinatorio dei sogni o, almeno, di una parte di essi. Non potendo procedere in questa sede ad un esame dettagliato, ci si limiterà qui ad enunciare alcune soltanto, delle concezioni dell’antichità classica - avanzate nel corso del tempo – a proposito dei sogni, della loro origine e del loro significato. Ad esempio, nel IV libro dell’opera intitolata Sulla dieta, inclusa nel corpus ippocratico, l’ignoto autore accetta l’esistenza di sogni di origine soprannaturale e di carattere divinatorio, la cui spiegazione va lasciata agli interpreti specializzati, ma nel contempo afferma che altri sogni invece, forniscano indicazioni sulle condizioni di salute e che, perciò, debbano essere lasciati ai medici (IV, 87). Già Eraclito intanto aveva stabilito il carattere soggettivo ed individuale della sfera onirica (fr. 89 Diels – Kranz), anticipando la concezione di Freud, secondo la quale i sogni sono sempre individuali ed egocentrici (ma, come si è visto, non immuni dal contatto con la società in cui vive il sognatore). Platone, a sua volta, traendo spunto dall’affermazione dell’ignoto autore ippocratico, la trasporterà su un livello più propriamente psicologico, anziché fisiologico: secondo il filosofo infatti, durante il sonno dormirebbe anche la parte razionale dell’anima, che perciò, non essendo più in grado di tenere a freno quella irrazionale, animalesca e selvaggia, lascerebbe libero il campo ad immagini mostruose e terribili, come usare violenza carnale alla madre o compiere delitti; tuttavia, secondo Platone, se l’anima razionale viene tenuta vigile nel sonno attraverso opportuni e nobili ragionamenti, evitando di eccitare quella irrazionale con quantità esagerate di cibi e bevande, le orribili visioni cessano di manifestarsi; non solo, ma sarebbe soprattutto nei sogni che gli esseri umani potrebbero apprendere la verità sul passato, il presente ed il futuro (Repubblica, IX, 571 c – 572 b). Per Aristotele, nelle due opere consacrate al fenomeno onirico (Sui sogni e Sulla divinazione nel sonno), gli stimoli oniropoietici andrebbero cercati nella realtà esterna: i sogni infatti, altro non sarebbero che residui di sensazioni provate nello stato di veglia che lascerebbero un’impronta negli individui, continuando a sussistere anche dopo la scomparsa degli oggetti percepiti; tali impressioni, accantonate o obliate da svegli, apparirebbero di nuovo nel sonno, quando è reinterrotta la percezione della realtà esterna, causando appunto i sogni: questa teoria sembrerebbe escludere l’idea che i sogni possano predire il futuro, ma su questo punto Aristotele non assume una posizione decisa e consequenziale, asserendo anzi, in maniera piuttosto sorprendente, che l’esperienza proverebbe invece le facoltà divinatorie dei sogni, e che una tale ipotesi poi non sia affatto così peregrina. Per i Pitagorici invece, i sogni altro non sarebbero che messaggi inviati da esseri soprannaturali (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 32 [58 B 1 a Diels – Kranz]). Il problema dei sogni, durante i secoli dell’Ellenismo, vedrà due posizioni completamente opposte. Per Epicuro, in maniera simile a Democrito, i sogni sarebbero provocati da atomi provenienti dall’esterno, in grado di produrre movimenti nella psiche, e sarebbero dunque realtà, dal momento che il movimento è generato soltanto da ciò che è o esiste; ma essi non avrebbero potenzialità divinatorie o premonitrici, perché ad inviarli non sarebbero certo le divinità, che per Epicuro e la sua scuola, sebbene esistenti, non nutrirebbero alcun interesse per gli uomini e le loro vicende terrene: i sogni perciò rispecchierebbero soltanto i nostri progetti ed i nostri desideri. Una posizione diametralmente differente è quella assunta degli Stoici, secondo i quali invece, i sogni avrebbero una loro validità profetica. Nel I secolo a.C., il latino Lucrezio, conformemente al pensiero epicureo, di cui egli era seguace e che si sforzò di divulgare poeticamente, vedrà nei sogni soltanto la realizzazione di desideri oppure la continuazione dei dolorosi piaceri della vita d’ogni giorno (Sulla Natura delle cose, IV, 971 ss.; cfr. anche 757 – 822 e 962 – 1036), mentre Cicerone, nell’opera intitolata La divinazione, manterrà un atteggiamento assolutamente scettico sulla possibilità di prevedere il futuro secondo i vari tipi di divinazione conosciuti, inclusi naturalmente anche i sogni. Ma, da qui a breve, si spegneranno definitivamente le ultime affermazioni di quanti dubitavano della divinazione attraverso i sogni oppure la negavano recisamente. Per l’epoca d’angoscia che a partire dal tardo II secolo d.C. comincerà a dilagare nel mondo greco – romano, con la sua negazione di ogni forma di razionalità ed il suo bisogno illimitato di misticismo, il sogno rappresenterà ormai la rivelazione subitanea del divino, la via regia per indagare l’incertezza di un domani sempre più temibile ed oscuro, con la conseguente rinuncia ad effettuare scelte consapevoli sulla base della volontà, per affidarsi invece, ad indicazioni provenienti da una dimensione soprannaturale e/o dalla sfera dell’occulto. Da tali premesse il mondo greco – romano elaborò una complessa classificazione dei sogni in classi o categorie, di cui soltanto alcune munite di carattere mantico. Senza alcuna pretesa di completezza riguardo al complesso problema dell’onirorologia dei Greci e dei Romani, basterà qui ricordare che soprattutto da autori tardi, come il greco Sinesio di Cirene (ca. 370 – ca. 415 d.C.) nello scritto Sui Sogni e il latino Macrobio (anch’egli vissuto a cavallo tra IV e V secolo d.C.) nel suo Commentario al Sogno di Scipione,18 siamo in grado di conoscere meglio queste classi o specie di sogni, che per gli Antichi, erano cinque, e cioè: 1) l’óneiros (in latino, somnium), il tipo più frequente, che si presenta durante lo stadio normale del sonno fisiologico: è il sogno di cui rimangono solo poche tracce nella memoria, ossia dei ricordi di fatti concreti antichi o recenti: questo tipo di sogno può servirsi anche di simboli, cioè di segni che debbono essere interpretati in maniera differente a seconda del sognatore e della sua storia personale; 2) l’enýpnion (in latino insomnium) che è il sogno derivante da un desiderio, da un bisogno o da uno stato patologico ed è abbastanza frequente; 3) l’hórama (in latino visio), ossia la visione profetica, niente affatto comune; 4) il chrematismós (in latino, oraculum) che rappresenta il sogno premonitore, l’oracolo, ed è estremamente raro; 5) infine, il phántasma (in latino visum) che è il sogno spaventoso, con incubi e figure che incutono timore ed opprimono (ad esempio, con sensazioni spiacevoli di contatto e di pesantezza); esso può manifestarsi anche nel dormiveglia e può essere in rapporto con sostanze ingerite o con scene impressionanti, ma che comunque non è considerato premonitore anche se può avere valore retrospettivo ed interessare quindi gli strati profondi della psiche del sognatore.19 Dunque, per riassumere, si può affermare che, delle cinque categorie di sogni sopra menzionate, due, e precisamente l’enýpnion / insomnium ed il phántasma / visum non hanno alcun significato divinatorio, essendo sogni ‘falsi’, per richiamarsi alle categorie di Omero e di Virgilio; le altre tre classi di sogni, invece sì.

Insomma, concludendo, possiamo affermare che fu convinzione generalmente condivisa dagli Antichi - pur con le inevitabili eccezioni (specialmente a livello di classi colte) - che i sogni o, meglio, una parte almeno di essi, avessero origine soprannaturale e fossero, perciò, dotati di facoltà premonitrici.

Ad ogni modo, che dal II secolo d.C. in poi, in particolare dai suoi ultimi decenni, il mondo antico fosse quasi ossessionato da uno smisurato interesse per i sogni ed i loro possibili significati 20 è dimostrato dalla singolare opera, in cinque libri, intitolata Sull’interpretazione dei sogni (Oneirokritiká) di Artemidoro di Daldi (o Daldiano),21 che visse anch’egli all’epoca degli imperatori Antonino Pio e Marco Aurelio. Si tratta dell’unico trattato del genere a noi pervenuto dell’antichità classica. In realtà, il tentativo di spiegare i fenomeni onirici risale già ai primordi della civiltà occidentale, e cioè ad Omero, come abbiamo già visto, ad esempio, nel caso del sogno dell’aquila e delle oche di Penelope (Odissea, IX, 535 ss.) e, del resto, l’esistenza di interpreti professionali è già testimoniata dall’Iliade (in I, 62 s. e in V, 148 ss.). La maggior parte dei sogni narrati da Omero però, sono di tipo diretto, e l’unico sogno simbolico, quello testé ricordato di Penelope, svela da se stesso il proprio significato. Dopo Omero, troviamo qui e là nella letteratura greca, la narrazione di vari sogni, mentre dal V secolo a.C. in poi, aumentano in maniera considerevole le testimonianze a proposito dell’arte d’interpretarli, un’arte questa, che è nota appunto con il nome di ‘oniromantica’. Com’è ovvio, sono soprattutto i sogni simbolici ad attrarre l’attenzione. Nel suo trattato, Artemidoro accenna a suoi predecessori, talora ricordandone le concezioni generali oppure specifiche interpretazioni, ma si preoccupa poco di porli in una vera e propria prospettiva storica, limitandosi in sostanza a parlare di essi come degli “antichi”, differenti da “quelli venuti dopo” e dai “contemporanei”, senza l’aggiunta dei nomi. Questo fa sì che la maggior parte degli autori che hanno trattato di oniromantica, per noi moderni, risulti fluttuare nel tempo, per i cinque o sei secoli circa intercorrenti fra il trattato di Artemidoro e il primo scrittore, di cui sia possibile acclarare la realtà storica, vale a dire Antifonte sofista: a questo autore infatti, pare proprio doversi attribuire un Libro dei sogni, cui sono da ricondurre alcune interpretazioni oniriche a noi note, che lascerebbero intravvedere, da parte di Antifonte, un metodo d’indagine piuttosto originale nell’ambito della disciplina oniromantica. Alle soglie dell’età ellenistica appartiene invece, Aristandro di Telmesso, celebre per la spiegazione di un sogno fatto da Alessandro Magno, riportata da Artemidoro (IV, 24): mentre assediava Tiro, Alessandro, che era ansioso di espugnarla, aveva sognato un satiro che danzava sul suo scudo. Aristandro, il quale si trovava presso il re, al fine di spiegare il sogno, suddivise il nome greco del satiro (sátyros) in due parti ‘sà Týros’, che significa ‘tua (è o sarà) Tiro’, e in tal modo indicando al sovrano la futura vittoria, lo spinse a combattere con maggiore veemenza, di modo che Alessandro alla fine riuscì a conquistare la città. Un’interpretazione, questa di Aristandro, che potrebbe essere ritenuta sostanzialmente valida ancor oggi. Ad ogni modo, con l’eccezione di Antifonte ed Aristandro, tutta la storia dell’oniromantica prima di Artemidoro, è per noi moderni sostanzialmente impossibile da ricostruire: oltre a questi due personaggi infatti, conosciamo poco più di alcuni nomi d’interpreti dei sogni e qualche breve passo delle loro opere, che s’incontrano qua e là nel libro di Artemidoro o presso qualche altro autore: il che comunque attesta la grande fortuna di cui godette questo genere letterario.

Ad ogni modo, a parte la nascita, della vita di Artemidoro noi conosciamo soprattutto i suoi frequenti viaggi a scopo professionale, attraverso l’Asia, le isole dell’Egeo, la Grecia e l’Italia e, precisamente, in quelle località dove, per festività o mercati, accorrevano gl’indovini ambulanti, dalla viva esperienza dei quali, Artemidoro attinge a piene mani, oltre che, naturalmente, dai trattati di oniromantica. Per Artemidoro, l’arte d’interpretare i sogni, oltre che un modo per guadagnarsi la vita ed una professione, è un ramo del sapere. Artemidoro premette ai libri I e IV la teoria generale sui fenomeni onirici che è a fondamento del suo metodo d’interpretazione. Subito all’inizio infatti, egli effettua la basilare distinzione tra sogni profetici e non profetici, corrispondenti, rispettivamente agli óneiroi e agli enýpnia: i primi indicano ciò che avverrà, i secondi invece si riferiscono a ciò che è, ossia alle passioni sia dell’anima che del corpo o di ambedue, passioni che riemergono nella psiche nel corso del sogno. Messi da parte dunque gli enýpnia, i sogni profetici si suddividono in diretti e simbolici (o allegorici). Del resto, quasi subito, Artemidoro dà una definizione del sogno, che “è un movimento o un’invenzione multiforme dell’anima, che segnala i beni e i mali futuri” (I, 2, trad. it. di D. Del Corno). Inoltre, nel suo libro, egli in sostanza accetta, più o meno esplicitamente, la tradizionale suddivisione in cinque classi dei sogni. Per quanto concerne la loro origine, se Artemidoro ammette che siano le divinità a donare i sogni profetici all’anima, nel contempo egli afferma però, che essa, per sua natura, sarebbe dotata di facoltà mantiche, sebbene quest’affermazione venga subito edulcorata con l’aggiunta della frase “oppure qualunque altra sia la causa del sogno” (IV, 2, trad. it. di D. Del Corno). Comunque sia, se l’anima deve preannunciare eventi che si manifesteranno in un futuro prossimo, essa offre una rappresentazione diretta ed immediata di essi. Se invece, fra presagio ed accadimento, intercorre un certo lasso di tempo, perché il primo possa essere chiarito dalla facoltà raziocinante, l’anima usa allora il linguaggio dei simboli. Sono dunque i sogni simbolici, i soli sui quali unicamente si esercita l’interpretazione e che costituiscono quindi l’unico tema del libro di Artemidoro. Ma per la giusta comprensione dei sogni simbolici, è indispensabile inquadrarli entro un’altra, almeno, classificazione secondaria, che porta Artemidoro a suddividere ulteriormente i sogni profetico – simbolici in cinque particolari categorie: personali, impersonali, comuni, pubblici e cosmici, a seconda del loro oggetto, che a sua volta determina il destinatario del messaggio onirico (I, 2 e IV, 1). A differenza di altre forme di divinazione (per esempio quella estatica, quella naturale o quella per sorteggio), l’oniromantica però, incontrò molte difficoltà ad inserirsi nel quadro generale della religione greca e romana, rimanendo sostanzialmente al livello dell’iniziativa spontanea e privata, benché abbia conosciuto una grande fortuna popolare. Eppure, la credenza relativa alle facoltà soprannaturali e divinatorie dei sogni era una concezione che trovava una qualche corrispondenza anche nel culto ufficiale: prova ne è la diffusa pratica dell’incubazione, cui Artemidoro accenna solo brevemente e, per giunta, in modo non favorevole (I, 6), asserendo in sostanza che quanto appare, durante il sonno, a coloro che, in preda ad una qualche preoccupazione, reclamano un sogno dalle divinità, non sarebbe affatto attendibile, dal momento che le immagini corrispondenti a tali preoccupazioni, sarebbero prive di significato mantico: si tratterebbe infatti, di ‘visioni oniriche’, del cui carattere non profetico Artemidoro aveva già parlato in precedenza. Il che senza dubbio avrebbe incontrato la disapprovazione di Elio Aristide, a causa della sua fede cieca nei sogni taumaturgici di Asclepio. Ma, qual’era il pubblico che si rivolgeva agli interpreti dei sogni? Non certo, pur con le dovute eccezioni, i ceti più in vista e acculturati, per i quali gli oniromanti altro non erano che dei ciarlatani ed impostori prezzolati. E di questo è cosciente lo stesso Artemidoro, che nella sua opera fissa dei limiti o paletti ben precisi, allo scopo di dare al suo trattato un’apparenza di ‘scientificità’ o almeno di ‘pseudoscientificità’. Agli interpreti dei sogni infatti, ricorrevano in modo particolare i membri delle classi popolari, quanti cioè, necessitavano di un conforto nella durezza della loro vita quotidiana, di un’indicazione circa le azioni da compiere, di una speranza nella provvidenza divina. Non è un caso quindi, che nel trattato di Artemidoro, si parli così tanto di lavoro, di nozze, di figli, di eventi quotidiani, che rispecchiano da vicino, a differenza della letteratura aulica, le preoccupazioni e i bisogni dei ceti popolari, sempre più dominati dalla paura del vivere quotidiano e di un futuro quanto mai incerto, nonché sempre più inclini ad abbandonarsi, di fronte alla cruda realtà presente, ad idee e concezioni assolutamente irrazionali. La dimensione dell’oniromantica quindi, è essenzialmente privata, laica e popolare. E comunque, come si è appena visto, non solo la fede nelle capacità degli interpreti dei sogni era assai diffusa soprattutto presso i ceti più bassi della popolazione, ma si deve anche considerare che i trattati di oniromantica rientravano, al pari del romanzo, in quel genere di ‘letteratura di consumo’, cui potevano accedere anche gl’illetterati o gli incolti. Ad ogni modo, il trattato di Artemidoro, nel quale sono raccolti ed interpretati oltre 3000 sogni, nonostante alcune astrusità ed idee bizzarre, presenta taluni spunti interessanti, che non hanno mancato di attirare l’attenzione anche di alcuni eminenti psicoanalisti (per esempio, S. Freud, C. Musatti).

Detto questo, per una migliore comprensione di Elio Aristide e dei suoi Discorsi sacri, sarà senza dubbio utile un qualche resoconto di carattere archeologico sull’Asklepieîon di Pergamo,22 ove si ricoverò il retore dopo la chiamata di Asclepio.

Le rovine oggi conservate di questo celeberrimo santuario risalgono per lo più al II secolo d.C., proprio all’epoca, quindi, in cui vi soggiornò Aristide. È per tale ragione, dunque, che i numerosi accenni dei Discorsi sacri agli edifici del santuario, insieme alle iscrizioni, sono assai importanti per l’identificazione, a volte solo ipotetica, dei resti dell’Asklepieîon. Come già accennato, inoltre, i Discorsi sacri sono fondamentali, sempre con l’ausilio e l’integrazione delle epigrafi, anche per la comprensione dei trattamenti medici che avevano luogo nel santuario stesso. C’è da notare, infine, che durante il II secolo d.C., nell’Asklepieîon pergameno vissero pure medici famosissimi, come Satiro e, soprattutto, il grande Galeno,23 che vi tennero lezioni: anche qui, però, come negli altri Asklepieîa del mondo antico, medicina scientifica e medicina templare non furono mai in reciproca opposizione. Per quanto concerne Galeno e i suoi rapporti con l’Asklepieîon pergameno, ricorderemo qui soltanto che essi furono particolarmente intensi nel periodo 158 –161/162 d.C., quando, proprio su nomina del capo dei sacerdoti di Asclepio, Galeno esercitò nella città di Pergamo il ruolo di medico dei gladiatori.24

Ad ogni modo, il culto pergameno in onore di Asclepio fu istituito già nel IV secolo a.C., in dipendenza del più celebre di tutti i santuari di Asclepio, quello di Epidauro: fondatore del culto di Pergamo infatti, fu l’aristocratico Archías, figlio di Arístaichmos, che, in tal modo volle ringraziare, nella sua città natale, il dio risanatore per la guarigione da uno stiramento di un piede che si era procurato in una battuta di caccia, guarigione questa, che aveva avuto luogo, per l’appunto, ad Epidauro (delle origini di questo culto ci parla Pausania, nella sua Periegesi della Grecia, 2, 26, 8, ove ricorda Asclepio, la sua nascita ad Epidauro e la derivazione da tale città dei più famosi santuari in onore del dio): non è un caso, quindi, che i discendenti di Archías abbiano poi rivestito sempre, per diritto ereditario, il sacerdozio del dio. Ma, all’inizio, quello in onore di Asclepio, fu un culto esclusivamente privato. È soltanto dopo la metà del III secolo a.C., sotto il re Attalo I, che la venerazione per il dio, a Pergamo, fu trasformata in un culto pubblico ed Asclepio ottenne così santuario e tempio nei pressi della città, proprio nel luogo dove i suoi fedeli erano soliti radunarsi fin dall’inizio. La statua di culto fu allora commissionata ad uno dei più celebri artisti dell’epoca, Phyrómachos di Atene.25 Da questo momento in poi il culto ed il santuario di Asclepio conobbero una fioritura crescente, che toccò il culmine nell’avanzato periodo reale. Con la morte dell’ultimo re di Pergamo, Attalo III, avvenuta nel 133 a.C., il regno - per testamento - entrò a far parte del dominio romano, e da allora in poi, per circa due secoli, il santuario di Asclepio condusse una vita piuttosto modesta. È a partire dall’età di Domiziano (81 – 96 d.C.) invece, che la fama dell’Asclepio pergameno e del suo santuario presero di nuovo a salire, conoscendo una seconda ed ancor più splendida fioritura, che durò fino all’età di Caracalla (211 – 217), sebbene il momento di massimo fervore edilizio nell’Asklepieîon sia da attribuire all’età dell’imperatore Adriano (117 – 138 d.C.). Ma, già con il successore di Caracalla, l’imperatore Macrino (217 – 218), Pergamo, insieme a Smirne, vide sottrarsi alcuni privilegi a vantaggio della città rivale di Efeso, una decadenza questa, che ad eccezione di una momentanea interruzione sotto Elagabalo (218 - 222), riprese immediatamente dopo la morte di quest’ultimo, coinvolgendo anche l’Asklepieîon. Non è un caso, infatti, che le iscrizioni onorarie e votive, prima assai frequenti nel santuario, a mano a mano che si procede nel III secolo diminuiscano, fino a scomparire del tutto dopo la metà del secolo stesso. Se il Cristianesimo fece la sua apparizione a Pergamo già agli inizi del I secolo d.C., nei secoli successivi, la nuova religione iniziò progressivamente a dilagare non solo nella città, ma in tutta la provincia d’Asia, di cui Pergamo, insieme a Smirne, Mileto ed Efeso, costituiva una delle città principali. E, come già detto, è noto che, fra tutte le divinità greco - romane, proprio Asclepio ‘Salvatore’ (Asklepiòs Sotér) sia stata quella o una di quelle, che offrì la più pervicace resistenza nei confronti del nuovo credo (si pensi alla polemica tra il cristiano Origene ed il pagano Celso su chi fosse il vero ‘Salvatore’, Cristo o Asclepio). Come parte di questo conflitto, non comprensibile in tutti i suoi dettagli, è probabilmente da considerare l’acclamazione rituale di un anonimo, contenuta in un’iscrizione, “Grande è Asclepio!”,26 forse da interpretare come una vibrata protesta contro il nuovo dio dei Cristiani e la sua dottrina. Ad ogni modo, anche l’Asklepieîon di Pergamo come altri antichi santuari, ad un certo punto, fu trasformato in un luogo di culto cristiano, una funzione questa che conservò anche in età bizantina, finché, intorno al 1400 d.C., l’area del santuario finì per ospitare un insediamento di carattere abitativo.

Ad ogni modo, il sito del santuario, originariamente ad una certa distanza dalla città di Pergamo, fu certamente determinato dalla presenza in loco di una sorgente salutare. All’epoca della fondazione, l’Asklepieîon era situato circa 3 km. a Sud - Ovest di Pergamo, mentre al momento del suo apogeo, tanto per fama quanto per aspetto monumentale, ossia nel periodo che comprende il II secolo d.C. e gli inizi del III, la città si era espansa a tal punto che la sua estremità Sud - occidentale era lontana appena 500 metri circa dal santuario. L’originario Asklepieîon consisteva in un certo numero di costruzioni sacre, come il primitivo tempio di Asklepiòs Sotér (ossia, Asclepio Salvatore), oltre a varie altre strutture ed altari. Nel tardo periodo ellenistico, il santuario si estese verso Sud, assumendo la forma di un cortile rettangolare con stoaí (cioè, portici colonnati), templi nonché altri edifici ed impianti. Dopo un lungo periodo di stasi, la fama ed il prestigio dell’Asklepieîon pergameno, come già detto, presero a risalire nel tardo I secolo d.C., fin quando, con l’imperatore Adriano, si aprì una seconda e splendida stagione edilizia, che comportò, per esempio, un considerevole ampliamento del sacro recinto (in greco, témenos), oltre all’erezione o ricostruzione di svariati edifici e ad una generale opera di abbellimento di tutto il complesso sacro, sulla base, peraltro, di un unitario e grandioso progetto, che fece assurgere l’Asklepieîon pergameno al rango di una delle meraviglie del mondo. All’epoca di Aristide, il santuario pergameno era secondo, per importanza, solo alla ‘casa madre’ di Epidauro. Pare che, fin dai primordi, la città di Pergamo fosse collegata all’Asklepieîon per mezzo di una via sacra, che comunque fu rifatta ed abbellita sotto Traiano. Ad ogni modo, nel II secolo d.C., essa iniziava nella città romana come una stretta strada colonnata, che, sorpassato il teatro romano, proseguiva come una larga e magnifica via fino a raggiungere il santuario stesso. L’ultimo tratto, fiancheggiato da splendidi colonnati, era lungo 140 metri e largo 8,34.27 La via sacra arrivava ad un cortile, delimitato da colonne corinzie su tre lati e situato nel lato Est del témenos di età romana dell’Asklepieîon, un cortile questo che si prolungava poi verso l’interno del recinto sacro, nel propileo con quattro colonne, anch’esse di ordine corinzio, che dava accesso al santuario vero e proprio, ed il cui timpano presentava un’iscrizione incisa su uno scudo, menzionante Claudius Charax, come committente della costruzione del propileo stesso 28 (peraltro menzionato da Aristide in I, 10; II, 31 Nicosia). Sulla sinistra e sulla destra degli scalini del propileo, conducenti all’interno del témenos, si trovavano due piccoli ambienti destinati al culto. L’edificio quadrato, immediatamente a Nord, era la biblioteca fatta costruire da Flavia Melitine e, perciò, munita di nicchie alle pareti che, un tempo, contenevano gli scaffali per i rotoli librari (volumina, in latino), ma che, fu utilizzata anche come sala dell’imperatore. Non è un caso quindi, che nella cavità centrale del muro Est si trovasse una statua di Adriano divinizzato. Sopra le nicchie, erano le finestre per l’illuminazione. L’aula aveva un pavimento a marmi policromi, mentre il tetto era di legno. Sempre sul lato Est del témenos, a Sud del propileo di Charax, si trovava il tempio circolare di Zeùs Asklepiòs Sotér ( = Zeus Asclepio Salvatore), fatto costruire nel II secolo d.C. da Rufinus, mentre all’esterno dell’angolo Sud - est del recinto sacro si trovava un grande edificio circolare, a due piani,29 sulla cui funzione torneremo più avanti. Comunque sia, l’Asklepieîon vero e proprio, in età romana, consisteva in uno spazio rettangolare aperto di circa 110 x 130 metri, approssimativamente orientato Nord – sud, con portici su tre lati (settentrionale, occidentale e meridionale), includenti vari edifici o collegati ad altre strutture, come per esempio, il teatro, anch’esso menzionato da Aristide (‘il sacro teatro’, cfr.: II, 30 Nicosia; il teatro: IV, 15 Nicosia ),30 del quale rimangono significativi resti e che era posto all’esterno della parte occidentale del portico Nord (pure questo portico è ricordato da Elio Aristide, cfr. IV, 15, 17 Nicosia); altre costruzioni erano all’interno del témenos. Il colonnato del portico settentrionale è piuttosto ben conservato: le colonne sono di ordine ionico, tranne le dieci più vicine alla biblioteca, che sono del tipo composito e che, inoltre, a causa dell’altezza minore rispetto alle altre, sono poste su piedistalli. Tale peculiarità si spiega con il fatto che le dieci colonne in questione non sono contemporanee alle altre, ma furono innalzate, al posto delle precedenti, in un secondo momento e, precisamente, dopo il terribile terremoto del 175 d.C. che causò gravissimi danni in Asia Minore. Abbastanza singolare è il fatto che né questo terremoto né la spaventosa peste di Galeno, scoppiata circa un decennio prima, ma che dilagò per anni nell’impero, abbiano lasciato alcuna traccia nelle iscrizioni dell’Asklepieîon. Questi avvenimenti invece, trovano abbondante eco in Aristide (peste: II, 38 ss.; IV, 9 Nicosia; terremoto: III, 38 ss. Nicosia). Ad ogni modo, il muro di fondo della stoá Nord presentava una ricca decorazione d’incrostazioni marmoree (dette in latino, crustae), mentre il pavimento della stessa, come del resto quello del grande cortile, era in terra battuta. Ciò si spiega col fatto che, nel corso di determinate cerimonie all’interno dell’Asklepieîon, per i pazienti era necessario camminare a piedi nudi. All’esterno del muro di recinzione Nord del témenos e, precisamente, nella sua estremità occidentale, si trovava il già menzionato teatro dell’Asklepieîon, che poteva contenere circa 3500 spettatori, nel quale oltre, forse, a vere e proprie rappresentazioni drammatiche, dovevano svolgersi anche cerimonie in onore di Asclepio, come, ad esempio, l’esecuzione di inni in suo onore (ma anche in quello di altre divinità). Come tutti i teatri di età romana, esso aveva forma semicircolare; inoltre, conformemente all’uso romano, presentava una galleria colonnata, di ordine ionico, sopra la fila più alta dei gradini della cavea; secondo il costume greco, però, il teatro era stato ricavato nel pendio di una collina (e non interamente costruito come, invece, era in uso presso i Romani). Pure le colonne della stoá occidentale - risalente al II secolo d.C. - erano di ordine ionico, ed anche in questo caso, crustae marmoree decoravano il muro di fondo del portico. La porta occidentale di questa stoá si apriva su un colonnato dorico, mentre è incerta la funzione dell’ambiente immediatamente a Sud della porta in esame (forse però si trattava di una sala per incontri). Sembra, invece, che il vano all’angolo fra la stoá occidentale e quella meridionale fosse adibito a sala per conferenze oltre che come ambiente per lo svolgimento della vita sociale. Gli altri due vani presso lo stesso angolo Sud - Ovest, erano toilettes, l’ambiente più piccolo era riservato alle donne, quello più grande agli uomini. La stoá meridionale, a differenza degli altri due portici dell’Asklepieîon, costruiti sulla terra o sulla roccia, poggiava su un basamento; essa, inoltre, era divisa in due ali da una fila di colonne mediane, probabilmente di ordine ionico. Anche questo porticato a due ali, che s’ispira a modelli ellenistici, risale però al II secolo d.C.

Passiamo ora a descrivere le costruzioni e le strutture di carattere religioso oppure usate per le cure mediche del santuario. In primo luogo, è possibile che una fessura nella roccia, ubicata all’interno del recinto dell’Asklepieîon o, più esattamente nell’area Nord – occidentale, in direzione opposta al teatro, fosse il sito della celebre sorgente sacra. All’interno del témenos, sono stati trovati poi, i resti di tre piscine o fontane,31 adibite alle cure termali. Nell’antichità si riteneva che l’acqua sacra del santuario pergameno avesse qualità risanatrici e perciò poteva essere bevuta oppure utilizzata per bagni salutiferi. Ricerche moderne ne hanno rivelato le proprietà radioterapeutiche. La sorgente sacra è ricordata più volte da Aristide nei Discorsi sacri (I, 42; II, 71, 74, 76 Nicosia), il quale la esalta anche in altre due scritti.32 Ma, dal momento che l’individuazione della fonte sacra nella fessura rocciosa prima menzionata è soltanto ipotetica, mentre le altre tre strutture idriche sono state sicuramente identificate sul terreno, non è chiaro a quale preciso complesso idrico si riferisca l’oratore (con la pressoché certa esclusione della terza struttura menzionata). Per tornare alle tre piscine o fontane, la prima, verosimilmente alimentata dalla sorgente sacra, era situata poco più a Nord della stessa. Tale piscina, risalente al periodo romano, era di marmo e presentava, all’interno, degli scalini, sui più bassi dei quali, era possibile per i pazienti sedersi e bagnarsi. Più o meno al centro del témenos invece, era situata un’altra specie di piscina, la cui acqua doveva comunque provenire sempre dalla sorgente sacra tramite una bocca, modellata a testa di leone. Si trattava di una struttura chiusa da muri e coperta da un tetto. Ciò, evidentemente, aveva lo scopo di preservare la purezza dell’acqua: essa, infatti, doveva essere qui bevuta, dopo essere stata attinta per mezzo di secchi. La presenza, in tale struttura, di blocchi di andesite e l’assai accurata lavorazione degli stessi, fanno supporre che questa costruzione coperta risalga già al periodo ellenistico. Un’altra piccola piscina si trovava, infine, presso il centro esatto della stoá occidentale. Tale bacino era stato ricavato scavando la roccia ed, originariamente, doveva essere coperto. In inverno e primavera, cioè nelle stagioni più umide, questa zona del témenos, come pure quelle immediatamente circostanti, dovevano facilmente essere ridotte allo stato fangoso: è probabile, perciò, che le fangature di cui parla Elio Aristide, avessero luogo proprio in questa piscina.

Da Elio Aristide e da altre testimonianze, come, ad esempio, le iscrizioni ed i resti conservati, veniamo a sapere poi, che nell’Asklepieîon pergameno esistevano vari templi, e cioè, due consacrati ad Asclepio, ossia quelli già ricordati di Asklepiòs Sotér 33 e di Zeùs Asklepiòs Sotér (I, 45, 78; IV, 28, 46 Nicosia), 34 un altro in onore di Apollo Kallíteknos (II, 18 Nicosia), 35 un altro ancora, sacro ad Hygieía (III, 22; IV, 16 Nicosia),36 oltre ad un sacello o tempio in onore di Telésphoros (cfr. III, 21 Nicosia). Aristide, qui e là, menziona varie statue, per esempio, quella cultuale di Asclepio (I, 11 Nicosia), che potrebbe essere quella originaria di Phyrómachos, ancora conservata nell’antico tempio di Asclepio Sotér (certamente non si tratta dell’immagine di Zeus Asclepio Sotér collocata nel tempio più recente in onore del dio), di Hygieía (III, 22 Nicosia), di Telésphoros (III, 21 s.; IV, 16 Nicosia), di Agathè Týche (la ‘Buona Fortuna’) e di Agathòs Daímon (il ‘Buon Genio’); per quanto concerne queste ultime due (I, 11 Nicosia), esse dovevano essere collocate nel propileo d’accesso al santuario o, forse, nei due ambienti cultuali ai lati del propileo stesso. Nell’area rocciosa a Sud della prima piscina, sono state trovate numerose tracce di varie fondazioni rettangolari. È ragionevole supporre che si tratti delle fondazioni di tre templi, e, verosimilmente, di uno dei due templi di Asclepio, ossia di quello più antico in onore di Asklepiòs Sotér, di quello di Hygieía e dell’edificio consacrato a Telésphoros. Tutti e tre parrebbero essere stati costruiti in età ellenistica, ma senza dubbio continuarono ad essere usati e, forse, abbelliti o trasformati durante tutto il periodo romano. Tuttavia, Aristide, narrando un’apparizione di Asclepio, in cui allo stesso tempo, il dio gli pareva essere Apollo, o meglio, l’Apollo di Claro, afferma che si trattava più esattamente dell’Apollo che, a Pergamo, aveva l’epiteto di Kallíteknos, ricordato anche altrove da Aristide (Or. LIII, 4 Keil) e che quest’ultimo era il titolare del primo dei tre templi (II, 18 Nicosia). Purtroppo i resti dell’edificio sacro a lui dedicato non sono identificabili con certezza. Ad ogni modo, nel passo citato (II, 18 Nicosia), Aristide sembrerebbe parlare però dei tre templi come di un complesso unitario distinto dai due templi principali, ossia quello più antico di Asclepio Sotér e quello più recente di Zeus Asclepio Sotér (I, 45, 78; IV, 28, 46 Nicosia). Se ciò corrispondesse a realtà, si potrebbe allora pensare che i resti dei tre edifici sacri in esame siano perciò, quello di Apollo Kallíteknos, quello di Hygieía e quello di Telésphoros e, dunque, in tal caso non si saprebbe ove ubicare proprio il tempio di Asclepio Sotér. Ma, potrebbe anche essere che il ‘primo’ dei tre templi sia da intendere nel senso che era il primo che s’incontrava, percorrendo un determinato cammino. In questo caso, per esempio, i tre templi in esame potrebbero essere quelli di Apollo Kallíteknos, di Asclepio Sotér e di Hygieía. Ciononostante, anche qualora si volesse ammettere l’ipotesi che fra i tre templi sopra menzionati, non si trovasse l’antico tempio di Asclepio Sotér, quello che pare certo è che quest’ultimo, seppure distinto dai primi tre, non doveva essere comunque molto distante. È verosimile, inoltre, che, almeno in età ellenistica, i vani in cui dormivano i pazienti in attesa dei sogni risanatori, i cosiddetti enkoimetéria, si trovassero a Sud dell’area templare precedentemente menzionata. In questa zona, infatti, sono stati trovati i resti di varie strutture risalenti, pare, anch’esse al periodo ellenistico, benché, in qualche caso, con trasformazioni o aggiunte di età romana. Nel caso si accettasse l’ipotesi che tra i titolari dei tre edifici sacri precedentemente ricordati, non vi fosse Asclepio Sotér, allora dovrebbe essere proprio quest’area più a Sud, quella in cui andrebbe cercato il più antico tempio del dio ‘salvatore’. È quanto mai probabile infatti, che tutta la zona in esame nel suo complesso - comprendente, cioè, il sito della fonte sacra (a Nord dell’area templare), l’area templare e quella subito a Sud con, forse, alcuni enkoimetéria (e il tempio di Asclepio Sotér?) - corrisponda al témenos dell’Asklepieîon ellenistico, che era più ristretto, come già osservato, rispetto a quello di età romana. Tale zona, che occupa probabilmente un’area inferiore alla metà del recinto del II secolo d.C., appare infatti circondata da varie stanze e strutture murarie e, soprattutto, è delimitata, ad Est e a Sud, dai resti di due stoaí, quasi certamente anch’esse del periodo ellenistico. Tutta quest’area fu connessa, in età romana, per mezzo di un tunnel lungo 80 metri circa, con il già menzionato edificio circolare, posto immediatamente all’esterno dell’angolo Sud – orientale del recinto sacro e risalente al II secolo d.C., sebbene ad un momento un poco più tardo rispetto all’impianto generale del santuario. Esso era a due piani e presentava all’interno una pianta polilobata al piano inferiore su cui s’impostava il piano superiore, di forma circolare più ristretta. Esso potrebbe essere stato l’edificio adibito ai trattamenti medici oppure anche il méga enkoimetérion, ossia ‘il grande dormitorio per l’incubazione’ ricordato in un’iscrizione del III secolo d.C. proveniente dalla terrazza meridionale della rocca di Pergamo, nei pressi del santuario di Deméter Karpophóros,37 ma che senza dubbio è da riferire all’Asklepieîon. Secondo l’opinione di uno studioso, l’espressione ‘grande dormitorio’ non si spiegherebbe però, senza postulare l’esistenza anche di un ‘piccolo dormitorio’,38 che doveva trovarsi sempre all’interno del santuario di Asclepio, ma di difficile ubicazione, a meno che non lo si voglia ipoteticamente identificare con i dormitori di età ellenistica. Ad ogni modo, è quanto mai improbabile che questo supposto ‘piccolo dormitorio’ possa corrispondere all’edificio circolare. Non è da escludere invece, che quest’ultima costruzione possa aver svolto entrambe le funzioni, ossia quella di (grande) ambiente per l’incubazione in un piano e quella di vano per le cure ed i trattamenti medici nell’altro.

Il fatto che la galleria, almeno nel periodo romano, collegasse l’Asklepieîon più antico, in particolare – probabilmente - proprio la zona dove dovevano trovarsi alcuni almeno degli enkoimetéria più antichi con l’edificio circolare parrebbe indicare che anche il tunnel, oltre, com’è ovvio, ai vani per l’incubazione, svolgesse un ruolo nelle cure praticate nell’Asklepieîon pergameno, sebbene, la galleria stessa non fosse un ambiente incubatorio. Ad ogni modo, percorrere questa galleria doveva contribuire a creare l’atmosfera adatta a trattamenti psichiatrici basati sull’incoraggiamento morale, senza contare poi che nei mesi più caldi dell’anno, i malati potevano sfuggire al sole cocente e trovare refrigerio proprio camminando nel tunnel. Procedendo in linea retta, la galleria conduceva direttamente al pianterreno dell’edificio circolare a due piani, sito in una depressione del terreno, di modo che il suo secondo piano veniva a trovarsi poco al di sopra del livello pavimentale del témenos. Il secondo piano, quindi, era quello principale e presentava due ingressi: uno verso l’estremità della stoá meridionale e l’altro in direzione esattamente opposta. Il piano inferiore dell’edificio, all’esterno di forma cilindrica, presenta un diametro di 26,5 metri circa: nel suo perimetro interno, come già accennato, furono aperte sei absidi, poste più in basso del corpo cilindrico superiore della costruzione, di modo che la parte principale della struttura s’innalzava sopra le absidi a mo’ di tamburo. Si tratta di un tipo di edificio a pianta centrale, che conoscerà grande fortuna più tardi nell’Oriente bizantino. All’interno, la sala absidata era decorata da mosaici marmorei, mentre il tetto dell’edificio non era a cupola, bensì di legno coperto di tegole.

Ad ogni modo, l’edificio più bello ed importante del santuario era il già ricordato tempio di Zeùs Asklepiòs Sotér, costruito a sue spese, da L. Cuspius Pactumeius Rufinus.39 La parte occidentale dell’edificio, ossia quella principale, si apriva, verso l’interno del lato Est del témenos, a mo’ di propileo templare (preceduto da una gradinata), il quale, insieme al già ricordato propileo di Charax, che consentiva l’accesso al grande cortile del santuario ed era posto più a Nord, conferiva all’interno del lato orientale del témenos stesso una notevole simmetria, perfettamente conforme al gusto architettonico di età romana. Il corpo principale dell’edificio, però, era di forma circolare ed era coperto, in alto, da una cupola emisferica, di 23,85 metri di diametro, al cui centro si trovava un’apertura circolare per l’illuminazione. All’interno, un gradevole effetto ritmico era determinato dalla presenza, nel muro perimetrale, di sette nicchie alternativamente rettangolari o semicircolari: quella principale, dalla parte opposta all’ingresso, ospitava la statua di Zeus Asclepio, mentre nelle restanti nicchie dovevano essere collocate le immagini di altre divinità salutari della sua cerchia. Inoltre, il pavimento e l’interno dei muri dell’edificio sacro, presentavano una ricca decorazione a mosaici colorati. Il propileo colonnato di questo tempio, il suo corpo principale cilindrico, insieme alla cupola emisferica, rappresentano, in piccolo, una replica del più celebre degli edifici di questo tipo e, cioè, del Pantheon, costruito – o, meglio, ricostruito in tale forma - qualche tempo prima, a Roma, dall’imperatore Adriano. Una particolare menzione merita la divinità venerata in questo tempio, ossia Zeùs Asklepiòs Sotér. Si tratta di entità divina in cui si fondono le personalità del sommo dio del pantheon greco – romano con quelle del dio guaritore per eccellenza. Ciò è indice non solo del sincretismo fra varie divinità che caratterizza, specialmente nel II e III secolo d.C., la religiosità greco – romana, ma anche della tendenza, sempre più viva in tale periodo, verso il cosiddetto enoteismo, cioè verso la fede in una divinità suprema e universale che assommasse in sé le prerogative di più entità divine.40 Quest’ultima trasformazione del pensiero religioso antico però, non fu una credenza diffusa e generalizzata e non rappresenta affatto la religiosità delle classi popolari: si tratta invece un’elaborazione mentale delle classi colte o che detenevano il potere, per intenderci, di quella che, a Pergamo, includeva, oltre a personaggi come Aristide ed altri retori, i filosofi, gli storici, i grammatici, vari uomini e donne spesso di rango elevato, come ad esempio, il console Salvio (II, 9 Nicosia); la nobildonna Tiche (III, 22 Nicosia); Sedato (II, 48 Nicosia) ex pretore romano (IV, 16); Bibulo (IV, 18 Nicosia); Rosandro (IV, 19, 21 Nicosia); Quadrato che sarà proconsole d’Asia (IV, 63); Rufino (IV, 28, 43, 83 s., 107 Nicosia); il proconsole Giuliano (IV, 107 Nicosia) ed altri, che frequentavano l’Asklepieîon non solo in cerca della salute, ma come centro pulsante di vita spirituale ed intellettuale.

Come già accennato, nel periodo compreso fra il regno di Adriano e quello di Caracalla, l’Asklepieîon pergameno conobbe il momento del suo massimo splendore. All’epoca di Aristide, l’antico santuario incubatorio era ormai diventato uno straordinario luogo di culto e di cura, nonché, come già detto, un importante centro culturale, nel quale accorrevano le masse di fedeli appartenenti ai più diversi strati sociali non solo dalla provincia d’Asia, ma anche da altre regioni dello sterminato impero romano. Nel santuario pergameno, continuava, certo, a praticarsi l’antico rito dell’incubazione, che svolgeva sempre un ruolo fondamentale nelle varie terapie. Tuttavia, una buona parte almeno dei sogni risanatori narrati da Aristide come pure quelli cui si accenna nelle iscrizioni dell’Asklepieîon non necessariamente debbono essere stati ottenuti attraverso il rigoroso rito dell’incubazione, ma possono essersi presentati più o meno spontaneamente ai sognatori. Comunque, nonostante gli sforzi di Aristide di far apparire le guarigioni di Pergamo come ‘miracolose’, queste, in realtà, poco hanno di straordinario. Niente, comunque, di lontanamente paragonabile a quelle davvero sensazionali dell’Asklepieîon di Epidauro. Nel santuario di Pergamo, si praticava l’idroterapia in relazione con la sorgente sacra, sia bevendone l’acqua sia calandosi nelle piscine alimentate dalla stessa fonte, si effettuavano bagni caldi e freddi, fangature ed, inoltre, si prescrivevano semplici rimedi naturali come, ad esempio, corse a piedi e a cavallo, esercizi fisici e, su un piano più propriamente medico, digiuni, diete, vomito, purgazioni, clisteri, flebotomie - o, più genericamente - salassi, oltre all’impiego di farmaci o, meglio, impiastri composti degli ingredienti più vari, tanto da applicare sul corpo quanto da deglutire per via orale. Insomma, più o meno, le risorse della contemporanea medicina scientifica. Inoltre, Asclepio non era solo medico del corpo, ma anche dell’anima. Come sappiamo da Aristide, fu lo stesso dio ad incoraggiarlo e a spingerlo oniricamente a riprendere l’attività oratoria che egli aveva completamente abbandonato durante il primo anno della malattia (cfr. IV, 14 s. Nicosia) e a proseguire per questa strada (per esempio: IV, 29 s. Nicosia), sia improvvisando, che scrivendo discorsi da tenere pubblicamente, anche quando il retore si sentiva paralizzato dagli attacchi del suo male. Non solo, ma il dio lo incitava perfino a scrivere poesie (IV, 31 Nicosia) ed inni, benché il retore confessi che non aveva particolare esperienza in questo campo. E, nonostante tutte le difficoltà, ogni volta, l’oratore ci dice che riusciva a portare felicemente a termine quanto gli era stato ordinato. A tali successi, com’è ovvio, contribuiva la fede incondizionata nel dio guaritore, ma, nel contempo, è altrettanto certo che l’ambiente colto che frequentava il santuario pergameno abbia favorito, con il proprio incoraggiamento, la ripresa della pratica dell’eloquenza da parte dell’infermo oratore (cfr., per esempio, IV, 17 s. Nicosia). Del resto, è forse superfluo sottolineare la grande importanza che riveste l’approvazione dell’ambiente sociale nei confronti di ciascun essere umano, specialmente se questo entourage condivide gli stessi valori del singolo individuo.

Torniamo, ora, però ad Elio Aristide e ai suoi Discorsi sacri. Per la verità, dal retore stesso veniamo a sapere che, fin dall’inizio del suo disperato abbandono nelle mani di Asclepio, il dio gli aveva oniricamente ordinato, di tenere un registro di sogni e che questo diario, iniziato qualche tempo dopo il comando divino, aveva raggiunto, a poco a poco, dimensioni enormi e, cioè, non meno di trecentomila righe; Aristide stesso c’informa poi, che questo registro, alquanto caotico, conteneva di tutto: a parte la trascrizione dei sogni, lì il retore aveva appuntato - o di suo pugno o per dettatura, quando la salute troppo malferma, gl’impediva di scrivere – le sue differenti malattie, insieme alle immancabili guarigioni operate da Asclepio, e che, in questo diario, si trovavano pure rimedi vari, discorsi, visioni d’ogni tipo e tutte le profezie immaginabili sia in prosa che in versi; questa compilazione originaria, però, in parte almeno, era stata da lui successivamente persa a causa della grande confusione che regnava a casa sua in quegli anni (II, 2-8 Nicosia; III, 26, 30 Nicosia; IV, 25 Nicosia).

La stesura dei Discorsi sacri, quindi, fu iniziata solo più tardi, sempre per comando onirico di Asclepio (II, 2 Nicosia), dopo che il rapporto fra il retore ed il dio di Pergamo si era ormai stabilizzato. E del resto Aristide maturerà ben presto la convinzione di essere un protetto di Asclepio, anzi il suo protetto per eccellenza, come risulta evidente, ad esempio, nell’episodio relativo ad un sogno effettuato dal retore, in cui al grido rituale di Aristide nei confronti del dio “Tu sei l’Unico!”, Asclepio di rimando gli risponderà utilizzando addirittura la stessa frase (IV, 50 Nicosia). Ad ogni modo, a causa della parziale perdita degli appunti originari, Aristide in persona ci dice di essere stato costretto, per redigere il testo, a far ricorso spesso alla memoria, affidandosi, per il resto, alla guida e all’ispirazione del dio, il quale peraltro risulta essere stato perfino il suggeritore del titolo stesso dei sei scritti in esame (II, 9 Nicosia).

Scopo espresso dell’opera, secondo l’autore, doveva essere quello di testimoniare la grandezza dei poteri risanatori di Asclepio. Tuttavia, a causa dell’incoercibile tendenza di Aristide a mettersi in mostra, i Discorsi sacri si risolvono in una particolare narrazione autobiografica, intessuta di sogni e (per lo più) di banale realtà quotidiana, in cui riesce assai difficile stabilire se l’aspetto predominante sia l’esaltazione del dio di Pergamo e non, piuttosto, la smania di protagonismo narcisista dell’autore.

Insomma, i Discorsi sacri altro non sono se non una compilazione estremamente farraginosa di tutto ciò che doveva essere già contenuto negli appunti originari, e cioè un confuso resoconto di sogni, di eventi della vita quotidiana regolati dal dio, di malattie vere o presunte e delle loro guarigioni più o meno miracolose (o, almeno, ritenute tali da Aristide). La narrazione inoltre, non procede ordinatamente, ma è spesso confusa, noiosa e ripetitiva. Infine, lo stile, che nella restante produzione aristidea, è spesso oscuro perché troppo ricercato, nei Discorsi sacri è addirittura trascurato, trasandato, sciatto, e del tutto lontano, in senso negativo, da ogni convenzione stilistica o formale della prosa greca.

Per giustificare tutto ciò, si può invocare soltanto una ragione, e cioè che nel redigere i Discorsi sacri, Aristide non ebbe alcun modello vero e proprio cui rifarsi. Certo, molti studiosi moderni hanno ritenuto assai improbabile che, con gli Hieroì lógoi, il retore volesse creare un’opera con ambizioni letterarie, ma Aristide che, per ragioni professionali, aveva una frequentazione continua con i grandi scrittori del passato, non lascia alcuno spazio a tale eventualità, affermando già nella prima frase di voler creare un discorso alla maniera dell’Elena di Omero (I, 1 Nicosia).41

Dunque, la cornice dei Discorsi sacri non solo è letteraria, ma addirittura epica, anzi con maggiore precisione, è quella dell’Odissea. E perciò, è proprio l’Odissea l’opera cui Aristide guarda per la sua impresa, essendo il più ovvio punto di contatto tra sé ed Odisseo, il confronto tra le proprie sofferenze psico – fisiche con quelle dell’eroe dell’Odissea, tormentato dai mari in tempesta. E come Odisseo, per scampare alle disgrazie e alla morte, aveva avuto come divinità tutelare la dea Athena, così Aristide aveva trovato il suo protettore nel dio Asclepio.

Ma, nonostante quest’esordio letterario ed altre citazioni di Omero,42 le analogie si esauriscono qui, essendo l’Odissea un’opera troppo lontana dagli intenti dell’autore. La verità è che con questi scritti, Aristide ha iniziato un genere completamente nuovo: essi, infatti, costituiscono la prima Traumbiographie o, meglio, la prima ed unica narrazione autobiografica di un’intensa esperienza mistico - religiosa, prevalentemente onirica, che il mondo antico ci abbia lasciato. È vero, anche il suo contemporaneo Apuleio di Madaura, nelle Metamorfosi, tratta di una lunga e complessa vicenda a sfondo mistico – religioso, oltre che impregnata di magia: in questo splendido romanzo infatti, viene narrato come uno scapestrato giovane di nome Lucio, imbestiatosi nei degradanti amori con l’ancella Fotide, subisca per avventatezza - avendo voluto mettere il naso nelle pratiche magiche di Panfila, sua ospite e padrona di Fotide - la trasformazione in un asino, finquando - dopo innumerevoli peripezie al servizio, in questa nuova veste, dei più strani e tirannici padroni - lo spettacolo della bestiale corruzione umana non lo condurrà ad implorare sulla riva del mare l’aiuto di Iside, che lo soccorrerà e farà in modo che Lucio possa finalmente divorare l’agognato cespo di rose, un gesto questo, che gli consentirà di riacquistare le sembianze umane, con la conseguenza che, per devota gratitudine nei confronti della dea, a lei il giovane consacrerà tutto il resto della sua vita, facendosi peraltro iniziare a Roma al suo culto. Questa lontana somiglianza ha perfino indotto a pensare che l’opera di Apuleio possa rappresentare una sorta di risposta al modello aristideo su come si debba costruire un’autobiografia religiosa. Vera o falsa che sia quest’ipotesi, ma più probabilmente errata, resta il fatto però che mentre il romanzo di Apuleio è un capolavoro assoluto, intessuto di peripezie, di vicende tra le più varie, di splendidi racconti come la celeberrima favola di Amore e Psiche (che tanta importanza rivestirà in età moderna nel pensiero di Jung), il tutto inquadrato in una perfetta cornice letteraria, e con un chiaro filo conduttore, l’autobiografia mistico – religioso – onirica di Aristide resta solo e soltanto un noioso racconto, peraltro mal costruito e confuso, della propria esperienza umana di malato e della propria cieca fede nei miracoli del suo salvatore Asclepio. In essa infatti, Aristide si è lasciato dominare, forse senza rendersene conto, non tanto da intenti artistici, che pure, come già visto, non erano affatto o del tutto assenti, ma quasi esclusivamente, dalla logica (o illogicità) dei sogni, e in particolare, da un criterio analogico – associativo, che poi è quello impiegato dalla psicoanalisi: un fatto questo, che implica lo sconvolgimento quasi assoluto di ogni ordine temporale, la scarsa chiarezza delle rare indicazioni cronologiche nonché la totale genericità dei riferimenti a personaggi ed eventi storici (caratteristiche queste, però, che coesistono con l’ossessiva esattezza di altri dati e fatti, spesso del tutto marginali). C’è da considerare, inoltre, che il sesto discorso sia andato in gran parte perduto (ne possediamo infatti, soltanto l’inizio o poco più). Aristide, insomma, stenta nella ricerca di un filo conduttore, che anzi non riuscirà a trovare affatto (cfr., ad es.: II, 24, 45; IV, 12 s. Nicosia). Solo per fare un esempio, si ricorderà qui il passo emblematico testé citato (II, 24 Nicosia), in cui il retore si appella ad Asclepio su come debba portare avanti il suo discorso nel migliore dei modi, se cioè debba proseguire con la narrazione dei bagni invernali prescrittigli dal dio, di uno dei quali aveva già parlato (II, 21 Nicosia) oppure se debba intramezzare a tale narrazione alcuni eventi che ebbero luogo tra un bagno e l’altro, o se, invece, debba porre termine ad un racconto, iniziato in precedenza e lasciato interrotto, dicendo come andò a finire una profezia avuta da Asclepio / Apollo e da Serapide sugli anni che gli restavano da vivere (II, 18 Nicosia). Per riassumere, possiamo dire che ci troviamo di fronte ad un’opera sconcertante, spesso anzi, quasi repellente per l’ottusa credulità dell’autore nei ‘miracoli’ del dio guaritore e per i tratti, poco piacevoli, del carattere di Aristide. Anzi, nel caso dei bagni invernali in acque gelate, ma anche di altre prescrizioni divine, viene spontaneo chiedersi come Aristide possa essere addirittura sopravvissuto agli incredibili comandi di Asclepio.

Se della malattia di Elio Aristide fecero cenno già alcuni autori antichi, attribuendola soltanto a cause organiche, a partire dalla fine del XVIII secolo, e cioè fin dall’opera del medico, anatomista e chirurgo Michele Vincenzo Giacinto Malacarne (Saluzzo, 1744 – Padova, 1816), l’attenzione degli studiosi si è spostata progressivamente e con accresciuta intensità sugli aspetti psicologici, e, per quanto possa essere azzardato trarre conclusioni senza il contatto diretto con il paziente, oggi si è sostanzialmente d’accordo su una diagnosi di ipocondria e/o isteria.43 Infatti, a parte qualche disturbo reale di carattere fisico e la peste della quale anche Aristide cadde vittima (II, 38 ss.; IV, 9 Nicosia), nei Discorsi sacri, il retore rivela una preoccupazione continua ed ossessiva per le malattie del proprio corpo, manifesta a volte atteggiamenti di tipo chiaramente isterico, oltre ad avere una personalità segnata da profondo narcisismo, smania di protagonismo, ambizione esagerata, senza contare poi che il suo carattere è molto egoista e scarsamente affettivo. Inoltre, il retore è impregnato dalle più pervicaci superstizioni, in particolare di carattere magico.

Una testimonianza della illimitata ambizione ed autoconsiderazione di se stesso è rappresentata dal racconto del sogno nel quale Aristide, trovandosi alla corte imperiale, viene circondato dalle attenzioni dei due imperatori (Marco Aurelio e Lucio Vero), che, di rimando alla gratitudine dell’oratore per la loro benevolenza e stima nei suoi confronti, rispondono addirittura di dover essere loro stessi a ringraziare gli dei per aver conosciuto una persona così di valore, ritenendo che Aristide tale fosse anche come retore (I, 46 – 49 Nicosia). Oppure dal sogno fatto dall’oratore nel quale un illustre personaggio, il già ricordato Rosandro, afferma che Aristide era molto progredito nell’arte retorica, e dopo aver menzionato Platone e Demostene, dice che ormai egli, nella considerazione generale, aveva superato perfino lo stesso Demostene (IV, 19 Nicosia). Ad ogni modo, il delirio di onnipotenza di Aristide raggiunge l’apice in un lungo sogno che il retore narra in maniera dettagliata (IV, 48 – 51 Nicosia): nel corso di un’assemblea pubblica, egli viene incoronato da un araldo che lo definisce ‘oratore insuperabile’, dopo di che ad Aristide sembra di vedere il suo monumento funebre vicino, addirittura, a quello di Alessandro Magno, e naturalmente pensa che ambedue hanno raggiunto il vertice della gloria, uno nel campo delle armi ed egli stesso in quello dell’eloquenza, per concludersi con l’episodio già ricordato in cui, dopo aver gridato l’acclamazione liturgica per Asclepio “Tu sei l’Unico!”, Aristide ode il dio rispondergli proprio con la stessa frase: un fatto questo, che all’oratore appare essere la più grande esaltazione di se stesso, superiore ad ogni umana gratificazione e che risveglia in lui la forza e la voglia di vivere.

Una prova evidente invece, dell’egoismo, egotismo ed autoreferenzialità del retore è il racconto relativo alla morte, a causa della peste, del più valente dei suoi figli adottivi (II, 44 Nicosia), che si chiamava Ermia (V, 25 Nicosia) ed era figlio della sua sorella di latte Callitiche, a sua volta figlia della nutrice del retore Filomena, una morte questa, interpretata da Aristide come sacrificio sostitutivo e prolungamento della propria vita, per dono divino, oltre i limiti stabiliti che gli erano stati comunicati in una precedente profezia di Asclepio / Apollo e Serapide, che si è già avuto modo di ricordare (II, 18 Nicosia). Lo stesso discorso vale per la giovane Philouméne (Filomena), nipote dell’omonima nutrice di Aristide e figlia della sorella di latte del retore Callitiche: anche in questo caso, la morte della ragazza viene interpretata dal retore come un vita pro vita, naturalmente, a vantaggio di se stesso (V, 19 – 24 Nicosia).

Testimonianze evidenti della superstizione a carattere magico di Elio Aristide, sono infine alcuni episodi da lui narrati, in cui prevale sempre il concetto di sostituzione di un male maggiore con uno minore. Il primo è quello del finto naufragio: in seguito ad una navigazione assai pericolosa compiuta via mare da Aristide (II, 12 Nicosia), Asclepio dice al retore che era suo destino naufragare e che, perciò, per sicurezza, era necessario per lui salire su una barca nel porto e far sì che essa si capovolgesse e affondasse, mentre Aristide avrebbe dovuto essere tratto in salvo sulla riva da qualcuno: in tal modo, il fato si sarebbe compiuto in tutto e per tutto, mentre Aristide avrebbe scampato l’incombente pericolo (II, 13 s. Nicosia). Il secondo episodio è quello in cui improvvisamente Asclepio annuncia al suo protetto la prossima morte entro tre soli giorni: per scongiurare tale pericolo, oltre a varie altre prescrizioni, il dio comunica al retore che, per salvare tutto il corpo, era necessario per Aristide tagliarsene una parte, ma che poi, a causa delle difficoltà, gli prescriveva, in sostituzione, di togliersi l’anello che portava e di dedicarlo a Telesforo: ciò avrebbe avuto il medesimo risultato che se avesse offerto il dito stesso (II, 26 s.).44 Il terzo episodio è rappresentato da un comando di Asclepio ad Aristide, che, per la sua sicurezza, doveva cospargersi di terra bianca in modo da compiere, sostitutivamente, l’atto vero e proprio della sepoltura (IV, 10 Nicosia).

Tutto questo complesso di fatti spiega la sostanziale repulsione che - a parte rarissime eccezioni, come ad esempio, quella rappresentata, per ragioni professionali, dal già ricordato Malacarne alla fine del ‘700 - i Discorsi sacri hanno suscitato nei lettori per secoli e secoli.

Citeremo qui, solo due casi. Il primo è quello di Areta, (circa 850 – dopo il 932), arcivescovo di Cesarea ed influente personaggio della Chiesa bizantina, che fu assiduo lettore, chiosatore ed editore di testi del passato. Infastidito dalla lettura di tutti i minuziosi racconti di sogni e miracoli del retore, il colto Areta, in margine al manoscritto di Aristide che aveva fra le mani,45 giunse ad annotare, rivolto all’oratore, che la smettesse di raccontare sogni e ponesse fine alla fatica degli scrivani stremati dai suoi sproloqui, aggiungendo, poco oltre, e quasi con astio, un giudizio assai poco lusinghiero sul retore, definito persona piena di sé, futile e presuntuosa; il tutto, per Areta, avrebbe origine da una mente vuota e vana, dalla quale nascerebbe appunto il suo interminabile delirio sui sogni.46 L’altro caso è quello del giovane Leopardi, che per l’appunto, bollò assai negativamente i Discorsi sacri affermando che, dopo aver letto tutto ciò, nessuna persona sensata avrebbe potuto sottrarsi, per l’illimitato egocentrismo del retore, ad un’impressione di nausea.47

Era indispensabile attendere che fosse superato ogni pregiudizio di carattere letterario ed estetico, soprattutto d’impronta classicistica, e l’inizio di nuovi percorsi di ricerca, perché i Discorsi sacri potessero essere valutati più positivamente, anche se non dal punto di vista artistico. Ciò poté aver luogo solo con l’affermazione dello storicismo ed il suo fondamentale principio di ricondurre ogni evento, personaggio, prodotto letterario o artistico, etc. all’epoca in cui esso si manifestò: nel nostro caso specifico, alla terribile ‘epoca d’angoscia’, che attraversò il mondo antico a partire dal II secolo d.C., specialmente dai suoi ultimi decenni, sicché oggi i Discorsi sacri, fermo restando il loro assoluto disvalore letterario, s’impongono all’attenzione dei moderni per più ragioni, e cioè come fondamentale documento di un particolare momento storico – culturale dell’antichità, come vivida illustrazione di una religiosità completamente differente da quella tradizionale olimpica, come testimonianza diretta di una malattia psicofisica, ed, infine, come prima autobiografia onirica dell’antichità (a parte l’interesse archeologico, visto in precedenza, per quanto concerne le nostre conoscenze a proposito dell’Asklepieîon di Pergamo).

A proposito dei Discorsi sacri, uno degli aspetti che s’impone soprattutto alla nostra attenzione, è il tipo di religiosità che da essi traspare. Se il culto delle divinità olimpiche - all’epoca di Aristide ed anche dopo - continuava regolarmente ad essere praticato, la religione tradizionale greco - romana era ormai completamente svuotata di ogni significato che non fosse il puro e semplice ossequio formale. Inadeguate al nuovo mondo, iniziato con le conquiste di Alessandro Magno e unificato politicamente nell’impero di Roma, le antiche divinità delle póleis andavano ormai progressivamente retrocedendo di fronte alla crescente avanzata di quelle figure divine come Asclepio, oppure di origine orientale, come Iside, Mithra, etc. - queste ultime con le loro forme di religiosità di carattere spiccatamente mistico o misterico – le quali erano assai più vicine ai bisogni di uomini sempre più alienati e privi d’identità: il che comporta una fusione e compenetrazione tra vecchio e nuovo, in una straordinaria mescolanza e molteplicità di culti, fedi, credenze e riti, oltre ad una più o meno marcata tendenza all’enoteismo, mentre, sullo sfondo si muove, dapprima silenziosamente, poi in maniera sempre più rumorosa, la religione che alla fine risulterà vincitrice, ossia il Cristianesimo, che cancellerà tutti i culti precedenti, sebbene, per crescere e diffondersi, essa stessa sarà costretta ad includere vari aspetti delle religiosità che l’avevano preceduta.

 

Note e Bibliografia:

1 Sul personaggio e la sua produzione letteraria, a parte le edizioni critiche delle orazioni superstiti citate a nota 3, vd., ad esempio: Aelius Aristides between Greece, Rome, and the Gods, edited by W. V. Harris, B. Holmes, Columbia Studies in the Classical Tradition 33, Leiden – Boston 2008; L. Canfora, Storia della letteratura greca, Storia e Società, Roma – Bari 2001, pp. 675 ss.; Elio Aristide, Discorsi sacri, a cura di S. Nicosia, Piccola Biblioteca Adelphi 162, Milano 1984; A. Lesky, Storia della letteratura greca, Quality Paperbacks 3, I – III, [1957-1958], trad. it., 5ª ed., Milano 1975, III, pp. 1029 s.; E. Dodds, I Greci e l’irrazionale [1951], trad. it., Firenze 1973, pp. 140-146; M. Rostovcev, Storia economica e sociale dell’impero romano [1926], trad. it., Firenze 1931, pp. 152-154; A. Boulanger, Aelius Aristide et la sophistique dans la province d’Asie au IIe siècle de notre ère, Paris 1924.

2 Parallelamente, anche nella letteratura in lingua latina, si assiste ad un fenomeno simile con lo sviluppo di un gusto arcaizzante, per esempio in scrittori come Cornelio Frontone ed Aulo Gellio; non solo, ma sappiamo, per esempio, che in tale periodo, molti preferivano all’Eneide del sommo Virgilio, la lettura del vetusto Ennio e dei suoi Annales.

3 Completamente superata ormai è la vecchia edizione critica di tutte le 53 orazioni superstiti, curata dal Dindorf e risalente al 1829: Aristides ex recensione Guilielmi Dindorfii, I - III, Leipzig 1829, ristampa: Hildesheim, 1964. Per il testo greco delle 53 orazioni sono oggi consultabili altre due edizioni critiche, entrambe però incomplete: quella del Keil, del 1898, per le orazioni 17-53: Aelii Aristidis Smyrnaei quae supersunt omnia, edidit B. Keil, volumen II: Orationes XVII-LIII continens, Berolini 1898, ristampa 1958 e quella di F. W. Lenz e C. A. Behr per le prime sedici orazioni, edita fra il 1976 ed il 1980: P. Aelii Aristides Opera quae exstant omnia, Volumen primum Orationes I-XVI complectens. Orationes I et V-XVI edidit F. W. Lenz, Praefationem conscripsit et Orationes II, III, IV edidit C. A. Behr, fasc. I-IV, Lugduni Batavorum, 1976-1980. Ottima traduzione in inglese di tutta la produzione aristidea con ampio corredo di note è: P. Aelius Aristides, The Complete Works, I – II, translated into English by Ch. A. Behr, Leiden 1981 – 1986.

4 Cfr. Nicosia, op. cit. a nota 1.

5 Per la datazione al 144, cfr. Elio Aristide, A Roma, traduzione e commento di F. Fontanella, introduzione di P. Desideri, Pisa 2007; per quella al 154, cfr. Canfora, op.cit. a nota 1, p. 675.

6 Il nome infatti, letteralmente significa ‘caccia di Adriano’.

7 La stessa acclamazione è ricordata anche altrove da Aristide (cfr. II, 21 Nicosia).

8 Cfr. Or. XXX Keil, 19-20: “Unico fra tutti i Greci, a mia conoscenza, io mi sono dedicato alla retorica non per conseguire ricchezze gloria onori, né per fare un matrimonio prestigioso, né per acquisire potere politico, o qualsiasi altro vantaggio; ma amandola di puro amore sono stato da lei ricambiato con giusti onori. Altri amano la compagnia dei fanciulli, o frequentano assiduamente i bagni, o bere a sazietà, ed altri ancora vanno matti per cavalli e cani. Per me invece, la retorica ha ogni richiamo e ogni forza: essa significa per me figli genitori lavoro riposo, tutto, persino Afrodite; lei è il mio svago e il mio impegno; di lei godo, lei abbraccio, a lei faccio la corte”(trad. di S. Nicosia).

9 Fondamentale su Asclepio è: E. J. Edelstein, L. Edestein, Asclepius. A Collection and Interpretation of the Testimonies, I – II, Baltimore 1945.

10 Il nome Iasó è connesso al verbo iáomai = ‘guarisco’, Panákeia significa ‘rimedio contro tutti i mali’, mentre Ygieía è la salute divinizzata.

11 L’affermazione assoluta e definitiva di Asclepio sulla divinità che l’aveva preceduto non ebbe luogo però prima della fine del V secolo a.C. : cfr. M. Guarducci, Epigrafia Greca, Roma 1967 – 1978, IV [1978], p. 147, nota 2.

12 Sull’introduzione del culto di Apollo a Roma e il tempio di Apollo medicus, cfr. ad esempio, Lexicon topographicum urbis Romae, a cura di E. M. Steinby, I, Roma 1993, s. v. Apollo, aedes in Circo, p. 49 ss. (A. Viscogliosi).

13 L’atto di ‘giacere’ a tale scopo era designato, in greco, per lo più, con i termini enkatheúdein?o enkoimâsthai - ma anche kataklínein e enkataklínein, usati da Aristofane nel Pluto ( 620-770; cfr. 411 s.) - verbi che in greco significano ‘dormire’ oppure ‘giacere dentro’, vale a dire all’interno dell’edificio destinato ai malati, e il rito stesso era chiamato enkoímesis, da cui i corrispondenti termini tecnici latini incubare (cfr., Commento all'Eneide di Servio, 7, 88: incubare dicuntur proprie hi qui dormiunt ad accipienda responsa), ed incubatio per denominare l’atto, che sono appunto all’origine della parola italiana ‘incubazione’. Nella Grecia antica, comunque, l’incubazione era praticata anche solo a scopo puramente divinatorio, per esempio nei centri oracolari degli eroi Trophónios a Lebádeia, in Beozia, oppure di Amphiáraos ad Oropós, al confine tra Attica e Beozia. Da quanto detto, sembra di poter dedurre con una certa sicurezza che l’incubazione fosse la pratica mantica tipica degli oracoli eroici. Sull’incubazione, vd., per es.: A. Taffin, Comment on rêvait dans les temples d’Esculape, in Bulletin de l’Association G. Budé, 1960, pp. 325 ss.; O. Weinreich, Antike Heilungswunder. Untersuchungen zum Wunderglauben der Griechen und Römer, RGVV VIII, 1, Giessen 1909, pp. 110 ss.; L. Deubner, De incubatione capita quattuor, Lipsiae 1900; per gli aspetti psicologici, cfr. per es.: C. A. Meier, Antike Inkubation und moderne Psychoterapie, Studien aus dem C. G. Jung-Institut, Zürich 1949.

14 L’edificio all’interno del quale il rito aveva luogo, in ambiente greco, era detto koimetérion oppure enkoimetérion, ossia ‘dormitorio’, ma poteva chiamarsi pure ábaton?o ádyton, ossia ‘(luogo) inaccessibile’.

15 Trentadue iscrizioni greche relative a guarigioni miracolose operate da Asclepio e provenienti, nell’ordine, da Atene, Epidauro, Lebena, Pergamo e Roma, databili in un arco temporale che va dal IV secolo a.C. al IV d.C. sono raccolte e commentate da M. Girone, Iámata. Guarigioni miracolose di Asclepio in testi epigrafici. Con un contributo di M. Totti-Gemünd, Pínakes 3, Bari, 1998. Per i frammenti epigrafici della lex sacra, codificante l’incubazione nel santuario di Pergamo, vd.: Altertümer von Pergamon VIII, 3, Berlin 1969, pp. 167-190 (a cura di M. Wörrle). È più che probabile, comunque, che siffatte guarigioni avessero luogo anche in altri santuari di divinità risanatrici, come ad esempio, in quelli del greco - egizio Serapide, mentre l’incubazione negli Asklepieîa poteva anche essere praticata, sebbene raramente, a puro scopo mantico - divinatorio.

16 P. Oxy., 1381, 64 – 145, su cui cfr. M. Totti-Gemünd, Aretalogie des Imuthes – Asklepios, in M. Girone, op. cit. a nota 15, pp. 169 ss.

17 Non mancò infatti chi, nell’antichità, cinicamente osservò che tali resoconti sarebbero stati molto più numerosi se si fossero registrati anche gli insuccessi del dio.


18 Il sogno di Scipione, del quale Macrobio ha il merito di aver conservato il testo, arricchito di un ricco commento, faceva parte della perduta opera di Cicerone intitolata Sulla Repubblica.

19 Cfr., ad esempio: A. M. Partini, Il sogno ed il suo mistero, Roma 1996, pp. 94 s.

20 Perfino il razionalista Luciano ci narra un sogno che fu decisivo per la sua scelta professionale.

21 Daldi era un piccolo centro della Lidia ove era nata la madre di Artemidoro, il quale invece era nativo di Efeso. Su Artemidoro e la sua opera, cfr. in particolare: Artemidoro. Il libro dei sogni, a cura di D. Del Corno, Biblioteca Adelphi 62, Milano 1975, libro dal quale si è ampiamente attinto anche per quanto concerne l’onirologia e l’oniromantica antiche

22 Le prime esplorazioni archeologiche nell’Asklepieîon pergameno furono eseguite dal Wiegand a partire dall’ottobre del 1928: cfr. Th. Wiegand, Zwiter Bericht über die Ausgrabungen in Pergamon 1928–32: das Asklepieion, in Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften, 1932 - 35, pp. 3 ss., in particolare 3-4. L’opera è poi continuata per decenni e senza interruzioni di modo che gli archeologi tedeschi hanno potuto riportare alla luce vasta parte del santuario, su cui cfr. i vari volumi della collana: Altertümer von Pergamon, in particolare: VIII, 1-3 (iscrizioni), tra cui importantissimo è il volume 3, di Ch. Habicht con un contributo di M. Wörrle, ove si trattano unicamente le iscrizioni dell’Asklepieîon; XI, 1-5 (strutture del santuario). Una messa a punto sull’Asklepieîon Pergamo, si trova nel già citato Altertümer von Pergamon, VIII, 3, pp. 1 – 20 (a cura di Ch. Habicht). Per un breve riassunto sul santuario pergameno ed i suoi edifici, vd. anche: E. Akurgal, Ancient Civilizations and Ruins of Turkey, 6th ed., Istanbul 1985, pp. 105 – 111; Lo stesso, Civilisations et sites antiques de Turquie, Istanbul 1986, p. 112; Girone, op. cit. a nota 15, pp. 137-139.

23 Peraltro, Galeno (129-199 d.C.), che era proprio di Pergamo, conosceva bene questo luogo di cura nonché le varie – e, spesso, singolari – terapie in esso praticate: cfr., ad es.: Edelstein, Edelstein, op. cit. a nota 9, Test. 413.

24 Cfr., ad esempio, A. Krug, Medicina del mondo classico, [trad. it.], Firenze 1990, p. 66.

25 Nel 155 a.C., il re Prusias II di Bitinia, nel corso della guerra contro Attalo II di Pergamo, distrusse, insieme ad altri santuari, anche l’Asklepieîon di fronte alla città e rapì anche la statua di culto del dio, che egli però dovette restituire, insieme ad un considerevole indennizzo, allorché si vide costretto alla pace dal decisivo intervento dei Romani.

26 Cfr. Altertümer von Pergamon, VIII, 3, n. 114.

27 18,14 metri però, includendo i colonnati stessi.

28 Aulus Claudius Charax, governatore e proconsole della Cilicia, oltre che autore di una storia universale, fu un contemporaneo dell’imperatore Adriano. Per l’iscrizione, vd. Altertümer von Pergamon, VIII, 3, n. 141 ed il commento di Habicht ad loc.; per la descrizione dei resti del propileo, cfr. Altertümer von Pergamon, XI, 3, pp. 15 – 29.

29 Su tale edificio, cfr. Altertümer von Pergamon, XI, 3, pp. 76 – 100.

30 Per il teatro, cfr. Altertümer von Pergamon, XI, 2, pp. 61 – 83.

31 Per i resti di queste tre piscine o fontane, cfr. Altertümer von Pergamon, XI, 1, pp. 22 - 24 e XI, 2, pp. 16 s., 54 s.

32 Si tratta dello scritto Sulla fonte dell’Asclepieio (Or. XXXIX Keil) e di quello intitolato L’acqua di Pergamo (Or. LIII Keil).

33 Altertümer von Pergamon, XI, 1, p. 81 e XI, 2, pp. 4 – 16.

34 Altertümer von Pergamon, XI, 3, pp. 30 – 70.

35 Ossia, ‘dalla bella prole’, in quanto padre di Asclepio; cfr. anche Or. LIII Keil, 4. Il culto di Apollo nell’Asklepieîon pergameno è anche attestato da alcune iscrizioni: Altertümer von Pergamon, VIII, 3, nn. 115 b, 116, 149.

36 Cfr. anche le numerose iscrizioni a lei consacrate in Altertümer von Pergamon, VIII, 3, nn. 65-72, 96, 121-123, 158.

37 Altertümer von Pergamon, VIII, 2, n. 264 = F. Sokolowski, Lois sacrées de l’Asie Mineure, Paris 1955, n. 14.

38 cfr. L. Robert, Études anatoliennes, Études orientales 5, Paris 1937, pp 70 ss. con nota 8.


39 Lucio Cuspio Pactumeio Rufino, che era stato console nel 142, fu amico del medico Satiro, maestro del sommo Galeno; su Rufino, cfr. ad es.: Prosopographia Imperii Romani, 2ª ed., C 1637.

40 Si tratta, in sostanza, dello stesso fenomeno che interesserà, con il trascorrere del tempo, l’egizia Iside, che finirà per inglobare in sé le personalità di numerosissime divinità del pantheon greco – romano.

41 La quale dice di non poter raccontare “ tutte quante le imprese del tenace Odisseo” (Odissea, IV, 241), ma ne sceglie una sola e la narra a Telemaco e Menelao: si tratta dell’impresa di Odisseo che s’introduce a Troia vestito da mendicante, raccontata, in realtà, oltre che a Telemaco e Menelao anche a Pisistrato (Odissea, IV, 235 -264).

42 Oltre a quello precedentemente ricordato, cfr. I, 1 Nicosia, con riferimento ad Iliade, II, 489; II, 39 Nicosia, con citazione di Iliade, XI, 813; II, 58 Nicosia con riferimento a Odissea, III, 113 – 115; II, 72 Nicosia, con citazione di Odissea X, 46; IV, 34 Nicosia, con riferimento ad Odissea, III, 139. Del resto, in II, 41 – 42 Nicosia, ad Aristide appare proprio la dea Athena, che, richiamando alla memoria di Aristide l’Odissea, gli dice - udita, ma non vista dagli altri presenti - di tenere duro nella malattia, perché egli era nello stesso tempo Odisseo e Telemaco e che perciò ella non avrebbe potuto mancare di soccorrerlo. Inoltre, parlando dell’origine di tutti i suoi mali, cioè del terribile viaggio a Roma, Aristide dice che si tratta di qualcosa che supera il ‘racconto di Alcinoo’ (II, 60 Nicosia), un’espressione proverbiale per indicare una narrazione lunga e complessa come appunto quella che Odisseo fa ad Alcinoo col raccontargli le sue avventure (Odissea, IX – XII) e proprio all’Odissea viene paragonato da Aristide il suo viaggio di ritorno da Roma (II, 65 Nicosia). Altri rinvii ad Omero sono le parole udite in sogno da Aristide pronunciate dal medico Porfirione davanti agli abitanti di Cizico, esaltanti proprio il retore (V, 12 Nicosia), paragonate a quelle che Athena dice ai Feaci (esortandoli, sotto l’aspetto di un araldo, a recarsi all’assemblea per conoscere Odisseo, e che si riferiscono ad Odissea, VIII, 7 ss.); l’affermazione che in una determinata circostanza, relativa ad Aristide ed i suoi, era chiaro, come più d’una volta si esprime Omero, che un dio li guidava (V, 27 Nicosia, da porre in relazione, ad esempio, con Odissea, IX, 142) ed il ricordo dell’episodio omerico, in cui Odisseo, riempita la coppa, si rivolge ad Achille e parla (V, 44 Nicosia, che rimanda all’ambasceria ad Achille, in Iliade, IX, 223 ss.). Nei Discorsi sacri comunque, vi sono citazioni anche da altre opere letterarie, oltre a frequenti ricordi di vari grandi scrittori del passato.

43 Per una breve rassegna, senza alcuna pretesa di completezza, delle diverse interpretazioni della malattia di Elio Aristide proposte nelle varie epoche, cfr.: D. Gourevitch, La recherche de l'inconscient dans la littérature antique. Problèmes de méthode, in The Unconscious. Nature, Functions, Methods of Study, II, Tbilisi 1978, pp. 660 ss. Fra gli antichi, che scrissero della malattia del retore, citiamo qui, ad es.: Filostrato, Vite dei Sofisti, II, 9, 1 (“fremito muscolare”) ; Sopatro, Prolegomeni, p. 112, 5 Lenz (epilessia) e Galeno, Corpus Medicorum Graecorum, Lipsiae et Berolini, 1908-, Suppl. I, p. 33 (consunzione del corpo a causa di eccesso di attività lavorativa). Lo scritto del Malacarne cui si fa riferimento è: La malattia tredecennale di Elio Aristide sofista Adrianeo, esposta da V. Malacarne da Saluzzo, Professore e Accademico Padovano, Milano 1799. Per le diagnosi dei moderni, ricordiamo qui ad es.: G. Michenaud, J. Dierkens, Les rêves dans les "Discours Sacrés" d'Aelius Aristide, IIe siècle ap. J.-C. Essai d’analyse psychologique, publié à l’initiative et avec le concours de R. Crahay, Éditions universitaires de Mons, Série sciences humaines 2, Mons 1972, pp. 99 ss. (ipocondria con qualche tratto isterico); M. Gourevitch, D. Gourevitch, Le cas Aelius-Aristide ou mémoires d’un hystérique au IIe siècle, in L’information psychiatrique, 1968, n. 10, Numéro Spécial: Histoire de la psychiatrie, pp. 897 ss.; E. D. Phillips, A Hypochondriac and His God, in Greece and Rome, 21, 1952, pp. 23 ss.; C. A. De Leeuw, Aelius Aristides als bron voor de kennis van zijn tijd, Amsterdam 1939, pp. 134 ss.

44 In greco, la sostituzione risulta assai più pregnante, in quanto si tratta di offrire soltanto un daktýlios (ossia, ‘anello’) al posto di un dáktylos (cioè, ‘dito’).

45 Si tratta del codice Laurenziano 60.3.

46 Che tali affermazioni risalgano proprio ad Areta è sostenuto con certezza da Lenz e Behr, op. cit. a nota 3, p. XV.

47 Nel De vita et scriptis Aelii Aristidis commentarius [1814], in Opere inedite di Giacomo Leopardi pubblicate sugli autografi di Recanati da G. Cugnoni, I, Halle 1878, pp. 43 ss.


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