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PSYCHOMEDIA
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Magia, sciamani e guaritori



GURU: mediatore di guarigione

di Luca Caldironi



"Guarire vuol dire azzardare un passo oltre il recinto di casa"
[H.Kalweit]


Bisogna domandarsi se è legittimo e lecito tentare di gettare un ponte tra la cultura occidentale e la cultura dell’India e soprattutto se sia utilizzabile a tale scopo investigare questa cultura con gli strumenti che la psicoanalisi ci offre.
L’intento di questo lavoro è quello di fornire alla semantica antropologica piani di lettura multipli, non modelli che si autoescludano, quanto piuttosto aspetti interdisciplinari del conoscere, mettere in guardia nei confronti della seduzione di un “sapere certo” e favorirne la possibile metanoia.
Il tentativo di integrare nasce sempre da sforzi personali, soprattutto quando riguarda aspetti “interni” del sapere e questo caratterizza anche la mia esperienza:formazione medico-psichiatrica e passione per la cultura indologica.
Profili di paesaggi apparentemente tanto lontani tra loro, dis-orientamenti che mi aiutano nel procedere in una osservazione “da più vertici”, nel tentare quella che Bion definiva una visione “binoculare”.
In particolare utilizzerò come controparte dialettica la cultura indiana, non tanto per trovare soluzioni, per così dire, prese a prestito, quanto piuttosto per favorire sospensioni interlocutorie utili a dilatare il nostro “apparato per pensare i pensieri”.
Non solo un tentativo di sincretismo tra orizzonti ermeneutici, quanto piuttosto un collocarsi sul piano della problematizzazione dell’ambivalenza dell’istanza dell’“Altro”.
Come ricorda Kakar nella cultura indiana, più che una tendenza alla “soluzione”, è presente la possibilità di una “sospensione” dei diversi punti di vista.
Le sei scuole sacerdotali indiane che rappresentano, ciascuna a proprio modo una disamina della conoscenza e delle sue origini si chiamano “darshana” [darshana (“punti di vista”), dalla radice sscr. drsh- vedere].
Credo che proprio la psicoanalisi possa aiutarci a mantenere lo sguardo più in profondità, a limitare il rischio di un occidental-centrismo, dando rilievo a determinismi più profondi e più vicini alle emozioni tanto complesse che riguardano l’essere umano.
Le componenti che stanno alla base di quello che Freud chiamava <<Disagio della civiltà>> obbligano l’etno-antropologo e lo psichiatra, lo psicoanalista ad aprirsi a dimensioni reciproche di osservazione nella ricerca di approfondire ipotesi sulla complessità della realtà osservata. Ad aprirsi verso costellazioni simboliche “Altre” rispetto a quelle derivate dalla cultura greco-giudaico-cristiana.
La cultura dell’India si presta molto bene ad un’indagine psicoanalitica.
Questa richiede un’attenta osservazione sia delle “motivazioni profonde” di ciascuno, che del contesto culturale di appartenenza, di come si esprime il disagio e di come questo viene vissuto e accolto senza il rischio di applicare modelli psicopatologici rigidi o preconcetti. D’altra parte già Freud stesso ci ha spianato la strada colmando lo iato tra normalità e anormalità introducendo l’aspetto “quantitativo” nel funzionamento dell’”apparato psichico”.
Oltre al fatto che la cultura indiana e quella occidentale offrono modelli di risposta radicalmente diversi ai bisogni fisiologici fondamentali dell’uomo è esperienza comune che nella “psiche indiana” si conservino tracce viventi dei valori tradizionali più antichi come i miti e i riti e che tutto il contenuto latente tenda a manifestarsi nel vissuto quotidiano visto il prevalere del pensiero del “processo primario” (pensieri onirici, miti e sogni).
In Occidente attraverso una progressiva “demistificazione del mondo” si è creata una frattura radicale tra “pubblico e privato”, producendo le condizioni dove il <<fantastico>> deve rimanere fatto privato, raramente trasformarsi in situazione pubblica condivisa. (G.Obeyesekere, 1990)
Occorre fare molta attenzione a non usare l’interpretazione psicologica in modo riduttivo ed immaginare che oltre ad una realtà psichica individuale, pulsionale, esiste anche una logica inconscia di vita sociale, per cui la psiche individuale e le istituzioni culturali creano un continuum di fenomeni osmotici profondi.

Parlando dell’India bisogna innanzitutto differenziare l’immagine del guru così come ci è offerta dalla fantasia delle suggestioni di oggi, da quella più antica di guru come iniziatore di “conoscenza”.
Partendo dallo studio della parola,dall’etimologia di <<guru>>, l’idea che mi sono fatto è quella di un maestro spirituale, in particolar modo colui che conferisce l’iniziazione (diksha) a un discepolo e che ha <<peso>> (guru, sscr. aggettivo per indicare pesante) nella sua vita. (Heimann)

Abbiamo inoltre un’altra interessante etimologia offertaci da Daniélou a partire dalla Advaya Taraka Up.:
Gu (oscurità); Ru (dispersore); <<colui che disperde le tenebre>>.

Queste non sono le uniche definizioni che caratterizzano il guru.
Inizialmente questa figura sembra avere più una funzione di “istruttore” riguardo la corretta esecuzione dei riti.
Successivamente il suo potere s’incrementa e da indicatore della via da percorrere diviene lui stesso modello per il discepolo. Questo avviene senza una “divinizzazione”, ma facendo proprie quelle caratteristiche che ancora oggi definiscono gli attributi dell’uomo di “conoscenza” che sono:
<balya> o fanciullezza mentale (in senso positivo), purezza, non espansione, noi potremmo dire <mente non satura>;
<panditya> o sapienza, si riferisce alla funzione dell’insegnamento in quanto è qualificato ad impartire l’istruzione (upadesha) nella Conoscenza;
<mauna> o perfetto silenzio, nella mente, nella parola e nell’azione. (Glossario sanscrito, 1988)
Silenzio che consente l’Unione Suprema (essere all’Unisono—at-one-ment ‡“O”)

E’ a questo livello che la relazione maestro-discepolo, pur non divenendo simbiotica, è molto intima ed empatica. Il maestro non si basa più solo sulla autorevolezza dottrinale, ma mette in gioco e si mette in gioco nell’esperienza.
Esorta il suo discepolo a sperimentare attraverso di lui una conoscenza personale ed a mettersi alla prova.
Interessante osservare con Kakar che insieme al passaggio del guru da essere umano a dio, vi sia anche uno scivolamento regressivo della figura del discepolo che progressivamente passa dall’essere adulto ad essere “bambino”.

Senza dilungarci ulteriormente notiamo una progressiva divinizzazione del guru che procede attraverso movimenti devozionali come la Bhakti, che tantrici diventando una vera e propria “divinità”.

Difficile una vera e propria storicizzazione di questa figura, cosa che per altro ci porterebbe ad affrontare le diverse concezioni del “tempo” che caratterizzano l’Oriente e l’Occidente (l’Occidente è la terra dove il sole muore…il tempo è più definito!, nella hindi attuale per dire “ieri” o per dire “domani” si usa la stessa parola: “kal”, il significato è rimandato al contesto ed al verbo).

Non è l’excursus storico di maestro e conoscitore delle dottrine filosofiche e spirituali della tradizione che vogliamo approfondire, ma desideriamo focalizzare in questa sede il passaggio del guru a “mediatore di guarigione”, come colui che favorisce trasformazioni in senso evolutivo e conoscitivo.
Questo ruolo diviene sempre più prevalente e il guru, e a questo punto i suoi diversi sinonimi a seconda delle culture, è sempre più chiamato ad intervenire sulle sofferenze psichiche o somatiche di coloro che lo consultano.

Riguardo la relazione maestro-discepolo in Occidente si è ingiustamente evidenziata la componente regressiva come aspetto “patologico”, l’eccesso di sottomissione, come “diniego” dell’ostilità, la dipendenza, come irrisolti legami con la figura materna.
Ben consapevoli di questi rischi noi crediamo che questo rapporto possa offrire al discepolo la possibilità di sperimentare una relazione “sufficientemente buona” e lo aiuti ad introiettare esperienze costitutive.

Il guru viene ad essere inserito in un nodo che lega salute e salvezza, sanus e salvus, la ricerca di salute si esprime in un senso globale.
La “globalità” del significato riguarda la totalità della persona umana, alla presa con una <<sofferenza>>, con un <<disagio>>, con una <<afflizione>> che costituiscono un’esperienza a sua volta <<totale>>, dunque unitariamente psico-somatica, morale, spirituale. (V.Lanternari)

E’ necessario che usi un <setaccio> a maglie larghe e che dia privilegio alle <assonanze> di funzione.
Di proposito quindi userò scambievolmente i termini di guru, maestro e psicoanalista (terapeuta), sottointendendo quindi con questi la funzione di “mediatore di guarigione” e tentando di rintracciarne alcune caratteristiche.

Il guru funge dapprima da guida in un processo iniziatico, successivamente in un processo di autocoscienza ed introspezione.
Questa diviene una figura sulla quale il discepolo, il paziente, può “proiettare”, trasferire esigenze emotive e stati d’animo che hanno segnato la propria vita.
Con la sua sola presenza può rivalutare stati psichici che favoriscono meccanismi endogeni di autoguarigione e che comportano una potenziale carica di efficacia terapeutica.
La sua benevola e silenziosa presenza, a volte vissuta come fosse uno specchio in cui ri-flettersi, o come una calda e confortevole vicinanza, può raggiungere livelli comunicativi che coinvolgono stati profondi della psiche, linguaggi emotivi preesistenti l’uso della parola.
L’interazione guru-discepolo va più in profondità, tocca livelli della mente che sono generalmente raggiunti in rari e preziosi momenti nel percorso psicoanalitico.
Il devoto è messo più a contatto con il nucleo depressivo profondo che sta alla base del senso di sé e della vita e che è al di là di ogni parola ed interpretazione. (S.Kakar)

Ogni essere umano avverte l’esigenza di conoscenza, di attenzione, di riconoscimento, il non averle vissute determina quel senso di vuoto, di profondo disagio psichico che spesso aliena le nostre esistenze.
Questi residui psichici di una attenzione inadeguata ricevuta durante l’infanzia vengono a creare, soprattutto nella società occidentale, una paradossale condizione in cui forme estreme di autosufficienza convivono con paurose sensazioni di vuoto interiore, panico e fame spirituale cronica.

Da una parte quindi non possiamo non essere d’accordo con Freud nel ritenere che la “guarigione” avviene attraverso la “conoscenza”, <<bonificando>> i territori dell’Es attraverso l’espansione dell’Io, dall’altro non possiamo trascurare l’importanza in questo processo di tutto quello che passa nella relazione non-verbale maestro-discepolo, terapeuta-paziente.
Winnicott sottolinea questo dando molta importanza al rapporto terapeutico che si instaura tra analista e paziente piuttosto che alle interpretazioni fornite.

Anche W.Bion del resto evidenzia la profonda differenza che esiste tra una una forma di conoscenza razionale in “K” e uno vero e proprio sviluppo esistenziale di crescita evolutiva che si ha attraverso il mettere da parte la “memoria, il desiderio, persino quello di comprendere e di guarire”, per vivere ciò che ci propone l’incontro e andare a cercare la parte più "profonda" nostra e dell’altro (at-one-ment) ‡ essere in “O” (la Realtà Ultima, la Cosa in Sé).

Queste esperienze affettive riconducono ad un clima emotivo, un “proto-mentale che precedente l’uso della parola. Un mondo intimo e pre-verbale favorito dal tipo di relazione, da aspetti culturali, da aspettative, dall’attitudine e dalle esperienze del guru stesso.
Molto importanti in questa relazione sono anche le aspettative del discepolo, potremmo dire che ciascuno sceglie il proprio guru e questo in base ad esigenze profonde ed inconsce.
Anche nelle terapie occidentali succede qualcosa di simile nella scelta del tipo di approccio terapeutico.
Mettendoci dalla parte del paziente possiamo dire che gioca un ruolo anche il “transfert” all’interno di quel quadro teorico del terapeuta con il quale egli ha deciso di fare un’analisi. Nelle grandi città occidentali, in cui si ritrova ogni tipo di terapia, questo <<pre-transfert>> è ancora più manifesto. C’è chi desidera farsi curare da marabout…chi vuole incontrare un esorcista; chi cerca un trattamento farmacologico; e chi, infine, si sente destinato alla psicoanalisi. (T.Nathan)
Facciamo un passo ulteriore e diciamo che i sintomi stessi che un paziente presenta rappresentano un tentativo di mediare, di cercare una soluzione ad un conflitto; Freud stesso considerava il sintomo una forma di compromesso tra due desideri antagonisti.
Allora possiamo azzardare che entrambi, guru-terapeuta e sintomo, rappresentino un tentativo di mediazione di una guarigione spontanea; con la differenza che il guru-terapeuta, facendosi carico dei sintomi, offre, grazie alla esperienza emotiva profonda della relazione, la possibilità di cambiamenti evolutivi nella vita affettiva del paziente.
Nella vita affettiva la relazione guru-discepolo diviene un’importante estensione della relazione genitore-bambino, costituendo una seconda chance di ottenere il nutrimento richiesto per la coesione, integrazione e forza del Sé. (S.Kakar)
Tutto ciò non può derivare da un artifizio ma deve coincidere con una esperienza vera e condivisa in cui non si può barare.

Ci possiamo ora chiedere se è ipotizzabile una complementarietà tra approcci alla guarigione della tradizione orientale con quelli dell’occidente.
Cosa ricercano tanti occidentali da guru esotici?
Senza attribuirne responsabilità possiamo dire che già Freud aveva, a modo suo, preso le distanze dalle vie di conoscenza offerte dalla cultura indiana nel suo complesso e dal fenomeno mistico, liquidandoli come fantasmi di funzioni regressive inglobati in quello che lui definiva “sentimento oceanico”, (regressione in una antica simbiosi “regressus ad uterum”).
Rimangono famosi gli scambi epistolari al riguardo tra Freud e R. Rolland a cui rimando e di cui cito solo il noto brano di una lettera in cui Freud scrive a Rolland che lo invitava ad interessarsi maggiormente del sentimento religioso nella cultura dell’India:
“…e ora, con la tua guida, cercherò di penetrare nella giungla indiana da cui finora un certo miscuglio di amore ellenico per le proporzioni, di sobrietà ebraica e di timidezza filistea mi hanno tenuto lontano. In realtà, avrei dovuto confrontarmici prima, dal momento che la vegetazione di quella terra non mi è estranea; ho scavato in profondità cercandone le radici. Ma non è facile superare i limiti della propria natura.” (Lettera a Romain Rolland, 19 gennaio 1930)

Noi crediamo che la componente “senza parole” della psicoanalisi offra un’apertura verso nuovi spazi di inconoscibilità; renda possibile abitare zone di confine, coni d’ombra del sapere, dove aspetti quali la meditazione, la “nuda attenzione”, l’ascolto di sè conducono verso un modo di sentire in cui è possibile entrare in contatto con le proprie emozioni, anche le più sgradevoli ed angoscianti, senza identificarsi con esse, senza temerle, ma anzi usandole come preziosi strumenti di conoscenza.
Questo e forse tanto altro possiamo imparare dalla cultura indiana, non tanto appagare la nostra sete di verità, trovare risposte alle nostre domande, quanto piuttosto vivere sospensioni, dubbi, inquietudini, timori in un continuo ed emotivo “contenitore” elaboratore di senso.
Quest’aspetto è molto vicino a quanti hanno sottolineato l’importanza della capacità di disidentificarsi dai contenuti specifici della propria mente come di un elemento essenziale per la psicoterapia analitica. Esigenza che è molto vicina anche agli aspetti meditativi orientali, alla capacità di trovare in sè l’osservatore, colui che osserva il proprio pensare.
Intravediamo in questa possibilità un orizzonte comune tra pratiche orientali ed occidentali, una sorta di esercizio “spirituale” che vede analogie tra l’ascesi fenomenologica e quella del mistico.
A questo livello allude W.Bion, (forse non ha caso psicoanalista nato in India!), quando dice che l’analista “deve centrare la propria attenzione su “O”, l’ignoto , l’inconoscibile”, anzi deve diventarlo, deve lui stesso “diventare infinito grazie alla sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione”.
Parthenope nel seminario romano del '98, "Il sogno", sostiene che: “Bion aveva l’idea di un flusso di incoscienza, non nel senso di essere incosciente, ma nel senso di non essere consapevole. (…) Si può dire che noi sogniamo sempre, ma non siamo sempre consapevoli dei nostri sogni. (…) Bion ha teorizzato un concetto che ha mutuato da una idea francese che è quello della <rêverie> (…) Bion ha preso questa idea (rêverie materna) e l’ha importata dentro la psicoanalisi con l’idea di lavorare <senza memoria, né desiderio>". Questo, (senza memoria e senza desiderio), è per Parthenope: "… qualcosa che si collega credo con l’infanzia di Bion in India e con un incontro con una cultura che aveva dei tempi molto diversi dai nostri, comunque molto diversi dalla cultura inglese dell’epoca. (…) Bion proveniva da una famiglia che non era strettamente inglese, anzi era molto poco inglese in realtà, (…) era una sorta di ibrido euro-asiatico. Ibrido che si è rivelato molto importante nello sviluppo ulteriore di quello che era allora un bambino; perché Bion ha certamente assorbito moltissimo della cultura indiana."
Riteniamo che quando Bion dice che il pensiero non ha bisogno di nessuno che lo pensi, esprima in sé quella parte della cultura indiana che ricerca il perfetto raccoglimento e “ l'in – centramento” della attenzione (sam&Mac226;dhi).
A questo proposito M.Epstein sostiene che quando Freud parlò del sentimento oceanico come apoteosi del sentimento mistico, e quando Fromm esaltò il benessere come risultato della meditazione buddhista, trascuravano un punto semplice ma essenziale; la meditazione non si limita a creazione di stati di benessere, ma riguarda anche la distruzione della credenza in un sé dotato di esistenza intrinseca.
Ma non ci si può dis-identificare da se stessi prima di diventare se stessi.
Il guru favorisce questo processo facendo da Io ausiliario all’Io in difficoltà del discepolo,
attivando metafore cariche affettivamente e vitalizzando aree psichiche traumatizzate.
Si apre uno spazio al pensare e il pensiero è “eros”, è così che noi esseri umani intrecciamo legami.
Il maestro non agisce sull’ “Avere”, ma sull’ “Essere” del discepolo, riattivandone le capacità simboliche ed ampliandone gli spazi emotivi.


Ci limitiamo ad un breve accenno, ma meriterebbe ben più attenzione di quella che possiamo riservare in questa sede la cassa di risonanza che la condivisione di gruppo offre a questo processo.
Il gruppo, la comunità, l’ashram, può amplificare gli stati emozionali attraverso un forzato scioglimento del senso d’identità individuale e progressiva perdità del controllo degli impulsi, delle facoltà critiche e favorire l’espressione di elementi catartici e trasformativi.
Inoltre il guru, così come il terapeuta occidentale, per mantenersi “mediatore di guarigione” deve riuscire ad elaborare o quantomeno sostenere gli attacchi aggressivi (transfert negativo) dei discepoli e-o le proiezioni idealizzate di questi.
Questo è un compito complesso che origina da un lungo e faticoso percorso iniziatico a cui il guru si sottopone e che gli consente di accettare e comprendere proiezioni ed idealizzazioni, senza identificarsi con esse.

Anche noi in questo momento siamo, mi auguro, “mediatori” di qualcosa, di “conoscenza”?? se è così anche di “guarigione!

Il guru, allora, come vero e proprio “catalizzatore”, facilita processi di guarigione ed il discepolo, il paziente, scivola via dalla condizione di malato, ma è visto ed immaginato come uomo impegnato in una difficile impresa esistenziale.
Come tale non deve essere modificato, ma compreso e accompagnato perché la “via è lo scopo stesso” e la vita è processo creativo .


BIBLIOGRAFIA

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