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PSYCHOMEDIA
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Trasgressione e Reclusione



Il ricovero psichiatrico in carcere: analisi di un'esperienza

di Carlo Valitutti, Antonio Piro



Nel dicembre del 1978 veniva aperto a Roma, nel nuovo complesso della Casa Circondariale Maschile di Rebibbia, un reparto psichiatrico di degenza e cura, che lo stesso Ministero di Grazia e Giustizia promuoveva con l'obiettivo e la finalità di migliorare l'assistenza psichiatrica in carcere.

La definizione "P.O.", con cui fu chiamato il reparto, sta per pre-osservazione , e vuole sottolineare l'importanza ed il significato di un luogo ed un oggetto diverso dal più conosciuto ospedale psichiatrico giudiziario (O.P.G.); una sorta di "osservazione" clinica e comportamentale che possa eventualmente precedere un invio in O.P.G., rendendo quindi il ricovero più adeguato ed appropriato.
Da quel lontano dicembre si sono succeduti nel reparto circa duemila pazienti, molti dei quali ricoverati più volte sia per motivi di reale aggravamento della patologia psichiatrica sia per il presentarsi dell'effetto perverso e ben noto della 'sindrome della porta girevole' , giungendo quindi a contare alcune migliaia di ricoveri effettivi. Solo nei primi dieci mesi di quest'anno (1996) ci sono già stati quasi 190 ricoveri.

L'organizzazione e la struttura del reparto cerca di ripetere quella tipica di un reparto clinico con medici(psichiatri o neuropsichiatri), infermieri, psicologi ma con la presenza imprescindibile (e spesso condizionante) degli agenti di polizia penitenziaria preposti alla custodia vera e propria del detenuto.
All'inizio della sua costituzione il reparto P.O. godeva di una certa autonomia, soprattutto per quanto riguarda i ricoveri e le dimissioni, anche grazie al fatto che lo psichiatra che dirigeva il reparto assolveva a compiti autonomi e svincolati dalla direzione sanitaria e dalla direzione amministrativa del carcere più in generale.
Nato in un epoca storica di eventi ed accadimenti sociali e politici certamente significativi, dalla legge di riforma dell'assistenza psichiatrica agli anni difficili e drammatici del terrorismo, il reparto P.O. ha subito evoluzioni e cambiamenti a volte radicali, altre volte più impercettibili, che ne hanno determinato la struttura attuale, probabilmente migliore per certi versi di quella iniziale ma necessariamente ancora non definita o per lo meno non rigidamente codificabile. Prima però di addentrarci in commenti e valutazioni critiche, forse può essere utile descrivere più in dettaglio la vita all'interno del reparto focalizzando la nostra attenzione sulle modalità del ricovero e sulle sorti del detenuto ivi assegnato.

Una premessa a questo punto è fondamentale. Dopo un periodo di maggiore autonomia decisionale ed operativa, ma forse con una scarsa e più problematica regolamentazione dei ricoveri, si sta lavorando attualmente per una più adeguata ridefinizione del concetto stesso di autonomia , cercando di evitare sia una sorta di psichiatrizzazione 'selvaggia' del disagio mentale vissuto in carcere sia una risposta meramente contenitiva e custodialistica ad espressioni più clamorose di tale disagio. E' facile immaginare peraltro come sia faticoso e difficile lavorare in una zona di confine dove molto spesso è continua e insistente l'implicita richiesta esterna di argine, contenimento, repressione del comportamento disturbante, privando così l'intervento psichiatrico stesso di un'istanza di comprensione e di donazione di senso che può restituire certamente maggiore dignità alla terapia ed al trauma, e ben altra responsabilità al terapeuta.

L'invio di un paziente nel reparto P.O. viene oggi disposto con un ordinanza dal magistrato competente da cui dipende il detenuto, e cioè ai sensi dell'art.99 dell'Ordinamento Penitenziario, DPR 431/76, per un periodo massimo di ricovero di trenta giorni, alla fine del quale, nella relazione di dimissione, comunichiamo i risultati della nostra osservazione clinica e diagnostica con eventuali prescrizioni e indicazioni terapeutiche e/o di trattamento. Naturalmente questa ordinanza del magistrato con relativa designazione ministeriale è quasi sempre preceduta da una proposta di ricovero di un sanitario (di solito il consulente psichiatra del penitenziario da cui proviene il paziente) che ha visitato il detenuto ritenendo opportuno il suo trasferimento in un reparto psichiatrico, contesto in quel momento reputato più idoneo al suo trattamento.

Durante il ricovero il detenuto viene seguito quotidianamente dagli psichiatri del reparto, dallo psicologo quando si ritiene importante e significativo il suo intervento, dall'educatore per quanto è di sua competenza, e da personale civile che periodicamente lavora in carcere con funzioni di assistenza sociale nell'ambito del volontariato. Non bisogna dimenticare però che gli operatori con cui i detenuti ricoverati entrano più strettamente in contatto sono gli agenti di polizia penitenziaria deputati alla custodia e gli infermieri deputati all'assistenza sanitaria, e spesso ciò esula inevitabilmente, ed in maniera più sensibile in carcere, dal ruolo codificato e definito da una divisa e da un camice bianco, finendo per coinvolgere aspetti personali più profondi e spesso emotivamente poco condivisibili, di non sempre facile gestione e comprensione. A tal riguardo diventa essenziale sottolineare l'importanza di migliorare la qualità della formazione professionale degli operatori che si trovano a lavorare ed a vivere questo tipo di relazioni, dove la naturale tendenza all'emarginazione della diversità assume caratteristiche così pregnanti ed inevitabilmente difensive.

Generalmente il trattamento comporta anche una terapia psicofarmacologica attentamente monitorata grazie all'osservazione clinica giornaliera ed all'analisi delle interazioni con il contesto.

La maggior parte dei casi ricoverati nel reparto P.O. di Rebibbia riguarda detenuti che, come abbiamo già detto, provengono da altri istituti penitenziari e che hanno presentato particolari disturbi psicopatologici. Ma al di là di un invio appropriato per un ricovero necessario ed inevitabile a causa di una chiara sintomatologia, risulta spesso evidente come gran parte dei ricoveri riguardi detenuti con disturbi di personalità non definiti né chiaramente manifesti che hanno messo in atto al carcere di provenienza tutta una serie di comportamenti recidivanti di tipo aggressivo, rivendicativo, autolesivo, con tendenza all'impulsività e conseguenti marcate difficoltà di rapporto interpersonale.

Naturalmente è comprensibile come siffatto comportamento provochi un notevole disturbo nelle sezioni cosiddette comuni del carcere, determinando insofferenza e conflittualità e inducendo esigenze custodialistiche di contenimento. A volte accade che un detenuto venga ricoverato nel nostro reparto per una concreta impossibilità di gestione del problema al carcere di provenienza, altre volte il ricovero psichiatrico viene quasi considerato un'ultima risorsa per il trattamento di un caso difficile e finisce per assumere nel vissuto emotivo del detenuto, e forse non soltanto per lui, un aspetto meramente punitivo e disciplinare. In questa prospettiva diventa probabilmente comprensibile ma non per questo giustificabile la necessità di repressione e di controllo, sottofondo perverso di una taciuta delega di responsabilità e di un rifiuto della presa in carico del problema. Considerazioni queste che purtroppo riecheggiano amaramente analoghe riflessioni riguardanti la realtà esterna al carcere, spesso ancora più incomprensibile e non sempre giustificabile.
Quando, all'ingresso in reparto, cerchiamo di conoscere i motivi e le cause che hanno determinato il ricovero, superando l'iniziale diffidenza e ritrosia del detenuto, arricchendo con audaci fantasie e colori più vivi nella nostra mente il linguaggio spesso freddo e scarno della cartella clinica che lo accompagna, in molti casi apprendiamo con tristezza e un pizzico di rabbia che quella persona é lì davanti a noi non perché presenti una chiara e forse grave forma di psicopatologia, ma piuttosto perché clamorosamente protestataria, rivendicativa, dimostrativa e plateale, quindi portatrice di un comportamento disturbante manifestato al carcere di provenienza. Ma forse a questo punto ci soccorre il pensiero, e non solo per un bisogno sottilmente polemico o provocatorio, che la psichiatria non può esimersi dall'operare proprio nelle fratture e nelle incomprensioni non solo della psicopatologia, ma anche nella discontinuità nel senso delle cose e dell'umano sentire .

Ebbene, è chiaro a tutti che se una protesta è immotivata ha poca forza e ragione di esistere, se il comportamento diventa così abnorme da essere contraddistinto in prevalenza da autolesionismo e minacce produce alla fine una risposta di rifiuto e di chiusura, se l'insofferenza al contesto è intollerabile scatena inevitabili conflittualità e difficoltà relazionali. Ma tale apparente disfunzionalità, pur esigendo soluzioni operative di argine o di contenimento richiede soprattutto volontà di comprensione e di ridefinizione, di flessibilità e di rigore, di responsabilità di presenza umana e di ruolo professionale.

Il fine dunque che cerchiamo di perseguire con fatica è inizialmente una ridefinizione della patologia psichiatrica e la sua relativa contestualizzazione all'interno dell'istituzione penitenziaria. Successivamente, ed è la cosa più difficile ma senza dubbio più costruttiva e feconda di risultati, diventa necessario promuovere il "trattamento" ed il "riadattamento" del detenuto cercando di sensibilizzare e di preparare soprattutto il contesto di riferimento (la sezione comune da cui proviene) rispetto ai bisogni ed alle esigenze dei detenuti e degli stessi operatori.
Se riflettiamo su alcuni concetti che inevitabilmente evoca l'idea di disturbo mentale, e cioè una condizione di non libertà o mancanza di libertà psicologica, la sensazione di non riuscire a disporre di sé e la mancanza concreta di possibilità di scelta, l'assenza di alternative e la sensazione di intrappolamento e di oppressione, vediamo bene come la condizione detentiva rievoca tali vissuti quasi in modo naturale, ricreando un clima emotivo che diventa poi drammatico se in carcere si presenta anche una situazione di disagio psicopatologico. Ecco allora che la psichiatria, anche all'interno del carcere, finisce in parte per svolgere un ruolo di controllo sociale che necessita quindi di maggiore consapevolezza e riconoscimento. E ciò significa, soprattutto in un contesto detentivo, esercitare tale funzione di controllo con maggiore vigilanza, e con intenti e metodi più democratici.

Questo compito di controllo, talora implicitamente connesso al ruolo terapeutico, così obbligante e vincolante, può diventare meno brutale e frustrante se acquisisce consapevolezza, responsabilità, tolleranza, rifiuto del conformismo e rispetto della dignità della persona. Un tempo infatti, in una visione datata e non più attuale, lo psichiatra sembrava più un consigliere quanto alla punizione che non un esperto quanto alla responsabilità dell'assistenza terapeutica. Ma ciò non riguarda forse un aspetto conflittuale e sempre presente connesso al ruolo dello psichiatra, alle sue valutazioni e decisioni sulle modalità di un intervento concepito per modificare, per reprimere o per curare?

Proprio in questa ambiguità ed in quest'area di crisi, dove il controllo si confonde con la cura e la repressione con l'assunzione di responsabilità, il ricovero psichiatrico a volte può diventare per il carcere una sorta di risorsa impropria e mistificante, ed il filo sottile della follia, della devianza, della povertà e dell'emarginazione, emergendo da un'attualità sempre presente e mai superata, può ripercorrere inesorabilmente la strada drammatica che dall'incapacità, attraverso la pericolosità e la difesa sociale, porta prevalentemente ad un isolamento di tipo custodialistico e manicomiale.
Questo rischio è sempre presente in un contesto chiuso come il carcere ed è fondamentale allora non solo esserne consapevoli, ma piuttosto impegnarsi in un lavoro di responsabilizzazione e di riconoscimento di limiti, per aprire e potenziare nuovi canali comunicativi, rimasti per troppo tempo sconosciuti o confinati in luoghi e tempi emotivi apparentemente inaccessibili.

Ciò può significare a volte conflittualità ed aperta discussione tra opinioni diverse e gerarchie rigidamente sovraordinanti, ma forse in questo caso diventa molto più utile e costruttiva una "collisione" di tal genere che non una "collusione" sottile, perversa e certamente infeconda.


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