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PSYCHOMEDIA
RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Trasgressione e Reclusione



Dubbi di confine

di Carlo Valitutti

(Relazione presentata al Congresso S.I.P.P. di Roma, 20-21 giugno 1996)



"...Correre sempre, per raggiungere un ideale sproporzionato alla mia persona, è diventato una cosa obbligatoria e non importa se sono diventato succube del menefreghismo della gente, ormai sono quasi abituato a questa vita così balorda. Loro non sanno come è facile chiudere gli occhi e immaginarsi una storia persa ma perfetta, senza troppe complicazioni, senza tante perturbazioni, ma soprattutto vivere una storia senza promesse. Conta tanto sapersi destreggiare con bravura in un luogo simile, dove la SOFFERENZA è il nostro cibo, dove la cattiveria è la nostra paralisi. la prigione è un luogo dove si è preda del tempo che fa di un uomo un animale, e lo porta al punto di tirar fuori i propri artigli ogni qualvolta la sottovalutazione vuole prendere il sopravvento. Brividi, battiti cardiaci, emozioni, sono queste le cose che mi fanno sentire vivo, sono queste le cose che mi rendono partecipe in questa vita; urlare e piangere nel silenzio della propria disperazione, illudersi, immaginare, fantasticare, sono queste le materie prime per non affogare..."

Le parole con cui ho iniziato questa relazione sono di un ragazzo conosciuto in carcere, luogo di confine, detenuto con imputazione di omicidio, giunto nel reparto di osservazione psichiatrica per disturbi del comportamento vissuti nelle cosiddette sezioni comuni. Ho perso le tracce del suo percorso giudiziario e detentivo, ma ho conservato dentro di me il ricordo del suo smarrimento esistenziale, della sua angosciante vitalità, della sua inconsapevole lotta tra il sentirsi solo sconfitto o irrimediabilmente perduto. E' una storia comune, dolorosamente possibile, piuttosto frequente da incontrare in un carcere, ancora più frequente poi in un contesto psichiatrico detentivo. Eppure, nell'attraversare con fatica vari territori della nostra vita e nel varcare questi o ben altri confini, si giunge in una zona all'interno di noi stessi solo apparentemente e volutamente oscura, che non possiamo non affrontare e non sentire come nostra unica e reale dimora.

La prima volta che entrai nel carcere in cui attualmente lavoro dovetti sottopormi a controlli ed attraversare cancelli e porte blindate per arrivare infine nel mio reparto.

Il tempo emotivo interno di questo percorso fu molto lungo, ed ancora oggi questa sorta di viaggio è per me simbolicamente significativa e sono felice della possibilità di condividere con voi ora questi dubbi e queste pregnanze emotive.

Le porte blindate ed i pesanti cancelli suggellano ineludibili distinzioni, e nella mia mente sembrano schiudersi su vissuti di seducente onnipotenza o di reale incapacità. La sofferenza e la malattia all'interno delle mura del carcere sembrano a volte acquisire altre sembianze oltre a quelle dolorose che siamo abituati a riconoscere e ad incontrare nel nostro lavoro. La patologia di confine o il confine della patologia, il limite contenitivo dato alla trasgressione, la forza sottilmente pervasiva della colpa e della pena, la posizione a volte poco chiara dello psichiatra che lavora in carcere, sono questi ed altri i dubbi e le riflessioni che dallo spazio confinato esterno valicano le frontiere intrapsichiche ponendo l'attenzione sul senso da dare al mio curare o al pretendere di farlo, sulla posiziona ambigua ereditata inevitabilmente dall'istituzione penitenziaria, sul desiderio di negazione e di indifferenza che sembra a volte difendere dalla fatica e dalla difficoltà di un impegno necessario e sostanzialmente diverso.

L'idea di confine rimanda non solo all'idea del limite del territorio geografico, spesso invalicabile e sconosciuto, ma evoca anche un'immagine di contiguità , di vicinanza, di ricerca, di conoscenza.
I confini distinguono, informano, stimolano la curiosità ma possono anche isolare, delimitare, segregare, allontanare, confondere. Invariabilmente, dunque, i confini mutano il loro aspetto e la loro essenza e inducono una riflessione continua riguardante il dubbio quasi ontologico di questa loro insita ed ineludubile ambivalenza.

Il carcere, comunità confinata che comporta una privazione di libertà come estremo rimedio, è spesso considerato l'espressione del controllo sociale sulle condotte devianti. Ma parlare di devianza significa anche aprire le porte al disturbo mentale, ed implicare inoltre un concetto di giudizio morale. Devianza significa spesso indesiderabilità sociale, opposizione di fatto al codice morale ed alle convenzioni dominanti. Il concetto di devianza può essere quindi anche normativo: è una violazione di norme considerate giuste, sane, morali ed è una violazione di interdizioni. Quando si parla dunque di normalità di una condotta ci si riferisce allora anche alla normatività che regola la vita della collettività, e cioè all'insieme di regole che presiedono alla vita del gruppo sociale. Esiste un'infinità di queste regole: dalle leggi chiaramente enunciate nella costituzione (es. le leggi dello stato, i codici, etc.) fino alle regole più o meno esplicite ed accettate, più o meno interiorizzate nella coscienza individuale, e che articolano e controllano la convivenza ed i rapporti interpersonali, ed i rispettivi ruoli sociali.

Esistono dunque regole precise, che evolvono anche nel tempo, ma che sono ben presenti ed operanti nei modi di agire e di sentire di ciascuno. Trasgredire queste regole significa introdurre quanto meno una dissonanza nelle relazioni. Le persone che fanno questo diventano dei devianti, non stanno al gioco sociale, tradiscono le aspettative riposte in loro dagli altri, si staccano dalla conformità, legata quindi in un rapporto complementare alla devianza. Il deviante suscita ansietà nel gruppo sociale alle cui regole non si uniforma e che può reagire tipicamente respingendo questo soggetto, stigmatizzandone la condotta o l'intera persona, emarginandola affettivamente o materialmente.

A maggior ragione quando poi trasgredire ha voluto dire oltrepassare il limite consentito anche dall'esperienza umana condivisa, compiendo delitti o gravi reati.
L'ambiente sociale, in quanto esprime delle norme che una persona con un comportamento deviante si trova a violare, esprime anche sempre delle sanzioni nei confronti del deviante. La società prende cioè formalmente o informalmente una serie di provvedimenti, spesso di tipo punitivo, che mirano a riportare il deviante all'interno di un comportamento cosiddetto normale, od a neutralizzarne le azioni, o ad emarginarlo più o meno radicalmente dal gruppo degli individui normali.

Una riflessione da fare poi è che la prigione, come luogo fisico di limitazione, argine e separatezza, ripropone evocativamente un altro tipo di prigione, quella del sintomo, il vincolo a volte inestricabile dell'incapacità di elaborare il proprio disagio di vivere e di soffrire. Ma ciò che essenzialmente inquieta è la possibile e temibile coesistenza di ragione e follia, di apparente integrità intellettuale e rovinosa caduta della volontà e dei sentimenti, di autoconsapevolezza e smarrimento affettivo, di libertà della ragione e schiavitù delirante della passione. Il confine a volte sottile e spesso fuorviante di questa ambigua e perturbante duplicità sollecita allora un dubitare che può però diventare uno strumento stesso di conoscenza. Ma tutto questo non è affatto semplice.

Quando l'ultimo cancello si chiude dietro di me e riesco a non fidarmi troppo della mia presunta e desiderata quanto illusoria normalità , evitando così il rischio di rendere incolmabile la distanza che mi separa dall'altro, alcuni dubbi mi vengono in mente, e sento il confine diventare fumoso ed evanescente. Il confine tra integrità e frammentazione, tra colpa e consapevolezza, tra pena e punizione, tra responsabilità e destino, tra cura impossibile e dovere istituzionale, tra sofferenza e malattia, tra fare e pensare, tra coinvolgimento empatico e processi di identificazione, tra somiglianza e differenziazione.

Ancora di più in carcere, nel nostro lavoro psichiatrico, emerge la necessità di ricostruire una storia, e non solo del sintomo in apparenza indecifrabile, bensì dell'intera persona in tutta la complessità del suo sviluppo evolutivo.
Ancora di più in carcere, dove il ruolo di controllore sociale bussa prepotentemente alla porta per entrare e sancire di autorità e di rispetto il potere solidale della norma costituita, lo psichiatra si confronta quotidianamente con il proprio fantasma, il malato di mente ed in più trasgressore colpevole, il suo doppio perturbante che promuove un doloroso sentimento di estraneità ed insieme di risposte difensive che influenzano decisamente, e spesso del tutto inconsapevolmente, il nostro stile di relazione ed il nostro apparato istituzionale di riferimento.

Chi lavora in carcere conosce bene la mole ponderosa, all'inizio incompresa e poi accettata con inevitabile rassegnazione, di trascrizioni interminabili su svariati registri, di certificazioni spesso ridondanti, di relazioni sanitarie richieste dai magistrati per esigenze processuali, anch'essi poi alla fine vissuti come figure istituzionali piuttosto che come persone desiderose semplicemente di conoscere e di sapere per obblighi lavorativi e sociali, seppure profondamente individuali.

Ecco allora che forse è necessario un confronto più rigoroso e meno rapido con i temi dell'intrapsichico e dell'intersoggettivo, proprio quando lo psichiatra lavora con soggetti e persone detenute all'interno di un carcere, dove i confini della sofferenza e del rispetto si fanno sempre più labili, e proprio per questo allora da rinforzare periodicamente ed adeguatamente con responsabilità e consapevolezza.

Per quanto difficile da stabilire e da mantenere, almeno ad un'osservazione superficiale, anche all'interno di un carcere lo psichiatra non può e non deve allontanarsi dal contesto fondante della relazione clinica, ancorché priva inizialmente di momenti riflessivi. Spesso accade infatti che il lavoro clinico nel carcere corra il rischio di appiattirsi in una sorta di routine terapeutica, dove i linguaggi diventano sbrigativi e superficiali, le descrizioni si fanno sommarie, le risposte fornite saltano invariabilmente dal sintomo allo psicofarmaco, con spiegazioni falsamente rassicuranti di una realtà ben più complessa e sfuggente.

E' doloroso poi dover ammettere che la conseguenza inevitabile di tutto questo può essere proprio la sparizione di un soggetto che faccia da interlocutore adeguato alla sofferenza psichica del paziente- detenuto, ed allora scompare l'ascolto, l'accoglimento, il prendersi cura, aspetti relazionali così caratteristici ed essenziali del nostro essere semplicemente terapeuti.

Spesso lavorare in carcere significa occuparsi di persone respinte prima dalla società, e poi dal carcere stesso quando la loro capacità di convivenza è entrata in crisi. lo psichiatra allora non può respingere ulteriormente il deviante perché rappresenta per lui un baluardo estremo, un argine terapeutico e conoscitivo ed anche il punto di incontro in cui il sistema sociale ed i circoli viziosi che hanno contribuito a creare la follia e la devianza si aprono alla comprensione ed alla ricerca.

D'altra parte, soprattutto all'interno del carcere, lo psichiatra non può disconoscere l'ineliminabile funzione di controllo insita nel suo ruolo sociale. Non accettarne la responsabilità potrebbe allora tradursi nell'esercitare un controllo senza la necessaria consapevolezza di stare svolgendo un ruolo delicato e difficile, un ruolo che ha bisogno di tutta la responsabilità terapeutica di cui possiamo essere capaci, per evitare di incorrere così in meccanismi perversi di delega o di rifiuto.

Il carcere rappresenta di per sé una sorta di frontiera, un territorio difficile in cui sembrano esasperarsi emozioni già provate, frustrazioni già vissute, speranze ed illusioni mai abbandonate.

Ogni volta che il cancello si chiude dietro di me sento il peso ed il valore di questa accentuazione di significato e la difficoltà del mio agire.
La psichiatria si occupa di crisi e destrutturazioni che comportano la rottura di un quadro sociale, personale e insieme culturale, ed il carcere costituisce, in maniera drammaticamente simbolica e concreta, una difficile frontiera dove lo spazio culturale e quello istituzionale stabiliscono l'ordine di osservabilità dei fenomeni, l'orizzonte delle spiegazioni ed interpretazioni possibili, ed inoltre le condizioni di destrutturazione dell'esperienza e le possibilità riordinatrici del sistema.

Questo spazio di lavoro, questo luogo sovraordinato e subordinato gerarchicamente, altera inoltre e modifica inevitabilmente le nozione di setting e di contesto, o per meglio dire crea un contesto diverso, in cui si lavora quasi per definizione nelle fratture, nelle disomogeneità, nelle diversità, che generano turbolenza, attrito, devianza rispetto al quadro culturale e sociale esterno.

In carcere avvengono impercettibili ma a volte sostanziali trasformazioni, di persone, di pensieri, di concetti di emozioni. Anche l'osservazione clinica non può mantenere invariate le stesse caratteristiche che assume all'esterno di queste mura. Il setting stesso, la cornice che racchiude il testo del nostro discorso terapeutico, in carcere diventa ancora di più un dispositivo di contestualizzazione, che permette di definire meglio le figure che vivono al suo interno, il senso delle parole, il significato della relazione, e questo a sua volta poi influenza la comunicazione orientandone forma e contenuti.
L'incontro con il paziente-detenuto allora, non può non essere collocato, anche se solo mentalmente, in un setting specificamente orientato e significativo sul piano relazionale. In carcere però è difficile ricreare situazioni di particolare intimità terapeutica; esistono esigenze e necessità di sorveglianza e di controllo, spesso i colloqui si fanno a porta aperta, a volte alla presenza del personale di polizia penitenziaria, o in stanze dotate di vetri alle porte o alle pareti per poter guardare all'interno.

Questo spazio di incontro terapeutico, già di per sé appartato e tendenzialmente isolato dallo spazio sociale e culturale esterno, non può che essere ancora più relativo in carcere dove, paradossalmente, diventa poi più realizzabile un isolamento massiccio determinato dal reato e dalla pena.
La "solitudine in presenza di qualcuno", come usava dire in modo così suggestivo Winnicott, che garantisce la possibilità di appartarsi nell'entrare in relazione con se stessi e con l'altro, in carcere può diventare addirittura una dolorosa condizione di vita, una sorta di necessità difensiva non sempre consapevole e per questo non sempre feconda.

Quando l'ultimo cancello si chiude, la mia mente a volte e catturata da momenti di stanchezza e dal fascino sinuoso di un dubbio, che anche questo cammino verso la consapevolezza e la responsabilità accentui forse l'impotenza e la frustrazione, soprattutto in chi deve imparare dalla trasgressione e dalla pena.

Per questo vorrei poter incontrare ancora quel ragazzo di cui ho fatto cenno all'inizio, parlargli dunque più a lungo di convinzioni e di speranze e non solo di dubbi; vorrei potergli dire che il percorso conoscitivo della responsabilizzazione ne e della consapevolezza è un percorso essenziale, forse quasi obbligato, seppure doloroso ed apparentemente impossibile, e non è un sogno.

Lui infatti scriveva: "...Tante volte cerco di ignorare la situazione che si è creata intorno a me, ma dura pochi istanti, perché la realtà riesce sempre ad abbattere qualsiasi muro, a far crollare tutti i sogni, piccoli e grandi..."

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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M. Foucault SORVEGLIARE E PUNIRE Einaudi, 1976
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R. Porter STORIA SOCIALE DELLA FOLLIA Garzanti, 1991
G. Di Gennaro, M. Bonomo, R. Breda ORDINAMENTO PENITENZIARIO E MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE Giuffré, 1987


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