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PSYCHOMEDIA
RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Scuola e Istruzione



Il modello delfico

di Alessandra Ginzburg

(articolo tratto da "Cooperazione Educativa", 2/96, La Nuova Italia, 1996)



Di questi tempi colpisce sempre di più, nell'incontro analitico con gli adolescenti, la mancanza diffusa dell'esperienza di una figura di riferimento adulta che ascolta ed aiuta a porsi delle domande su di sé e sul proprio incontro con gli altri. Nella relazione con i genitori e gli insegnanti indubbiamente pesano le incertezze che travagliano gli interlocutori stessi deputati a questo compito o il loro rifugiarsi in eccessive certezze che non lasciano spazio sufficiente alle questioni fondamentali che l'adolescente si trova ad affrontare nel corso del travaglio fisico e mentale che giustamente è stato paragonato a una seconda nascita.

Così spesso è il gruppo dei coetanei a costituire l'unico punto di appoggio, almeno fino a quando il malessere non si fa troppo acuto ed evidente e capita allora allo psicoanalista di trovarsi a vicariare una particolare funzione educativa che non è stata svolta né dalla famiglia né dalla scuola, quella che altrove ho suggerito di chiamare educazione "alle" emozioni piuttosto che educazione "delle" emozioni.

La pedagogia, d'altronde, nonostante sia passato un secolo dalle prime, rivoluzionarie scoperte di Freud sul funzionamento della psiche, continua a prescindere dalle acquisizioni introdotte dalla psicoanalisi e a servirsi di modelli cognitivi in cui il rapporto fra emozione e pensiero è completamente ignorato e manca a tutt'oggi un'ipotesi globale che tenga conto significativamente della presenza dell'Inconscio in tutte le sue molteplici forme di espressione.
Concetti cruciali relativi alla distinzione necessaria fra sensazioni, emozioni e pensieri, oppure alla conflittualità insita nella relazione mente - corpo o ancora alla modalità con cui la mente si libera, evacuandole o negandole, delle frustrazioni dovrebbero far parte del bagaglio culturale di ogni educatore così come un atteggiamento di ascolto verso "tutti" i contenuti emotivi, interamente scevro da giudizi moralistici dovrebbe aiutare il bambino e l'adolescente ad avere attenzione e rispetto per i propri e gli altrui pensieri.

Perché questo è l'ostacolo principale alla conoscenza, a "qualunque" forma di conoscenza : la qualità negativa di relazione che si stabilisce a livello intrapsichico nei confronti della propria persona, sia per ragioni attinenti ad esperienze patologiche che hanno provocato nell'individuo il costituirsi di modelli e teorie poco funzionali, sia per la necessità di supplire alle carenze ambientali e di procurarsi in questo modo una forma precaria di coesione e di identità attraverso una funzione interna che finisce inevitabilmente, proprio per la sua origine primitiva ed autarchica, per assumere i connotati rigidi e punitivi di un genitore troppo severo o di un giudice spietato.

Accade così che la scoperta della propria fragilità, l'esperienza dell'intensità delle emozioni, la paura di crescere diventino occasione di attacchi intrapsichici - siano essi macroscopici, sotto forma di voci imperative, o più sotterranei e capillari ma proprio per questo ancora più subdoli - che danno luogo a sintomatologie preoccupanti oppure ad inibizioni gravi dell'apprendimento, quando non vanno ad impedire la possibilità stessa di stabilire delle relazioni. La complessità dello sviluppo fisico e mentale che a partire dalla nascita impegna l'individuo in una continua ricerca di nuovi assetti e nuovi equilibri richiede, invece, la costituzione all'interno della mente di una funzione preposta al sostegno di sé in grado di sviluppare curiosità e tolleranza verso i contenuti mentali, funzione che solo un adeguato modello esterno di ascolto e di "reverie" permette di strutturare.

E' questo, quasi sempre, il compito principale di un lavoro analitico : promuovere la consapevolezza di sé, dei propri bisogni e desideri come premessa alla conoscenza degli altri, che è immancabilmente ostacolata e deformata dalle paure e dalle confusioni operate fra se stessi e il mondo esterno in ragione di ferite e aree di fragilità che nessuna terapia potrà mai completamente cancellare, e che a volte, sotto l'apparenza di prevedibili insicurezze celano ben più gravi conflitti interiori.

E' questo il motivo, a mio parere, per il quale sia l'educazione che la psicoanalisi dovrebbe rivisitare il modello delfico illustrato da Platone attraverso la persona di Socrate, tornare cioè a porsi con forza la necessità di conoscere se stessi come unica vera forma di sapienza che consente di avere cura di sé e di regolarsi con gli altri.
Nell' "Alcibiade Maggiore" la cura di sé è assimilata all'arte con cui ci si rende migliori, che discende a sua volta dalla conoscenza di sé : "Conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere". Ma come si trova questo se stesso? Il percorso socratico di questa domanda conduce alla necessità di specchiarsi, così come accade all'occhio, nella parte migliore di chi svolge la funzione educativa: "...L'anima, se vuole conoscere se stessa, deve guardare nell'anima e soprattutto in quella parte dell'anima in cui sorge la virtù dell'anima, la sapienza...".

Per l'educatore come per lo psicoanalista la responsabilità è dunque immensa, in quanto esige la capacità di accompagnare il cammino verso la conoscenza di sé tenendo sempre ben presente l'altro pilastro fondamentale del modello delfico: è chi apprende a contenere la propria potenziale conoscenza, che va aiutato a ritrovare dentro di sé attraverso la proposizione di domande accurate quanto rispettose, perché colui che sa, sa soltanto di non sapere.
E anche qui altri modelli di Platone ci vengono in aiuto. L'educatore, così come lo psicoanalista, deve somigliare alla levatrice, che spiega Socrate nel "Teeteto", un tempo deve essere stata feconda, pur se ormai non più in età di partorire, ma non sterile "perché la natura umana è troppo debole per acquisire un'arte relativa a ciò di cui non si abbia esperienza". Come a dire che la cura dell'altro deve avvenire senza l'interferenza di una troppo narcisistica creatività personale, ma mettersi al servizio di quella nascente del soggetto utilizzando la propria per mettere alla prova il pensiero dell'altro e valutare "se partorisce un fantasma ed una falsità, oppure un che di vitale e di vero", perché osserva Socrate, "Il dio mi costringe a far da levatrice, ma mi ha proibito di generare".

Ancora, educatore e psicoanalista possono essere assimilati nella loro funzione alla torpedine marina evocata nel "Menone", che "fa intorpidire chi le si avvicina e la tocca", ma solo a patto insiste Socrate, che "essendo essa stessa intorpidita, nello stesso modo fa intorpidire gli altri", a sottolineare la necessità per chi fa dubitare gli altri deve essere in prima persona sollecitato permanentemente a dubitare, cioè a porsi gli stessi quesiti che sollecita nell'interlocutore.

La capacità dell'educatore di rispettare i tempi e le necessità dell'"allievo" è proposta con forza ed esemplare lucidità anche da un saggista-filosofo come Montaigne, che nei suoi "Essais" si può dire abbia posto le basi del pensiero moderno per quanto riguarda la libertà di pensiero, l'osservazione spregiudicata dei costumi e la tolleranza nei confronti della diversità.
Nei capitoli dedicati in modo specifico all'educazione, intitolati rispettivamente "Della pedagogia" e "Dell'educazione dei fanciulli", un'attenzione costante è rivolta all'ascolto ("non si smette mai di blaterare nei nostri orecchi come si versa in un imbuto"), all'elaborazione autonoma delle nozioni ("Le api saccheggiano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro ; non è più timo né maggiorana..."), al valore dato all'esperienza ("tutto quello che si presenta ai nostri occhi serva sufficientemente da libro"), al confronto con usi e costumi diversi ("per sfregare e limare il nostro cervello contro quello degli altri"), all'importanza di una relazione armonica fra mente e corpo ("Non è un'anima, non è un corpo che si educa : è un uomo, non bisogna dividerlo in due") e all'investigazione della struttura della personalità ("quali impulsi ci muovono e le ragioni di moti così diversi da noi"), per concludere che la scienza nasce dal desiderio e dall'amore e per far bene, "bisogna non solo riporla in sé, bisogna sposarla".

Ma è soprattutto con noi stessi, propone Montaigne, che ci dobbiamo sposare, per non dipendere in misura eccessiva dagli affetti e temere la morte, imparando a tenerci compagnia in quel retrobottega del tutto indipendente della mente nel quale "stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine", che ognuno dovrebbe avere a disposizione in quanto "la più grande cosa del mondo è essere per sé".
Essere per sé, naturalmente, non significa votarsi all'isolamento e all'egocentrismo, ma dare alla mente lo spazio che le è necessario per svilupparsi ed entrare in relazione con gli altri senza confondersi con essi come avviene quando non si è in grado di operare distinzioni chiare fra le proprie e le altrui necessità.

Ed in campo psicoanalitico è allora Bion il pensatore ad avere stabilito con maggiore coerenza un filo implicito che collega educazione e psicoanalisi attraverso quel modello che ho chiamato "delfico" per rimarcarne la specificità, in particolare nel suo testo intitolato "Discussioni con Bion", dove si chiede: "Perché non si può avere una relazione direttamente con se stessi senza l'intervento di una specie di levatrice mentale o fisica? pare che abbiamo bisogno di rimbalzare su un'altra persona, di avere qualcosa che rifletta indietro quello che diciamo prima che esso possa diventare comprensibile".
Il matrimonio con se stessi di cui parlava Montaigne, diventa in Bion matrimonio fra pensieri e sentimenti, che richiede a volte il bisogno di essere "presentati a noi stessi" quando la conflittualità interna ci impedisce di incontrarci, ma che trova un primo fertile terreno nell'esperienza educativa quando la scuola riesce realmente ad essere occasione di domande e non gabbia costrittiva di risposte o, come la definisce Montaigne, "un vero carcere di gioventù prigioniera".

Un quesito e una proposta quella enunciata da Bion che, come altrove ho avuto modo di osservare, accomuna e rimanda l'una all'altra in una speculare responsabilità educazione e psicoanalisi: "Di questo ci convinciamo a fondo tutti noi che abbiamo dei bambini che speriamo di educare. Che cosa dobbiamo fare? Sembra che l'unica cosa o quasi non sia tanto quello che dobbiamo "fare", ma che cosa dobbiamo "essere".

BIBLIOGRAFIA
Ferrari, A.B., Adolescenza . La seconda sfida, Borla, 1995.
Ginzburg, A., Educare le emozioni o educare alle emozioni, in "Psiche", vol. 1, 1995.
Platone, Alcibiade Maggiore, 132d, in Dialoghi, Rusconi, 1991.
Platone, Teeteto, 149b, e seguenti.
Platone, Menone, 80a, e seguenti.
Montaigne, Saggi, Adelphi, 1966.
Bion, Discussioni con Bion, Loescher, 1984.
Ginzburg, A., Psicoanalisi ed educazione : la ricostruzione di un percorso di ricerca, in "Psiche", vol. 1, 1993.

ALESSANDRA GINZBURG è psicoanalista della Società Italiana di Psicoanalisi.
Dal 1972 lavora nel gruppo romano MCE. Dal '76 all'84 è stata consulente psicopedagogica del Comune di Roma.


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