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PSYCHOMEDIA
ARTE E RAPPRESENTAZIONE
Cinema



Il solista

di Ignazio Senatore

Clinica Psichiatrica – Università “Federico II” di Napoli

2005. Steve Lopez (Robert Downey Jr.), giornalista di successo del Los Angeles Time, e reduce da un incidente in bici che gli ha quasi sfigurato il volto, è a corto di idee e non ha nessuna storia da proporre ai lettori. Un giorno s’imbatte per caso in Nathaniel Ayers (Jamie Foxx), un bizzarro musicista nero, fuori di testa, che suona per strada le struggenti note di Beethoven con un violino dotato di due corde sole. Incuriosito dal personaggio Lopez scopre che Nathaniel, prima di diventare un clochard, aveva frequentato una prestigiosa scuola di musica (dove suonava il violoncello) ma poi affetto da una grave forma di schizofrenia, aveva abbandonato gli studi. Inevitabilmente, Steve, finisce per essere rapito dal fascino di questo dolente barbone. Da una storia vera.

Chi lo sa se Steve Lopez, l’autore dell’omonimo romanzo, pubblicato nel 2008, a cui il regista Joe Wright si è ispirato, abbia letto o meno Il contrabasso di Patrick Suskind, pubblicato nel 1984. In quel piccolo monologo lo scrittore bavarese descriveva perfettamente la psicologia di chi (non a caso) sceglieva di suonare il contrabasso, uno strumento ingombrante e poco maneggevole che gli garantiva, però, la possibilità di starsene nascosto, in fondo all’orchestra, al riparo dai fastidiosi, penetranti ed indiscreti occhi degli spettatori.

Perché questo fugace riferimento all’opera breve di Suskind? Perché, in nuce, mostra già le caratteristiche psicologiche di chi, come Nathaniel Ayers (che nel film, in verità, suona il violoncello, strumento leggermente più piccolo del contrabasso) ha un’anima chiaramente tendente alla chiusura, all’introversione ed all’isolamento.

Messi, momentaneamente, da parte le considerazioni sulla psicologia del singolare, talentuoso e fragile musicista protagonista della pellicola, é indubbio che questo film meriti più di una considerazione. La vicenda è di quelle che ti affascinano, ti prendono e ti coinvolgono emotivamente eppure, dopo la visione della pellicola, ti senti ribollire dentro un misto di delusione e di scontentezza, di commozione e di partecipazione, di rabbia e di s-(concerto). Da una parte sei, infatti, portato ad identificarti con le sofferenze dell’infelice musicista, dall’altro, razionalmente, ti sorge il sospetto che regista, sceneggiatrice e produttore abbiano proposto un’operazione studiata a tavolino e puntato smaccatamente al botteghino (la sofferenza mentale si sa, è un tema che hai suoi estimatori, attrae sempre frotte di spettatori ed attira come il miele gli immancabili premi e riconoscimenti).

Sin dalle prime battute, il regista gioca però a carte scoperte e mostra Nathaniel, un musicista di talento che ha frequentato la Juilliard School, una delle più celebri e prestigiose accademie musicali degli Stati Uniti, ma che conduce, da tempo, una vita da clochard, trascinando per le vie di Los Angeles il suo inseparabile carrello, pieno zeppo di oggetti inutili, su cui sventola l’immancabile bandiera a stelle e strisce. Il regista non strizza l’occhio al pluripremiato Shine diretto da Scott Hicks e si tiene alla larga dalla spettacolarizzazione della follia. Non compaiono, infatti, nel corso della vicenda, eventi traumatici ed altri elementi drammatici che fanno luce sul perché il geniale musicista sia diventato uno schizofrenico cronico, sommerso da allucinazioni uditive, irrimediabilmente soffocato dai propri fantasmi e completamente disorganizzato da un punto di vista cognitivo. Wright non strizza l’occhio ai fazzoletti, non vira sul pietismo e sulla compassione e fa di tutto pere rendere quasi “anonimo” questo folle musicista, al quale non regala nessun palpito d’amore, né un ricordo ingiallito. E forse uno dei meriti maggiori della pellicola risiede proprio in questo voler rendere, a tutti i costi, “incolore” questo sfortunato protagonista, abbandonato da tutti, tranne che dalla premurosa sorella, trasferitasi poi negli anni in una lontana città.

Messi da parte, dubbi e sospetti iniziali, ad una più attenta osservazione, appare evidente che al regista interessa più la figura di Steve, un giornalista profondamente in crisi, alla ricerca disperata in qualcosa in cui credere, separato dalla moglie Mary (una fulgida e troppo sacrificata Catherine Keener), sua collega al giornale e padre di un figlio adolescente con il quale non ha rapporti da anni.

Senza calcare la mano, il regista descrive Steve come un uomo spento, demotivato, alla ricerca di un proprio equilibrio. L’incontro con Nathaniel diviene per lui l’occasione per riprendere contatto con le proprie emozioni ormai silenti e, dopo aver visto nel suo volto l’estasi di chi si lascia trasportare dalle sonate di Beethoven, commosso, all’ex moglie confida: .“Io non ho mai amato niente nel modo con cui lui ha amato la musica” Accecato dall’idea di offrire una via d’uscita a quello stralunato personaggio, convinto che Nathaniel possa facilmente lasciarsi alle spalle deliri ed ossessioni, lo strappa dalla strada, ottiene per lui un alloggio soddisfacente e, testardamente, gli organizza un piccolo concerto dove esibirsi in pubblico. Sul finale, Steve, sarà costretto a fare i conti con la cruda realtà, ad accettare, con disincanto, la malattia che ha devastato la mente di Nathaniel ma sceglierà di rimanergli accanto come amico. Un finale amaro, quindi, diverso da quelli a lieto fine, lontano mille miglia da quello consolatorio di Scott Hicks e da quelli a cui ci ha abituato una certa cinematografia hollywoodiana.

Una pellicola ricca di ombre e di luci e che, hai suoi limiti più che nello script, in una regia troppo scolastica, didascalica ed indolente che punta troppo spesso la mdp sul volto estasiato del protagonista mentre intona Beethoven. Un film che mostra, impietosamente, l’altra faccia dell’american Dream e che lascia trasparire in controluce il dramma di migliaia di senza tetto che pur vivendo nella nazione più opulenta del continente, si trascinano nella miseria, dimenticati da tutti. Calda ed avvolgente la fotografia di Seamus McGarvey. Convincenti Robert Downey Jr e Jamie Foxx


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