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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Psicologia e fotografia


Lo sguardo dentro

Antonello Turchetti


La follia una condizione umana.

In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione.

Il problema è che la società per dirsi civile,

dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia,

invece, incarica una scienza, la psichiatria,

di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla.

Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere.”

(F. Basaglia)

 

ll 13 marzo 1978 entra in vigore la Legge 180, più comunemente conosciuta come Legge Basaglia, che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio. Essa fu una vera e propria rivoluzione culturale e medica, basata sulle nuove (e più “umane”) concezioni psichiatriche, che sostituivano il manicomio, struttura totalizzante, dove si applicava ogni metodo di contenzione e pesanti terapie farmacologiche e invasive oltre allo stesso elettroshock, con la riduzione del contenimento fisico e delle cure farmacologiche e con l'instaurazione di nuovi rapporti umani con il personale e con la società riconoscendo i diritti e la necessità di una vita di qualità per i pazienti.

Come fotografo ho sempre scelto di raccontare, attraverso la realtà oggettiva, lo sguardo soggettivo delle persone, raccontando le loro storie, le loro intimità cercando di trasformare il quotidiano di una vita, spesso considerato banale, in un archetipo emotivo, nel quale ritrovarsi.

A questo punto la fotografia e la psichiatria e per meglio dire la malattia mentale si sono incrociate, dapprima senza riconoscersi, per poi divenire oggetto e soggetto di questo mio progetto.

Joseph Nicephore Niepce, al quale viene attribuita l'invenzione della fotografia, nel 1816 realizza la sua prima eliografia. Da quel momento la fotografia si sviluppa sia a livello tecnico che nel tessuto sociale entrando, quindi, anche all'interno dei manicomi.

La fotografia perseguitò i matti. Peggiorò la loro segregazione.

Come tutti gli oggetti e i saperi coinvolti nel funzionamento dell'istituzione totale anche la fotografia della follia fu uno strumento totalizzante, oppressivo.

In un articolo di Arrigo Tomassia, tratto dalla Rivista Sperimentale di Freniatria (1878) viene scritto: << Abbiamo introdotto la fotografia nel nostro manicomio, per fissare a permanenza le fisionomie dei nostri malati nelle varie fasi della loro malattia, allo scopo di costituire un elemento di studio per la semeiotica delle malattie mentali. Noi abbiamo già raccolto un bel numero di fisionomie veramente tipiche, da costituire un album dei più nuovi ed interessanti. Le negative si moltiplicano stragrande, e la scienza sorride a questo nuovo bottino. >>.

La fotografia si fa breccia rapidamente all'interno dei manicomi, quasi che la scienza della mente deviata non aspettasse altro che il suo strumento mancante: l'unico in grado di offrire ai medici della psiche, ancora incerti sulla consistenza e i metodi della loro disciplina, qualcosa di paragonabile a ciò che per i colleghi del corpo era l'anatomia. La fotografia diventa specchio che preleva la pazzia dal pazzo e la mette, in modo inoffensivo sul tavolo del medico aumentando il “salutare distanziamento” dal malato. Per assurdo la fotografia guadagna la sua libertà dalle “bugie” del ritratto borghese proprio all'interno del luogo dell'assoluta “illibertà”.

Con l'affermarsi della moderna psichiatria diminuisce la fiducia nella diagnosi fotografica della patologia, ma la fotografia rimane nell'istituzione totalizzante e da “aiuto medico” diventa “sorvegliante”. I pazienti vengono fotografati in modo asettico e si perde, quindi, la funzione di radiografare la mente; l'immagine fotografica diventa un banale strumento di riconoscimento rapido.

Negli anni '60 - '70 la fotografia inizia a liberarsi di quel marchio d'infamia , diventando, invece, strumento di liberazione. Le immagini pubblicate, e prive volutamente da ogni estetismo, scuotono la coscienza pubblica, puntando direttamente al cuore dell'emozione. Diventando per Basaglia strumento per usare l'istituzione contro sé stessa e aprire le porte di quel contenitore, azzeratore di identità.

Durante quegli anni, precisamente nel 1969, viene pubblicato il reportage Morire di classe, voluto fortemente dallo psichiatra aretino e curato da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati. Le immagini sono fortissime, per la prima volta viene dato accesso ai fotografi di documentare le reali condizioni dei manicomi e ne esce fuori il ritratto di solitudini senza scampo, di corpi vuoti abbandonati, di occhi persi lasciati a seguire fili dispersi nel vento.

Dopo la Legge 180, la fotografia diventa critica di sé stessa e cerca di abbandonare lo stereotipo di rappresentare la malattia mentale, ingabbiandola in una griglia di compassione. Diviene la fotografia del “dopo Basaglia”, occhio attento che ha seguito le tortuose strade di una riforma che rivelato i suoi affanni e incontrato non pochi ostacoli.

La fotografia racconta le vite di questo “sciame di naufraghi” dispersi, mescolati nel mondo.

Questo un breve sunto storico di come la fotografia si sia adattata, a volte prestata al servizio della psichiatria e delle sue metamorfosi.

La fotografia, quindi, può essere utilizzata anche in un rapporto diverso con la psichiatria e la malattia mentale, trasformandola in uno strumento di ribellione e di libertà attraverso il quale il “matto” può esprimere la sua realtà e il suo modo di vedere il mondo.

Fotografare, quindi, come strenua affermazione del proprio essere, del proprio esistere in quanto individuo, al di là di ogni stigma e di ogni categoria sociale imposta. Le immagini, così, diventano spazio di comprensione e di elaborazione che può essere d'aiuto nella ricerca di una nuova modalità d'integrazione tra il proprio mondo interiore e il mondo relazionale esterno.

Diane Arbus, la grande fotografa dei “mostri”, sosteneva: << La fotografia è un segreto attorno a un segreto: quanto più ti dice, tanto meno riesci a capire. C'è sempre una differenza tra quello che vogliamo si sappia di noi e quello che non possiamo evitare si sappia di noi; la differenza tra l'intenzione e l'effetto. La fotografia intacca la superficie uniforme della cosiddetta “realtà oggettiva”, frantumandola in una miriade di tasselli minuscoli, di sguardi unici. Laddove non c'era niente, ora c'è una foto, e quello che sarebbe passato senza lasciar traccia di sé ora imprime con il peso della memoria un supporto materiale potenzialmente eterno (grazie proprio alla spinta emotiva che ha portato il fotografo a scattare proprio lì proprio in quell'istante, attraverso gli occhi della propria singolare interiorità. Laddove c'era un vuoto di senso, ora c'è l'interpretazione che di quel vuoto ha fatto una singola persona. Ogni foto proprio per questo diventa un segreto elevato a potenza. >>.

Fotografia e Linguaggio

La fotografia è la tecnica di comunicazione più popolare, soprattutto per l'apparente facilità d'esecuzione e questo è contemporaneamente la sua forza e il motivo della diffidenza nei suoi confronti. Essa, per un prodotto intellettuale che viene quotidianamente fruito, spesso inconsciamente, tramite giornali, libri, pubblicità e spesso in un incontro-scontro con immagini restituite di persone e oggetti che ha determinato un nuovo modo di leggere, ma anche un nuovo modo di vedere; il bisogno di vedere la realtà confermata attraverso la fotografia una forma di consumismo estetico al quale tutti sono ora dediti.

Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmè diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia.

<< A mio parere _ dichiarava Zolà (massimo ideologo del realismo letterario e fotografo dilettante) _ non si pusostenere di aver visto veramente qualcosa finché non lo si è fotografato. >> e, secondo Moholy-Nagy << L'illetterato del futuro sarà colui che conoscerà l'uso della macchina fotografica come quello della penna. >>. Una profezia che si realizzata nel rapido evolversi nella nostra società, di una cultura che sempre più necessita di dialogo; un colloquio che la fotografia (l'immagine) consente in gran misura grazie alla sua universalità ma soprattutto per la sua capacità congenita di moltiplicarsi e diffondersi.

Il pittore costruisce, il fotografo rivela. In altri termini, l'identificazione del soggetto sempre alla base della percezione della fotografia, cosa che non avviene necessariamente per un quadro. È infatti nella natura della fotografia l'impossibilità di trascendere del tutto il soggetto, come invece può fare un quadro. E non può neanche andare oltre il visuale, cosa che in un certo senso è l'obiettivo supremo della pittura modernista.

La fotografia un linguaggio, prima ancora di essere una tecnica o un arte, che gode della più ampia e autonoma capacità comunicativa, con leggi grammaticali e sintattiche che lo caratterizzano e differenziano da altri media espressivi. Il linguaggio della fotografia si esprime soprattutto attraverso la scelta che il fotografo compie nella realtà utilizzando i caratteri specifici della sua attitudine rappresentativa, sintetizzabili nella facoltà di esaminare e descrivere l'oggetto attraverso anche una lettura del dettaglio e di congelare la situazione dinamica, labile dell'evento in una dimensione bidimensionale che ne il risultato. L'immagine appare come un'integrazione della parola. Diventa dichiaratamente un linguaggio non verbale. La comunicazione figurativa fotografica si riferisce sempre e soltanto a una realtà specifica che può anche essere radicalmente trasformata, ma che comunque esiste all'origine della produzione dell'icona. La macchina fotografica rende la realtà atomica, maneggevole. È una visione del mondo che conferisce ad ogni momento il carattere di un mistero, pur negandogli una certa continuità.

Ogni fotografia ha una molteplicità di significati. Fotografare significa attribuire importanza anche e soprattutto a ciò che ognuno vede e trascura, ritenendolo troppo banale.

Susan Sontag parla di eroismo della visione nel senso che la fotografia ha aperto una nuova forma di libera attività dando modo a ciascuno di manifestare la propria sensibilità personale.

Questa visione fotografica ha portato ad un'inevitabile ri-scoperta della bellezza. Il bello ciò che l'occhio non può vedere (o non vede). Nessuno ha mai scoperto la bruttezza tramite le fotografie, ma molti, tramite le fotografie, hanno scoperto la bellezza. Ciò che induce la gente a fotografare è l'aver trovato qualcosa di bello (il nome che Fox Talbot utilizzò per brevettare la fotografia fu calotipo dal greco kalos che significa appunto bello).

Le fotografie contengono sempre storie, ed ogni immagine racconterà le sue storie in modo differente, perché ciò dipende da chi sta inconsciamente traducendo e trasportando in esso il significato mentre le guarda e ancor prima dall'input interiore che ha permesso al fotografo di scattare quella precisa immagine.

Questo rende le fotografie non solo un eccellente stimolo di partenza per una naturale conversazione in ambito sociale, ma ne fa anche uno strumento molto utile in situazioni nelle quali la comunicazione attraverso parole da sola non sufficientemente efficace o possibile. La fotografia, quindi, diventa un medium linguistico soprattutto in quelle situazioni dove il linguaggio verbale difficoltoso o non efficace.

I momenti ordinari catturati dallo scatto, così comuni che raramente ci si sofferma a considerare il processo che si sviluppa quando si cerca di attribuire un senso a ciò che si sta guardando, non solo illustrano il potere che semplici, “usuali” fotografie non artistiche esprimono nella maggior parte della vita della gente, ma anche aiutano a spiegare come mai la fotografia così diversa da altri medium artistici.

Questo è dovuto anche al fatto che la fotografia non è costruita manualmente, ma viene catturata direttamente dal mondo esterno. Il fotografo è obbligato ad uscire fuori da sé, a stabilire un contatto con la realtà creando una connessione tra il suo mondo interiore e il mondo che lo circonda. Questo rapporto dentro-fuori, mediato da una macchina fotografica, dà al fotografo un potere decisionale che poche altre attività possono offrire.

Il fotografo è l'unico a decidere, in mezzo ad infinite possibilità ciò che sarà immortalato e come sarà immortalato.

È il processo creativo che diventa estremamente interessante. Minor White sosteneva << Lo stato mentale del fotografo nell'atto in cui crea è un vuoto (...) quando cerca soggetti per le sue fotografie (...) il fotografo si proietta in tutto ciò che vede e con tutto si identifica per meglio conoscerlo e sentirlo. >>.

Cartier Bresson, invece, si paragonato ad un arciere zen che deve diventare il bersaglio per riuscire a colpirlo; << ( bisognerebbe pensare prima e dopo _ dice _ mai mentre si scatta una fotografia >>.

Per fare una buona fotografia bisogna vederla prima. Deve cioè esistere nella mente del fotografo nel momento in cui viene effettuato lo scatto. Le fotografie raffigurano realtà che già esistono e raffigurano un temperamento individuale che scopre sé stesso attraverso il ritaglio di realtà effettuato dalla macchina fotografica.

Per Dorothea Lange, infatti, ogni ritratto di persona un autoritratto del fotografo, come per White che propugna la scoperta di se stessi attraverso la macchina fotografica.

Le fotografie contengono molti più significati di quanto i dettagli contenuti nella loro superficie visuale suggeriscano. Persino le usuali, quotidiane fotografie sono invisibilmente improntate di emozioni, segreti, codici, simboli privati che appartengono al mondo interiore e al vissuto del fotografo e che una persona estranea non potrebbe mai pienamente afferrare.

Ed è per questo che tutte le foto che le persone scattano e conservano, sia per scopi artistici che personali, sono come “specchi della memoria, che servono come segnali di quello e di chi è stato più importante per poi diventare pezzi di carta o pixel che trattengono lo svanire del tempo che avanza.

Ad esempio nel film Persona di Bergman l'eroina muta si era portata nell'ospedale psichiatrico un'immagine per meditare come foto-ricordo sul periodo dell'assenza della tragedia.

Come artista, per me è intrigante scoprire, per esempio, durante l'allestimento di una mostra, come la gente possa percepire, sentire, decifrare le immagini che percepiscono per la prima volta, ma alle quali io attribuisco un significato preciso proprio perché le conosco molto bene anche e soprattutto in termini di processo creativo. Rimango continuamente affascinato dai differenti effetti della percezione dell'inconscio che testimonia come ogni persona possa vedere in modo differente le stesse immagini in base soprattutto ai propri vissuti emotivi.

Non esiste nessun modo per prevedere chiaramente cosa le persone possano prendere, percepire da qualsiasi mia immagine, o quali emozioni possono evocare o proiettare delle specifiche foto.

Le fotografie possono, quindi, servire come catalizzatori non verbali per far uscire fuori sentimenti, ricordi, sensazioni, a volte escluse dalla coscienza. Non a caso le persone, spesso, sentono che hanno scattato una fotografia senza capirne realmente il significato fino a che questo non viene svelato molto tempo dopo.

La fotografia non può avere, quindi, un significato oggettivo separabile da quello di colui che l'ha creata e/o da colui che l'osserva. Non esiste un modo univoco e corretto per decifrare una fotografia e il suo linguaggio, in quanto una fotografia non mostra, ma può solo suggerire il risultato, infatti, potrebbe essere piuttosto differente da ciò che si aspettava di comunicare colui che ha fatto la foto, dal momento che ogni partecipante in un'interazione foto-persona ha il proprio punto di vista (corretto per sé stesso).

Ed in questo senso che ogni foto ha infinite storie da raccontare, segreti da mostrare e da condividere.

 

 

Bibliografia

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