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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia


Genio o Follia: Jaspers e la psicosi come arte
Genius or Madness: Jaspers and the psychosis as an art

 

Pubblicato nella Rivista L'Altro, Anno XVI, n.2, maggio-agosto 2013, pp. 17-22

Marco Alessandrini


Riassunto

A parere dei resoconti biografici, Jaspers possedeva una distaccata cortesia e viveva ritirato, non solo a motivo della sua malattia organica (insufficienza cardiaca secondaria). È possibile porre un'analogia tra questo comportamento e la sua teoria psicopatologica, che rinviene un nucleo "incomprensibile" alla base dei disturbi psicotici. Al contrario, nei suoi scritti patografici, primo tra tutti Genio e follia (1922), Jaspers sembra immedesimarsi intensamente con le vite e le opere schizofreniche di Strindberg, Swedenborg e soprattutto di Hölderlin e Van Gogh. Fornisce così una prospettiva molto originale, fortemente innovativa: la schizofrenia non equivale a sola distruzione mentale, ma consente uno stretto contatto con «situazioni-limite», una sorta di profonda e nuda intuizione di estreme, comuni condizioni quali la morte, la solitudine, l'angoscia (denominate anche «trascendenza»). Infatti, il caso particolare di schizofrenici di talento, con spiccata abilità artistica, attesta, tramite opere originali e straordinarie (dipinti, scritti, ecc.), una capacità di manifestare il «fondo» (Grund) irraggiungibile e ubiquitario dell'esistenza umana. Al giorno d'oggi, il confronto tra le tesi patografiche di Jaspers e la psicoanalisi suggerisce una diversa prospettiva: l'eventuale talento artistico di schizofrenici permette indubbiamente di sfruttare il contatto psicotico con la «trascendenza», ma senza la ricca e articolata consapevolezza che sussiste negli artisti "normali" o non-psicotici.

Parole chiave: Jaspers, patografia, arte, psicoanalisi.

Summary

According to biographical reports, Jaspers had a detached kindness and lived retired, not only because of his organic desease (secondary heart deficiency). It is possible to draw an analogy between this behaviour and his psychopathological theory about an "incomprehensible" core under every psychotic illness. On the contrary, in his patographical writings, first of all Genius and Madness (1922), Jaspers seems to be acutely concerned in schizophrenic lives and works by Strindberg, Swedenborg and above all Hölderlin and Van Gogh. He offers a very original point of view, highly innovative: schizophrenia is not only a mind's destruction, but allows a close contact with «borderline existential situations», a sort of deep and raw intuition of extreme, common conditions like death, loneliness, anguish (these are also called «transcendence»). Indeed, the particular instance of talented schizophrenics, with an high artistic skill, prove, through unusual and exceptional works (paintings, writings, etc.), a capacity to show the unachievable but ubiquitous human life's «ground» (Grund). Nowadays, a comparison between Jaspers' patographical thesis and psychoanalysis suggests a different perspective: the eventual artistic talent of schizophrenics doubtless allows to take advantage from psychotic contact with "transcendence", but without a rich, well structured consciousness as in non-psychotic, "normal" artists.

Key Words: Jaspers, patography, art, psychoanalysis.

 

 

Ogni estremo, direbbe la psicoanalisi, come già Eraclito afferma, nasconde l'estremo opposto. Nella psichiatria fenomenologica, a sostenerlo è stato Ludwig Binswanger, a proposito dell'autismo schizofrenico. Ha infatti rilevato come qui per il soggetto l'estremo «ritrarsi dal mondo», il «ripiegamento in se stessi» nasconda l'opposto e altrettanto estremo «essere-assorbito-dal-mondo»1,2. Come a dire, in questo esempio, che le barriere relazionali sono in realtà abitate da una tendenza alla simbiosi, alla con-fusione priva di barriere.

Karl Jaspers non era affetto da autismo, ma un'analoga legge degli opposti sembra averne improvvisamente scosso la teoresi. A un primo estremo, non era un uomo facile. Hans Saner, suo assistente a Basilea, racconta che «chi non lo conosceva più davvicino, per lo più vedeva solo le barriere che erigeva intorno alla sua persona (...)». La sua, prosegue l'allievo, era «una distanza fredda e voluta (...)», unita al «dialogo distaccato da un angolo all'altro della stanza, quasi dovesse continuamente controllare il suo interlocutore, anzi diagnosticarlo»3.

Sarebbe paradossale redigere qui una patografia della personalità di Jaspers. L'essenziale è in realtà dedurre quanto per lui possa essere stato facile cogliere lo sfacelo dell'intersoggettività, la distanza relazionale di cui è preda la persona psicotica. Jaspers parla infatti di «processo», un fenomeno estraneo alla personalità, e soprattutto «incomprensibile», perché portatore, come è lui a dire, di «un resto inaccessibile, inconoscibile», alieno all'«immedesimazione», l'Einfühlung. Una tesi, questa, che sancisce una distanza invalicabile tra l'interlocutore e la persona psicotica, qualcosa di simile a ciò che in forma ovviamente lieve e ben diversa apparteneva, evidentemente, alla stessa personalità di Jaspers.

Una domanda, allora, si impone: intuire questa distanza non è però, da parte di Jaspers, già una forma di immedesimazione? Una capacità di vicinanza che nega non solo l'assunto dell'incomprensibilità, ma si fa specchio di un atteggiamento, suo personale, esattamente opposto, nascosto e impellente al di sotto del comportamento manifesto nettamente distanziante. Una tensione tra chiusura e apertura, distanza e vicinanza tramite cui Jaspers, quanto più avverte lontana l'Erlebnis psicotica, tanto più è capace di avvicinarla, di vibrare in sintonia con essa. E proprio in questa sua personale contraddizione è allora la psicosi tutta a trovare eco, a risuonare: a trovare volto per un'analoga, anche se ben più accesa, appunto psicotica contraddizione.

È soprattutto in Strindberg und Van Gogh del 1922, a un anno dal conferimento della Cattedra di Filosofia all'Università di Heidelberg, che nell'incontro con le opere di grandi artisti affiora in Jaspers l'inattesa Einfühlung. Il teorico dell'incomprensibilità sembra improvvisamente comprendere l'incomprensibile, sebbene nel solo senso di esserne scosso nel profondo, di comparteciparvi pur lasciandolo nel mistero. Come annota Blanchot nella prefazione all'edizione francese, in questo libro accade «come se una sorgente ultima dell'esistenza si rendesse fugacemente visibile (...) spingendoci a trasformare noi stessi accanto a quello che rimane l'inaccessibile»4.

La follia che può investire i grandi personaggi avvincerà Jaspers fino all'ultimo, rinnovando questa sua capacità di immedesimazione che sembra scavalcare l'opposto atteggiamento, quello che relega l' "alterità" nell'incomprensibile, là dove è impossibile immedesimarsi. Di volta in volta Jaspers si immergerà in Nietzsche5, in Goethe6,7,8, in Leonardo da Vinci9. Senza contare, come è di nuovo Saner, altrove, a dire10, le brevi patografie in preparazione su Maupassant, De Nerval, Santa Teresa, Kant, Rousseau e altri. Patografie, attenzione, termine composto che alla lettera significa «descrizione» o «scrittura», la grafia, della «sofferenza», il pathos. Scrivere la sofferenza, allora, come modalità tramite cui Jaspers decanta, pur senza riuscire a raffreddare, un contatto che attraverso il filtro delle opere e delle biografie lo invade, lo brucia, spiazzando la ragione e l'incomprensibilità insieme a ogni distanza. Si potrebbe perciò estendere a tutta la sua produzione patografica ciò che Karl Löwith, allievo di Heidegger, ha detto dello studio su Nietzsche: Jaspers avrebbe trasfuso il proprio pensiero in Nietzsche per interpretare se stesso in lui11.

Si pensi poi che il libro del 1922 è oggi ribattezzato con il titolo Genio e follia12. Qui, non a caso, compare la particella copulativa «e», quasi chiedesse di essere eletta a nucleo della spiazzante consonanza, da parte di Jaspers, verso alcuni modi, o Erlebnisse, dell'essere folli. La tesi è semplice. L'artista non è un genio grazie alla follia, ma perché in lui preesiste un qualche enorme talento. Tuttavia il talento, proprio grazie alla follia, raggiunge vette di una genialità se non più intensa di quella usuale, certo di speciale autenticità. Come a dire che la follia non può aggiungere nessun talento, anzi lo ostacola, ma proprio nell'ostacolarlo lo guida a forme di espressione che mai avrebbe raggiunto. Questo concetto risplende per intero in una sola, bellissima frase di Jaspers, divenuta a buon diritto quasi un aforisma: «Così come la perla nasce dal difetto d'una conchiglia, la schizofrenia può far nascere opere incomparabili».

Da questo punto di vista il caso di Hölderlin, tra i quattro artisti esaminati, è emblematico. Il padre dello storicismo tedesco, Wilhelm Dilthey, il filosofo che insieme a Kant, e ben più di Husserl, è fonte ispirativa di Jaspers, nel saggio Hölderlin e le cause della sua follia del 186713 cita in chiusura i seguenti versi: «Dove sei tu, luce? Di nuovo è sveglio il cuore ma / senza cuore a sé mi trae la paurosa notte...». È esattamente a questa Erlebnis di disperante oppressione che si riallaccia nella propria analisi Jaspers. A lui qui sembra infatti visibile una sofferenza che costringe il talento, da essa schiacciato, a lavorarla, a forzarne l'oscurità per tradurla in qualcosa, i versi poetici, che salvino dall'ammutolire, dal non poterla articolare in discorso. Perciò, precisa Jaspers, Hölderlin «senza la malattia sarebbe stato un poeta di prim'ordine», mentre grazie al processo psicotico è divenuto qualcosa di più, qualcosa d'altro: un'«eccezione» (Ausnahme), nel cui poetare «ciò che si incarna non è la tecnica acquisita, ma l'esperienza vissuta da una personalità in sfacelo».

Jaspers introduce, in fondo, il tema che diverrà l'asse portante dei tre volumi di Filosofia, il suo opus magnum del 193114. Ogni cosa, ogni ente giunge all'uomo come un oggetto, rispetto a cui l'uomo stesso è soggetto. Una scissione, quella tra soggetto e oggetto (la Subjekt-Objekt Spaltung), che non coglie l'essere che tutto congloba, l'essere complessivo da cui l'ente esce per entrare nella scissione stessa. In parole semplici, Jaspers ritiene che il vero sapere è quello che tenta di cogliere das Umgreifende, l'«orizzonte conglobante», anche l'«Avvolgente», l'essere che congloba o avvolge ciò che agli umani appare scisso in soggetto e oggetto. Un aldilà non pensabile, ma che sospinge chiunque a pensarlo, conducendo a un fallimento, a uno scacco. Eppure questo fallimento, in cui la trascendenza, sul punto di apparire, fugge e svanisce, è la sola modalità in cui essa stessa può manifestarsi: un'opacità da cui, senza apparire, l'essere traluce e abbaglia.

Lo schizofrenico, secondo Jaspers, avvertirebbe quanto mai tale scissione immanente alla condizione umana, tutt'altra cosa da ciò che con lo stesso termine, Spaltung, vuole indicare Eugen Bleuler15. La malattia mentale insorgerebbe allora in quanto scacco di una esagerata, appunto psicotica ma comunque umana inclinazione a sottrarsi alla scissione, a raggiungere la trascendenza. Uno scacco, certo, ma di tipo particolare, perché qui consiste in un naufragio della persona intera. Tuttavia, in quanto scacco e a tal punto grave, offrirebbe particolare spinta, in chi possiede talento artistico, per opere che lasciano affiorare, in modo anche più intenso che in artisti non folli, il tragico svanire in cui si mostra, senza apparire, la trascendenza. Perciò, nella Psicopatologia generale del 1913, comprensiva delle aggiunte filosofiche, divenute ingenti a partire dalla quarta edizione del 1946, Jaspers afferma che «l'analisi patografica di personalità eminenti mostra che la malattia non solo può interrompere e distruggere, ma (...) anzi (...) può essere la condizione di determinate produzioni, e proprio nell'essere malato può apparire una profondità e un abisso dell'essere umano» (il corsivo è mio)16.

Indubbiamente, l'afflato che anima le correlazioni qui poste tra genio e follia è erede del Romanticismo di fine Ottocento. Così, ancora, nel suo Psicologia delle visioni del mondo17 del 1925, ogni essere umano appare stretto tra il bisogno di libertà, di autorealizzazione, appunto di trascendenza, e i condizionamenti storici, sociali, biologici cui è impossibile sottrarsi, barriere invalicabili denominate «situazioni-limite». Si tratta, secondo le parole di Jaspers, di situazioni inevitabili e comuni come quelle «di non poter vivere senza lotta e dolore, di dover assumere inevitabilmente la propria colpa, di dover morire». Situazioni, aggiunge, che «sono come un muro contro cui urtiamo e naufraghiamo». Perciò, conclude: «Sperimentare situazioni-limite ed esistere è la stessa cosa»18.

Confrontarsi con le situazioni-limite è rischiare il naufragio, ma è anche l'unica via tramite cui conquistare una risposta nuova e personale, diventando autentici. Tuttavia al giorno d'oggi, è detto già in Genio e follia, le situazioni-limite vengono evitate, quasi anestetizzate mediante l'intellettualismo, il conformismo, l'autocompiacimento. Resta allora la psicosi a porsi come baluardo: un rifiuto di conformarsi, un gettarsi nei conflitti che non hanno soluzione. L'esito è ribellarsi, fallendo e appunto naufragando, ma in tal modo comunicando qualcosa di tragicamente indicibile: il limite che la mente non può superare ma dove, infrangendosi, tocca l'assoluto.

La conclusione ha toni davvero romantici e vibranti: «Questa esistenza demoniaca, questo perenne superamento e compimento di sé, questo vivere in estrema vicinanza con l'assoluto, in beatitudine ed orrore, eppure in eterna inquietudine, tutto questo, noi dobbiamo vederlo slegato dalla psicosi. Ora accade che questo elemento demoniaco che nell'uomo sano opera in modo moderato e ordinato e si finalizza nella creatività, si scateni nella malattia con estrema virulenza. Non che questa forza demoniaca, questo spirito sia malato - sfugge all'alternativa Salute-Malattia - ma è il processo patologico che favorisce l'irruzione di questa forza, non fosse che per poco».

È questo il momento, allora, in cui le tesi di Jaspers possono essere affiancate alla teoria e al metodo della psicoanalisi. Indubbiamente, il fondo della mente, l'esistere psichico devono essere pensati come trascendenti e indicibili, inafferrabili da parte della coscienza. Chiunque, direbbe Freud, è mosso, anzi Jaspers direbbe condizionato, da pulsioni che emergono dal corpo, da tracce inconsce, anche traumatiche, inscritte dalle relazioni precoci con altri, da memorie implicite che precedono la parola e che perciò non possono essere ricordate, sebbene riaffiorino come emozione o come agiti19.

Lacan al riguardo parla della Cosa, la Chose, l'heideggeriana das Ding, o se si vuole il Reale20, ciò cui ogni atto mentale, consapevolmente o meno, ruota intorno. La coscienza lo ricopre di significanti, ossia di pensieri e di simboli, che lo traducono pur senza mai poterlo del tutto tradurre, con ciò però evitando di sprofondarvi, di esserne sommersi e annichiliti.

A noi tutti, quindi, appartiene il bisogno di sfiorare un fondo, uno jaspersiano Grund, tale da non poter essere compreso: a noi appartiene il bisogno di ruotarvi attorno. È un bisogno di tradurre in un pensiero o un'emozione personali, che Jaspers definirebbe «autentici», ciò che non ha risposta, che non ha parola. Traduzione necessaria, ancor più se questo fondo, come in chi diventa psicotico, è sede di traumi: se urge lacerando, se preme fragilizzando il sentimento di esistere, attanagliando con disorganizzazioni corporee e affettive, annichilendo la capacità di rapportarsi con gli altri, di confrontarsi con le continue, quotidiane situazioni-limite.

Gli esseri umani, normalmente, lambiscono il fondo nudo della mente, ma ne restano distanti grazie a un Io, a una capacità simbolica, a una coesione interna che proprio grazie a questa distanza possono tradurlo, trasformarlo, viverlo, consentendo la riflessione su quanto viene vissuto. Da parte propria, Jaspers intuisce giustamente che ciò comporta una inevitabile tensione. Intreccia allora due esperienze: da un lato l'incontro, da psichiatra, con la psicopatologia, e dall'altro l'adesione, da filosofo, alla corrente filosofica esistenzialista.

Gli appare perciò evidente che costeggiare l'indicibile, i vissuti-limite che rendono incomprensibili e difficili anche le relazioni umane più banali, è qualcosa a cui la maggioranza sfugge. Scatterebbero allora i meccanismi di difesa da lui accennati, dall'intellettualizzazione all'ipertrofia dell'Io, alla fuga nel conformismo. Più a fondo, scatterebbe l'adesione a quelli che Bion21 definisce «pensieri saturi», tali da non suscitare alcun dubbio o interrogazione, alcuna incertezza. Pensieri che bloccano ogni ricerca, ogni pensiero «insaturo», o se si vuole «autentico», bloccando ogni contatto con l'instabilità continua che ci abita e a cui invece dovremmo sempre rispondere.

Le persone creative, piuttosto, aperte ai «pensieri insaturi» e a risposte mai definitive, risposte personali e «autentiche», sarebbero tali perché compiono il movimento opposto. Gli artisti ne sarebbero testimonianza, perché rendono visibile questa esigenza trasponendola in opere fruibili da parte di chiunque. Costeggiano le situazioni-limite: le avvicinano fino quasi a esserne bruciati ma sottraendosi, distanziandosi anche di poco, sempre abbastanza da mantenere la capacità di contenerle e di tradurle. Joan Miró, ad esempio, annota: «Comincio i miei quadri sotto l'effetto di un'emozione violenta che mi fa sfuggire alla realtà (...) Lavoro a lungo, talvolta anni, a uno stesso quadro. (...) L'importante, per me, è che si senta il punto di partenza, l'emozione che l'ha determinato»22.

Jaspers direbbe che ciò consente agli artisti di lasciar trasparire, senza mai poterla rendere visibile, la «trascendenza», la «profondità». Anche, e sono sempre definizioni da lui coniate, l'«abisso», il «demoniaco» e le «estreme possibilità umane». Si tratta di una capacità che però, come detto, lui ritiene di rinvenire anche in chi si impegni a costeggiare le situazioni-limite non perché queste, come nella maggioranza degli artisti, semplicemente urgono, ma perché travolgono. Sarebbero insomma i folli, gli schizofrenici, quando provvisti di talento, a rendere anche loro visibile, tramite opere artistiche e in modo ancora più intenso, l'impossibile che abita il fondo di ogni umana esistenza.

Paradigmatico, in questo senso, è ancora un passaggio della Psicopatologia generale: «lo psicotico può divenire una parabola di tutto l'essere umano per ciò che vi è di più estremo in lui; in tale condizione sembrano avvenire realizzazioni distorte e capovolte di situazioni ed elaborazioni esistenziali; in individui che diventano malati si evidenzia una profondità, che non appartiene alla malattia come oggetto di indagine empirica, ma a questo individuo nella sua storicità; i ricchi contenuti che insorgono in una realtà psicotica sono i problemi fondamentali del filosofare, quale il Nulla, l'elemento distruttivo, l'amorfo, la morte. Le estreme possibilità umane diventano reali nell'irrompere attraverso tutti i confini dell'esistenza (...)».

Ha dunque agio, Jaspers, nell'introdurre in Genio e follia un ulteriore concetto. L'evoluzione artistica subirebbe un inusitato mutamento in coincidenza con l'insorgere del processo psicotico. Ogni grande genio, è sempre Jaspers a precisarlo, «di fronte a una rivelazione trasforma il suo lavoro, inaugura uno stile nuovo». Se questo accadimento non è allora esclusivo degli psicotici di talento, in essi è tuttavia innescato dal processo morboso. Si tratta di un'evoluzione che alle opere imprime una peculiare «atmosfera "schizofrenica"», espressione di un «carattere particolare della vita psichica, un mondo di strane esperienze». Atmosfera, puntualizza Binswanger commentando Jaspers, di cui «enumeriamo soltanto una grande quantità di particolari», ma che «possiamo esperire (...) nel suo complesso sempre soltanto nella nostra propria esperienza a contatto con il malato»23.

Può sgomentare che secondo Jaspers questa «atmosfera schizofrenica» risulti al giorno d'oggi difficile da discernere. Secondo lui, infatti, sarebbe ormai comune «a gran parte dell'arte contemporanea». È però sua cura precisare che il contatto con la trascendenza cui dà accesso la malattia è la base di ogni atto creativo, anche negli artisti non malati. E questo è di per sé un contatto destabilizzante, quasi esercitasse, non solo appunto su chi è psicotico, un effetto "psicotizzante", anzi "schizofrenizzante".

Altri due assunti, infine, si aggiungono, amalgamandosi a quelli esposti. Il primo assunto è che in due dei quattro casi esaminati, lo scrittore e drammaturgo Strindberg e il teosofo visionario Strindberg, l'acuzie schizofrenica modificherebbe il contenuto delle opere, invadendolo, rispettivamente, con temi persecutori e mistico-allucinatori. Negli altri due casi, invece, il pittore Van Gogh e il poeta Hölderlin, l'esplodere della schizofrenia muterebbe per intero l'espressività artistica, alterandone insieme forma e contenuto, al punto anzi da rendere l'espressività accesamente, totalmente "altra" rispetto a quella precedente.

Il secondo assunto è che ogni mutamento di questo genere consiste, in qualunque persona di genio, nella creazione di «mondi nuovi». Ma mentre chi non è psicotico si sviluppa e cresce all'interno di questi mondi, anzi grazie a essi, gli schizofrenici artisti, piuttosto, vi si perdono, vi si distruggono. Sarebbe impossibile, per loro, estrarre a lungo dall'esperienza morbosa l'oro cui questa offre un possibile accesso: l'attività creativa, prima o poi, esiterebbe nell'improduttività e nella disgregazione. Tuttavia, Jaspers ammette l'impossibilità di stabilire una regola assoluta. Già restando ai casi da lui esplorati, la creatività sembra progressivamente degenerare in Hölderlin e in Van Gogh. Invece, in Strindberg si intensificherebbe proprio nello stadio finale, dopo essersi addirittura impoverita nella fase in cui la psicosi esordisce.

Non è superfluo ricordare che qui Jaspers compie errori di metodo24. Innanzitutto, i quattro artisti esaminati non sono sicuramente schizofrenici. Solo per Hölderlin la diagnosi di schizofrenia è incontestabile. Quanto a Strindberg, è decisamente opinabile, così come per Swedenborg. Entrambi si avvicinano di più al quadro della paranoia. Per non menzionare poi Van Gogh, riguardo al quale si è succeduta nel tempo una decina di diagnosi, dalla psicopatia agli stati crepuscolari periodici, dalla neoplasia cerebrale all'epilessia25. Proprio l'epilessia, peraltro, è la diagnosi proposta da Françoise Minkowska nei tre studi dedicati all'artista26. E non solo: Jaspers, dotato per sua stessa ammissione di scarsa sensibilità verso l'arte pittorica, esamina di Van Gogh i diari, ma nel considerare comunque i dipinti adotta la datazione erronea dell'esposizione di arte "espressionista" tenutasi a Colonia nel 1912. Non può pertanto sapere che dopo il 1890 le opere non subiscono affatto un impoverimento, anzi si arricchiscono24.

Si tratta adesso di tirare le fila. Le tesi di Jaspers, dirompenti nell'epoca in cui sono state avanzate, restano oggi innovative27. Permettono di comprendere qualcosa di irriducibile allo sguardo scientifico, e che quest'ultimo, difensivamente, tende ad appiattire in deficit e in sintomo. «Le ricerche scientifiche», afferma Jaspers, «diventano filosofiche quando si sospingono coscientemente fino ai limiti e alle origini della nostra esistenza». Limiti e origini dove è lui tra i primi a intuire che ogni crollo psicotico si sospinge. Le persone psicotiche, tuttavia, a differenza di chi vi si inoltra perché filosofo-scienziato, non giungono a questi limiti coscientemente. E poi gli psicotici, pur lasciandosi divorare da tale crollo, lottano nel contempo per non essere divorati. Costruzione e distruzione che quando per mano di schizofrenici di talento diventano visibili in opere d'arte, consentono agli psichiatri di capire, tramite le opere stesse, ciò che questa intera categoria di malati non può altrimenti mostrare chiaramente.

Sarà Merleau-Ponty, nel saggio del 1948 dedicato a Cézanne28, pittore tacciato di schizoidia, a ricordare che ogni artista «è colui che fissa e rende accessibile, ai più "umani" fra gli uomini, lo spettacolo di cui fanno parte senza vederlo». Già nel 1922 Jaspers aveva compreso che tale capacità può arginare, in chi è schizofrenico, la schizofrenia, recuperando una precaria ma sorprendente facoltà di mostrare le lacerazioni da cui è abitata la psicosi stessa. Qui la malattia, per Jaspers, come sarà di nuovo per Merleau-Ponty, coincide con l'opera, ed entrambe con l'esistenza dell'autore. Perché di quell'esistenza la malattia è l'annichilimento e al tempo stesso il pungolo: spinte opposte che si riversano, grazie al talento, in modalità di espressione artistica corrispondenti e irripetibili.

Qualcosa, tuttavia, in Jaspers non sembra evidente. La piena creatività consente di avvicinare il nucleo caldo dell'inconscio, ma mantenendo un piede nella coesione del Sé e nella capacità di simbolizzazione. Si entra qui nel cuore, è vero, del modello psicoanalitico. Che però è tale da aiutare a comprendere l'atto creativo come congiungersi, pur nel loro slegarsi, di pulsione di vita e di morte29. Vale a dire che la pulsione di morte, ossia l'attrazione per la non-rappresentazione, l'annichilimento della coscienza, sebbene predominante deve restare legata, «impastata» con la pulsione di vita, ovvero con la spinta a raffigurare, a tradurre in simboli e in linguaggi coscienti e condivisi.

Certo, la creatività può nascere anche da un impasto parziale, se non persino da un disimpasto. Da sola, la storia della cosiddetta «arte psicopatologica» basterebbe ad attestarlo30. Non si potrà tuttavia dire che l'elaborazione dei vissuti che traspare dalle opere di chi è in psicosi sia la stessa manifestata quando la psicosi non regna incontrastata. Le cosiddette poesie della follia, in Hölderlin, emanano un'inquietante serenità, tale da trasmettere, pur cancellandola drasticamente, un'angoscia senza fondo31. Sono poesie suggestive, ma non eccelse. E se lasciano intuire l'angoscia, ciò accade, per così dire, in absentia, non certo perché abbiano coscientemente elaborato l'angoscia stessa. In ciò simili al delirio, queste poesie trasmettono l'angoscia solo in quanto la cancellano: in quanto la eliminano dalla simbolizzazione, dal linguaggio, dalla coscienza.

Si pensi invece a Van Gogh. Al di fuori dei momenti in cui il sole diventa un vortice che acceca32, una ferita non-pensabile e inconscia che travolge la coscienza, questa stessa ferita diventa distanziata, costeggiata, "lavorata" coscientemente. È follia tradotta in qualcosa di non folle, e non semplicemente tradotta come tale. Altrimenti, non sarebbe più tradotta, ma manifestata nella sola forma del proprio stesso dilagare.

George Berrios33 ha sostenuto che la psicopatologia di Jaspers, a dispetto dell'opinione corrente, non attinge a Husserl. In effetti, se Jaspers avesse ipotizzato, negli schizofrenici, un'anomala costituzione dell'Io trascendentale34, avrebbe forse ulteriormente specificato le proprie tesi patografiche. Avrebbe ammesso che in questi pazienti si incrina ciò che rende cosciente la coscienza, il "sentimento di essere" su cui poggia ogni pensiero. Avrebbe sottolineato che i pensieri qui diventano strutturalmente altri: più protesi, rispetto alla norma, ad autosostentarsi, e meno invece a farsi consapevoli di ciò che comunicano e manifestano.

È questa allora l'unica differenza tra genio e follia che Jaspers non coglie. Sono però gli artisti a coglierla. «Il poeta è un fingitore», recita Fernando Pessoa nella celeberrima "Autopsicografia". «Finge così completamente», prosegue, «da arrivare a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente»35. Dichiarazione perfetta della capacità di tradurre, di «fingere» in parole e in simboli un dolore che urge, ma che se restasse tale non potrebbe essere detto in modo elaborato. Lo potrebbe, ma piegando le parole in un discorso non più capace di «fingere», ossia di simbolizzare in modo articolato e consensuale.

Sebbene comunque, come nel caso delle poesie dell'ultimo Hölderlin, e da questo punto di vista Jaspers ha ragione, quello psicotico è pur sempre un linguaggio pienamente artistico, capace come tale di straniare, di affascinare, di trasmettere.

* Psichiatra, psicoanalista, Direttore UOC Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto Università "G. D'Annunzio" di Chieti, Direttore Scientifico Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicodinamica Breve di Chieti.

 

BIBLIOGRAFIA

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