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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: ARTE E PSICOTERAPIA
Area: Arteterapia



Joan Miró e la reinvenzione del padre
Da un’ipotesi psicoanalitica all’esempio di un artista

Marco Alessandrini*


PARTE PRIMA – L’IPOTESI TEORICA

Il passato vissuto e non sperimentato

Il passato è costituito da eventi che l’individuo ha vissuto ma non ha sperimentato. Gli eventi infatti, nell’istante in cui vengono vissuti, si inscrivono per massima porzione sotto forma di impatti immediati, di sensazioni ed emozioni radicate nel corpo. Soltanto la restante porzione è effettivamente sperimentata, vale a dire avvertita in modo più definito grazie alla consapevolezza e alla riflessione.
Questa evidenza è ancor più vera nel caso di eventi in qualche modo traumatici. Come tali bisogna intendere gli accadimenti il cui impatto particolarmente intenso e repentino – sia esso piacevole o doloroso – determina una loro ancor più piccola penetrazione a livello della consapevolezza. Nell’istante in cui si verificano, superano più dell’ordinario la capacità dell’Io di elaborarli in forma definita e consapevole, “penetrando” perciò quasi del tutto nel canale elaborativo corporeo-affettivo. Quest’ultimo appartiene anch’esso all’Io, tuttavia sotto forma di elaborazioni meno riflessive e soprattutto poco consapevoli, vale a dire inconsce.
Quindi il passato di chiunque è inevitabilmente costituito da “tracce” saldamente intrise di realtà, anzi, si direbbe, imbevute di corporeità sensoriale ed emotiva, ma queste tuttavia restano indefinite e sempre sfuggenti, fantasmatiche e irreali. Esse nella loro struttura sono «… un insieme di elementi sensoriali ed emotivi estremi» (1, p. 51), che dunque «…l’Io è troppo immaturo per raccogliere insieme (…) nell’area dell’onnipotenza personale» (2, p. 109).


Il passato è soltanto il presente

Queste tracce non sono sfuggenti soltanto perché inscritte sotto forma di sensazioni corporeo-affettive, poco discriminabili da parte della consapevolezza riflessiva. Lo sono anche perché pur derivando dall’influenza dell’altro, vale a dire da rapporti con persone, situazioni, ambienti, non rimangono in condizione di immagini statiche, ma fondano un’attività inconscia che da lì in seguito evolve e si modifica incessantemente. Questa attività mentale è quanto Hugo Bleichmar, per esempio, definisce come “l’originariamente inconscio”: un’area della mente il cui funzionamento «…combinando in vario modo le rappresentazioni che ne fanno parte, crea nuove produzioni al suo interno» (3, p. 159).
E’ senza dubbio questo il senso della vita umana, la base dell’identità personale nel suo procedere ed evolvere lungo la singola esistenza. Si può infatti dire che le “tracce” del passato, non essendo mai raggiungibili nella loro interezza, fanno sì che l’inevitabile volgersi a esse – apparentemente un volgersi all’indietro – generi un continuo ripensarle e “costruirle”, in questo modo costruendo e inventando una vita, la propria vita, come costante progressione in avanti.
Pertanto ogni persona, inevitabilmente e non consapevolmente, pone in atto «…la ricerca dell’evento passato, ma non ancora sperimentato, sotto forma di ricerca di tale evento nel futuro». E ciò accadrebbe perché «…l’esperienza originale (…) non può essere collocata nel passato finché l’Io non riesca a inserirla oggi nella sua esperienza presente e nel controllo onnipotente» (2, p. 109).
Anche dal punto di vista neurobiologico - come afferma per esempio Gerald Edelman - la coscienza primaria nasce dall’interazione dinamica tra memoria e percezione in atto. Questa interazione dinamica permette di ricategorizzare il presente alla luce del passato e di costruire in questo modo una scena percettiva coerente. Perciò lo stesso Edelman sostiene che l’esistenza individuale equivale in ogni suo istante a un paradossale “presente ricordato” (4) : un passato che può esistere e definirsi soltanto nella reinvenzione che si plasma all’interno dell’attimo presente.
Cercando all’indietro ciò che lì sempre sfugge, perché costituito da “tracce” magmatiche, da vissuti essenzialmente corporei di natura sensoriale ed emotiva, la persona assimila e ricategorizza questi vissuti alla luce e nella forma dell’esperienza presente, ricostruendo ogni volta il passato come realtà antica e tuttavia inevitabilmente nuova. Il passato non può quindi essere concepito come memoria statica, come fotografia riposta in un archivio e lì esistente, bensì come «…creazione di un senso assente, vera invenzione di un senso rimasto, come si dice, in sofferenza» (5, p. 46) (6).


L’arte, la psicoterapia: due modi del passato reinventato

Se l’esistenza individuale e l’identità personale consistono nella spinta interna di “tracce” alla ricerca di se stesse, queste inseguono un presente che le accolga, le sprigioni, le reinventi.
Tale processo dinamico può tuttavia coagularsi in forma di sintomo, di “contrattura” statica e ripetitiva. Ciò accade soprattutto quando le “tracce” contengono elementi di sofferenza, e quando l’Io si avverte incapace o spaventato circa la possibilità di accogliere le tracce, di comporle e di definirle: quindi incapace, e soprattutto fragile, di fronte alla necessità di comporre e di delineare se stesso. La “traccia” viene allora ripetuta in forma sempre identica, quasi fosse uno scenario immobile, un fantasma ben definito che però è in realtà una fuga - o una difesa - rispetto al compito di accogliere davvero la traccia indefinita, sensoriale ed emotiva. Il vero compito sarebbe infatti, all’opposto, rivivere la traccia “per la prima volta” e nel presente, accettando di doverla definire e riplasmare con cura, con coraggio e incessantemente.
Per sciogliere il sintomo, per accogliere le “tracce” che esso contiene in una forma che per quanto delineata è tuttavia informe e soffocata, può essere indispensabile un’esperienza psicoterapeutica. Questa offre infatti innanzitutto un’importante «…funzione ausiliaria di supporto all’Io, esercitata dalla madre-analista» (2, p. 109). Tuttavia è bene subito sottolineare che un tale supporto, con modalità diverse ma non per questo inefficaci, può provenire da altre attività ed esperienze, prima tra tutte il processo artistico, soprattutto il rapporto con gli strumenti e i materiali del suo procedere creativo.
Va però da sé che qualunque azione di supporto, sia essa svolta da un analista o da altre attività quale quella artistica, non esercita un’azione paragonabile soltanto a quella di una madre - come afferma la citazione precedente - ma contemporaneamente assimilabile a quella di un padre. Il prodotto artistico è infatti di per sé l’esteriorizzazione di vissuti poco elaborati, poco coscienti e soprattutto sfuggenti e indefiniti che “premono” a livello sensoriale ed emotivo, e che appartengono a “tracce” di rapporti interumani con un insieme di figure di riferimento, vale a dire con la madre, con il padre o con chi ne abbia rivestito il ruolo (7) (3).


L’arte è interiorizzare se stessi all’esterno

Il prodotto artistico è una modalità particolarmente pura di “presente ricordato”: tracce di relazioni con la madre o con il padre, o con le entrambe le figure o con altre ancora, si riversano all’esterno - e nell’alveo dell’istante in atto - sopra a un supporto che a sua volta rievoca e incarna la presenza materna o paterna, questa volta però rendendola plasmabile e “inventabile” in misura ampia e in forma definita. In questo senso il prodotto artistico è padre o madre, ed è amato e al tempo stesso odiato, cercato ed evitato, ma sempre in qualità di “luogo” in cui le tracce interiori e indefinite, sensoriali ed emotive, di relazioni avute con padri e con madri di un passato in cerca di definizione, incontrano un “doppio” esterno dove riversarsi e conformarsi, e soprattutto dove potenzialmente evolvere (8).
In sostanza, le tracce dell’ “originariamente inconscio”, specie se traumatiche - e perciò insistenti nella loro indefinitezza sensoriale ed emotiva – possono essere immesse in un supporto anch’esso ricco di elementi sensoriali ed emotivi, sia questo la presenza dell’analista (insieme al setting) o una produzione e un prodotto artistici, riuscendo così a trasfondersi all’esterno e ad attualizzarsi, a comporsi e a “inventarsi”. Perciò il poeta e romanziere Bernard Noël afferma, a proposito dell’atto della scrittura (ma il discorso è valido anche per qualunque atto creativo artistico): «…scrivere è interiorizzarsi all’esterno senza saperlo» (9).
Quindi il prodotto artistico, insieme al processo che ripetutamente lo “lavora” e lo compone, agisce elettivamente come organizzatore esterno: un vero contenitore che per effetto di una materializzazione proiettiva, e grazie alla natura sensoriale ed emotiva di quest’ultima, accoglie elementi psichici non integrati, spesso di natura traumatica e prevalentemente anch’essi di natura sensoriale ed emotiva.
Infatti il processo creativo, in qualunque modo si compia – in veste di scrittura, di pittura, di scultura, di composizione musicale e via dicendo – è costituito da tre componenti: gli elementi riversati all’esterno, il processo insieme gestuale e intellettivo che opera questa materializzazione, e infine il risultato, il prodotto artistico. E poiché le tre componenti possiedono tutte una qualità eminentemente sensoriale ed emotiva, questa rende il processo un tutto unico, un crogiuolo nel quale il passato più sfuggente, inscritto nell’ “originariamente inconscio” in forma corporeo-affettiva, ottiene una riformulazione presente, la sola possibile e realmente esistente.
Questa poi a sua volta potrà possedere più l’uno o l’altro di due possibili aspetti: potrà essere il reiterarsi di uno scenario bloccato, pur sempre poco definito e informe, soffocato e contratto, costituendosi perciò come semplice riformulazione di un sintomo preesistente, sebbene adesso “collocato” e distanziato all’esterno; oppure potrà essere uno scenario in costante e creativa evoluzione, sempre lo stesso e tuttavia ogni volta diverso, strutturalmente lontano dall’informità bloccata di un sintomo.


Il Sé ferito: vero destinatario dell’operare artistico

Una domanda si impone. Prima che allo spettatore, a chi si rivolge realmente l’opera d’arte? Chi è il vero destinatario di cui lo spettatore impersona inconsapevolmente il ruolo? L’opera si rivolge ai genitori reali? Anzi, ai genitori del passato? O piuttosto alle tracce imprendibili, sensoriali e affettive – e perciò fantasticate e fantasmatiche – inscritte e generate dal rapporto con loro e poi evolute in maniera autonoma?
Proprio perché rivolta a tracce che sono dentro se stessi, e perché nel contempo è la trasposizione esterna e concreta di queste stesse tracce, l’opera è un luogo di costruzione e di reinvenzione del Sé. E’ rivolta al proprio Sé ferito, alle tracce traumatiche in esso inscritte, affinché queste, in lei e attraverso di lei, possano reinscriversi e così definirsi, e soprattutto affinché possano evolvere e riplasmarsi.
Si può anzi dire che l’opera d’arte incarna un possibile sguardo altrui, e in realtà anche il proprio sguardo rivolto a se stessi. Tuttavia adesso, nell’opera d’arte, lo sguardo d’altri, che è anche il proprio sguardo interno rivolto a se stessi (quest’ultimo è comunque la personale rielaborazione, in gran parte inconscia, dello sguardo altrui interiorizzato (10)), si materializza all’esterno in una forma controllabile e manipolabile e può così sostituire lo sguardo di chiunque, altrimenti non controllabile e potenzialmente deludente.
L’opera d’arte è quindi reinvenzione di uno sguardo altrui, ma di uno sguardo che questa volta non deluda. Nel contempo – anzi in questo modo – è reinvenzione di un proprio sguardo, che fondendosi a un nuovo sguardo altrui, “nuovo” perché reinventato e riplasmato nel presente, doni forma e definizione a tracce sensoriali ed emotive costantemente sfuggenti. Queste altrimenti, specie se traumatiche e insistenti, sono fonte di un’ingestibile destabilizzazione dell’identità.
Detto diversamente l’opera d’arte è un supporto, dall’esterno, al narcisismo dell’artista (11): un «riduttore di frattura» nei confronti di ciò che è inscritto a livello sensoriale ed emotivo, e che in più insiste come trauma indefinibile, come ferita sfuggente. Una ferita quindi vissuta ma non sperimentata, che in quanto tale rende fragile il Sé e che soprattutto insegue un contenimento che la organizzi, che la rendenda elaborabile a livello dell’esperienza consapevole (1, p. 52) (12). L’opera è uno strumento di inscrizione, di definizione e di incessante costruzione della propria identità, a partire dal suo fondamento corporeo-affettivo, un fondamento in cerca di “esistenza consapevole” e di conseguente possibile trasformazione.


Due forme d’arte come due opposti autismi

E’ ovvio il rischio implicito in una simile operazione. Poiché questa infatti è per così dire auto-gestita, il rischio è la caduta in una posizione psicologica autistica (11) (13) (14) (15). Il sostanziale emanciparsi dai possibili influssi dell’altro può indurre l’artista a rinchiudersi in un atteggiamento rigidamente difensivo, il quale invece di produrre maggiore consapevolezza determina una condizione di scarsa elaborazione riflessiva e di carente contatto con la realtà.
Infatti questi due processi, vale a dire il contatto con la realtà e l’elaborazione riflessiva, procedono di pari passo alimentandosi a vicenda. E’ quindi fondamentale che l’operare artistico, per quanto possieda inevitabilmente una valenza difensiva autistica, abbia tuttavia l’effetto di stimolare questi due processi, anzi di renderli possibili in una misura che per quella determinata persona non sarebbe probabilmente realizzabile in altro modo. Come infatti annota M’Uzan (in questo caso riferendosi, quale esempio, all’atto creativo della scrittura): «Si scrive perché non è possibile fare altrimenti. Scrivere è a volte il mezzo migliore, se non l’unico, di cui alcuni possano disporre per venire a patti con la loro economia psichica» (16).
E’ però vero che là dove i due processi - il contatto con la realtà e l’elaborazione riflessiva - siano già in partenza fortemente deficitari, come nel caso di personalità psicotiche, l’operare creativo non può di per sé attivarli. Ed è altrettanto vero che una eventuale stimolazione di questi processi può comunque verificarsi soltanto qualora la persona dialoghi - e soprattutto accetti di dialogare - con un contesto interumano e culturale, operazione, questa, che è appunto particolarmente problematica nelle personalità psicotiche.
Il contesto interumano e culturale, nel caso di chi intraprenda una carriera artistica, è solitamente composto da più agenti: i colleghi artisti, la tradizione dell’arte, la conoscenza delle tecniche artistiche, i critici del settore, il pubblico, il mercato e così proseguendo. Nel caso invece di molti pazienti psicotici il dialogo con tale contesto è assente, ma soprattutto è da loro non ricercato e anzi evitato (17). Nei veri e propri artisti, invece, questo contatto è non soltanto presente, ma attivamente e speso febbrilmente ricercato.
Si può insomma dire che la personalità di partenza imprime alla valenza intrinsecamente autistica dell’operare artistico un effetto, a seconda dei casi, poco o molto trasformativo, favorendo rispettivamente due opposte modalità creative: una modalità irrigidita, lontana dal contatto con la realtà e dall’elaborazione cosciente; e una modalità invece in grado di pervenire, proprio attraverso questa strada, a un migliore contatto con la realtà e a percorsi di “consapevole esperienza”. In altre parole i due processi, ovvero il contatto con la realtà e l’elaborazione riflessiva, devono essere già abbastanza attivi - o attivabili - nella personalità di partenza (18) (19).


Autoritrarsi è reinventare lo sguardo ricevuto in passato

In termini riassuntivi si può affermare che la funzione psicologica svolta dall’operare artistico, pur essendo una modalità unitaria, può essere scomposta in più sfaccettature interconnesse. Almeno tre sfaccettature risultano essenziali: (a) la capacità di contenere, di organizzare e di delineare le tracce sensorio-emotive dell’ “originariamente inconscio”, (b) creando in questo modo un “presente ricordato”, (c) il quale a sua volta offra un supporto e un’evoluzione al Sé. Tale supporto è dunque offerto alla coesione narcisistica, in particolare alle eventuali ferite che per loro costituzione sensorio-affettiva sfuggono all’elaborazione cosciente.
A queste tre componenti della funzione psicologica svolta dall’operare artistico bisognerebbe aggiungere anche il correlativo effetto comunicativo. Questo, per quanto tenda ad attuarsi in forma difensivamente protetta e fondamentalmente autistica, garantisce potenzialmente un contatto con gli altri, con il contesto e con la realtà, un contatto in grado di stimolare positivamente la capacità riflessiva e l’elaborazione cosciente.
Nel campo specifico delle arti figurative questa articolata funzione svolta dall’operare artistico si rivela particolarmente evidente nel caso dei cosiddetti autoritratti. Una interessante precisazione al riguardo, pienamente in accordo con quanto detto più sopra, è fornita da Marie-Claude Lambotte a proposito della personalità del melanconico. L’autrice riprende, modificandola, una tesi sostenuta da Otto Rank, il quale in un lavoro del 1911 intravedeva nell’autoritratto «…una certa forma di sublimazione dell’amore narcisistico», in quanto «…in questa restituzione appassionata dei tratti del proprio volto vi è un amore narcisistico per la propria persona» (20). Come precisa la Lambotte, l’autoritratto non è però soltanto «…una proiezione della propria immagine, ma soprattutto «…il marchio originale dello sguardo che è stato rivolto su di sé; in altre parole, [l’autoritratto] significa vedere dinanzi a sé quegli stessi occhi mediante i quali si è stati visti una prima volta» (21, p. 364).
Ancora, sempre seguendo quanto dice la Lambotte, «…il pittore si “traccia” – o “ritraccia” – come si è visto prendere corpo attraverso lo sguardo della madre, mediante un processo di identificazione che da allora in poi fa parte della sua struttura. Questo stesso sguardo costitutivo sia della sua immagine che del suo rapporto con il mondo gli ha tramandato la cornice in funzione della quale ha preso forma l’espressione del suo desiderio» (ibidem, p. 226) (22).


PARTE SECONDA – APPLICAZIONE DELL’IPOTESI: JOAN MIRÓ

La melanconia in Joan Miró

L’arte di Joan Miró (1893-1983) è tradizionalmente associata al disincanto giocoso, al sogno e all’infanzia (23) (24) (25). La poetica di questo artista è anche ricca di elementi tragici e oscuri, ma tuttavia resta apparentemente serena. In realtà proprio le lunghe premesse teoriche sopra accennate permettono di interpretare la sua arte come costante auto-trasformazione, in direzione eccezionalmente positiva, di una particolare “ferita” dell’identità, una ferita specificamente melanconica (26). Nell’arte di Miró è possibile infatti rinvenire la sorprendente evoluzione mutativa di “tracce” sensoriali-affettive intrise di un mancato riconoscimento da parte dello sguardo paterno.
Nel periodo più difficile della sua vita, quando l’esilio dalla Spagna si impone a causa della dittatura di Francisco Franco, e sotto il rapido succedersi degli eventi della Seconda Guerra mondiale, Miró realizza, insieme al pittore cubista Louis Marcoussis (1883-1941), un singolare ritratto di se stesso [Figura 1].

Si tratta di un’incisione del 1938 intitolata Ritratto di Miró. In basso a sinistra campeggiano due scritte, pluie de lyres (“pioggia di lire”, vale dire un’effusione musicale che è anche il diffondersi della creatività artistica) e cirques de melancholie (“circhi di melanconia”). Il volto e le mani di Miró sono ricoperti dai simboli del tipico mondo figurativo dell’artista, da sempre indicativi della sua sensibilità più intima: stelle, un sole nero, fiori, pianeti, creature primordiali, il grafema primitivo di una scala. Dei due occhi, il destro è tramutato in una stella, mentre il sinistro ha la pupilla vuota e bianca, come se fosse assente o cieco. Nel suo complesso la raffigurazione sembra descrivere come assolutamente duplice l’identità di Miró: profondamente visionaria, da un lato, protesa verso l’arte e il cosmo (l’occhio a stella, gli astri, la scala, la pluie de lyres), e tormentata e malinconica dall’altro lato, immersa in un’interiorità imprendibile e dolente (l’occhio con la pupilla bianca, il sole e la stella neri, l’oscurità che circonda la mano sinistra, i cirques de melancholie).
Se allora, come detto più sopra, l’opera artistica è in generale una sorta di “protesi” esterna dell’apparato psichico, tale da permettere a quest’ultimo di inscrivere e così di delineare, reinventandole, le imprendibili tracce sensoriali-emotive di un passato composto da “ferite” in costante trasformazione, sembra che nel caso di Miró l’intera operazione riguardi uno sguardo paterno che non ha riconosciuto l’identità del figlio. Quest’ultima infatti appare divisa, come in questo autoritratto, tra un sentimento di vuoto, di rinuncia, di carente autoaffermatività – una mancanza di fiducia nella propria identità, quasi “costretta” a farsi assente a se stessa – e una capacità di evasione e di trascendenza, una sorta di tensione liberatoria verso uno spazioso universo di creatività e di immaginazione.
Nel trasporsi all’esterno, acquisendo una configurazione ora abbordabile da parte della consapevolezza e della riflessione, la “ferita” impressa dallo sguardo paterno diventa però anche materia da “lavorare” artisticamente, vale a dire da far evolvere sul suo stesso terreno, quello sensoriale ed emotivo. Lì, nell’interiorità esteriorizzatasi in opera d’arte, divenuta insomma l’oggetto sensoriale ed emotivo che è il prodotto artistico sotto forma di “presente ricordato”, accade che il mancato riconoscimento dell’identità del figlio da parte del padre - un mancato riconoscimento che è come un sole nero o una pupilla bianca e cieca, e che rende futile ogni cosa come un circo di melanconia - ritrovi anche un nuovo sguardo, quello che la creatività, la pluie de lyres, rende appunto possibile.
L’opera stessa infatti, grazie al contatto che offre con l’ambiente artistico e con i suoi esponenti, ma anche con un’intera tradizione di stili, di linguaggi, di persone, e grazie poi all’interiorità sensoriale ed emotiva che in essa si delinea e che si rende anche modificabile, è adesso un nuovo padre: un potente strumento di riflessione. Ovviamente, qui per riflessione bisogna intendere non solo una capacità di pensare e di ripensarsi, ma anche la possibilità di ricevere un nuovo “riflesso” - una nuova immagine di sé - da parte di uno schermo o di uno specchio. O da parte, appunto, di uno sguardo.


L’opera d’arte come Padre universale

Non solo il Ritratto del 1938, ma l’intera arte di Miró, e soprattutto alcuni suoi caratteristici elementi figurativi, risultano indicativi del costante inscriversi, da un lato, di un imprendibile sguardo paterno che non riconosce l’identità del figlio, e dall’altro lato di un nuovo padre e di un suo nuovo sguardo. L’arte, diventando qui un padre di natura creativa e trascendente, offre alla “ferita” dell’identità - una ferita melanconica, oscura e sterile, fortemente ctonia - un riscatto cosmico e celeste: un supporto identitario inaspettato, nuovo e straordinariamente fertile.
Occorre precisare che quando invece il mancato riconoscimento dell’identità è opera dello sguardo materno, ne risulta minata l’affettività profonda, e allora il trauma melanconico, un trauma “da madre”, è legato alla mancanza - e alla ricerca - di un amore perduto. In questo caso l’identità si fa particolarmente dolente, profondamente fragile e passiva, sebbene accesa da intensa rabbia (27). Quando però il mancato riconoscimento dell’identità è frutto prevalentemente dello sguardo paterno, e soprattutto nel caso in cui il figlio sia di sesso maschile, risulta minato l’aspetto dell’identità più strettamente autoaffermativo. In questo caso il trauma melanconico, un trauma “da padre”, è legato alla mancanza – e alla ricerca – di un riconoscimento perduto (anche mancato o negato).
In altre parole, se la carenza narcisistica, la “ferita” dell’identità è di provenienza materna, risulta minata la stessa nascita del Sé, il suo telaio strutturale, la “sicurezza” primaria e di fondo: la sicurezza di esistere e di poter esistere. Sul piano psicopatologico,si può perciò parlare di una struttura di personalità di taglio psicotico. Se invece la carenza narcisistica è di prevalente provenienza paterna, l’identità ha già una sua base, una sua autorizzazione ad esistere, ma ha invece difficoltà nell’aspetto in qualche modo successivo o complementare, che consiste nello sviluppare le proprie “vere” caratteristiche. Qui in sostanza l’identità ha difficoltà ad adottare determinate caratteristiche avvertendole come veramente personali, e quindi come fonte di salda autoaffermazione. Dal punto di vista psicopatologico, ne deriva allora una conflittualità di natura più spiccatamente nevrotica.
E’ questa seconda evenienza a trasparire dall’arte di Miró. Nel suo mondo figurativo l’universo ctonio, la profonda realtà della terra, in particolare il paesaggio della Catalogna a cui l’artista rimarrà legato fin dall’infanzia (28), è sede del trauma “da padre”, dell’oscura melanconia dovuta al mancato contatto con l’autenticità di se stessi. Tuttavia accoglie al tempo stesso la fertilità di un accudimento materno evidentemente sereno, non traumatico.
Perciò nell’arte di Miró la terra e il paesaggio sono un punto di partenza costante e privilegiato: dimensioni abitate, in un tempo solo, sia da uno sguardo rigido e impositivo, e quindi in fondo assente, lo sguardo del padre che adesso è anche lo sguardo che lo stesso Miró rivolge su di sé, sia invece da una “fiducia di base” di provenienza materna, vera linfa primordiale a cui l’artista può attingere per slanciarsi al di fuori delle limitazioni di provenienza paterna. Non a caso, Miró predilige come fonti ispirative alcuni aspetti “primari” e “materni” della propria terra, quali i graffiti preistorici delle caverne di Altamira o gli sconfinati orizzonti del mare, pur tuttavia ricercando, sempre però nell’ambito di questo stesso alveo costituito dai luoghi di appartenenza, anche aspetti più prettamente “maschili” e “paterni”, espressi per esempio dalle Chiese romaniche e dai loro affreschi, o dalle rocce e dagli alberi che resistono al tempo (29) (30).
Accade insomma che delle due dimensioni mentali ed esistenziali a cui per esempio accenna Binswanger, la dimensione verticale e quella orizzontale (rispettivamente l’«ampiezza dell’esperienza» e l’«altezza della problematica», o la «capacità di costruire» e la «capacità di salire») (31), Miró privilegi innanzitutto la dimensione orizzontale, perché sede del trauma “da padre” ma contemporaneamente anche dell’energia positiva materna. Egli perciò “impasta” a questo livello, grazie alla trasposizione all’esterno offerta dalla creazione di opere d’arte, il vuoto melanconico e una preesistente “fiducia di base”, ovvero una fragilità narcisistica e la sua possibile “fertilizzazione”.
Nasce così lo slancio verso il cielo, vale a dire una rinnovata dimensione verticale che corrisponde poi - nell’opera d’arte ma specularmene anche nello spazio interiore - alla vera e propria creazione di una sorta di padre universale e impersonale, virile e tuttavia non scevro da aspetti femminili. Un padre forte e al tempo stesso accogliente, rigido eppure fluido, autoaffermativo ma disponibile e aperto: un padre-arte che accoglie in sé anche la terra e la madre, anzi le “tracce” interne di provenienza materna. E che infatti nell’universo figurativo di Miró compare, appunto, nella veste di ricorrenti scenari celesti, decisamente “verticali” e “paterni”, resi però straordinariamente simili a fondali marini, più evocativi di vissuti “orizzontali” e “materni”.
Questo nuovo padre, amalgama di componenti paterne e materne o “verticali” e “orizzontali”, è plasmato ed evocato all’interno dei manufatti creativi (dipinti, disegni, incisioni, sculture), per essere da lì poi specularmente introiettato nella mente di Miró. Si tratta di un padre rinnovato che è anch’esso, al pari di quello originario interno, una pura traccia sensoriale e affettiva. La sua presenza materica e corporea ha la natura di una traccia sensoriale e affettiva assai concreta, eppure sempre sfuggente. Infatti questo padre-arte si incarna da una parte nel processo stesso della creazione artistica (l’atto motorio e affettivo del dipingere e dello scolpire), e dall’altra parte nel prodotto finale (la corporeità e la materialità dell’equilibrio compositivo, dei colori, delle forme, dei simboli).
Entrambi questi fattori - l’opera prodotta e il processo necessario a produrla - sono appunto di natura corporeo-affettiva, e quindi provengono dalla stessa area della mente, l’ “originariamente inconscio”, dove sono inscritte e attive le tracce originarie. L’opera d’arte - e il processo necessario a produrla - possono perciò agire sulle tracce originarie interne ed eventualmente trasformarle. Dunque questo padre-arte esterno sostituisce e supplisce, determinandone la trasformazione e la reinvenzione, le dolenti “tracce” originarie interne.


Il tema figurativo della scala

Ecco allora, per esempio, il ricorrere nei quadri di Miró del tema della “scala”. Lui stesso racconta: «La scala è un… motivo ricorrente della mia opera. Nei primi anni, era una forma plastica che appariva spesso perché mi era molto vicina – una forma familiare ne La fattoria [Figura 2].

Più tardi, in particolare durante la guerra quando ero a Maiorca, giunse a simbolizzare “l’evasione”; come forma dapprima essenzialmente plastica, poi era divenuta poetica. O meglio, dapprima plastica, poi nostalgica all’epoca de La fattoria, e infine simbolica» (32, p. 230).
La raffigurazione della scala rende quindi attiva a livello non solo simbolico ma sensoriale e affettivo, strettamente legato alla “materialità” dell’opera d’arte e dei processi necessari a produrla, una vera e propria evasione verso l’alto. E’ quanto accade non solo nel dipinto citato da Miró, La fattoria, risalente al 1921-22, ma in molte altre opere tra cui un dipinto del 1926, Cane che abbia alla luna [Figura 3].

Qui in modo ancor più netto la terra è una corporeità sensoriale e affettiva (uno strato uniforme e spoglio, di colore marrone) da cui evidentemente occorre fuggire, perché sede di istinti feriti e melanconici (il cane che abbia alla luna). Nel contempo fornisce però l’energia, la nascosta “spinta” materna, da cui nasce lo slancio dell’arte (la scala variopinta che si inoltra nell’abissale libertà del cosmo).
Certo, qui la libera “spaziosità” del cosmo è anche temuta e in effetti Miró, negli anni in cui ha realizzato il dipinto, era ancora all’affanosa ricerca del suo stile personale: di una poetica in grado di appagarlo pienamente e di imporlo nell’ambiente artistico. In sostanza il padre-cosmo, “offerto” dai materiali e dai simboli dell’operare artistico, è il luogo in cui a quell’epoca in Miró era ancora in incompiuta gestazione l’amalgama di due opposte dimensioni del vissuto: da un lato le tracce di provenienza paterna, fonte di limitazione, di insicurezza, di rinuncia all’autoaffermazione, di introversione melanconica; dall’altro lato lo slancio che usufruendo di altre tracce, quelle di provenienza materna, intende fondare grazie alla loro energia e al loro appoggio una nuova virilità finalmente autoaffermativa. Perciò nel dipinto in questione il cosmo è ancora buio e anch’esso spoglio, ma ricco di promesse, come attesta la scala variopinta che con fermezza e gioia vi si slancia.
D’altronde anche Margit Rowell, attenta critica dell’arte di Miró, sottolinea l’intrecciarsi di due analoghi temi nella poetica dell’artista: la «…pesantezza della terra, rappresentata dagli sconfinati orizzonti del paesaggio catalano e da figure di lumache, di serpenti, di insetti striscianti, di alberi, di fiori» e «…l’evasione dalle contingenze terrestri, rappresentata da figure di scale, di uccelli, di insetti volatili, di stelle, di comete» (33, p. 12). Il primo tema evoca dunque una dimensione mentale - soprattutto sensoriale e affettiva - più orizzontale e materna, là dove invece il secondo sembra attivare un vissuto verticale e paterno, decisamente “cosmico”.
Il tema della scala, così inteso, porta infine con sé l’immediata analogia con la celebre incisione di Albrecht Dürer, Melencolia I del 1514 [Figura 4], definita da Erwin Panofsky l’«…autoritratto spirituale di Albrecht Dürer» (34, p. 222).

Questa immagine personifica la Melencolia nella figura di un angelo immobilizzato dalla tristezza. Senza analizzare in questa sede la complessa simbologia iconografica di questa composizione figurativa, occorre ricordare che essa rinvia all’idea secondo cui dalle ferite depressive il “genio” creativo dell’artista deve attingere la possibile elevazione verso una realtà trascendente, simboleggiata, oltre che dalle ali dell’angelo, dalla scala appoggiata all’edificio. La scala, nella sua umile e rozza semplicità, indica la limitatezza di tale aspirazione, o meglio la limitatezza dei comuni strumenti umani, alludendo dunque alla necessità di intraprendere il “liberatorio” operare artistico, ma sottolineando anche l’inconcludibile tensione in avanti che esso inevitabilmente impone (35).


Un’autoaffermazione cosmica e marina

Nell’arte di Miró la reinvenzione del padre si compie in molti altri modi. Si può dire che dopo la lunga preliminare gestazione tale reinvenzione sboccia in forma davvero compiuta nella serie di ventitrè gouaches intitolata Costellazioni. Realizzata dal 1940 al 1941, a cavallo del breve esilio in Normandia, dunque sotto l’influsso delle notti stellate di luoghi tanto diversi da quelli della Catalogna, la serie ritrae un puro spazio cosmico nei suoi vari volti. A ben vedere anche qui però si tratta di una terra unita al cielo, o di un fondale marino elevatosi ad altezze planetarie, figurazione di un istinto primordiale slanciatosi nella libera e personale autoaffermazione di se stesso. Sul piano strettamente iconografico, nella serie riappare la scala [Figure 5 e 6], questa volta però unita a occhi, a stelle, agli astri, a grafemi, a numeri, a note musicali, a spirali, a creature sottomarine o celesti, a volti primordiali e a uccelli.

Di nuovo, accade come se questi dipinti ritraessero lo stesso Miró, il suo volto e il suo corpo, riflessi da uno sguardo che amalgama tristezza e gioia, coniugando - per quanto sembri paradossale - un “buco” melanconico e il suo superamento.
L’evidente frammentazione, la dispersione degli oggetti, sono qui inoltre la gioia sofferta – ma finalmente libera – di un’identità non più irrigidita e soffocata, limitata dalle proprie insicurezze, bensì aperta e fluida, capace di trasformare le insicurezze nell’autoaffermazione di un “volo” artistico e creativo. E’ questa un’identità che in tale forma - una forma del tutto personale - è dunque decisamente autoaffermativa. Si tratta come detto di un’autoaffermazione al tempo stesso maschile e femminile, attiva e passiva, “celeste” e “marina”, che in questo modo procede con conquistata fermezza lungo la propria strada.
Miró d’altronde era noto per la personalità impenetrabile: benevolo con tutti, a nessuno era possibile capire esattamente che cosa realmente pensasse, anche se poi aveva l’abitudine di parlare con toni asciutti ma incisivi, in modo risoluto e fermo. Soprattutto, Miró si dedicava con strenua determinazione all’arte, linguaggio da lui avvertito come l’unico propriamente “suo”. Mal sopportava inoltre le persone rigidamente autoritarie e impositive, vedi il generale Francisco Franco, da lui paragonato al ridicolo protagonista dell’Ubu re (1896) di Alfred Jarry, oppure l’amico André Breton, leader del gruppo surrealista, a cui Miró infatti aderì ma mantenendo un ruolo indipendente e autonomo (36).


L’unione di Cielo e Terra

Un rapido accenno spetta adesso al linguaggio artistico di Miró, perché caratterizzato dalla commistione e dalla fluttuazione di arte figurativa, parola poetica, echi sonoro-musicali, calcoli numerici, scultura, arte della ceramica, utilizzo di oggetti quotidiani “inglobati” nella tela dei dipinti nelle sculture (scarpe, scatole di latta e via dicendo).
In tutto ciò risiede un evidente sentimento di ripartenza: un bisogno di auto-generarsi, appunto ripartendo da una sorta di “stupore bambino” avidamente alla ricerca di un’appropriazione sensoriale e affettiva del mondo e di se stessi, grazie a una libera onnipotenza che - come afferma Winnicott (37) - permette attraverso il gioco (qui il “gioco”del fare arte) di sperimentare e di acquisire uno spazio interno in grado di accogliere e di contenere l’impatto con le pulsioni e con la realtà.
E’ questo uno stupore spiccatamente sinestesico, sebbene guidato e sorretto da capacità riflessive ormai adulte. Miró sembra addentrarsi volutamente e con poche mediazioni - come è peculiare di molta arte contemporanea - in un’area sensoriale-affettiva della propria mente, per lì riannodare l’ “originariamente inconscio” con l’età adulta, e i linguaggi dell’indistinto con quelli della distinzione (due ordini del pensiero e del linguaggio di cui la psicoanalisi ha molto parlato, da Matte Blanco (38) fino alla Quinodoz (39) ). In questo modo accade inoltre come se Miró volesse rifondare il linguaggio stesso, la Legge del Padre, innestandovi elementi fluidi e indecisi in parte patologici, eppure, grazie a questa operazione, fonte di una stabilità di per sé non patologica.
Accade anche come se Miró scoprisse la libertà, insieme alla tensione e alle difficoltà, di un profondo dialogo tra l’inconscio “originario” e la coscienza. Una libertà che lo conduce ogni volta a rinvenire, nel momento creativo, ciò che lui stesso non sapeva consciamente di cercare. Ogni volta accade come se lui scoprisse una via di uscita, attraverso un processo che tuttavia nel caso della creazione artistica, a differenza di quello indotto dalla psicoterapia, deve per forza ricominciare di continuo, senz’altro perché privo del rapporto dialettico, transferale e controtransferale, con un altro che non sia soltanto oggetto ma persona, come nel caso del terapeuta. Infatti soltanto il rapporto con quest’ultimo può offrire stabilità all’introiezione di una modalità di relazione, questa intesa come modalità di rapporto con l’altro e insieme con se stessi.
Comunque anche in questo caso l’unione delle due componenti, attiva e passiva, terrena e celeste, orizzontale e verticale è il frutto dell’arte di Miró, nel senso che questa, agendo come un “riduttore di frattura” esterno, come luogo di inscrizione dell’ “originariamente inconscio”, permette alle sfuggenti tracce sensoriali-affettive, soprattutto alle più dolenti, non solo di delinearsi ma di reinventarsi in modo trasformativo. Il supporto esterno offerto dai materiali sensoriali e affettivi – i pennelli, le tele, i colori, la scultura, gli oggetti e via dicendo – agisce come vero e proprio “prolungamento” dell’apparato psichico, suo straordinario supporto perché manipolabile, da un lato, con consapevolezza e riflessione, e dall’altro lato con la più intima partecipazione corporeo-affettiva. Inoltre tale supporto, pur di per sé autistico perché auto-gestito, consente tuttavia - se la personalità di partenza, come nel caso di Miró, ne ha le premesse - un rinnovato contatto con la realtà esterna, anzi un fermo inserimento in essa, e quindi in parallelo il già detto fecondo legame con corrispondenti metamorfosi psicologiche interne.


La consapevolezza della morte come stimolo a rinascere

Nel 1938 Miró realizza un’opera da lui considerata incompiuta, l’Autoritratto I [Figura 7].


Ad essa segue nello stesso anno l’Autoritratto II [Figura 8].

Il suo amico e biografo, Jacques Dupin, scrive: «Qui forse abbiamo [in queste due opere] un unico autoritratto in due dipinti… Se questo è vero, il primo… esprime la tragedia, il confronto con la morte, con un disegno puro, minuzioso, implacabile fino alla furia; il secondo celebra il trionfo della vita…» (40, pp. 304-306). Bisogna sottolineare che nel secondo dipinto Miró si autoritrae sotto forma di un paio di occhi somiglianti ciascuno a un sole irradiante, circondati insieme da stelle e da pesci. Di nuovo, lo sfondo circostante è completamente nero, ed evoca al tempo stesso un fondale marino e l’incerto e libero spazio cosmico.
Miró conservò una copia dell’Autoritratto I, e riprese a lavoravi nel 1960. Ha perciò elaborato un altro autoritratto [Figura 9] nel quale al volto precedente si sovrappongono linee di pittura nera fortemente spesse, tali da configurare un personaggio insolito, bizzarro e burlesco, non esente da tratti inquietanti.

Gli occhi del personaggio sono raffigurati come due cerchi neri, il sinistro accentuato da un ulteriore cerchio in rosso, mentre poi più sotto una chiazza gialla si diffonde nel pieno dell’area genitale. Il pittore Robert Motherwell, esponente dell’Espressionismo astratto – movimento artistico statunitense che attinse molto all’arte di Miró e a cui quest’ultimo a sua volta non ha mancato di ispirarsi -, dice di questa immagine: «Vi è in essa uno scherzo di Dio a cui non si può sfuggire – la consapevolezza della morte…» (41, pp. 65-67).
Ancora una volta in questa sequenza figurativa Miró testimonia la ricerca e la costruzione, dentro al prolungamento esterno che l’operare artistico fornisce al suo apparato psichico interno, di un’energia generativa, fallica, che scaturendo da profondità primordiali e materne, ed elevandosi poi nella consapevolezza di sé offerta dalla libertà e dalle sfide del cielo e del cosmo, è in grado di rinsaldare un’identità minata da un vuoto depressivo, da una passività melanconica. La presa di coscienza della lacerazione depressiva, del “buco” generato dallo sguardo paterno, avvolge quest’ultimo - pur lasciandolo inevitabilmente intatto - con un impulso trasformativo che è una continua spinta a rinascere. Gli autoritratti costruiscono tutti, a livello della “corporeità affettiva” del prodotto artistico, un nuovo sguardo paterno a sua volta maschile-femminile o paterno-materno, capace di impersonare e di riflettere una nuova identità dell’autore, un nuovo volto di Miró.


Il dato biografico

Nemmeno in chiusura è realmente importante accennare al dato biografico. No, non è importante citare la personalità rigida del padre di Miró, l’opposizione dei genitori alla carriera artistica del figlio, l’episodio depressivo che di conseguenza lui ebbe in gioventù. Nemmeno è utile ricordare il carattere schivo e taciturno, decisamente triste che Miró ebbe negli anni della scuola, e che trovò riscatto soltanto nella frequentazione dell’Accademia d’arte. Ancora è secondario citare le alternanze di stasi e di iperattività che hanno costellato la vita di questo artista, e che pur suggeriscono il susseguirsi di momenti depressivi e ipomaniacali. Nel caso di Miró, ma anche nel caso di qualunque artista e nel caso di qualunque essere umano, non sono infatti in gioco gli eventi di un passato statico e ben definito, quanto le tracce sensoriali e affettive dell’interiorità profonda, assolutamente soggettive e in costante evoluzione. E’ in gioco la sola dimensione dell’ “originariamente inconscio”, che più che un passato definito e statico è, del passato, l’imprendibile e cangiante reinvenzione.
Le vere ragioni che inducono un artista a essere tale, così come le vere motivazioni dei contenuti delle sue opere, non risiedono nelle vicende del passato biografico: risiedono nelle tracce e nelle concatenazioni inconsce che si esprimono nelle sue opere e che lì evolvono, evolvendo in parallelo nella sua interiorità.
Queste concatenazioni o reinvenzioni possono tramutarsi in sintomo, in illusoria e statica ricostruzione di un ipotetico passato ben definito, solitamente tragico. Ma possono anche tramutarsi in creazione artistica: in ricostruzione infinita e mai statica di un presente in cui il passato assuma il volto di una vita che cresce in avanti. Una vita anch’essa spesso intrisa di vissuti tragici e dolenti, ma in questo caso tali da alimentare un “presente ricordato” che di per sé ha il volto e le movenze di una spinta in avanti.
Annota Miró in un suo scritto: «Io sono di indole tragica e taciturna. Nella mia giovinezza ho conosciuto periodi di profonda tristezza. Ora sono abbastanza equilibrato, ma tutto mi disgusta: la vita mi sembra assurda… Se vi è qualcosa di umoristico nella mia pittura, non è il risultato di una ricerca cosciente. Questo humor deriva forse dal bisogno di sfuggire al lato tragico del mio temperamento. E’ una reazione, ma involontaria» (42, p. 58). Aggiunge in un altro scritto: «Se non dipingo divento inquieto, mi sento depresso, mi tormento, sono triste, ho idee nere e non so che cosa fare di me stesso» (43, p. 224).


La potenza dell’anonimato

Miró inoltre afferma: «L’anonimato mi permette di rinunciare a me stesso, ma rinunciando a me stesso giungo ad affermarmi maggiormente» (39, p. 64).
Proposizioni come questa attingono apertamente ai grandi mistici catalani da lui amati, San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila. E’ però possibile leggere in questa sua enunciazione, come peraltro nello stesso interesse verso i mistici, un risvolto psicologico del tutto conseguente a quanto fin qui suggerito.
Accade in effetti come se Miró, attingendo e delineando il vuoto depressivo della propria interiorità, e ciò grazie al supporto esterno fornito dall’operare artistico, ottenesse la già citata e peculiare ripercussione psichica. Volendo qui riferirsi alla teorizzazione di Jacques Lacan (44) (19), di norma l’identità umana rifugge la percezione della mancanza e del vuoto, condizioni immanenti all’esistenza, immanenti dunque non solo ai casi in cui sussistano specifiche ferite depressive. Perciò solitamente, e in maniera difensiva, l’identità rifugge i vissuti di mancanza e compone una propria posizione di “stabilità”: una stabile coerenza di se stessi e degli oggetti esterni. Tuttavia un’identità più autentica si fonda sul contatto consapevole con la mancanza, con il vuoto interno. Questo contatto infatti, più che costituire una sorta di minus, è l’unica possibile fonte di un plus: la fonte dell’aspirazione a un “di più” irraggiungibile che però orienta, esso solo, il desiderio del soggetto, e che anzi proprio perché irraggiungibile e sempre “mancante” fonda un incessante e autentico desiderare.
Sembra pertanto che grazie all’arte Miró abbia potuto ripudiare la “falsa” identità di provenienza paterna, difensivamente rigida e stabile, per lanciarsi alla ricerca di una nuova identità, di per sé sempre “mancante” e in fondo sofferente, ma per questo motivo anche feconda e propulsiva.
Certo, l’”anonimato” esprime anche un’incapacità ad autoaffermarsi, il timore delle proprie pulsioni aggressive, un’identità maschile poco salda, una tendenza alla passività. Tuttavia nel contempo, e grazie all’appoggio offerto dalla creatività artistica – oltre che dalla stessa “identità” di artista - per Miró sembra diventare accessibile un contatto con questa incapacità, con questa “ferita”. Così come diventa possibile il tentativo – tramite la poetica dell’ “anonimato” – di ribaltare la ferita nel suo contrario, vale a dire in una recuperata autoaffermatività: in una sorta di aggressività mediata, non piena e diretta ma pur sempre vivibile, parzialmente conquistata.
E’ dunque questo l’ “anonimato” di cui parla Miró: l’accettazione creativa del vuoto e della depressione, e di una fondamentale carenza nella sfera pulsionale paterno-virile. Grazie a questa accettazione la passività e l’immobilità, anzi la loro spinta a esprimere solo per vie traverse l’identità, diventano l’unica possibile fonte di un’identità più vera, in costante e mai conclusa costruzione. Un’identità che si dipana perciò nel presente sempre nuovo di un passato che ricrea e che trasforma le sue tracce più ferite e dolenti.


Note

(1) Cadoux B., Écritures de la psychose, Paris, Aubier, 1999.
(2) Winnicott D.W. (1974), «La paura del crollo». In: Esplorazioni psicoanalitiche (1989), Milano, Raffaello Cortina, 1995, pp. 105-114.
(3) Bleichmar H. (1997), «Il rimosso, il non-costituito e la disattivazione settoriale dell’inconscio». In: Psicoterapia psicoanalitica. Verso una tecnica di interventi specifici, Roma, Astrolabio, 2008, pp. 124-241.
(4) Edelman G.M. (1989), Il presente ricordato. Una teoria biologica della coscienza, Milano, Rizzoli, 1991.
(5) Green A. (1973), «Il doppio e l’assente». In: Slegare. Psicoanalisi, antropologia e letteratura (1992), Roma, Borla, 1994, pp. 43-68.
(6) Viderman S., La Construction de l’espace analytique, Paris, Denoël, 1971.
(7) Guillamin J., «Le « moi » clivé et son partenaire (ou Clivage du « moi » et interagir)», Psychologie médicale, 1991, 23, 4, pp. 355-360.
(8) Alessandrini M., Vedere il Sosia. Le emozioni come Doppio impensabile (in appendice: Paul Sollier, Les Phénomenes d’autoscopie [I fenomeni di autoscopia], 1903), Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2003.
(9) Noël B., L’Œil de la lettre, numéro spécial Bernard Noël (sous la direction de Catherine Martin-Zay), Orleans, Librairie Les Temps Modernes, 1996.
(10) Alessandrini M., «Lo specchio e la notte che l’altro è in me. (Note in margine ai fenomeni di transfert-controtransfert)», Il vaso di Pandora, 2000, VIII, 2, pp. 11-21.
(11) Semi A.A., Il narcisismo, Bologna, Il Mulino, 2007.
(12) Alessandrini M., Eco a me stesso. La metamorfosi schizofrenica di Hölderlin in eco, Roma, Edizioni Scientifiche Ma.Gi., 2002.
(13) Tustin F. (1986), Barriere autistiche nei pazienti nevrotici, Roma, Borla, 1990.
(14) Recalcati M., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
(15) Gagnebin M., Pour une esthétique psychanalytique. L’artiste, stratège de l’inconscient, Paris, PUF, 1994.
(16) M’Uzan M. (de), De l’Art à la mort, Paris, Gallimard, 1977.
(17) Navratil L., «Art Brut & Psychiatry», Raw Vision. Outsider Art – Folk Art, 1996, 15, pp. 40-47.
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(20) Rank O., «Ein Betrag zum Narzissismus», Jahrbuch fur Psychoanalytische und Psychopathologische Forschungen, 1911, 3, pp. 401-426 [tr. francese: «Une contribution au narcissisme», Topique, 1974, 14, pp. 29-49].
(21) Lambotte M.C. (1993), Il discorso melanconico. Dalla fenomenologia alla metapsicologia, Roma, Borla, 1999.
(22) Cupelloni P. (a cura di), La ferita dello sguardo. Una ricerca psicoanalitica sulla melanconia, Milano, Franco Angeli, 2002.
(23) Alessandrini M., «Un’arte che ama nascondersi». In: Miró J., Lavoro come un giardiniere e altri scritti, Milano, Abscondita, 2008, pp. 83-89.
(24) Teixidor J., «Miró scultore». In: Prats J.-L. (a cura di), Joan Miró. Le metamorfosi della forma (Catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Strozzi), Firenze-Milano, Artificio-Skira, 1999, pp. 18-45.
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(26) Schildkraut J.J., Otero A. (eds.), Depression and the Spiritual in Modern Art. Homage to Miró, Chichester, John Wiley & Sons, 1996.
(27) Lolli F., L’ombra della vita. Psicoanalisi della depressione, Milano, Bruno Mondadori, 2005.
(28) Llorens T., Miró: la terra (Catalogo della Mostra, Ferrara, Palazzo dei Diamanti), Ferrara, Ferrara Arte Editore, 2008.
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(30) Jouffroy A. (1987), Miró, Milano, Jaca Book, 1987.
(31) Binswanger L. (1956), Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, Milano, Studio Editoriale, 1992.
(32) Miró J., «Entretien avec James Johnson Sweeney» (Partisan Review, 1948). In: Rowell M. (présentés par), Joan Miró. Écrits et entretiens, Paris, Daniel Lelong, 1995, pp. 228-234.
(33) Rowell M., «Introduction». In: Joan Miró. Écrits et entretiens, op. cit., pp. 9-28.
(34) Panofsky E. (1955), La vita e l’opera di Albrecht Dürer, Milano, Studio Editoriale, 2006.
(35) Klibansky R., Panofsky E., Saxl F. (1964), Saturno e la melanconia, Torino, Einaudi, 1983.
(36) Alessandrini M., «Note ai testi»; «Nota biografica». In: Miró J., Lavoro come un giardiniere e altri scritti, op. cit., pp. 65-81; 93-104.
(37) Winnicott D.W. (1971), Gioco e realtà, Roma, Armando, 1974.
(38) Matte Blanco I. (1988), Pensare, sentire, essere. Riflessioni cliniche sull’antinomia fondamentale dell’uomo e del mondo, Torino, Einaudi, 1995.
(39) Quinodoz M. (2002), Le parole che toccano. Una psicoanalista impara a parlare, Roma, Borla, 2004.
(40) Dupin J., Joan Miró – Life and Work, New York, Harry N. Abrams, 1962.
(41) Motherwell R., «The significance of Miró», Artnews, 1959, 58, pp. 32-37 [ora in: Terenzio S., ed., The Collected Writings of Robert Motherwell, Oxford, Oxford University Press, 1994].
(42) Miró J., «Lavoro come un giardiniere» (XX siècle, 1959). In: Lavoro come un giardiniere e altri scritti, op. cit., pp. 57-64.
(43) Miró J., «Entretien avec Francis Lee» (Possibilities, 1947-1948). In: Rowell M., Joan Miró. Écrits et entretiens, op. cit., pp. 223-227.
(44) _i_ek S., «Why Are There Always Two Fathers?». In: Enjoy Your Symptom! Jacques Lacan in Hollywood and out, New York and London, Routledge, 1992, pp. 149-193.

* Marco Alessandrini - Psichiatra, psicoterapeuta, Responsabile Unità Operativa Territoriale del Centro di Salute Mentale di Chieti, Professore a contratto presso l’Università di Chieti (per l’insegnamento di Psichiatria nella Facoltà di Psicologia e per l’insegnamento di Psicosomatica nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria)

Indirizzo per la corrispondenza: Centro di Salute Mentale (C.S.M), Viale Amendola n. 47, 66100 Chieti (Ch), tel. 0871-35.89.08/33, fax 0871-35.89.23; e-mail: lucesegreta@libero.it



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