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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RISPOSTA AL DISAGIO
Area: Suicidio e suicidologia


Le mie lunghe e splendide giornate passate a studiare il suicidio

Maurizio Pompili


Insignito con lo Shneidman Award 2008 dall’American Association of Suicidology
Department of Psychiatry, Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, Italy
McLean Hospital – Harvard Medical School, USA

Corresponding author:
Maurizio Pompili, M.D., Department of Psychiatry – Sant’Andrea Hospital, Sapienza University of Rome, 1035 Via di Grottarossa, 00189 Roma Italy Tel.: +39 06 33775675. Fax:+390633775342; E-mail Address: maurizio.pompili@uniroma1.it or mpompili@mclean.harvard.edu.

w3.uniroma1.it/suicideprevention - prevenzionesuicidio@uniroma1.it


Il contenuto di questo articolo é in gran parte tratto da: Pompili M. La vita e la morte nella realizzazione del suicidio. In: Tatarelli R, Pompili M. Il suicidio e la sua prevenzione. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 (www.fioriti.it).

E' frequente che un discreto numero di persone che per vari motivi interagiscono con me, si stupiscano del mio interesse e studio per il tema del suicidio manifestato persino in splendide giornate di sole e di festa; queste persone sostengono che il suicidio è un argomento mortifero, tetro e macabro che non si addice a tanta manifestazione di vita. Io sono solito rispondere sempre con un'affermazione che testimonia fortemente la vita, e vale a dire che il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di vivere.
Mi sono spesso trovato a parlare con individui che hanno tentato di suicidarsi. E' frequente essere chiamati dal pronto soccorso per fornire una consulenza psichiatrica a questi individui subito dopo le cure mediche di emergenza. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che hanno sopportato una sofferenza psicologica per molto tempo e alla fine hanno scelto il suicidio come possibile soluzione ai loro problemi. Alla domanda perche' avessero deciso di muorire molti rispondono che non vedevano piu' via d'uscita e che non riuscivano piu' a confrontarsi con i loro problemi era venuta meno. Quando indago su cosa li facesse soffrire e discutiamo del loro dolore mentale molti mi guardano intensamente, spesso con le lacrime agli occhi, e il loro sguardo impaurito, sperduto, in cerca di un porto sicuro dice piu' di tante parole. Dicono di aver perso la fiducia nel futuro ma che amavano vivere e che vorrebbero vivere liberi dalla loro sofferenza. Eppure, sebbene il numero di tentativi di suicidio sia straordinariamente grande, le persone che tentano il gesto e quelle che riescono nel suicidio sono comunque poche. Mi viene spesso in mente di aver visto folle gioire, divertirsi, amare la vita e testimoniarla con piccoli e grandi gesti; di aver visto e saputo di sforzi estremi in condizioni terribili anche quando la speranza sembrava attaccata ad un filo oppure di grandi uomini che hanno compiuto piccoli ma determinanti gesti o uomini comuni che hanno salvato vite, restituito fiducia o aiutato a vivere altri. Allo stesso modo, difficolta' estreme sono state gestite da uomini tutt'altro che carismatici, mentre uomini con carisma e poteresi sono ritrovati in ginocchio di fronte alla miseria umana. Affrontare le difficolta' e i dolori della vita fa parte della nostra natura ma esiste una soglia di tolleranza del dolore psicologico del tutto individuale e che alcune caratteristiche di personalita' possono aumentarne o diminuirne la sopportabilita'. Nei soggetti che si suicidano sembra esistere una maggiore vulnerabilita' al dolore psicologico, che unito a molti altri fattori, conduce quell'individuo a cercare la morte. Uomini di successo nel lavoro e nella vita, giudicati come dotati dell'abilita' di destreggiarsi in qualsiasi vicissitudine, di fronte a certe situazioni dolorose e difficili potrebbero essere totalmente sovrapposti con individui meno stabili e con meno sicurezze, tipici di vite precarie e disperate.
La parola suicidio ha origini non molto remote; non compare ne' nel Vecchio ne' nel Nuovo Testamento. I romani non possedevano il termine ma usavano espressioni come "procurarsi la morte (sibi mortem consciere) o usare violenza contro se stessi (vim sibi inferre). L'Oxford English Dictionary riporta che il vocabolo fu introdotta nel 1651 da Walter Charleton quando disse "To vendicate ones self from... inevitable Calamity, by sui-cide is not... a Crime". Ma la data esatta rimane poco chiara. Secondo alcuni Edward Phillips ful il primo a riportare il termine suicidio nella edizione del 1662 del suo dizionario A New World in Worlds. Nel celebre libro di Alvarez del 1971 "The Savage God" si apprende che la parola sembra essere stata in uso ancor prima, con riferimento al "Religio Medici" scritto da Sir Thomas Browne nel 1642. La parola suicidio non appare pero' nel libro di Robert Burton "Anatomy of Melancholy" del 1652 e neppure nel dizionario di Samuel Johnson del 1755. Molti altri termini venivano usati per indicare il suicidio soprattutto derivati dalla terminologia latina. Self-killing era diffuso almeno nel mondo anglosassone come nel trattato di Sym del 1637 "Lifes preservative against self-killing". L'introduzione della parola suicidologia (suicidology) e' stata ufficialmente introdotta da Shneidman nel 1964 e fa riferimento allo studio scientifico del suicidio e alla sua prevenzione.
Un modello nel quale ritrovo le caratteristiche degli individui suicidio e' quello proposto da Edwin Shneidman (1993) ovvero il suicidio come risultato di un dialogo interiore nel quale l'individuo, di fronte ad un problema percepito di grande entita', passa in rassegna le opzioni a sua disposizione. L'opzione del suicidio si presenta nella mente del soggetto, che la rifiuta per passare in rassegna le altre opzioni. Ma il suicidio torna di nuovo e dopo un certo numero di volte nelle quali la possibilita' di risolvere il problema con le altre opzioni disponibili fallisce, il soggetto finisce con considerare il suicidio come la migliore soluzione. In questo contesto l'ingrediente base e' il dolore mentale insopportabile nato da dispiaceri, vergogna, umiliazioni, fallimenti di vario genere. L'individuo vive con uno stato mentale del tutto particolare nel quale non c'e' mai quiete e ne' possibilità di fare scelte ponderate; questo stato e' detto stato perturbato. Spesso la sofferenza mentale viene tollerata per mesi o per anni e, a mio avviso, il soggetto giunge ad uno stato tale in cui anche eventi di minore entita' possono far precipitare la sua condizione e condurlo al suicidio. Capita spesso (come anche alcuni autori della letteratura sul suicidio lo sottolineano) di osservare soggetti che nell'aver tentato il suicidio presentano la loro miseria umana fatta di sconfitte e ferite e non necessariamente i sintomi della depressione cosi' come considerata dalla clinica psichiatrica. Questi soggetti si presentano spesso depressi ma la loro condizione e' il risultato di una reazione ad un fatto che li ha feriti e traumatizzati emotivamente. Puo' succedere dunque che questo accada anche in presenza della depressione ma non necessariamente si deve considerare il rischio di suicidio correlato alla depressione, bensi' possono esistere due dimensioni separate che si intersecano: quella della depressione e quella della suicidalita'. Quest'ultima caratterizzata dal dolore mentale insopportabile e della visione tunnel, ossia il poter vedere solo in una sola direzione e mai altre opzioni a disposizione. Questi individui pensano con una logica molto diversa da quella comune, un pensiero dicotomico nel quale il range delle opzioni e' ristretto a due: poter risolvere magicamente il proprio dolore (impossibile) oppure suicidarsi (possibile). Gli eventi avversi o spiacevoli della vita di tutti i giorni che spesso ci causano sofferenza derivano dalla mancata soddisfazione e frustrazione di bisogni psicologici che ognuno di noi possiede, con sfumature molto particolari e del tutto personali. Come nel caso dei bisogni fisici, anche per i bisogni psicologici la frustrazione si traduce in una sofferenza sempre maggiore soprattutto nel caso di quei bisogni che riteniamo fondamentali per la nostra esistenza. Se questi bisogni psicologici vitali non vengono soddisfatti, l'individuo giunge a mettere in discussione la sua vita pur di alleviare il dolore derivante della frustrazione di questi bisogni. In una recente ricerca (Pompili et al, 2007) abbiamo evidenziato che i pazienti ricoverati presi in esame presentavano una netta corrispondenza tra livello di dolore psicologico e relativo rischio di suicidio. Molti di questi pazienti al momento delle dimissioni presentavano un miglioramento clinico evidente, ma le cure non avevano diminuito il loro dramma interiore. Quando al paziente viene chiesto di parlare della sofferenza, egli e' piu' o meno esitante, ma comunque disponibile ad aprirsi alla possibilita' di essere sollevato dal dolore. E' sufficiente chiedere e testimoniare la disponibilita' as allearsi con lui, e aprire un varco alla riduzione del rischio di suicidio. Certo, sul campo questo e' terribilmente difficile ma possibile e si possono prevedere molti suicidi confrontandosi con la sofferenza umana del fatto che il soggetto vuole suicidarsi. Probabilmente, invece occuparsi del rischio di suicidio senza rivolgersi alla tragedia che vive il soggetto, non riduce la probabilita' egli riesca comunque ad uccidersi.
Una visione più ampia si ottiene considerando altri modelli che descrivono il suicidio. Parte dei principi esposti per descrivere il modello del dolore mentale si rintracciano nel modello medico, nel modello del "Cry for help" e nel modello sociogenico. Una parte dei suicidologi sostiene dunque il modello medico del suicidio, ossia lo considera, come l'esito di fattori sui quali l'individuo non ha controllo e dunque non assegna giudizi di valore etico. Il suicidio è qualcosa che accade alla vittima, un sintomo della sua malattia, una disfunzionalità che l'individuo non può controllare. Si tratta di quella che viene definita la visione deterministica del suicidio e che include dunque il modello medico (suicidio come risultato del disturbo psichiatrico), (Battin, 1995).
Il modello che si riferisce al "cry for help" descrive una strategia dell'individuo non necessariamente connessa al morire quanto al voler apportare un cambiamento immediato nell'ambiente, stimolando l'attenzione di persone chiave alle quale è rivolta la comunicazione. Spesso, questo gesto è descritto grossolanamente ed erroneamente come "suicidio dimostrativo"; una terminologia che pone l'accento sulla colpevolezza del soggetto e sulla bassa letalità del gesto. In realtà si tratta di un gesto estremo di un individuo alle prese con una sofferenza mentale insopportabile. Questi individui, ancor più degli altri suicidi, sperimentano un' ambivalenza tra voler morire e voler vivere e dovrebbe essere fatto qualunque sforzo per portarli sulla scelta della vita.
Il modello sociogenico sostiene la visione di Durkheim (1897) secondo cui il suicidio è il risultato della posizione dell'individuo in un certo contesto sociale. Un certo gruppo può "richiedere", ad individui ben integrati nella società e che rispettano i suoi valori, il suicidio come atto altruistico, contrassegnato da onore e sacrificio. All'opposto si colloca il suicidio egoistico eseguito da individui per nulla integrati e che non rispondono ai voleri della società. Il suicidio anomico è invece il risultato di mancanza di regole nella società in cui l'individuo non è né bene ne' poco integrato; caso questo che viene spesso associato alla moderna società industriale ed a quella contemporanea. L'ultimo tipo di suicidio e' quello fatalistico, solo brevemente accennato dall'autore, descritto come fenomeno raro e che include le vite di soggetti senza alcuna ricompensa come gli schiavi, donne senza figli, mariti giovanissimi. Ma da qualsiasi prospettiva si studi il suicido, si pone l'accento sul fatto che l'individuo è vittima della società e dunque il gesto è una risposta alle forze sociali sulle quali non si ha controllo.
Modelli piu' recenti invocano l'integrazione di impulsivita', aggressivita', disperazione e correlati biologici (Mann et al, 1999). Come gia' accennato, il suicidio e' un evento multifattoriale nel quale convergono il ruolo della vulnerabilita' genetica e biologica, il dolore psicologico, le patologie mentali e fisiche, l'abuso di sostanze, i disturbi di personalita' intesi nella piu' larga accezione del termine, precedenti comportamenti suicidari cosi' pure l'accesso a mezzi letali. I soggetti a rischio di suicidio sembrano incapaci di pensare costruttivamente e progettare soluzioni presenti e future. Di fronte a problemi da risolvere i soggetti a rischio di suicidio sono meno abili a confrontarsi con soluzioni efficaci mostrando quindi un deficit nell'abilita' di problem-solving. I dati provenienti dalle neuroimmagini segnalano che i soggetti a rischio di suicidio presentano alterazioni strutturali o funzionali di alcune parti dell'encefalo. Si e' osservato, ad esempio, che la presenza di ipofunzione di aree della corteccia cerebrale frontale e di ridotta responsivita' alla serotonina, distingueva i soggetti a rischio dai soggetti non a rischio (Oquendo et al. 2003).


Una teoria psicologica del suicidio

Secondo la concettualizzazione della suicidologia classica, il suicidio e' il risultato di tre elementi fondamentali. Affinche' un suicidio avvenga deve esserci un processo di accensione della 'miccia', che passa attraverso diversi stati che precedono l'atto letale. Un primo stato che inequivocabilmente si ritrova sulla via che conduce al suicidio sembra essere l'inimicizia verso se stessi se stessi (inimicality) o in altri termini essere il proprio peggior nemico, agire contro il proprio interesse senza saper gestire l'aumento della pressione derivante da sconfitte, rifiuti, malattie, ecc. Non si tratta del masochismo classico nel quale e' insito il concetto di punizione piuttosto un concetto piu' ampio nel quale l'individuo cerca di far spazio all'autodistruzione agendo contro il proprio interesse. Associato all'inimicizia si ritrova lo stato perturbato di cui si è già detto. Lo stato perturbato fa riferimento a quanto un individuo sia sconvolto, scosso e disperato. E' uno stato difficile da definire e da inquadrare in una precisa entita' diagnostica. Comprende stati emotivi negativi ed e' caratterizzato da un dolore psicologico insopportabile, spesso con manifestazioni somatiche e localizzazioni dell'angoscia come all'ipocondrio o alla gola, tipico del pianto trattenuto. Mi viene da pensare che se solo i soggetti suicidi potessero piangere probabilmente salverebbero le loro vite o che se solo un altro individuo facesse scattare il pianto avrebbe gia' fatto abbastanza per mettere in salvo il soggetto a rischio di suicidio. Conseguente a questo stato e' la visione tunnel o lo stato di constrizione (constriction) con il quale l'indiividuo perde la possibilita' di valutare opzioni alternative e far leva su sicurezze precedentemente acquisite. Il soggetto sucida volta le spalle al suo passato e permette ai suoi ricordi di divenire irreali focalizzandosi solo sulle emozioni intollerabili attuali e sul come liberarsene. Tipico di questo stato e' il pensiero dicotomico nel quale il soggetto tende ad usare parole come 'solo', 'sempre', 'mai', 'per sempre', 'oppure'. Il range delle opzioni si restringe a due: risolvere immediatamente il dolore (soluzione magica) oppure suicidarsi. Quando gli stati fin qui descritti si riscontrano in uno stesso soggetto il rischio di suicidio e' elevato e significa che la miscela sta per esplodere irreparabilmente.
Il soggetto vede la soluzione nel porre fine al dolore cessando di vivere. Quando l'inimicizia verso se stesso, la costrinzione e lo stato perturbato possono essere risolti con con la morte ponendo dunque fine al pensare e al sentire il dolore insopportabile, il soggetto si convince che non puo' piu' gestire la situazione e che la sua angoscia necessita di una soluzione, allora quell'individuo sceglie di suicidarsi. Sebbene la sofferenza e lo stato perturbato della mente del soggetto suicida vengano comunicati, solo in un numero minore di casi il soggetto lascia sapere che per risolvere tale situazione è pronto a suicidarsi. Nei casi in cui questo avviene non si dovrebbe mai sottostimare l'importanza del messaggio ma anzi considerarlo un segnale d'allarme di rilievo tale da far scattare misure preventive.
La visione psicologica del suicidio sottolinea un serio problema epistemologico, ossia come colmare la distanza nella comunicazione delle emozioni negative. In altre parole, sebbene si parli molto di suicidio, solo raramente si fa accenno alla sofferenza che alberga nella menti di questi soggetti. In più, anche se si ammette l'esistenza di tale dolore insopportabile rimane da risolvere come gestirlo e come comunicare all'altro che stiamo comprendendo lui e il suo tormento che per lui una figura positiva e di supporto quindi riusciamo ad aiutarlo efficacemente.
Il fatto di considerare il suicidio un sintomo di un disturbo psichiatrico ha fatto intendere che si trattasse solo di un evento legato alla psichiatria. Ci sorprende invece la lucidità nel pianificare il gesto letale da parte dei suicidi. Essi possono essere anche alle prese con un disturbo psichiatrico ma raramente esso è l'elemento determinante del gesto. Questi soggetti presentano invece una vulnerabilità che li differenzia dalla maggior parte degli altri soggetti che pur soffrendo dello stesso disturbo non hanno mai veramente pensato al suicidio.
Bolger (1999) si riferisce al dolore psicologico come il senso di essere frantumati, rotti ed incompleti accompagnato da perdita di controllo e da panico che sono causati da una rottura nelle relazioni con persone significative. Egli lo riconduce al dolore della consapevolezza della separazione da persone significative sembra avvertire l'individuo di un pericolo che mette in pericolo la sua sopravvivenza e conseguentemente la paura di annientamento, identificata come condizione concomitante al dolore.
Frankl nel 1959 parla del dolore mentale come di uno stato derivante da un vuoto dovuto ad una perdita di significato della vita e che può essere alleviato solo attraverso l'adattamento a valori che danno significato all'esistenza.
Gia' Freud (1917, 1926) aveva ricondotto la sofferenza mentale al risultato di sentimenti legati al lutto e al desiderare un oggetto amato in seguito ad un evento reale di trauma e separazione, come momento indipendente dall'esperienza dell'ansia.
La sofferenza mentale e' l'esperienza della tortura interna, della perturbazione e
di un insieme di emozioni negative derivanti da una forza interna estranea ed ostile che distrugge l'unita' tra il se' e la mente (Styron 1990). Un senso di perdita irreversibile, una ferita narcisistica, e la percezione di cambiamenti negativi nel se' e nelle sue funzioni (perdita di controllo,inondamento, derealizzazione, congelamento,confusione,vuoto) accompagnato da sentimenti negativi che sono evocati da una perdita esterna e da una perdita del se' (delusione del se', impossibilità di raggiungere gli obiettivi) (Orbach 2003). Attribuzione di connotati negativi nei confronti del sè accompagnati alla consapevolezza di essere incompetenti e inadeguati. Alla base del dolore del soggetto vi e' la propria delusione per non poter raggiungere degli standard che considera primari, raggiungere l'immagine del sé ideale (Baumeister 1990). Dall'analisi delle note di suicidio emergono le motivazioni che hanno condotto al gesto letale. Tra quelle più frequenti si ritrova il dolore per malattie o per situazioni immodificabili, relazioni coniugali deteriorate, solitudine, delusioni sentimentali; mentre meno frequentemente, difficoltà finanziarie, umiliazione, rimorso, vendetta.
Qualunque sia la concettualizzazione del dolore mentale e la circostanza al quale è legato, esso rimane un perno intorno al quale ruota il fenomeno suicidario. La comprensione del suicidio deve dunque partire dalla sofferenza dell'individuo.


Fatti e miti sul suicidio

Esiste molta ignoranza sul suicidio. Non solo la gente comune ma molti operatori della salute spesso si riferiscono all'argomento con termini e modalita' improprie. Un falso mito sul suicidio riguarda il fatto che le persone che commettono il suicidio raramente ne parlino. Queste persone invece danno spesso dei segnali verbali della loro intenzione. Ci sono studi che riportano che almeno 2/3 degli individui suicidi avevano espresso precedentemente la loro intenzione. Secondo una visione superficiale, le persone suicide sono determinate a morire. In realta', molte persone sono indecise sul vivere o sul morire, e "scommettono" con la morte, lasciando agli altri il compito di salvarli. Quasi nessuno commette il suicidio senza lasciar sapere agli altri come si sente. Secondo alcuni, una volta che una persona è suicida, lo è per sempre. Gli individui che vogliono uccidersi sono invece "suicidi" solo per un periodo limitato di tempo. Da smentire e' anche il fatto secondo cui, il miglioramento successivo ad una crisi di suicidio significa che il rischio di suicidio è terminato. Molti suicidi avvengono nell'ambito dei tre mesi che seguono l'inizio del "miglioramento" quando l'individuo ha l'energia sufficiente per mettere in atto i suoi pensieri. Ci sono coloro che sostengono che il suicidio colpisce molto di più i ricchi, o all'opposto si verifica quasi esclusivamente tra i poveri. Invece, il suicidio non riguarda da vicino nè il ricco nè il povero. Il suicidio è molto "democratico" ed è rappresentato proporzionalmente in tutti i livelli della societá. Alcuni ritengono che tutti gli individui suicidi siano malati mentali, e il suicidio sia sempre un atto compiuto da una persona psicotica. Lo studio di centinaia di note di suicidio e le testimonianze di molti tentatori di suicidio indica all'opposto che, sebbene la persona suicida sia molto infelice, non è necessariamente un malato mentale. Da sfatare e' anche la convizione che la persona suicida voleva morire e ritieneva che non ci sia modo di tornare indietro. Molto piu' esatto e' che la persona suicida spesso si sente ambivalente sul voler morire e sul vivere, come se volesse entrambi le opzioni. Rimango allibito quando studenti e non sostengono che parlare del suicidio può dare l'idea per commettere il gesto. Molti soggetti alle prese con problematiche psichiche e fisiche hanno già considerato il suicidio. La discussione aperta dell'argomento aiuta la persona in crisi a capire meglio i suoi problemi a considerare le possibili soluzioni e spesso fornisce sollievo e comprensione (Pompili e Tatarelli 2007).


Il suicidio come evento inatteso

Non c'e' dubbio che il suicidio sia la morte che piu' ci fa paura e la piu' inaspettata. Si fa riferimento a coloro che sono testimoni con la loro sofferenza della perdita di un caro per suicidio. Ma anche tra gli operatori della salute in generale e tra quelli della salute mentale in particolare il suicidio irrompe come un evento improvviso e di grandissimo impatto. Molte risorse vengono impiegate per spiegare il suicidio mentre ancora poca attenzione riceve la comprensione del fenomeno. La continua spiegazione del suicidio da' l'impressione di essere sulla strada giusta per impadronirsene a pieno; eppure copo o nulla viene cambiato ai fini pratici della prevenzione. La nostra reticenza a parlare di suicidio dimostra la necessita' di fuggire da un tema scomodo e, per certi versi, incomprensibile. Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanita' ogni anno nel mondo, circa un milione di individui muore a causa del suicidio, il che equivale a dire che si realizza un suicidio ogni 40 secondi e con dati meno certi un tentativo di suicidio ogni 3 secondi. Non vi e' dubbio che queste cifre siano nettamente superiori alle vittime di catastrofi, dallo Tsunami alle Torri Gemelle a New York, oppure a tutte le vittime per conflitti bellici che ogni anno purtroppo si verificano. I tassi di suicidio negli uomini si differeziano notevolmente da quelli delle donne, che hanno cifre molto. Ma presentano un tasso di tentativi di suicidio maggiore. Per questa differenza sono state spesso proposte molte spiegazioni. La piu' immediata rimane quella inerente la scelta del metodo di suicidio; molto piu' letale negli uomini come nel caso di armi da fuoco e salto nel vuoto a confronto con metodi meno letali come intossicazioni, avvelenamenti o tagli che fortunatamente in un buon numero di casi lasciano spazio alla possibilita' di soccorso. Negli ultimi cinquant'anni si e' poi registrato un drammatico aumento dei suicidi nella fascia di eta' 15-24 anni tanto da divenire la seconda causa di morte tra questi individui. Notevoli sforzi son stati attuati per fronteggiare questa emergenza e solo negli ultimi anni si sono visti lievi riduzioni dei tassi di suicidio. Ma l'Organizzazione Mondiale della Sanita' ha recentemente posto l'accento sul fatto che visti il trend degli attuali suicidi, nel 2020 si potrebbe arrivare ad oltre un milione e mezzo di morti per tale causa; una stima fortemente pessimistica che fa riflettere su quanto si debba ancora fare per fronteggiare il fenomeno. Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio coordinata dall'International Association for Suicide Prevention al fine di sensibilizzare sulla necessità di arginare il fenomeno suicidario.
Nella maggior parte dei casi ci troviamo a lottare contro malattie e morte e con il medico intraprendiamo una battaglia comune. Nel caso del suicidio paziente e medico si trovano l'uno contro l'altro in quanto il primo desidera morire e l'altro deve fare di tutto per evitarlo. Eppure molti studi riportano che i soggetti che hanno intenzione di suicidarsi, lo comunicano, spesso anche chiaramente, recandosi da un medico poco tempo prima dell'atto letale. Si stima che almeno il 45% delle vittime del suicidio si rechi dal medico di base il mese prima del suicidio (Luoma et al. 2002). Sfortunatamente, gran parte di questi individui non viene riconosciuto in quanto spesso si presenta con lamentele somatiche non facendo nascere il sospetto di essere a rischio di suicidio.
Andersen et al. (2000) in uno studio comprendente 472 individui suicidatisi tra il 1991 e il 1995 in una regione della Danimarca, hanno osservato che ben il 66% di questi avevano consultato un medico di base, di cui il 13% e il 7% erano stati dimessi rispettivamente da un ospedale psichiatrico e da un ospedale generale.
Spesso i medici di base hanno difficoltà ad assicurare una situazione di calma in cui poter accertare il rischio di suicidio (Pompili et al., 2002; Stovall e Domino, 2003; Pompili et al., 2004). È auspicabile un canale diretto con i servizi di salute mentale e la possibilità di consultazione tra medico di base e psichiatra di riferimento. Il medico di base nel sospetto di rischio di suicidio dovrebbe ascoltare attentamente ed astenersi da ogni giudizio; dovrebbe ricostruire la storia del paziente e verificare il supporto sociale e familiare a sua disposizione. Successivamente dovrebbe concentrarsi sullo status psichico e sulla visita fisica (soprattutto se vi è stato un tentativo di suicidio). Nel caso di un comportamento suicidario, il medico può chiedere "Perché adesso?" per esplorare le vicissitudini che hanno portato al gesto attraverso l'analisi del momento scelto (Carrigan e Lynch, 2003). È importante discutere l'ideazione suicidaria con il paziente senza temere che ciò possa aumentare il rischio, potendo al contrario essere d'aiuto per esplorare l'hopelessness, l'anedonia, l'insonnia, l'ansia grave, la diminuzione della concentrazione e l'agitazione psicomotoria (Gliatto e Rai, 1999).
I programmi rivolti ai medici di base con nozioni riguardanti il riconoscimento della depressione e del rischio di suicidio sono di grande valore per sfruttare la posizione strategica di questi operatori (Nutting et al., 2005). Nel 1983-1984 un programma di istruzione sul riconoscimento della depressione rivolto ai medici di base dell'isola Gotland (Svezia) fu seguito da una riduzione della mortalità per suicidio (Rutz et al., 1992). Gli effetti benefici di questo programma si interruppero però quando nuovi medici sostituirono coloro che avevano preso parte al programma. Quando un nuovo programma fu riproposto ai medici di base si ripresentarono gli effetti positivi sulla riduzione del tasso di suicidio (Rutz et al., 1997). Recentemente uno studio tedesco ha segnalato una riduzione dei tentativi di suicidio dopo un programma di istruzione sulla depressione (Hegerl et al., 2006). Meno incoraggianti sono stati gli studi inglesi nei quali l'istruzione ai medici di base sul come riconoscere la depressione non ha portato ad una migliore diagnosi e terapia della depressione (Thompson et al., 2000). Le cose però miglioravano se si poneva attenzione a come migliorare l'aderenza al trattamento dei pazienti diagnosticati depressi ai quali era stata assegnata una terapia (Schulberg et al., 1996). Più recentemente Szanto e colleghi (2007) hanno riportato che in una regione dell'Ungheria dopo un programma di istruzione rivolta ai medici di base per meglio diagnosticare la depressione si è osservato un declino del tasso di suicidio (da 59,7/100.000 a 49,9/100.000 in 5 cinque anni) rispetto ad una regione presa come controllo. Ma in questo studio la presenza dell'alcolismo rendeva più difficile il riconoscimento della depressione e probabilmente non ha permesso risultati ancora migliori.
Nello studio di Isometsä et al. (1995) in cui si cercava di identificare cosa fosse comunicato dai pazienti nel loro ultimo appuntamento con il medico prima del suicidio, si evidenzia che le informazioni circa l'intenzione suicidaria sono scarne. Infatti di tutti i suicidi analizzati il 41% ha un contatto con un medico nella quattro settimane precedenti l'atto letale, ma solo il 22% comunica in qualche modo l'intenzione di uccidersi. Tali dati risentono però dei limiti delle indagini retrospettive compresa la possibile distorsione delle informazioni da parte dei curanti per paura di ripercussioni legali. Sebbene in Finlandia tali ripercussioni siano eventi molto rari.
Da quanto esposto emerge il problema di identificare i soggetti a rischio al di là della comunicazione da parte del paziente. Spesso i pazienti evitano di riferire i loro propositi suicidari ma sono pronti a discuterne se il curante pone specifiche domande circa la loro intenzione di uccidersi. Fornire istruzione ed informazioni ai medici di base (Rutz et al., 1989) e al personale infermieristico (Rutz, 2005) ha grande impatto sul modo di valutare e gestire i pazienti a rischio, ciò sottolinea l'importanza di programmi di istruzione specifici. Infatti, numerosi studi riportano un miglioramento delle abilità di riconoscimento e delle attitudini nei confronti del suicidio.
Alcuni studi suggeriscono che i pazienti affetti da schizofrenia sono a volte meno inclini a comunicare il loro intento suicidario ai clinici. In uno studio che prendeva in considerazione un periodo di dieci anni, la revisione delle cartelle cliniche mise in evidenza che solo 3 pazienti schizofrenici su 20 (15%) avevano verbalizzato un intento suicidario a confronto del 44% dei pazienti affetti da altre diagnosi anch'essi morti per suicidio. Quando si prendeva in considerazione il tempo trascorso tra l'ultimo tentativo di togliersi la vita e la morte, si osservava che i pazienti schizofrenici presentavano un lasso di tempo più lungo rispetto agli altri pazienti (in media 24 mesi contro 12 mesi). Altro dato che ci proviene da tale studio è che il 75% degli schizofrenici aveva avuto un contatto con il dipartimento di salute mentale nella settimana precedente l'atto letale, parte dei quali nelle 36 ore precedenti la morte (Breier e Astrachan, 1984).
In accordo con questi dati, un altro studio ha riportato che durante i primi due anni di un nuovo programma di supporto otto pazienti su dieci suicidatisi avevano incontrato un clinico nelle 72 ore precedenti la loro morte (Cohen et al., 1990).
Spesso molti soggetti presentano una o piu' caratteristiche o segnali d'allarme che dovrebbero essere considerati attentamente. Sebbene l'intenzione non sia sufficiente a compiere il gesto suicidario, coloro che circondano il soggetto che esprime desiderio di morire o emette segnali come "Magari fossi morto" o "Ho intenzione di farla finita" oppure segnali meno diretti come "A che serve vivere?", "Ben presto non dovrai più preoccuparti di me" e "A chi importa se muoio?" dovrebbero mobilitarsi per cercare aiuto. Inoltre isolarsi dagli amici e dalla famiglia, esprimere la convinzione che la vita non abbia senso né speranza, disfarsi di cose care, mostrare un miglioamento improvviso e inspiegabile dell'umore dopo essere stato depresso; trascurare l'aspetto fisico e l'igiene sono altri segnali che spesso sono rintracciabili nelle vittime del suicidio. Altri elementi che devono destare preoccupazione sono: fare scorte di farmaci, comprare armi, un improvviso nuovo interesse oppure la perdita di un interesse per la religione, trascurare attivitá quotidiane di routine fissare un appuntamento medico anche per sintomi lievi. Tuttavia, come nel caso dei fattori di rischio descritti piu' avanti, il grande limite di questi elementi e' che conducono a riconoscere troppi falsi positivi ossia ad identificare soggetti non a rischio di suicidio. L'ideazione suicidaria e' molto frequente nella popolazione generale e sembra non essere un fattore predittivo di suicidio. Spesso affermiamo di aver l'intenzione di fare una certa cosa ma poi passano mesi o anni senza che si faccia nulla al riguardo. L'ideazione suicidaria e' per certi versi allo stessa stregua; di fronte alle difficolta' spesso affermiamo "Voglio morire" ma poi si inorridisce pensarci ulteriormente. I segnali sopra riportati devono dunque essere inseriti in una valutazione piu' ampia e meticolosa ma dovrebbero essere gli strumenti piu' rudimentali per la prevenzione. Troppo spesso infatti il suicidio e' inatteso solo perche' si sono negati i segnali d'allarme della vittima.
Un grave problema e' quello dei tentativi di suicidio e di un corretto monitoraggio delle condizioni di questi soggetti nel tempo. Gli individui che tentano il suicidio hanno un alto rischio di effettuare ulteriori tentativi di suicidio, spesso con esito letale. Alcune strategie di sostegno per coloro che hanno tentato il suicidio sono di grande valore, prima fra tutto effettuare incontri programmati con follow-up a intervalli regolari. Deve inoltre esserci una valida rete di collegamento tra i servizi psichiatrici in modo tale da riconoscere e gestire questi individui globalmente.
Motto e Bostrom (2001) hanno condotto un trial randomizzato controllato su coloro che avevano ricevuto cure psichiatriche ospedaliere e che avevano rifiutato successivi contatti sebbene giudicati a rischio di suicidio. Un gruppo di pazienti ricevette il protocollo di studio in modo randomizzato, mentre ai controlli non ricevettero nessun intervento. I pazienti del primo gruppo, che furono contattati tramite lettera almeno quattro volte l'anno per i cinque anni dello studio, avevano un tasso di suicidi inferiore, soprattutto nei primi due anni di osservazione. Sembra dunque che la frequenza dei contatti e la loro regolarità possa giocare un ruolo decisivo nella prevenzione del suicidio. E ancor di piu', spedire solo una cartolina o una lettera, un piccolo gesto dunque, e' in grado di salvare alcuni individui dal suicidio.


Fattori di rischio e valutazione del rischio di suicidio

I fattori di rischio per il suicidio sono caratteristiche che aumentano la probabilita' di suicidio. Una suddivisione che condivido, tra le varie disponibili, e' quella che li raggruppa in fattori di rischio biopsicosociali, ambientali e sociculturali.

Fattori di rischio biopsicosociali
In questo raggruppamento troviamo la diagnosi di un distrurbo mentale, in particolare distrubi dell'umore, schizofrenia, ansia grave e alcuni disturbi di personalitá; l'abusi di alcol ed altri distrubi da abuso di sostanze; il sentimento di mancanza di speranza o hopelessness; le tendenze impulsive e/o aggressive; la storia di trauma ed abusi; alcune patologie mediche gravi; i precedenti tentative di suicidio e la storia familiare di suicidio.

Fattori di rischio ambientali
Tra questi fattori di rischio ritroviamo la perdita di lavoro o perdita finanziaria; le perdite relazionali o sociali; il facile accesso ad armi letali e gli eventi locali di suicidio che possono indurre fenomeni di contagio, come ad esempio il verificarsi di casi di suicidio in un quartiere o paese in un lasso di tempo ristretto.

Fattori di rischio socioculturali
In questi fattori troviamo invece la mancanza di sostegno sociale e senso di isolamento, lo stigma associato alla necessità di aiuto. In questo caso il paziente non accede alle cure psichiatriche perche' ha paura di essere additato come 'folle' sebbene le cure disponibili potrebbero assicurargli un buon controllo sei suoi disturbi che non hanno nulla in comune con la follia (intesa dalla gente comune). Altri fattori includono alcune credenze culturali e religiose (ad esempio credere che il suicidio sia una soluzione a dubbi personali). Essere esposti ad atti di suicidio, anche attraverso i mass media. Si e' visto che quando i mass media riportano una notizia di suicidio come uno scoop o in modo romanticizzato il rischio che soggetti vulnerabili possano decidere di suicidarsi aumenta notevolmente. Scene di film oppure il suicidio di una persona famosa o acclamata come nel caso dei una rock star possono anch'esse influenzare il rischio. I mass media dovrebbero presentare il suicidio come un problema grave e mai in modo senzazionalistico e soprattutto divulgare un messaggio che presenti la possibilità di essere aiutati o magari fornire indicazioni su dove e come trovare aiuto.


Valutazione del rischio

Simon (2006) ha recentemente indagato il concetto di rischio di suicidio immediato e ha notato che il rischio di suicidio varia nei giorni, nelle ore e ni minuti e dunque la valutazione deve essere un processo continuo e non un evento singolo, almeno nei casi di alto rischio di suicidio. La stragrande maggioranza degli individui suicidi vogliono assolutamente vivere ma non sono in grado di vedere alternative, un concetto che dovrebbe richiamare l'attenzione del clinico. Troppo spesso ci si sofferma sulla terapia di specifici sintomi e si omette di valutare circostanze e situazioni frustranti per le quali il soggetto sta soffrendo e non vede soluzione. La valutazione corretta del rischio di suicidio è un compito assai arduo e necessita di competenza e osservanza delle evidenze disponibili in letteratura. L'arte di saper valutare il rischio di suicidio dovrebbe essere accantonata per far leva su ciò che emerge dai lavori scientifici. Troppo spesso i provvedimenti nei confronti dei soggetti suicidari risentono delle convinzioni del singolo, potendo dunque osservare decisioni assai diverse tra due medici per uno stesso caso. Per qualcuno il rischio di suicidio è alto quando il soggetto non ne parla mentre per altri è prassi sfidare tale rischio incitando il paziente a fare quello che ha in mente. Nulla di piu' errato. Inorridivo quando qualcuno me lo riferiva, ma poi mi è capitato frequentemente di apprendere di questo metodo del paradosso, utilizzando il quale oltre a commettere in grave errore deontologico si rischia anche il reato di istigazione al suicidio (art. 580 del c.p. "Chiunque determina altri al suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, e' punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, e' punito da 1 a 5 anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima ... (omissis))".
Sarebbe opportuno applicare al rischio di suicidio l'approccio proposto da Sackett et al (1997) quando propose il concetto di evidence-based medine "L'uso coscienzioso, esplicito e giudizioso dell'evidenza attuale migliore nel decidere la cura dei singoli pazienti. La pratica della medicina basata sull'evidenza significa integrare l'esperienza clinica individuale con la migliore evidenza clinica esterna disponibile dalla ricerca sistematica"
La valutazione del rischio deve basarsi sulla valutazione dei fattori che contribuiscono alla crisi suicidaria. E' necessario condurre una valutazione psichiatrica completa, identificando fattori di rischio e fattori di protezione, distinguendo i fattori modificabili da quelli non modificabili. Nell'ambito di questa valutazione è necessario effettuare domande esplicite chiedere direttamente sul suicidio. Una prima valutazione basata sui fattori di rischio e sull'apprendere l'intenzione di suicidarsi del paziente può già condurre a determinare se il rischio è basso, medio, alto. Il livello di rischio può essere meglio accertato valutando l'hopelessness (sentimento di disperazione, non avere aspettative positive future), l'abuso di sostanze e l'ideazione omicida. Se il soggetto riferisce cambiamenti nelle abitudini del sonno, dell'appetito, del rendimento lavorativo o scolastico il rischio è verosimilmente più aumentato aumentato. L'ansia grave associata ad insonnia ad attacchi di panico e hopelessness si rivela un buon predittore del rischio di suicidio a breve termine. Un'adeguata valutazione dovrebbe essere rivolta alla valutazione dei rapporti sociali del soggetto. Inoltre devono essere esplorati conflitti relazionali persistenti soprattutto perché in molti casi i soggetti a rischio riferiscono di non vedere soluzione per queste crisi.


Confrontarsi con il soggetto a rischio

Dovremmo tutti saperci confrontare con un nostro simile a rischio di suicidio. Mi piace pensare che tutti dovrebbero saper fare il massaggio cardiaco e la respirazione bocca-a-bocca nel caso ci si trovasse di fronte ad un soggetto con arresto cardiaco salvandogli la vita con il nostro intervento. Il soggetto che desidera morire, allo stesso modo, dovrebbe essere soccorso con interventi adeguati.
E' fondamentale ascoltare attentamente e con calma; comprendere i sentimenti dell'altro con empatia; emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto; esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi; parlare onestamente e con semplicità; esprimere la propria preoccupazione, l'accudimento e la solidarietà; concentrarsi sui sentimenti della persona in crisi.
Esistono poi delle cose da non fare quando ci si confronta con il soggetto a rischio di suicidio, come interrompere troppo spesso; esprimere il proprio disagio; dare l'impressione di essere occupato e frettoloso; dare ordini; fare affermazioni intrusive o poco chiare; fare troppe domande.
Le linee guida di grandi associazioni internazionali come l'American Association of Suicidology, l'Interrnational Association for Suicide Prevention e l'international Academy of Suicide Research suggeriscono che ci sono domande utili da porre a questi soggetti, come: ti senti triste? Senti che nessuno si prende cura di te? Pensi che non valga la pena di vivere? Pensi che vorresti suicidarti? E' poi utile indagare la pianificazione del suicidio con domande quali: ti è capitato di fare piani per porre fine alla tua vita? Hai un idea di come farlo? E' cruciale verificare l'accesso a metodi letali con domande come: Possiedi farmaci, armi da fuoco o altri mezzi per commettere il suicidio? Sono facilmente accessibili e disponibili? E per ultimo il rischio varia notevolmente a seconda di quando il soggetto vorrebbe suicidarsi, quindi è opportuno chiedere: hai deciso quando porre fine alla tua vita? Quando hai intenzione di farlo?


Confrontarsi con il rischio immediato di suicidio

Certamente meno frequente è l'esperienza di trovarsi di fronte ad un soggetto in procinto di commettere il suicidio. Si tratta di una situazione d'emergenza nella quale spesso operano forze di polizia, medici e psicologi, ma anche gente comune.
Colui che ha deciso di suicidarsi quasi sempre si sente isolato e inaiutabile; per il suicida nessuno può capire la sua sofferenza e nessuno è mai stato tanto depresso, umiliato, tradito, ecc. Inoltre, per la mente suicida colui che interferisce con l'atto letale che si sta per compiere vuole solo perpetuare la sofferenza. La percezione nella mente suicida è ridotta (tunnel vision).
Non ci si stanca mai di sottolineare come la vita e la morte giochino una partita sulla sorte dell'individuo fino all'atta letale. Dei 26 soggetti salvatisi dopo aver saltato dal Golden Gate Bridge di San Francisco alcuni avevano cambiato idea dopo essersi lanciati nel vuoto (Friend 2003). Dei 515 individui trattenuti prima che si potessero lanciare nel vuoto, il 94% era ancora vivo dopo i 26 anni (Seiden 1978). Individui nell'atto di commettere il suicidio sono stati convinti a scendere da posti alti o persuasi a metter via l'arma da fuoco che impugnavano diretta alla testa. L'intento suicida rimane incerto fini all'ultimo. Esistono molti fattori che agiscono simultaneamente che sono decisivi affinche' il soggetto decita effettivamente di effettuare l'atto letale o meno (Simon 2006).
Molti di fronte al soggetto suicida sentono di dover mostrare empatia senza tentare di inviare messaggi anti-suicidio. Nonostante la visione tunnel il soggetto rimane aperto al mondo esterno, può ricevere messaggi anti-suicidio e il suo attaccamento alla vita che permane fino alla fine può essere alimentato; finchè e' in vita, si deve presumere che il soggetto voglia vivere.
Un modo per approcciarsi ad un soggetto che vuole suicidarsi e' quello di essere aperti, sinceri, e riferirsi alla sofferenza che si cela dietro l'intenzione suicida. Si può iniziare il dialogo con il presentarsi dicendo il proprio nome e chiedendo quello del soggetto suicida. Si può esprimere cautamente la possibilità di parlare come diritto concesso a chiunque. Come già premesso, si può esprimere la comprensione del dolore mentale insopportabile che attanaglia l'individuo e la necessità di interromperlo. Non conviene sfidare l'intenzione suicida del soggetto bensì si può accettare il sentimento di non voler più vivere come soluzione al dolore mentale. Inoltre si può proporre di parlare delle possibili soluzioni, dicendo che pur essendo un medico, psicologo, ecc., in realtà in quel momento si è un essere umano "impaurito" dall'atto che il soggetto vuole compiere. Si può dire che non ci si oppone al suicidio come principio e che non lo si condanna e che in casi di dolore estremo si è giustificati a provare sentimenti suicidi e che dopo aver ascoltato ciò che si vuole dire, se l'opinione non cambia, non si arrecherà più disturbo. Si può dire che si comprende come l'individuo non voglia continuare ad andare avanti per paura di ulteriore dolore e che ritiene che la morte arrecherà sollievo. Il passo successivo è riportare l'individuo sul lato vitale dicendo che c'è una parte dentro se stesso che non vuole morire; e che l'intenzione di morire nasce dal non vedere altra soluzione. E' fondamentale promettere di aiutare l'individuo e non sarà abbandonato quando si sará allontanato dalla finestra, bagno, ecc.,. Reiterare il concetto di dolore mentale; sottolineare che i genitori ed amici sarebbero disperati di perderlo. Difficilmente si riesce a ridurre la letalità (probabilità che un individuo ha di morire per propria scelta nel prossimo futuro) se non si riduce prima lo stato perturbato - psychache. La letalità fa riferimento all'idea che "posso eliminare questo dolore, posso uccidermi" cioè è l'essenza del suicidio.


Metodi di suicidio

Revisionare le statistiche che considerano i metodi di suicidio piu' in uso nella varie parti del mondo e per fascie di eta' esula gli scopi di questo breve paragrafo. Solitamente si distinguono metodi violenti da metodi non violenti. Comunemente alcuni metodi in ordine decrescente di letalita' sono: armi da fuoco ed esplosivi, salto da luoghi alti, lesione di organi vitali, l'impiccaggione, l'annegamento, l'avvelenamento con solidi e liquidi, la lesione di organi non vitali, intossicazioni con gas, ingestione di sostanze analgesiche e soporifere. Tra gli uomini sono molto piu' rappresentati i metodi violenti (i primi della lista). Nelle donne si osservano, sebbene con una certa variabilita' geografica, i metodi meno violenti e dunque anche meno letali. Va anche detto che non necessariamente un metodo violento corrisponde ad un metodo piu' letale degli altri. Spesso nei metodi violenti viene meno l'integrita' del corpo e sebbene questo sia un elemento che denota la letalita' del gesto, si deve anche ammettere che ci sono metodi in cui l'integrita' del corpo e perfettamente mantenuta con l'utilizzo di un metodo non violento ma altamente letale come l'ingestione di un potente veleno. L'uso di metodi meno letali da parte delle donne lascia spazio al soccorso dei sanitari e quindi si ha come risultato un maggior numero di tentativi di suicidio rispetto agli uomini.
Nel corso dei secoli e' stato utilizzato qualsiasi metodo per minare alla propria vita. Si riportano casi di ingestione di lamette, pettini, dinamite, carboni ardenti o biancheria intima; altri si sono iniettati nelle vene sostanze insolite come il burro di arachidi, aria, mercurio o mayonese. Altri si sono gettati nei vulcani, sono riusciti a decapitarsi con meccanismi di ghigliottina da loro controllati. Oppure si sono strangolati con i propri capelli, si sono fatti mordere da ragni velenosi o sono annegati in tine di birra o vino. Un metodo ancor piu' originale e' il suicide by-cop ossia il creare la situazione nella quale un poliziotto spara al soggetto come risposta ad un suo comportamento.
Sembra dunque che l'autodistruzione non conosca limiti e la determinazione a porre fine alla propria vita possa arrivare al punto di escogitare qualsiasi metodo e quindi prendere alla sprovvista chiunque avesse accertato il restringimento dei mezzi letali.


Strumenti per la valutazione del rischio di suicidio

Stotland (1969) investigò una serie di suicidi avvenuti in ospedali psichiatrici e identificò l'hopelessness come un elemento centrale nei pazienti suicidi. Egli notò un'associazione notevole tra relazione personale-paziente e rischio di suicidio. Cambiamenti nello staff o particolari attitudini tra i membri dello staff potevano aumentare i livelli di hopelessness e quindi aumentare il rischio di suicidio.
Nell'ambito della ricerca sulla depressione e sul suicidio si è osservato che i depressi presentano caratteristiche cognitive, come visione negativa di se stessi, del sé in relazione al mondo e del sé in relazione al futuro. L'hopelessness si riferisce alla visione negativa del sé in relazione al futuro. L'hopelessness è un costrutto psicologico che ha utilità clinica per la valutazione e predizione del suicidio. La maggior parte dei suicidi si sente "hopeless" e nonostante la mancanza di speranza, l'individuo suicida desidera ancora vivere. Esiste una forte ambivalenza tra "hope" e "hopelessness". Il sentimento prevalente è il sentirsi intrappolato in una situazione, in un problema, per il quale non si nutre alcuna speranza (hope). L'hopelessness è il fattore cardine del suicidio, persino più importante della depressione. Beck e collaboratori nel 1974 elaborarono la Beck Hopelessness Scale (BHS) una scale autosomministrata, composta di 20 items (vero/falso) di facile compilazione.
In uno studio di Beck et al, 1989, quei pazienti ricoverati che riportavano un punteggio &Mac179; 9 alla BHS avevano un rischio di circa 11 volte superiore di commettere il suicidio rispetto a coloro che riportavano un punteggio di 8 o inferiore. La ricerca indica che coloro che presentano hopelessness non sensibile alla terapia, con molta probabilitá moriranno a causa del suicidio. L'hopelessness stabile, anche se si osserva un miglioramento dei sintomi depressivi, è inoltre fortemente associata al suicidio. Secondo Petrie el al. (1988) la BHS sembra essere l'unico strumento per predirre un tentativo di suicidio. In uno studio su 1958 pazienti ambulatoriali, la misurazione dell'hopelessness misurata con la BHS era significativamente associata al suicidio. Il cut-off di 9 permise di identificare 16 dei 17 pazienti che alla fine commisero il suicidio. Il gruppo ad alto rischio riconosciuto con tale cut-off aveva un rischio di suicidio di 11 volte superiore rispetto al resto del campione (Beck et al. 1990). Naturalmente nella clinica e nella valutazione dei pazienti le cose non sono cosi' semplici in quanto si applicano anche a questa scale le limitazioni degli strumenti psicometrici autosomministrati. Tuttavia, inserita nell'ambito di una valutazione globale puo' costituire un valido ausilio per la determinazione del rischio di suicidio. La BHS e' stata validata in Italia e sara' a breve disponibile nella sua versione ufficiale ( Pompili et al. 2007; Pompili et al. in stampa).
Molti altri strumenti sono disponibili per la valutazione del rischio di suicidio alcuni piu' sensibili altri decisamente poco idonei ad essere considerati affidabili (Pompili e Tatarelli 2007).


Tentativo di suicidio

Sotto l'etichetta di "tentativo di suicidio" si annoverano una gran varietà di comportamenti che nella maggior parte dei casi si discostano dal reale significato del termine. Secondo un gruppo di lavoro dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Working Group on Preventive Practices in Suicide and Attempted Suicide, 1986) il tentativo di suicidio è un atto non abituale con esito non fatale in cui un individuo deliberatamente inizia un comportamento non abituale, senza l'intervento di altri, allo scopo di causarsi un danno, oppure ingerisce una sostanza in eccesso rispetto alla dose prescritta allo scopo di causare conseguenze fisiche.
Il fatto che i tentatori di suicidio vengano salvati e in molti casi utilizzino metodi poco letali porta spesso ad identificare questi gesti come manipolativi. A mio avviso, troppo spesso la necessità di richiamare l'attenzione con un atto suicidario conduce ad etichettare quel soggetto come colui che sfrutta l'attenzione dei sanitari e dei familiari e che non dovrà essere preso sul serio per successive valutazioni del rischio. Nel celebre libro di Farberow e Shneidman "The cry for help" (1961) gli autori avevano già notato il desiderio del tentatore di suicidio di destare l'attenzione degli altri. Lester (1987) ha fatto notare che anche se l'atto suicidario risulta una punizione, l'individuo può ritrovare in esso un elemento di conforto, soprattutto se precedenti tentativi sono passati inosservati. Sifneos (1966) studiando un gruppo di tentatatori di suicidio mise in evidenza che l'aspetto manipolativo nei tentativi di suicidio era un elemento comune. La maggior parte di questi pazienti erano soddisfatti del risultato del loro atto manipolativo e non erano motivati a ricevere la psicoterapia. L'ansia sembrava essere assente in questi pazienti ed erano più egocentrici e con tendenza all'introspezione; avevano avuto relazioni intense e difficoltà ad esprimere le lor emozioni e avevano maturato aspettative grandiose riguardo se stessi.
Ma se quanto appena esposto rappresenta una faccia della medaglia, molto rimane da fare per spiegare e nominare correttamente chi ha effettivamente compiuto un tentativo di suicidio. La nomenclatura in questo contesto è piuttosto problematica a causa della mancanza di coerenza e condivisione dei termini utilizzati (O'Carroll et al. 1996) . Nell'analizzare lo spettro suicidario ci si accorge di avere ad un estremo l'azione senza intenzione di morire e all'estremo opposto l'intento letale che non esita in morte (tentativo di suicidio). In questo ambito è spesso necessario distinguere chi voleva effettivamente morire da chi è sopravvissuto suo malgrado. L'etichetta "tentativo di suicidio" dovrebbe essere utilizzata solo per i casi in cui gli individui pur volendo morire sono sopravvissuti per cause fortuite, come ad esempio il soccorso prestato subito dopo l'atto, o la riduzione della letalita' in quanto il metodo di suicidio scelto non ha funzionato come il soggetto aveva previsto. Ma anche applicando questa definizione si rischia di raggruppare una popolazione fortemente eterogenea nella quale soggetti con lievi esiti sono raggruppati con soggetti dagli esiti gravissimi pur essendo tutti classificati come tentativi di suicidio. Una migliore definizione si avrebbe calcolando accuratamente la letalità del gesto. In questo modo si potrebbero identificare i tentativi di suicidio ad alta o bassa letalità, discriminando dunque popolazioni diverse con caratteristiche probabilmente specifiche che potrebbero aiutare una migliore gestione di questi soggetti.
Recentemente si è cercato di fare chiarezza sulla nomenclatura della suicidologia con la pubblicazione di linee guida (Silverman et al. 2007a; Silverman et al. 2007b). Secondo queste indicazioni il tentativo di suicidio dovrebbe essere distinto dal gesto suicidario come nel caso della persona che per esempio ingerisce alcune aspirine o aumenta di 3-4 volte il dosaggio delle benzodiazepine che assume ogni giorno. Sebbene ci sia una bassa probabilità di morire, la letalità del metodo è molto bassa per riferirsi ad un tentativo di suicidio. Questi individui sono alle prese con un problema e presentano uno stato perturbato ma non pianificano di morire, essi dovrebbero essere comunque presi in seria considerazione e ricevere una trattamento adeguato (Lester, 1989).
Secondo la nuova nomenclatura, un tentativo di suicidio è definito come un comportamento potenzialmente lesivo con esito non letale per il quale c'è (sia esplicita che implicita) l'intenzione di morire. Un tentativo di suicidio può esitare in nessuna lesione, lesioni di vario genere o morte. Se c'è dunque anche un po' di intenzione di morire allora si parla di tentativo di suicidio, tipo I (nessuna lesione), oppure di tentativo di suicidio tipi II (con lesioni) senza considerare la gravità della lesione o la letalità del metodo. In questi termini si crea dunque una distinzione con il comportamento autolesionistico.
I tentativi di suicidio riferiti dai pazienti hanno inoltre una validità molto limitata soprattutto per via della definizione e del richiamare alla mente l'atto (Kjoller et al. 2004). Freeman, et al (1974) hanno riferito che la maggior parte delle persone incluse nel loro studio sull'intenzione di uccidersi dopo aver effettuato un gesto autolesionistico si riferivano al loro comportamento come suicidario quando invece l'intenzione di morire era minima Nel dossier del Center for Disease Control degli Stati Uniti sui comportamenti a rischio tra i giovani (Centers for Disease Control and Prevention 2005) solo 1 su 3 degli adolescenti che riferivano un tentativo di suicidio aveva richiesto un intervento medico. Meehan, et al (1992) avevano fatto notare su 10 tentativi di suicidio solo 1 aveva richiesto il ricovero. Questo indica che il termine 'tentativo di suicidio' veniva utilizzato anche per varie forme di autolesionismo. Condivido il parere di O'Carroll et al's (1996) che hanno sottolineato che "dal momento che il termine 'tentativo di suicidio' significa potenzialmente così tante cose differenti, c'e' il rischio che alla fine non significhi assolutamente nulla". (p. 238).


Conclusioni

Il temperamento di ciascun individui puo' essere determinante se associato ad alcuni eventi avversi. Normalmente delusioni o sconfitte sebbene vissute con dolore intenso non mettono a repentaglio la vita. Soggetti instabili di fonte ad una delusione o ad un rifiuto possono non riuscire piu' a gestire il loro tumulto emotivo e mettere in atto un comportamento suicidario. I soggetti affetti da disturbo bipolare II (ossia un disturbo psichiatrico caratterizzato da uno o più Episodi Depressivi Maggiori accompagnati da almeno un Episodio Ipomaniacale inteso come periodo definito di umore persistentemente elevato, espansivo o irritabile, che dura ininterrottamente per almeno 4 giorni, e che è chiaramente diverso dall'umore non depresso abituale) e che presentano un temperamento ciclotimico sembrano piu' esposti a rischio di suicidio (Akiskal et al. 2003). Tuttavia, ulteriori indagini riferiscono che e' il temperamento irritabile che distingue i soggetti a maggior rischio di suicidio quando si considera l'intero spettro dei disturbi bipolari (Pompili et al, 2008, in press). Jamison 1999) fa riferimento all'alto rischio in soggetti che presentano un viraggio dalla depressione alla mania o che manifestano un aumento delle componenti irritabili del disturbo. L'uso degli psicofarmaci come ad esempio gli antidepressivi puo', in patologie come il disturbo bipolare, influenzare notevolmente il quadro clinico e verosimilmente aumentare il rischio di suicidio. Infatti, una terapia antidepressiva non ponderata puo' facilitare il viraggio dalla depressione alla mania o aumentare le componenti irritabili del disturbo bipolare incrementando la disforia, l'insonnia e l'agitazione che si e' visto essere associate ad un maggior rischio di suicidio (Fawcett et al. 1987). Vale pero' in quest caso la regola del contrario, ossia individui generalmente ipomaniacali e dunque impegnati e vigorosi nella vita di tutti i gioni possono virare nel versante depressivo con ridotto impeto e sentimento di felicita' e dunque essere candidati ad un piu' elevato rischio di suicidio.
In questo lungo escursus sul suicidio ho cercato di gettere un po' di luce su alcuni temi di rilievo in forma sintetica. Il rammarico sta nel fatto che coprire adeguatamente ogni sfaccettatura del tema occuperebbe lo spazio di un enciclopedia tanto e' vasta la letteratura cio' che si potrebbe dire sui vari approcci, a volte in sintonia e a volte in contrasto tra loro. A questo pero' si associa un sentimento di entusiasmo e gioia per aver fatto parte di questo progetto dedicato sia agli addetti alla salute sia al lettore interessato all'argomento. Conoscere il suicidio e' un dovere di tutti e la speranza che questo capitolo e quelli degli altri autori siano stati utili per questo fine non puo' che stimolare ancor maggior impegno per cercare di ridurre la miseria umana.
Ripenso dunque alle mie giornate passate a studiare questo enigmatico argomento e prendo coscienza del duro lavoro che ci attende per correggere i miti e le false credenze sul fenomeno. Come referente italiano dell'International Association for Suicide Prevention (IASP) ho il compito di organizzare eventi che sensibilizzino l'opinione pubblica. Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio. Il motto per il 2008 e' "Pensa globalmente, pianifica a livello nazionale ed agisci localmente". Il suicidio si può prevenire e la miseria umana puo' essere compresa. A noi spetta il compito di cimentarci con le emozioni negative degli individui suicidi e di come trovare quel ponte immaginario che può condurci alla vera comprensione del loro dramma interiore.


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