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PSYCHOMEDIA
RISPOSTA AL DISAGIO
Nuove Dipendenze



Una possibile lettura della dipendenza dal gioco d’azzardo (o ludopatia)

di Lorenzo Sartini*



Con il termine ludopatia si intende il gioco d’azzardo patologico (GAP), ossia il desiderio compulsivo di giocare scommettendo dei soldi.

Si deve specificare che quando si parla di ‘gioco d’azzardo’ non ci si riferisce solamente ai giochi che si possono fare all’interno dei luoghi notoriamente adibiti a tali attività come i casinò (le slot-machine, la roulette, i vari giochi con le carte), ma a tutte quelle situazioni particolari che permettono la possibilità di scommettere dei soldi in un’attività la cui vincita è, di fatto, pressoché totalmente aleatoria.

Se il gioco d’azzardo classicamente inteso (appunto quello che si fa nei casinò) è vietato sul territorio italiano, dunque illegale, sono invece ammessi e considerati legali tutta una serie di ‘giochi’, alcuni di essi proposti e finanziati direttamente dallo Stato, che non vengono comunemente definiti d’azzardo ma che, pure, sono fortemente connotati dalla componente aleatoria che può determinare la vincita: dalle varie tipologie di schedine e di scommesse sportive, al lotto, enalotto e Superenalotto, da Win for life a tutta la serie dei Gratta e vinci, dalle sale Bingo ai giochi on line (soprattutto il poker).

Con la definizione ‘gioco d’azzardo patologico’ o ‘ludopatia’ comunemente si indica un comportamento compulsivo che connota una vera e propria patologia poiché diviene centrale nella propria vita il desiderio di dedicarsi alle attività legate alla possibilità di scommettere ed alle emozioni (i giocatori parlano frequentemente di scarica di adrenalina) che si provano nei momenti topici del gioco. È il gioco che provoca piacere.

Dunque lo scommettere o il giocare d’azzardo diventerebbero una sorta di vero e proprio bisogno che, se non si riesce a soddisfare, provoca nel giocatore malumore ed irascibilità fino a poter sfociare, nelle situazioni più complesse, in comportamenti manifestamente aggressivi. Proprio per la presenza di questa ricerca spasmodica della possibilità di ‘giocare’, da un punto di vista clinico la ludopatia viene ritenuta similare ai comportamenti compulsivi, incontrollati, che si manifestano nelle persone che hanno a che fare con la dipendenza da sostanze stupefacenti: per questa ragione la problematica ludopatica viene anche considerata una ‘dipendenza senza sostanze’. Una similarità che si può riscontrare anche ad un’altro livello: se l’uso delle sostanze stupefacenti varia anche con il mutare delle sostanze offerte dal ‘mercato’, spingendo all’utilizzo di quelle sostanze messe a disposizione dal mercato illegale in un dato momento (per cui più una sostanza stupefacente sarà facilmente reperibile sul mercato e maggiore risulterà essere il suo utilizzo), non è un caso che la problematica del gioco d’azzardo patologico sia esplosa quando lo Stato, con l’obiettivo di incrementare le entrate economiche (a tal proposito alcuni parlano di ‘tassazione volontaria’), ha iniziato a puntare forte sul gioco d’azzardo pubblicizzando a più non posso sui media di massa tutte le varie possibilità di gioco per “vincere facile” , come recita lo slogan di uno degli spot che più di frequente passano in tv.

Naturalmente non tutti coloro che ‘giocano’ o scommettono si devono considerare ludopatici o affetti dal gioco d’azzardo patologico: la questione è legata soprattutto alla motivazione di chi gioca ed alla misura che, conseguentemente, assume quel tipo di comportamento. Molti sono gli studi effettuati per riuscire ad avere un quadro, il più possibile esaustivo, della personalità di chi si dedica al gioco d’azzardo in forma quanto meno problematica ma altrettante sono le discordanze tra l’uno e l’altro. Ciò significa che ci possono essere significative differenze di personalità e di storia vissuta tra le varie tipologie di ‘giocatori’, ciascuno utilizzando il ‘gioco’ con proprie modalità e finalità.

Stante questa variabilità, è doveroso precisare che in questo lavoro si intende solamente enfatizzare alcuni degli elementi di personalità che possono emergere nell’incontro con i ‘giocatori’, mettendo poi in evidenza quegli aspetti più specificamente legati alla sfera relazionale cui spesso si pone poca attenzione.

Il momento del gioco come godimento

Partendo dalle premesse date è da registrare come, in molte situazioni, si possa osservare come si inneschi un percorso a spirale nel quale la persona arriva ad aver bisogno di ‘giocare’ senza rendersi conto degli effetti che questo comporta, dal punto di vista sociale, affettivo ed economico, per la sua vita. Nulla più è importante se non la possibilità di ‘giocare’; si è interamente concentrati su questo aspetto e tutto il resto viene messo in secondo piano. La propria vita, o almeno ciò che viene ritenuto importante e valevole di impegno e attenzione nella propria quotidianità, si riduce a ciò che riguarda il ‘gioco’: è nel ‘gioco’ che ci si sente in vita.

Il concentrare il senso della propria vita nel momento del gioco, a poco a poco, conduce ad una situazione caratterizzata dal non aver più il controllo del tempo trascorso a ‘giocare’ e dei soldi che si perdono, ciò che va ad incidere pesantemente sulla complessità e sulla qualità della vita della persona, condizionandola da diversi punti di vista: possono insorgere problemi dal punto di vista professionale e lavorativo; possono ridursi drasticamente i rapporti sociali; le relazioni familiari si fanno più tese e, anche se si persiste nel dire che tutto va bene, si accentua la distanza tra le parti. Tutto, come si diceva, perde di interesse in favore del ‘gioco’.

È nel momento del gioco che si ritiene di poter rischiare, è in quel momento che si pensa di potersi mettere in gioco: ma il rischio che si assume è, per così dire, a breve termine, ossia qualunque scelta si faccia determinerà delle forti emozioni in quel momento, ma poi tutto tornerà come prima. Dopo la finestra contenitiva costituita dal ‘gioco’ si ritorna alla vita consueta, con le problematiche, le abitudini e le stereotipie comportamentali di sempre. In definitiva, seppure la situazione si può fare pesante per la piega economica e relazionale che consegue alle proprie azioni, il proprio modo di rapportarsi con l’ambiente esterno non cambia. È come se il piacere e l’angoscia che si possono provare in seguito alle soddisfazioni od alle preoccupazioni che si vivono nel rapporto con gli altri facenti parte del proprio mondo affettivo, venissero sostituite dalle forti emozioni che si provano in seguito alle vincite od alle perdite durante il ‘gioco’. Solo che, mentre nell’ambito del rapporto interpersonale il riuscire ad affrontare la complessità dell’ambivalenza affettiva rispetto all’altro costituisce un fattore di cambiamento e crescita, non così è per l’alternanza delle emozioni legate alle vincite o alle perdite legate al ‘gioco’: in questo caso si sperimenta un tourbillon di cambiamenti di stato che, alla fine dei giochi, non muta nulla nel proprio modo di stare in relazione con l’ambiente circostante. Si entra in una dimensione spazio-temporale, quella del gioco all’interno di un luogo appositamente deputato, dove si prova l’ebbrezza della propria libertà e della propria autonomia decisionale e se ne esce ritrovandosi nella medesima condizione di partenza.

Che richiesta viene giocata?

Il ‘giocatore’ si ritrova in una condizione decisamente problematica caratterizzata da solitudine, confusione e rabbia. Spesso, però, nonostante i famigliari o altre persone facenti parte della propria cerchia relazionale tentino continuamente di far presente la deriva problematica cui sta conducendo quel particolare tipo di vita, sembra che non riesca a rendersi pienamente conto delle assurdità che caratterizzano quella medesima situazione.

La consapevolezza del problema solitamente nasce quando, su uno dei versanti della vita cui si accennava pocanzi, si sta per toccare il fondo: di norma, o quando si perde il lavoro o quando si sfilacciano gli affetti ed i rapporti in famiglia si fanno insostenibili. Probabilmente, quando si teme realmente di poter rimanere soli.

È a questo punto che diviene possibile chiedere il sostegno a qualcuno che viene ritenuto idoneo per aiutare ad uscire da una situazione che, di colpo, viene percepita senza vie d’uscita: oscura, incerta e complicata. O meglio, poiché molto spesso il ‘giocatore’ compulsivo viene accompagnato nel luogo dove dovrà ricevere aiuto da qualche famigliare, si può sostenere che è a questo punto che il ‘giocatore’ sia pronto ad accettare la richiesta della famiglia di farsi curare. Un elemento, questo, molto interessante che spesso sembra venire trascurato, o non adeguatamente valorizzato, al fine della comprensione della problematica per cui si richiede la cura.

Il ‘giocatore’ è come se vivesse un’esperienza dissociata: per un verso tende a definirsi e vedersi come una persona indipendente e capace di assumersi le proprie responsabilità; dall’altro verso, però, sembra esserci qualcosa che stona e, di fatto, emerge la descrizione di una quotidianità che non rispecchia quel desiderio di autonomia così presente nelle parole enunciate: come se non si ritenesse realmente capace di pensare a se stessa per come vorrebbe. In altri termini, a fronte di dichiarazioni che fanno perno sull’esaltazione delle proprie doti e delle proprie capacità che ne farebbero una persona di provata autonomia, viene proposta la narrazione di una quotidianità nella quale risulta estremamente forte, costante e ambiguo il rapporto con persone del proprio gruppo familiare: un’ambiguità nel rapporto che si palesa certamente dal punto di vista psicologico ma che, molto spesso, si esprime anche da un punto di vista prettamente pratico.

Le parole del ‘giocatore’ suggeriscono uno scenario familiare contraddistinto da un rapporto con le figure genitoriali caratterizzato, sin dall’infanzia, dalle costanti critiche di queste ultime (o anche solamente di uno dei due) nei suoi confronti, facendo emergere, sotto una scorza esterna ammantata di audacia e competitività, una personalità connotata da insicurezza e insoddisfazione. Di frequente viene descritto un rapporto con figure genitoriali intrusive e definite come ‘controllori’ dalle quali ci si sente, e probabilmente ad un certo punto si desidera essere, ‘controllati’. Un rapporto con le figure genitoriali rispetto alle quali non sembra più possibile prendere le distanze e le cui richieste non si possono deludere: nonostante non ci si trovi d’accordo con i voleri dei propri genitori e con le indicazioni che da essi arrivano non si riesce a rispondere con il ‘no’, o meglio, a mantenere la propria posizione di contrarietà e di non accordo. Al limite, piuttosto che proferire quel ‘no’, si preferisce mentire, rispondendo affermativamente alla richiesta, salvo poi agire in altro modo. Riuscire a mantenere apertamente quel ‘no’ significherebbe mettere dei confini, dei limiti tra sé e l’altro ma in questo tipo di situazione non pare possibile riuscire a ritagliarsi un proprio spazio originale e autonomo. Non si riesce ad essere, per quanto possibile, indipendenti.

Il giocatore dipendente: uno di famiglia

È interessante a proposito della questione della ‘dipendenza’ riprendere il concetto di neotenia, un concetto che, riferito all’uomo, sta ad indicarne la condizione di incompiutezza: gli animali dopo poco tempo dalla nascita sono in grado di procurarsi il cibo in maniera autonoma, ciò che permette loro di staccarsi dalla madre e rendersi così indipendenti; gli esseri umani, al contrario, hanno una forte necessità di qualcuno, la madre, che si prenda cura di loro e che si occupi del loro sostentamento, al fine della crescita, per lungo tempo. Una condizione di necessaria dipendenza che, rispetto agli altri animali, fa pensare ad una nascita precoce dell’uomo: da un punto di vista fisico potrebbe fare delle cose per le quali non si dimostra però pronto dal punto di vista affettivo.

Una crescita, quella dell’uomo, caratterizzata da compiti evolutivi che vanno di volta in volta affrontati ma che non riguardano solamente le necessità di ordine fisiologico, bensì anche psicologico ed anche l’apparato psichico, così come quello organico, deve essere sviluppato: “E' certo che necessitiamo di cure per alimentarci, pulirci, per crescere. Ci sono percorsi e tappe di questa crescita che vanno affrontati ed è certo che eventi traumatici precoci possono segnare gli stati più profondi dell'apparato psichico. Non solo eventi traumatici come la morte della madre o del padre o violenze subite, ma anche dipendenze mal vissute o male elaborate lasciano parti non sviluppate nell'apparato psichico, parti dissociate che esprimono una dipendenza non risolta” (Montecchi, 1998).

Possiamo riferirci all’analista argentino José Bleger, il quale parla di una condizione di totale dipendenza iniziale, il legame simbiotico madre-figlio, che deve essere elaborata mediante l’instaurazione di nuove relazioni con l’ambiente esterno che possano soddisfare i nuovi bisogni emergenti nel figlio. Affinché ciò possa avvenire, però, il figlio necessita di un punto di riferimento stabile ed affidabile che possa fungere da depositario per contenerlo nelle sue ansie e angosce primarie: solo così sarà possibile iniziare a prendere le distanze dal legame simbiotico con la madre per differenziarsi e, durante l’adolescenza, riuscire nel gravoso compito di svincolo dalla famiglia.

Se per qualche motivo (che potremmo sintetizzare con la formula: infelicità della coppia genitoriale) il depositario, anch’esso impegnato nella gestione delle proprie angosce esistenziali, non riesce a fungere da contenitore, ecco che si rimane invischiati in quel rapporto di dipendenza simbiotica che impedisce il processo di individuazione e di costruzione del senso di identità. Protraendosi il legame simbiotico vengono prodotti e internalizzati dei vincoli (per esempio, caratterizzati dal messaggio che vede l’unità familiare come bene naturale ed assoluto o che l’essere indipendenti è pericoloso) che, vissuti come unici ed immodificabili, anche in là con l’età costringono il figlio a permanere in una condizione di ambiguità e dipendenza.

A questo proposito è interessante rilevare, come si accennava poc’anzi, come il ‘giocatore’ venga accompagnato, almeno all’inizio, dalla madre, o dal padre, o dalla sorella, o dal fratello, o da più persone insieme; persone che, naturalmente interessate alla questione, in colloquio parlano del problema che vivono in famiglia, ossia della situazione non più sostenibile determinata, a loro dire, dai comportamenti del ‘giocatore’. Comportamenti incontrollati ed ingiustificabili che vengono indicati essere l’unico problema di una situazione familiare per il resto invidiabile, senza problema alcuno, dove tutti si vogliono bene e dove ciascuno si fa in quattro per aiutare gli altri. Questo è uno dei quadri possibili che spesso ci si ritrova di fronte nei colloqui con le persone che vivono la problematica definita ‘ludopatia o gioco d’azzardo patologico’.

Se è vero che i famigliari del ‘giocatore’, ed il ‘giocatore’ medesimo, propongono al terapeuta una loro visione della situazione, è anche vero che il terapeuta, essendo persona esterna al gruppo familiare, ha l’opportunità, partendo dalle cose che vengono dette e raccontate durante il colloquio, di costruirsi ex-novo una sua idea dell’intricata situazione interpersonale che non necessariamente deve coincidere con quella che gli è stata proposta dai membri della famiglia. Come anticipato più sopra a proposito del rapporto soggetto-depositario, capita che la rappresentazione dell’ambiente familiare che viene proposta dai membri del gruppo si sgretoli portando alla luce una struttura di relazioni interne alla famiglia, per molti versi, insoddisfacenti per tutti quanti i componenti. Ciascuno a modo proprio sembra vivere malcontenti e insofferenze connesse con l’organizzazione e la stereotipia dei rapporti interni alla famiglia, senza però esprimerle apertamente. Affiora un disagio diffuso caratterizzato da rancori sopiti che, appunto perché non espressi, non possono essere affrontati.

In generale pare delinearsi un’organizzazione del gruppo familiare dalla quale si evince una stretta interdipendenza tra i vari componenti che, per i motivi più disparati, si trovano ad aver continuamente a che fare gli uni con agli altri: o perché si lavora insieme o perché solamente per mezzo dell’altro si ritiene di poter rispondere alle varie incombenze (economiche, affettive e, più in generale, sociali) della vita quotidiana.

Scrive lo psichiatra statunitense Glen O. Gabbard: “… i pazienti dipendenti hanno una storia di subdole ricompense per aver mantenuto la fedeltà verso i genitori che in modo insidioso li rifiutavano di fronte a ogni tentativo diretto verso la separazione e l’indipendenza” (1994). Tale situazione relazionale, in qualche modo, costringe ad un rapporto continuo e pressoché costante che si ritiene certamente importante per la propria sussistenza, ma che pare anche provocare un vissuto di forte frustrazione legato proprio alla necessità, percepita come imprescindibile e per questo soffocante, della presenza dell’altro.

Si scorge un’inquietudine che, dunque, coinvolge tutti quanti i membri della famiglia e che sembra venire accuratamente celata, tenuta segreta: non detta. Ciò che si può dire e di cui si può parlare sembra essere soltanto il problema costituito dai comportamenti razionalmente incomprensibili del ‘giocatore’: il ‘giocatore’ costituisce il problema ed il resto della famiglia, che non riesce a capire il suo (di lui) comportamento, agisce solamente per aiutarlo a risolvere la sua (di lui) problematica. Ciò che la famiglia fa non lo fa per se stessa ma solamente per il suo (di lui) bene.

Ma se facciamo riferimento ad una concezione operativa di gruppo, possiamo leggere la complessità della situazione che riguarda il ‘giocatore’, facendoci aiutare dallo psichiatra e psicoanalista argentino Pichon-Rivière che, riprendendo la teoria del capro espiatorio, pensa alla famiglia come ad una struttura gruppale nella quale i membri possono rivestire differenti funzioni. Ci sarà, dunque, una persona (depositario) sulla quale una o più persone (depositanti) di quello stesso gruppo (famiglia) scaricheranno le ansie, i problemi e le tensioni che vivono nella propria quotidianità (il deposito). Quando il deposito, ossia il carico di tensioni e disagio, viene ad essere troppo pesante per il membro che funge da depositario, ecco che questi si ammala, manifestando all’esterno una situazione di patologia che non deve essere considerata propria di quel solo membro ma anche di tutti gli altri componenti della famiglia. Il componente che si ammala deve essere considerato il portavoce della situazione familiare in quanto “… svolge un ruolo specifico: è il depositario delle tensioni e conflitti gruppali. Si fa carico degli aspetti patologici della situazione in questo processo interazionale di assegnazione e assunzione di ruoli, che include tanto il soggetto depositario quanto i depositanti” (Pichon-Rivière E., 1971). E le situazioni di crisi, patologiche, all’interno della famiglia sono solitamente determinate dall’esistenza del segreto familiare, qualcosa che tutti sanno ma che non viene chiaramente esplicitato: ossia si coesiste in una sorta di sincretismo, di indifferenziazione, di mancanza di chiarezza, che provoca malintesi e blocchi nella comunicazione. In definitiva, secondo questa prospettiva, il paziente ‘giocatore’ si ammala perché si fa carico in maniera eccessiva della malattia e del disagio della sua famiglia, preservandola dalla disgregazione e dall’annientamento.

Di conseguenza, anche quando si lavora con i ‘giocatori’ in setting individuale, ritengo che sia molto importante e di grande utilità per l’attività di cura che si intende proporre, avere ben presente questo schema di riferimento.

Bibliografia

Bleger J. (1967), “Simbiosi e ambiguità”, Loreto, Libreria Editrice Lauretana, 1993

Croce M. “Perché il gioco d’azzardo può interessare gli studiosi delle tossicomanie”, http://www.pol-it.org/ital/dipendenze/tossicoterap6.htm

Gabbard G. O. (1994), “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995

Montecchi L., (1998), “Tossicodipendenza o dipendenza tossica?”, http://www.pol-it.org/ital/dipendenze/tossi-dip.htm

Pichon-Rivière E. (1971), “Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1985

 

*Lorenzo Sartini psicologo-psicoterapeuta, Via Fossolo, 10 - 40138 Bologna

cell: 3349872158 e-mail: lorenzosartini@libero.it

sito web: www.lorenzosartini.com



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