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Tesi di Laurea di Roberta Ganzetti

GAETANO BENEDETTI: IL SIMBOLO E LA STRUTTURA
DELL'INCONTRO NELLA TERAPIA DELLE PSICOSI


...E SE NON ESISTESSE UN SENSO INCONSCIO...


L'interpretazione è al centro della dottrina e della tecnica della psicoanalisi avendo una posizione molto speciale; essa, in generale è caratterizzata dal fatto che mette in evidenza il senso latente di un materiale. L'interpretazione di un sogno, di un sintomo, di un lapsus consiste proprio nel riuscire a rintracciare il suo significato al di là dell' elaborazione che di esso propone il soggetto in analisi.
Il contenuto manifesto, quindi, occuperebbe una posizione subalterna rispetto al contenuto latente. Il terapeuta si occupa di mettere in evidenza tale contenuto "nascosto" al fine di comunicarlo al paziente "inconsapevole", consentendo, così, di rendere conscio l'inconscio.
"Scopo dell'interpretazione è di dar voce al desiderio inconscio di esplicitare il fantasma in cui si rappresenta inscrivendolo nella storia del soggetto". (1)
L'interpretazione, però, non ha svolto sempre la medesima funzione nell'ambito del lavoro analitico. Si è configurata, da una parte come ritrovamento e ricostruzione del passato, come studio dell'archeologia del paziente, andando a recuperare parte di ciò che è stato dimenticato; d'altro canto ha assunto la possibilità di essere considerata anche co-costruzione di una nuova realtà a partire dagli elementi che emergono all'interno di una relazione terapeutica che presenta ed elabora modalità "nuove" di mettersi in relazione da parte della coppia paziente-terapeuta.
Questo altro modo di considerare l'atto interpretativo supera, quindi la formula semplice del "rendere conscio l'inconscio", sottolineando la complessa interazione tra due persone. Se da una parte si va a scoprire il mondo "privato" del paziente, dall'altro si considera la produzione di una interpretazione come un atto transazionale che non può essere seperato dall'essere in relazione con che esiste tra analista e paziente nel preciso momento in cui l'interpretazione viene fornita.
Prendendo in considerazione la schizofrenia ci si può rendere conto immediatamente di quanto poco le interpretazioni rivestano la funzione di rendere conscio l'inconscio, la regola di Freud secondo la quale dov'era l'Es deve essere Io diventa impossibile da seguire in assenza di un Io strutturato.
Secondo Benedetti la funzione dell'interpretazione sta proprio nel cercare di organizzare il frammento psichico che porta il paziente, in una struttura che diverrà solo col tempo il suo Io.
Il frammento inizia ad essere arginato attraverso il suo riconoscimento da parte del paziente e del terapeuta che partecipano insieme a tale processo. Ma qual è il motivo per il quale nell'interpretazione dei vissuti del paziente psicotico non ha senso pensare nei termini di un disvelamento del senso latente?
In effetti, si può pensare che la capacità dell'Io di organizzare i pensieri sia resa inconscia dalla condizione schizofrenica, e quindi che riportandola alla coscienza si possa ristabilire la sua funzione; ma bisogna poi sottolineare che una tale capacità dell'Io viene anche scissa e dissolta dai conflitti e dai complessi che l'hanno portata ad essere inconscia.
Il paziente, in questo senso, non può essere confrontato con l'inconscio attraverso l'interpretazione, la via che percorre la psicoterapia di Benedetti è quella di un incontro terapeutico all'interno del linguaggio della follia dove si rende necessario anche un approccio pre-verbale.
Incontrare il paziente nel suo "mondo" significa che nello spazio duale della psicoterapia può avvenire una trasformazione, questa, progressivamente, è in grado di togliere alle manifestazioni psicotiche il loro carattere alienante.
Ciò che si configura come terapeutico e come motore della trasformazione non è tanto l'interpretazione in termini psicologici di quello che il paziente "sente" a livello esistenziale, perché se questo procedimento riduttivo risulta essere chiarificante per il terapeuta, molto spesso così non è per il paziente che lo vive come un attacco diretto alla sua stessa esistenza e dal quale non può fare nient'altro che fuggire.
Benedetti delinea due diverse forme di rapporto con il paziente per quanto riguarda il trattamento di una forma esistenziale molto particolare che è quella delirante, considerata da questo autore come fenomeno psicopatologico basilare nella psicosi.
Al contrario la psichiatria biologica che vede il delirio come un sintomo primario, facendo derivare da una tale definizione anche la caratteristica di essere incomprensibile, e presupponendo di non poter entrare in rapporto dialogico con i portatori di una tale condizione, si dimentica dell'importanza della relazione come unica variabile oggettiva della psicoterapia.
Il delirio rappresenta senza alcun dubbio il tratto più appariscente della psicosi; la rottura del principio di realtà comporta l'alienazione e quindi una sfida alla comprensione logica da parte del terapeuta che però non possiede solamente questo modo di essere con il suo paziente.
Facendo un passo indietro, quindi, il delirio può essere da un lato compreso e interpretato, dall'altro si può partecipare ad esso.
Benedetti descrive queste due modalità di rapporto come:
APPROCCIO DALL'ESTERNO e APPROCCIO DALL'INTERNO.
Quando il terapeuta si pone, rispetto al suo paziente, in modo autentico e profondo è in grado anche di percepirne il vissuto, di prendere contatto con la sua sofferenza per condividerla come esistenza al fine di aggiungere a tale dolore una prospettiva.
La dimensione affettiva del terapeuta si esprime come capacità di stare-con, come capacità di comprendere il paziente nella sua dimensione più tragica, come capacità di appersonazione terapeutica, di identificazione.
Questa premessa è molto importante per evitare di fare un discorso sull'interpretazione che possa risultare sterile e fine a se stesso e affinchè sia messo in evidenza il suo legame dialettico e costruttivo con l'identificazione.
Passerei ora a descrivere, attraverso un esempio, cosa succede nella realtà quando paziente e terapeuta si trovano nella stanza dell'analisi e quest'ultimo deve decidere come rispondere al suo interlocutore che esprime un vissuto, un'immagine o un sogno.
Un paziente comunica a Benedetti che si trova in una palude e sta sprofondando nel fango...
Il terapeuta è messo di fronte ad una scelta:
l'interpretazione esterna o quella interna al delirio. Vediamo ora, attraverso questo esempio che tipo di lavoro sottende ad ognuna delle due possibilità.

1) Il terapeuta può comunicare al paziente che una tale immagine rappresenta il simbolo della sua esistenza in quel momento.

2) Il terapeuta cerca di accostarsi al delirio, all'immagine attraverso libere associazioni cercando di costellarla con parti di sé; può entrare nel delirio ed essere con lui nella palude ed immaginarsi e poi comunicare di sentire una sorta di "fondo duro"...

La decisione tra le due dipende spesso dalla gravità della psicopatologia del paziente, da quanto i problemi cognitivi pregiudicano la capacità del paziente di utilizzare questo canale comunicativo.
Interpretare il delirio, ossia riportarlo ad un modello di pensiero "logico", presuppone che il terapeuta ne abbia colto anche il senso latente.
Non solo comunicare tale senso latente, rifiutando l'asserzione delirante, fa parte dell'interpretazione esterna; essa presuppone che il terapeuta riesca a comunicare al paziente una "positiva latente intenzione del delirio" (2) ossia il fatto che l'accettazione della persona è avvenuta a livello profondo, al di là dell'incomprensibile discorso (incomprensibile soprattutto attraverso categorie logiche) con il quale si esprime il paziente.
Mi sembra questo un punto molto significativo perché, a mio parere, esalta il senso dell'interpretazione psicoanalitica anche nella cura delle patologie più gravi, con le quali si tende molto spesso a privilegiare altre tecniche.
Quando una tale interpretazione viene accettata dal paziente e non vissuta come invasiva o ancor peggio distruttiva, essa rappresenta una chiave di lettura, un linguaggio privilegiato che appoggiandosi al rapporto anche affettivo tra terapeuta e paziente, traduce ciò che quest'ultimo non riusciva ad esprimere, a pensare.
Ancora a proposito di questo tipo di interpretazione Benedetti sottolinea che essa non si deve limitare alla traduzione del delirio secondo la falsariga di una teoria, solo attraverso la realizzazione simbolica della condizione del paziente all'interno del terapeuta è possibile incrementare la veridicità delle parole del terapeuta.(3)
Bisogna dire, tuttavia, che difficilmente un'interpretazione viene accolta dal paziente che delira, anzi, egli tende ad allontanarsi dal suo terapeuta.
Ricondurre il delirio (se è veramente possibile) a bisogni celati, nel momento in cui non si è in grado anche di soddisfarli o di alleggerire la sofferenza, getta il paziente in una condizione ancora più drammatica di quella delirante.
"Perciò l'interpretazione psicoanalitica spesso equivale ad intervenire con uno strumento che non fa che accrescere la difesa del malato, quando la psicosi ha leso seriamente le funzioni cognitive dell'Io".(4)
Prima di passare all'interpretazione interna vorrei analizzare più specificamente l'interpretazione del simbolo a partire dalle precedenti concettualizzazioni sul disturbo della simbolizzazione nella schizofrenia.
Se l'analisi del materiale simbolico fornito dal paziente rappresenta il fondamento della interpretazione psicoanalitica, qual è il senso di mantenerla tale anche quando nel paziente la presenza di un linguaggio latente è minima, quando si è di fronte ad un mondo asimbolico?
Benedetti, innanzitutto, per i motivi che ho spiegato appena sopra, intende l'interpretazione non solo la mediatrice di insight, ma anche come comunicazione profonda che si serve di immagini trasformatrici per far arrivare al paziente l'intenzione positivizzante del terapeuta.
Qui, forse risiede una grossa differenza tra interpretazione riduttiva e interpretazione espressiva, o, in altri termini, tra interpretazione archeologica e teleologica, tra lo scoprire qualcosa che è già stato e il presupporre di poter incontrare anche qualcosa di nuovo che nasce nell'incontro. Non bisogna dimenticare che ciò che viene interpretato non è la patologia, bensì la reazione del terapeuta alla persona che ha di fronte, il controtransfert.
L'incontro e la relazione, come ho cercato di sottolineare nel primo capitolo, sono alla base di ogni cura, sono per certi versi la cura stessa; l'interpretare mi sembra essere inscindibile dall'interpretarsi...
"Interpreto al paziente me stesso, affinché egli possa alla fine interpretare anche se stesso"(5)
E ancora si legge "Le interpretazioni operano anzitutto come messaggeri del controtransfert, che al paziente trasmettono l'impegno della persona terapeutica"(6)
L'interpretazione diviene un mezzo attraverso il quale il terapeuta entra nella condizione del paziente come parte di essa, promovendo la formazione di un soggetto transizionale che è la base dell'intersoggettività.
Quest'ultima è un momento relazionale molto importante perché, a partire dall'intersoggettività, si apre la via all'interpersonalità nella quale il paziente potrà percepire il suo terapeuta come separato e autonomo.
Una tale differenza tra questi modi di concepire l'interpretazione è amplificata quando si parla di interpretazione interna al delirio ossia la partecipazione fantasmatica ad esso da parte del terapeuta.
Qui è necessaria una ulteriore puntualizzazione perché l'espressione utilizzata si presta con facilità al fraintendimento (il che non è detto che sia negativo se permette un approfondimento del tema).
Che cosa significa che il terapeuta partecipa al delirio del paziente?
Potrebbe essere che pur rimanendo sempre se stesso, globalmente separato dal suo interlocutore, il terapeuta si possa trovare momentaneamente ed operativamente al di dentro della psicosi.
Qualcuno potrebbe pensare ad una sorta di folie à deux, ma in realtà una tale dualizzazione anche sensoriale porta in sé il significato di un abbozzo di esperienza consensuale.
Infine, per ciò che riguarda il controtransfert terapeutico e la motivazione alla psicoterapia dell'operatore stesso è rilevabile una ulteriore differenziazione tra folie à deux e simbiosi terapeutica.
Vado ora a riportare in nota un ulteriore passaggio del libro più denso e a mio parere esaustivo tra i testi di G. Benedetti: Paziente e terapeuta nell'esperienza psicotica nel quale è espresso il concetto che ho cercato di anticipare.(7)
La mia riflessione rispetto a questa tematica potrebbe riguardare il fatto che nel momento in cui il terapeuta entra nella stanza della morte del delirio (G. Di Petta) e non si nasconde dietro al setting, dietro ad uno sterile ideale di neutralità, ma cerca di cogliere autenticamente le possibilità dell'altro, si viene a trovare in una situazione nella quale è coinvolto massicciamente.
Già un tale coinvolgimento è fonte di sentimenti contrastanti: dall'innamoramento alla fascinazione, dal terrore all'angoscia e forse come molti autori hanno più volte sottolineato l'idea di partecipare della stessa natura del vissuto psicotico è una chiara manifestazione di "onnipotenza terapeutica". Io credo che, tuttavia, colui che è stato allenato a sentir esistere l'altro attraverso i propri sensi andando in una direzione di un ampliamento della sua sfera percettiva, proprio come insegna la fenomenologia, sia già di per sé portato ad entrare in contatto con l'esperire schizofrenico in un modo che, a mio parere, non si può differenziare da ciò che intende la psicoanalisi di Benedetti con il concetto di identificazione.
Concluderei questo breve commento con un interrogativo che in parte rilancia uno degli intenti del mio lavoro ossia il cercare di chiarire, prima di tutto a me stessa quanto il lavoro di G. Benedetti e le diverse voci della fenomenologia si possano integrare e durante il lavoro clinico anche sovrapporre. Allora io mi chiedo: se identificazione terapeutica ed accostamento fenomenologico al paziente si appoggiano entrambe al presupposto che, come disse Terenzio "Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo", forse negare la possibilità di entrare anche nella psicosi è come negare che sia possibile l'accesso à l'autre monde.

Note:

1) VEGETTI FINZI SILVIA, "Storia della psicoanalisi...autori, opere, teorie1895-1990", A. Mondadori Editore, 1986.
2) BENEDETTI GAETANO, "La psicoterapia come sfida esistenziale", edizione italiana a cura di Giorgio Maria Ferlini, Cortina, Milano, 1997, pag.853)
3)Per chiarezza positiva vorrei riportare un esempio tratto da BENEDETTI GAETANO
"Paziente e terapeuta nell'esperienza psicotica" Bollati Boringhieri, 1991, pag.206.
"Ricordo una paziente il cui delirio consisteva nell'aspettativa di trovare, aprendo la mattina il giornale, la partecipazione pubblica della sua morte. Ogni mattina, leggendo il giornale, non riusciva a trovare tale annuncio, e rimaneva profondamente delusa. L'osservazione puramente logica che lei come lettrice del giornale non poteva naturalmente scoprirvi l'annuncio della propria morte la lasciava indifferente. Invece la mia interpretazione, -che lei sentiva la nostalgia di un lutto-, la nostalgia di -un affettuoso cordoglio per quello che lei percepiva come inaridimento e morte interiore- , la impressionava profondamente. Pur dubitando che tale interpretazione fosse del tutto vera, pur con molte resistenze, la paziente apriva la porta al dialogo, che nel mezzo della morte riconosciuta come tale poneva le fondamenta della vita, intese dapprima solo come lutto. La mia interpretazione veniva dal di fuori, contraddiceva il delirio. Ma non avrebbe fatto alcuna presa se in realtà io non avessi provato un senso di lutto per quella morte interiore. Nel mio modo di pormi, empaticamente, in contatto con la paziente, c'era, oltre l'interpretazione, anche la realizzazione simbolica dell'intenzione del delirio."
4) BENEDETTI GAETANO, "La psicoterapia come sfida esistenziale", edizione italiana a cura di Giorgio Maria Ferlini, Cortina, Milano, 1997, pag. 87
5) BENEDETTI GAETANO, "La psicoterapia come sfida esistenziale", edizione italiana a cura di Giorgio Maria Ferlini, Cortina, Milano, 1997, pag. 59
6) BENEDETTI GAETANO, "La psicoterapia come sfida esistenziale", edizione italiana a cura di Giorgio Maria Ferlini, Cortina, Milano, 1997, pag. 59
7) BENEDETTI GAETANO, "Paziente e terapeuta nell'esperienza psicotica"con la collaborazione di Laura Andreoli, Antonella Cannavò, Lilia D'alfonso, Ciro Elia, Clelia Leozappa, Daniela Maggioni, Lauretta Ottolenghi, Francesca Pavese, Alberto Sibilla, Carla Tommasina. 1971 Bollati Boringhieri, Torino, pag. 282
"Proprio tale esperienza, di poter organizzare una situazione presa a prestito dal paziente attraverso la coesione del proprio Sé, è la gratificazione narcisistica, se vogliamo usare tale termine, che è parte essenziale della motivazione psicoterapeutica. L'assunzione di psicosi non equivale quindi affatto ad un contagio psichico, come talora è stata erroneamente definita la simbiosi terapeutica. Una folie à deux non può essere che fonte di ansia, e non di quel benessere terapeutico che consiste proprio nell'entrare nell'orbita micidiale del paziente e, al tempo stesso, esperire la propria forza terapeutica".


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