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JOURNAL OF PSYCHOTHERAPY INTEGRATION - VOL.9, N. 1 / 1999

Why don't people change? 
A psychoanalytic Perspective

Morris Eagle

Perché i sintomi e i comportamenti disadattivi e nevrotici persistono nonostante il dolore che comportano? Perché le persone che ne sono affette non sono pronte ad abbandonarli, neppure quando sono motivate al cambiamento e sono entrate in terapia? A queste domande Morris Eagle offre due risposte. La prima è che le persone non cambiano perché hanno paura dell'ignoto. Come immortalato dall'osservazione di Amleto, l'ignoto "ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che incorrere in altri che non conosciamo". La seconda è che il cambiamento, soprattutto se è radicale, ci minaccia di perdità dell'identità. Essendo la seconda risposta una variante o una precisazione della prima, il punto di vista complessivo di Eagle è che "comune a tutte le varianti e scuole di psicoanalisi è l'assunto fondamentale che le persone evitano il cambiamento perché a qualche livello profondo temono che questo le esporrà a un disturbo e un pericolo ancora maggiori di quelli che già patiscono". 

Le diverse teorie psicoanalitiche sono caratterizzate da diverse concettualizzazioni delle resistenze. Da Freud la resistenza è intesa come riluttanza ad abbandonare le gratificazioni istintuali che le formazioni sintomatiche di compromesso bene o male consentono, e a prendere coscienza dei desideri infantili togliendoli alla rimozione, con conseguente riattivazione dei dolorosi conflitti che sono all'origine della rimozione stessa. In altre scuole psiconalitiche esaminate da Eagle, in particolare la teoria del controllo-padronanza di Weiss e Sampson e la psicologia del sé di Kohut, la resistenza è concettualizzata invece come paura di una ripetizione del trauma nella relazione terapeutica. La vecchia e la nuova concezione sono accomunate dal comune radicamento nel principio del piacere, cioè la motivazione è sempre quella di ottenere un piacere o evitare un dolore, ma il quadro complessivo è cambiato profondamente. Infatti, la conseguenza della concezione freudiana era che l'analista doveva persuadere il paziente a rinunciare alle gratificazioni e ad affrontare i dolorosi conflitti che il desiderio infantile inevitabilmente porta con sé. Nel nuovo quadro di riferimento rappresentato in particolare dalle teorie di Kohut e Weiss e Sampson, invece, l'analista non è più nascosto dietro uno schermo bianco, ma è pienamente in gioco assieme al paziente sulla scena della terapia. In questa prospettiva un aumento delle resistenze può significare che il paziente non si sente al sicuro nella relazione: e questa mancanza di sicurezza è certamente in rapporto con la qualità della relazione che si è stabilita. In questo senso il programma di ricerca di Luborsky ha permesso di stabilire che "non importa quanto accurate o intelligenti siano le interpretazioni del terapeuta, se il il paziente non sente che il terapeuta lo aiuta, lo sostiene, ed è impegnato assieme a lui in uno sforzo congiunto, il cambiamento non avverrà".

In altri termini, nelle nuove teorie psicoanalitiche tende a essere sempre più in primo piano la relazione terapeutica, come fattore curativo indipendente da quelli classici dell'interpretazione e dell'insight. Sempre più si delineano quindi due piani distinti, quello della "nuova esperienza relazionale" (o "esperienza emotiva correttiva", anche se ancora oggi pochi analisti osano pronunciare questa espressione che per decenni è stata severamente condannata), e quello della esplorazione dell'inconscio. Dopo avere discusso questi due piani come fattori ben separati e distinti, Eagle osserva, giustamente, che nella pratica essi sono inestricabilmente legati. Rende invece perplessi l'ulteriore osservazione di Eagle, peraltro più volte ribadita nei suoi scritti, che la "esperienza emotiva correttiva" è costituita dai normali ingredienti di una terapia psicoanalitica efficace: neutralità benevola, interpretazioni accurate, affidabilità, onestà, integrità. L'esperienza emotiva correttiva non sarebbe cioè altro che un "sottoprodotto" di un onesto e accurato lavoro psicoanalitico. 

C'è una lunga tradizione di posizioni analoghe, a partire probabilmente dallo Strachey del 1936. Si parte dal riconoscimento che l'interpretazione, e la presa di coscienza che ne consegue, non è l'unico fattore terapeutico in un trattamento analitico. Si riconosce che la nuova esperienza che il paziente compie nella relazione con l'analista è un fattore altrettanto importante. Ma si approda alla conclusione che per fornire questa nuova esperienza non è necessaria alcuna modificazione significativa dell'assetto analitico. Posizioni del genere indicano la disponibilità ad ammettere anche fattri relazionali come motori di cambiamento, a patto che tali fattori siano impliciti" nel setting psicoanalitico classico, e non comportino un'attività esplicita e deliberata. Colpisce questa sorta di "fobia dell'attività", in analisti peraltro aperti e critici come Morris Eagle (e come era Merton Gill). Si direbbe che questi analisti arrivino al limite massimo di eterodossia consentito, oltre il quale aleggia il fantasma dell'emarginazione dalla comunità psicoanalitica. E' piuttosto evidente, in ogni caso, che il rifiuto di ogni attività esplicita e deliberata non è giustificabile con ragioni che abbiano una parvenza di scientificità, e meno che mai con ragioni che stiano "dalla parte del paziente", ma solo con questioni di identità e di appartenenza del terapeuta a un gruppo. Fintanto che tali questioni faranno aggio su quelle di sostanza (quali fattori relazionali producono quali effetti in quali circostanze), non potremo aspettarci un salto di qualità nel dibattito psicoterapeutico.
 

Resistance as a problem for practice and theory

Paul Wachtel

Su un punto i terapeuti di ogni orientamento sono tendenzialmente d'accordo: "i modelli di comportamento che creano problemi al paziente nella sua vita di tutti i giorni gli creeranno problemi probabilmente anche nella relazione terapeutica; pertanto proprio le caratteristiche che abbiamo più interesse a scoprire sono quelle che più facilmente frustreranno i nostri sforzi". La differenza tra gli psicoanalisti e gli altri terapeuti sta essenzialmente nel fatto che i primi, a differenza degli altri, tendono a ritenere universale il processo della resistenza, e a considerare prioritario il lavoro su di essa. 

Per quanto le valutazioni tra terapeuti di diverso orientamento divergano sull'incidenza e l'importanza dei processi di resistenza (intesi come sopra, cioè come ripetizione e messa in atto nella relazione di terapia degli schemi di esperienza e comportamento che sono alla base dei problemi presentati), c'è un accordo generale, trasversale a tutte le scuole, sul fatto che gli ostacoli posti dai pazienti sulla strada della guarigione sono una notevole opportunità che il terapeuta può cogliere, sia per riconoscere in vivo gli schemi da correggere, sia per la possibilità di lavorare su di essi nelle condizioni privilegiate del laboratorio terapeutico.

Detto questo, l'attenzione si sposta sul "surplus" di resistenza, cioè su quella parte della resistenza che non dipende dallo sviluppo intrinseco del processo, che non è cioè una necessità propria della terapia, ma rappresenta piuttosto una reazione del paziente ad atteggiamenti troppo rigidi o meccanici o comunque errati del terapeuta. Il processo analitico stesso come originariamente inteso da Freud, ricorda Wachtel, tende a suscitare resistenze iatrogene, in quanto la terapia è fatta coincidere con la ricerca: se il paziente avverte che il terapeuta ha l'atteggiamento di uno scienziato che vuole fare delle scoperte, piuttosto che di una persona umanamente interessata a lui, è del tutto probabile che non collaborerà al successo delle fantasie scientifiche del suo analista. 

In generale, osserva Wachtel, quanto più puro è l'atteggiamento cognitivo del terapeuta (di orientamento sia psicoanalitico sia cognitivo), tanto meno utile sarà il suo lavoro per il paziente. Inversamente, diverse ricerche stabiliscono un legame preciso tra la qualità della relazione terapeutica e i cambiamenti che produce: le interpretazioni possono essere accurate e precise, la tecnica terapeutica eseguita in modo impeccabile, ma tutto questo non porterà a nulla se la qualità dell'alleanza terapeutica è insufficiente.

Ma quali sono le caratteristiche che la relazione terapeutica deve avere per ridurre al minimo le resistenze iatrogene, e al contrario attivare la volontà di collaborazione del paziente? La risposta di Wachtel è netta: è necessario abbandonare la visione classica, di origine freudiana, del paziente come bambino recalcitrante ad affrontare la realtà e avido di gratificazioni, a favore di una visione più benevola e più corrispondente al vero: quella di una persona che ha paura di ciò che può emergere se abbandona i suoi schemi comportamentali di riferimento. Una paura del tutto comprensibile e giustificata, se pensiamo al dolore e allo smarrimento che attende chiunque osi abbandonare la sicurezza degli schemi appresi. L'atteggiamento base del terapeuta, dunque, deve essere di validazione degli sforzi difensivi del paziente, nel momento stesso in cui lo aiuta a liberarsene. L'atteggiamento classico di lotta alla resistenza, invece, carico di rimprovero implicito, può più facilmente portare a un rinforzo della resistenza, che al suo abbandono.

Questo spostamento di enfasi, dalla lotta cognitiva contro le resistenze alla loro validazione come mezzi legittimi di protezione da sofferenze intollerabili, è del tutto condivisibile. C'è solo da chiedersi se questo spostamento dalla severità alla giustificazione non sia andato troppo in là. Se cioè dagli eccessi in senso "paterno" di Freud non si sia giunti a un certo eccesso in senso opposto, "materno". E se non convenga piuttosto cercare di avere entrambe le frecce a disposizione del proprio arco, pronti a dosare accoglimento materno e fermezza paterna nelle proporzioni richieste da ogni singola persona, in ogni momento del processo terapeutico.

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