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Dibattiti svoltisi sulle liste di discussione


Come usiamo le (quattro) psicologie?
Considerazioni sulla integrazione psicoterapeutica
 
Dibattito avvenuto sulla lista "Psicoterapia" di Psychomedia (PM-PT) 
dal Novembre 2001 al Gennaio 2002

Editing di Luca Panseri & Paolo Migone

Interventi: Tullio Carere-Comes, Davide Cavagna, Paolo Cozzaglio, Licia Filingeri, G. Giacomo Giacomini, Paolo Migone, Piero Porcelli, Gian Paolo Scano, Pietro Spagnulo


Vai ad altri dibattiti sul tema della integrazione:
Dibattito sulla Psicoterapia integrata (PM-PT, Gennaio-Marzo 1998)
Dibattito su Farmaci e psicoterapia (PM-PT, Marzo-Aprile 1999)
Dibattito sulla Integrazione in psicoterapia (lista privata SEPI-Italia, Maggio 2001-Marzo 2002)


25 Novembre 2001, From Licia Filingeri

Rileggendo in questi giorni un vecchio ma sempre valido articolo di Fred Pine del 1988 "Le quattro psicologie della psicoanalisi e la loro importanza nel lavoro clinico" (Gli argonauti, 1990, XII, 45: 95-114), mi è venuto da riflettere sui problemi derivanti dalla possibilità di applicazione di vari paradigmi nel corso di una stessa analisi.

Mi sono venute subito alla mente alcune osservazioni fatte da Wilfredo Galliano tempo fa, nel corso di un articolato dibattito di PM-PT sulla Psicoterapia integrata: "...gli psicoterapeuti tendono a integrare nella propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche in cui man mano si imbattono. Ovviamente mi sembra una buona cosa, ma indipendentemente dal fatto che a me o ad altri paia una buona cosa, credo che non possa essere diversamente, sia perché la psicoterapia è una pratica (più che una procedura) sia perché, se c'è qualcosa che accomuna gli esseri umani, questa è l'accumulazione di cultura. Questo, tuttavia, è ben diverso dall'integrazione di una teoria" (tavola rotonda virtuale "Psicoterapia integrata", rielaborazione a cura di Antonio M. Favero, http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/psic-int.htm). Mi sono interrogata sulla mia esperienza: capita che, nel corso di un'analisi, io prenda dall'armamentario psicologico che possiedo ( e che fortunatamente si arricchisce sempre più, man mano che aumentano conoscenze teoriche ed esperienze in senso lato) quello che in quel momento mi pare più utile per quel dato paziente, senza (apparentemente) tanto preoccuparmi dell'interferenza o meno che potrebbe venirsi a creare interagendo con l'impostazione di fondo che seguo (modello e tecnica di riferimento, quella per intenderci che, in rapporto alla propria formazione, ciascuno di noi ha come sostrato di base ). Estrapolo dunque liberamente da un'impostazione teorica altra, usando tranquillamente, per usare un'immagine che mi è congeniale, una "tecnica mista", adattando la tecnica a quanto intendo raggiungere in quel momento con quel paziente : non mi sento vincolata da regole accademiche, proprio come, nella mia attività artistica, usando i colori ad olio, mi può capitare di non aspettare, contrariamente a quanto si insegna all'Accademia ( e se no, che Accademia sarebbe?), che ogni strato di colore sia perfettamente asciutto per aggiungere un colore diverso, ma, se il mio "progetto mentale dell'opera" lo richiede, e questo procedimento è funzionale al risultato che ho in mente di raggiungere, aggiungo pennellata a pennellata senza preoccuparmi della regola, che, anzi, intralcerebbe il progetto così come l'ho formulato; e magari, accosto alle pennellate ad olio delle tempere acriliche, e aggiungo un collage di stoffa. Lo stesso risultato, non potrei raggiungerlo adottando un'unica, rigida tecnica, appunto "accademica".

Un mio paziente molto dotato di capacità di elaborazione, mi diceva, dopo aver scoperto che Piacere e Trasgressione erano i suoi strumenti creativi per definire in maniera originale la sua identità, in un contesto assolutamente schiacciante di rigide regole, che gli stessi Piacere e Trasgressione, applicati diversamente, in modo negativo, compulsivo e sregolato, come potrebbe accadere nel rendersi schiavi di varie forme di addiction, avrebbero portato alla dissoluzione dell'Io, come, nel caso suo, l'omologazione, col rifiuto assoluto di piacere e trasgressione. Ciò premesso, mi pare altrettanto evidente che , quando noi, come analisti, facciamo ricorso a un modello, sappiamo benissimo che dietro c'è una particolare visione dell'uomo e un particolare progetto esistenziale, che sono intrinseci a quel modello; in particolare, poi, le cose sembrano ulteriormente complicarsi, a seconda che si ricorra a un modello intrapsichico o interpersonale, a una teoria del conflitto o non.

Allora mi chiedo: fino a che punto questo inserimento di un nuovo modello (uasi fosse un nuovo parametro?) interferisce (o è compatibile) con il processo che abbiamo messo in moto, partendo da determinate premesse? Che variazioni apporta? Rischiamo di creare nel paziente un discorso confusivo? Certo, di ogni teoria (e relativa tecnica) si devono valutare responsabilmente eventuale dannosità e utilità. Ma questo, io credo, è un lavoro che tutti noi facciamo "prima", non certo, almeno consciamente, nel momento in cui, in seduta, "ci viene" spontaneo applicare un certo modello, perché in quel momento "sentiamo" che è utile. Quante volte, leggendo il lavoro di un collega, ci viene da pensare a un dato paziente, o perché avevamo fatto la stessa osservazione, o perché la situazione ce lo ricorda da vicino, e valutiamo quanto sarebbe stato utile applicare quel modello, se lo avessimo conosciuto. Tuttavia, qui sorge un altro problema: io dico " ci viene", ma non mi sono affatto così immediatamente presenti alla coscienza i meccanismi profondi per cui "ritengo utile fare quello e non quell'altro" ( a parte il discorso della conoscenza e soprattutto dell'esperienza e della persona del terapeuta come primo fattore terapeutico): in altre parole, mi accorgo di non sapere quasi nulla della complessità motivazionale-affettiva del mio processo decisionale al riguardo. Mi piacerebbe essere confortata dall'opinione di qualche collega.

25 Novembre 2001, From Paolo Cozzaglio

L'osservazione non è nuova. Jung stesso considerava le teorie e le tecniche di Adler e Freud come "applicazioni particolari" del metodo analitico. Considero, riguardo al tema proposto dalla collega Filingeri, interessante la conferenza tenuta dallo stesso nel 1935 e riportata in "pratica della psicoterapia" (vol. 16 delle opere Bollati-Boringhieri). In "principi di psicoterapia pratica" Jung scrive: "...la psicoterapia non è quel metodo semplice e univoco che in un primo tempo si credeva fosse, ma si è rivelata a poco a poco una sorta di 'procedimento dialettico', un dialogo, un confronto tra due persone... un processo creativo di nuove sintesi. Si svilupparono scuole diverse, con vedute diametralmente opposte, quali il metodo terapeutico francese della suggestione elaborato da Liébeault-Bernheim, la persuasion di Babinski, l'ortopedia psichica razionale di Dubois, la psicoanalisi freudiana, in cui l'accento è posto sulla sessualità e sull'inconscio, il metodo educativo di Adler che enfatizza la volontà di potenza e le finzioni coscienti, il training autogeno di Schultz... Era dunque naturale che gli esponenti dei singoli punti di vista ritenessero errata l'opinione altrui; ma un'obiettiva valutazione dei fatti dimostra che a ciascun metodo e a ciascuna teoria va riconosciuto un certo credito... Le contraddizioni in un campo della scienza dimostrano unicamente che il suo oggetto presenta caratteristiche che al momento possono essere afferrate solo mediante antinomie, come ad esempio la teoria della natura ondulatoria ovvero corpuscolare della luce..."

Queste considerazioni mi paiono estremamente interessanti e moderne, soprattutto se pensiamo che provengono dal padre della "psicologia analitica", e sono datate 1935. Altrettanto cruciale è la considerazione posta dalla collega:

<<qui sorge un altro problema: io dico "ci viene", ma non mi sono affatto così immediatamente presenti alla coscienza i meccanismi profondi per cui "ritengo utile fare quello e non quell'altro" (a parte il discorso della conoscenza e soprattutto dell'esperienza e della persona del terapeuta come primo fattore terapeutico): in altre parole, mi accorgo di non sapere quasi nulla della complessità motivazionale-affettiva del mio processo decisionale al riguardo.>>

A mia volta mi chiedo se è la complessità motivazionale-affettiva del nostro processo decisionale a decidere, o se la decisione - in qualche modo - non competa anche al paziente... ma preferisco cedere il posto al proseguire del dibattito, e riservarmi in futuro un ulteriore contributo.

25 Novembre 2001, From Pietro Spagnulo

Interessanti le tue riflessioni. In fondo ogni terapeuta ha il suo modello della mente ed il suo modello della psicoterapia. Inoltre questo modello è in continua evoluzione. Altro che quattro psicologie, c'è da sorprendersi che esistano dei punti di vista comuni! Non capisco però la preoccupazione di confondere il paziente. Ciò che aiuta i pazienti non sono i modelli di riferimento, ma il comportamento finale del terapeuta. Allo stesso modo, ciò che può confondere i pazienti non sono dei modelli teorici sovrapposti, ma dei comportamenti incongrui. Per quanto riguarda l'ignoranza dei processi profondi coinvolti nei processi decisionali credo che tu sia in buona compagnia.

25 Novembre 2001, From Tullio Carere

In data 25-11-01, Licia Filingeri ha scritto:
>Rileggendo in questi giorni un vecchio ma sempre valido articolo di Fred
>Pine del 1988 "Le quattro psicologie della psicoanalisi e la loro importanza nel
>lavoro clinico" (Gli argonauti, 1990, XII, 45: 95-114), mi è venuto da riflettere sui
>problemi derivanti dalla possibilità di applicazione di vari paradigmi nel
>corso di una stessa analisi.
>Mi sono venute subito alla mente alcune osservazioni fatte da Wilfredo
>Galliano tempo fa, nel corso di un articolato dibattito di PM-PT sulla
>Psicoterapia integrata: "...gli psicoterapeuti tendono a integrare nella
>propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche in cui man mano
>si imbattono. Ovviamente mi sembra una buona cosa, ma indipendentemente dal
>fatto che a me o ad altri paia una buona cosa, credo che non possa essere
>diversamente, sia perché la psicoterapia è una pratica (più che una
>procedura) sia perché, se c'è qualcosa che accomuna gli esseri umani,
>questa è l'accumulazione di cultura. Questo, tuttavia, è ben diverso
>dall'integrazione di una teoria" (tavola rotonda virtuale" Psicoterapia
>integrata", rielaborazione a cura di Antonio M. Favero,
>http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/psic-int.htm).
>Mi sono interrogata sulla mia esperienza: capita che, nel corso di
>un'analisi, io prenda dall'armamentario psicologico che possiedo ( e che
>fortunatamente si arricchisce sempre più, man mano che aumentano conoscenze
>teoriche ed esperienze in senso lato) quello che in quel momento mi pare
>più utile per quel dato paziente, senza (apparentemente) tanto preoccuparmi
>dell'interferenza o meno che potrebbe venirsi a creare interagendo con l'impostazione
>di fondo che seguo (modello e tecnica di riferimento, quella per intenderci
>che, in rapporto alla propria formazione, ciascuno di noi ha come sostrato di base).

Cara Licia, mi fa piacere che riprendi quel vecchio dibattito. Wilfredo aveva ragione di dire che "...gli psicoterapeuti tendono a integrare nella propria prassi pezzi o parti di modelli, teorie, tecniche... Questo, tuttavia, è ben diverso dall'integrazione di una teoria".

Infatti questo procedimento si chiama "eclettismo tecnico", ed è lo stesso che applichi tu quando usi quello che sul momento ti sembra più utile, senza preoccuparti troppo "dell'interferenza o meno che potrebbe venirsi a creare interagendo con l'impostazione di fondo che seguo". Tuttavia, anche se non te ne preoccupi troppo, non puoi fare a meno di preoccupartene almeno un poco, come fai più avanti:
>Allora mi chiedo: fino a che punto questo inserimento di un nuovo modello
>(quasi fosse un nuovo parametro?) interferisce o è compatibile) con il
>processo che abbiamo messo in moto, partendo da determinate premesse? Che
>variazioni apporta? Rischiamo di creare nel paziente un discorso confusivo?

Il problema dell'eclettismo tecnico è precisamente questo. Facciamo quello che ci sembra utile, ma non abbiamo il controllo del processo complessivo. Otteniamo risultati, ma rischiamo di produrre confusione. Per questo motivo l'eclettismo è guardato con sospetto e non ha buona reputazione. La mia personale opinione al riguardo è un po' cambiata rispetto a quella che avevo al tempo di quel dibattito, da cui sono passati quasi quattro anni. Allora condividevo il sospetto generale verso l'eclettismo, adesso lo vedo come un punto di partenza necessario per molti, anche se solo un punto di partenza.
Mi spiego: per capire l'eclettismo bisogna metterlo a un estremo di una linea al cui altro estremo stanno le terapie di scuola. Possiamo partire come terapeuti scolastici o come terapeuti eclettici. Entrambe le partenze sono buone (la scelta dipende dalle preferenze, dal temperamento, dalle condizioni esterne), ma non possiamo fermarci lì. Il terapeuta scolastico non esce dal binario collaudato, ma questo lo porta a essere troppo rigido e a non rispondere alla situazione reale che richiede risposte sempre nuove e imprevedibili. Il terapeuta eclettico usa con libertà e disinvoltura tutto quello che gli può servire sul momento, ma paga per questo un prezzo in termini di confusione e incongruenza. Vediamo che cosa c'è su questa linea tra i due estremi:

[S]------------>[IT]------------>[TDD]<------------[FC]<-------------[E]

Il terapeuta scolastico [S] si muove sempre, poco o tanto, verso l'integrazione assimilativa, o teorica [IT]. Per quanto ortodosso, un terapeuta non resterà mai fermo per tutta la carriera al modello appreso negli anni della formazione. Continuerà invece, se pure lentamente, ad assorbire pezzi di teorie e tecniche diverse, ma preoccupandosi sempre di "assimilarli" (in senso piagetiano), cioè a riformularli per quanto è possibile secondo i concetti e i termini della sua teoria di base (home theory). Per esempio uno che nasce analista junghiano resterà probabilmente analista junghiano, ma quasi certamente assimilerà a poco a poco pezzi di kleinismo, di lacanismo, di comportamentismo, ecc., in modo da restare purtuttavia riconoscibile come analista junghiano.
Dall'altra parte il terapeuta eclettico [E], non essendo vincolato dalla fedeltà a una teoria, è massimamente aperto al processo, pronto a rispondere alle sue esigenze nei modi più diversi. Questo lo porterà a un diverso tipo di integrazione, in cui prevale l'accomodamento, invece dell'assimilazione (cioè invece di assimilare altre teorie alla propria, accomoda il proprio approccio alle esigenze del processo: la priorità è data al processo invece che alla teoria). In questo modo emergono le caratteristiche generali del processo terapeutico, cioè quell'insieme di caratteristiche che sono comuni ai diversi metodi e tanto più emergono quanto più il terapeuta rinuncia a canalizzare il processo sui binari della propria teoria. Questo tipo di integrazione si chiama "approccio dei fattori comuni" [FC].
Come già notava Piaget, l'assimilazione e l'accomodamento sono inseparabili. Tuttavia un modo può prevalere sull'altro, e si hanno i due tipi di integrazione descritti sopra. Procedendo verso il centro di questa linea, sia da destra che da sinistra, si tende all'equilibrio: a un modo di lavorare in cui assimilazione e accomodamento si bilanciano. Questo significa che si è stabilita una buona dialettica tra l'ancoraggio alla teoria e l'apertura al processo, tra noto e ignoto. In questo approccio, detto "terapia dialogico-dialettica" [TDD], l'assimilazione, per cui è riconoscibile uno stile di base del terapeuta, è bilanciata dall'accomodamento, quella sintonia con il processo che fa sì che terapeuti esperti di scuole diverse finiscano per assomigliarsi tra di loro più di quanto assomiglino a terapeuti inesperti della loro stessa scuola.

>Mi piacerebbe essere confortata dall'opinione di qualche collega. Licia Filingeri

Non so se la mia opinione ti servirà di conforto, ma spero almeno di confronto. Come spero di averne io sullo schema che ho proposto.

26 Novembre 2001, From Davide Cavagna.

Trovo anch'io significativo, come nota anche Carere, che si (ri)avvii su questa lista un dibattito sul pluralismo teorico e tecnico in psicoterapia. Indubbiamente, come ricorda Lucia Filingeri, l'articolo di Fred Pine del 1988 rappresenta un importante contributo in merito, principalmente in quanto Pine, riconoscendo l'esistenza di una pluralità paradigmatica all'interno della psicoanalisi, afferma che si tratta di "psicologie personali" e non "teoretiche", sottolineando quindi che esse operano come "tendenze ad organizzare il materiale con diversi interrogativi (silenziosi) in mente" (cito dalla traduzione comparsa su Psicoanalisi, 1999, 3, 1).

Va notato che Pine riconosce come le quattro psicologie siano a tutti gli effetti "psicoanalitiche" e consistano in "utensili da usare flessibilmente quando ci troviamo 'incagliati' nella posizione di ascoltatori analitici". Egli motiva la dicitura di "psicoanalitiche" in base alla presenza di assunti comuni, ovvero: - il determinismo psichico - il funzionamento psichico inconscio - il cosiddetto "processo primario" assunti questi che conducono all'ipotesi che "il carattere individuale si forma attraverso esperienze primitive basate sul corpo e attraverso esperienze di relazioni oggettuali e organizzate in modalità interconnesse (sia multifunzionali che conflittuali)".

Le "quattro psicologie" sembrerebbero trovarsi, quindi, a un livello intermedio tra teoria e tecnica. Ipotesi, questa, confermata anche da Cozzaglio quando rileva che <<Jung stesso considerava le teorie e le tecniche di Adler e Freud come "applicazioni particolari" del metodo analitico>>

Mi sembra importante quindi affrontare il problema rilevando come occorra definire in modo accurato il valore che attribuiamo a tali "psicologie" nel nostro agire psicoterapeutico. Da quanto detto, mi chiedo infatti se parlare di "psicologie come paradigmi" possa generare equivoci o dare adito a confusività. Innanzitutto, mi sembra importante rilevare, come mostrano le parole di Pine sopra riportate, che le "quattro psicologie" in prima battuta sono degli "utensili" che valgono nel momento in cui si realizza una condizione clinica di "incaglio". Ne consegue che esse non sembrerebbero rilevanti, o quanto meno rimarrebbero sullo sfondo, laddove il processo analitico risulti "disincagliato". In quanto utensili, inoltre, appare chiaro che le quattro psicologie rientrano nell'ambito dello strumentario tecnico a nostra disposizione e quindi, a maggior ragione, dipendono dai criteri di trattamento che rientrano in una "teoria della tecnica" sovraordinata. Essendo poi, in sé stesse, delle "visioni antropologiche", sembrerebbe che le quattro psicologie, almeno a detta di Pine, non siano vere e proprie "teorie", ma semmai degli artefatti ad uso del terapeuta, con i quali ricondurre determinati fenomeni clinici entro un quadro di coerenza narrativa e processuale (un "modello"). (Utilizzo qui la parola "teoria" differenziata dal termine "modello" per indicare una costruzione razionale che cerca non solo di definire e descrivere le relazioni logiche tra i fenomeni, ma che allo stesso tempo intende definire i fenomeni "nella loro realtà", ossia facendo predizioni sugli eventi del mondo.) Credo che questa (ahimè lunga) premessa sia indispensabile per poter affrontare il problema del pluralismo tecnico.

Licia Filingeri parla di un'opposizione tra "tecnica mista" e "tecnica accademica", rendendo in maniera chiara e intuitiva il senso della questione. Dal canto suo Cozzaglio parla di "procedimento dialettico" della terapia, come un concetto-chiave dell'agire terapeutico che mi sembra ritornare nelle parole di Carere quando propone una "terapia dialogico-dialettica" in opposizione-superamento (hegeliano appunto) all'"eclettismo tecnico". Credo però che la distinzione tra "eclettismo" e "scolasticismo" dipenda da un'errata valutazione dei termini della questione. Se intendiamo, infatti, come per molto tempo si è fatto, le quattro psicologie come delle "teorie" da cui derivare delle "tecniche" finiremo certo per considerare insufficienti le "tecniche accademiche" e costringerci a pensare alla "tecnica mista" come a un escamotage per poter lavorare clinicamente in modo proficuo. Un escamotage che, come tale, viene introdotto in modo un po' forzoso (uno pseudoparametro mi verrebbe da dire) e nello stesso tempo sminuisce la consapevolezza del clinico. Credo che da questo punto derivino le perplessità della collega circa la "compatibilità/interferenza" delle psicologie. Se invece pensiamo alle "quattro psicologie" come a strumenti (e non paradigmi) di una tecnica, ne consegue sicuramente un'importante osservazione: le "psicologie" (ossia le visioni antropologiche che sottostanno il lavoro psicoanalitico) sono in realtà "interne" alla tecnica e dunque rientrano in un più ampio orizzonte concettuale che potremmo chiamare "teoria della tecnica"...

Ritengo che questo sia il punto chiave da affrontare: innanzitutto perché di teoria della tecnica si parla e si è parlato moltissimo, ma forse (e questa è una mia opinione personale che deriva dalla limitata estensione delle mie letture ed esperienza) senza ben distinguere tra "teoria" e "modello" nell'accezione data sopra. In secondo luogo, sembrerebbe che un elemento nevralgico della (futura?) teoria della tecnica sia il ricorso al vertice "dialogico-dialettico" che, molto accuratamente, propone Carere. Credo però che questo non sia sufficiente, in quanto, almeno all'interno della psicoanalisi non si può parlare di una completa sovrapposizione tra "dialettica" e "terapia" (rimando per questo alle pagine di Etchegoyen sulla dialettica nel processo analitico).

Cozzaglio, dal canto suo, sottolinea, se ho ben capito, il ruolo della complementarità decisionale del paziente, un elemento importantissimo che, ritengo, ci indirizzi verso la strada della "reciprocità" come orizzonte relazionale della psicoterapia. Per questi motivi, credo che occorra ridefinire accuratamente l'idea di tecnica che ci siamo fatti nel corso degli anni, notando innanzitutto che, se essa ha un senso, lo ha acquisito storicamente e anche personalmente all'interno del lavoro clinico in cui è stata scoperta, applicata, pensata, confutata. Se questo vale per tutti, credo sia possibile affrontare una tale (e spinosa) questione valutando il "che cosa si fa ASSIEME al paziente", il "che cosa si fa AL paziente" e distinguendolo dal "COME lo si fa". A questo proposito, mi permetto di citare una riflessione tratta da un seminario condotto a Milano nello scorso autunno da Sergio Bordi ("Modelli teorici e pratica clinica", Milano 29 settembre 2001), in cui il relatore, neuropsichiatra e psicoanalista didatta, rivendicava l'importanza della buona relazionalità del lavoro clinico, enfatizzando come <<i modelli attualmente in circolazione vanno considerati delle semplici sovrastrutture della prospettiva psicoanalitica che è la vera struttura da cui scaturiscono quelle particolari modalità in cui il dato viene compreso e organizzato>>.

Ritengo che, anche parlando in senso allargato di psicoterapia/e sia essenziale comprendere il valore fondante che la "prospettiva" (il punto A cui si guarda e non DA cui si guarda) ha come orizzonte direzionale della clinica.

26 Novembre 2001, From Tullio Carere

In data 25-11-01, Paolo Cozzaglio ha scritto:
>L'osservazione non è nuova. Jung stesso considerava le teorie e le tecniche
>di Adler e Freud come "applicazioni particolari" del metodo analitico.
>Considero, riguardo al tema proposto dalla collega Filingeri, interessante
>la conferenza tenuta dallo stesso nel 1935 e riportata in "pratica della
>psicoterapia" (vol. 16 delle Opere pubblicate Bollati-Boringhieri).
>In "principi di psicoterapia pratica" Jung scrive: "...la psicoterapia non
>è quel metodo semplice e univoco che in un primo tempo si credeva fosse, ma
>si è rivelata a poco a poco una sorta di 'procedimento dialettico', un
>dialogo, un confronto tra due persone... un processo creativo di nuove sintesi
.

Ringrazio Paolo Cozzaglio per averci ricordato questo passo di Jung, in cui è così lucidamente descritta l'essenza "naturaliter" dialogico-dialettica della psicoterapia. La dialettica più fondamentale può essere considerata quella di cui stiamo parlando, tra il "modello" del terapeuta (comprensivo di visione del mondo, teoria e tecnica) e tutto ciò che non rientra in quel modello, ma "accade" nella relazione, perché il terapeuta "sente" di dover fare qualcosa di diverso quando il lavoro condotto secondo il modello si è "incagliato", o perché è il paziente a farlo accadere, o perché in ogni modo accade, senza che nessuno apparentemente lo abbia voluto o deciso.

Ci sono peraltro diversi livelli o gradi di questa dialettica. Al più esterno (terapia scolastica) il terapeuta vede con disappunto ogni deviazione dal modello, e cerca di tornarvi prima possibile (per tornare a fare della "buona analisi", o del buon "comportamentismo"). E' il livello della "dialettica riluttante". Al polo eclettico invece la deviazione è accolta benissimo, ma essendo labile l'adesione a un modello la dialettica è di necessità un po' evanescente, per mancanza o scarsa consistenza di una base teorica di riferimento. Procedendo verso gradi di maggiore integrazione, verso l'interno della linea congiungente polo scolastico e polo eclettico, troviamo nelle vicinanze del primo l'integrazione assimilativa, come è rappresentata ad esempio dalla posizione di Fred Pine, opportunamente ricordata da Davide Cavagna:
>Va notato che Pine riconosce come le quattro psicologie siano a tutti gli
>effetti "psicoanalitiche" e consistano in "utensili da usare flessibilmente
>quando ci troviamo 'incagliati' nella posizione di ascoltatori analitici".

Tipicamente nell'integrazione assimilativa si fa questo: si ammette una pluralità di punti di vista nell'operare clinico (punti di vista che di volta in volta possono essere detti "paradigmi" o "utensili" o "visioni del mondo" - questo mi sembra secondario), ma la pluralità è ammessa solo a patto di poter ridefinire i diversi punti di vista nei termini del modello di riferimento (le quattro psicologie sono 'a tutti gli effetti "psicoanalitiche"'). Similmente a questo livello un comportamentista può fornire un'interpretazione, a patto di poterla ridefinire come una "esposizione" a uno stimolo ansiogeno. Così lo psicoanalista può tranquillizzarsi pensando che ciò che fa è "a tutti gli effetti" psicoanalitico, e il comportamentista si sente bene perché è convinto che ciò che fa è in buona sostanza comportamentismo. Siamo a un livello di "dialettica implicita".

(Mi sfugge l'utilità, su cui insiste Cavagna, di distinguere tra "modelli" e "teorie" - le teorie sarebbero predittive, a differenza dei modelli. A parte il fatto che un "modello" in tanto è valido in quanto consente di fare predizioni sugli eventi del mondo, non diversamente dalla "teoria", queste sottigliezze terminologiche finiscono per ingarbugliarsi. Le "psicologie" sono definite prima "utensili" - quindi costruzioni di livello subordinato rispetto alla teoria - poi "visioni del mondo" - quindi costruzioni di livello sopraordinato. Sono giochi di prestigio che tipicamente si trovano nelle costruzioni di tipo assimilativo, in cui si producono contorcimenti logici di ogni sorta al fine di salvare la "prospettiva" di partenza e soprattutto di appartenenza: perché non sia messa in gioco, in ultima analisi, la propria identità di "psicoanalisti", o quella che si preferisce).

Anche dall'altra parte della linea, nell'approccio dei fattori comuni, possiamo parlare di "dialettica implicita", perché per quanto un terapeuta ami definirsi un terapeuta "senza aggettivi" o "tout court" - come io stesso ho amato, prima di (ri)scoprire che mi riconosco meglio nella dizione "terapeuta dialogico-dialettico" - c'è sempre una base teorica prevalente rispetto alle altre (tanto che quando per esempio a suo tempo ho chiesto l'iscrizione alla lista degli psicoterapeuti presso l'ordine dei medici della provincia di Bergamo come "psicoterapeuta di orientamento integrato", la commissione dell'ordine ha cambiato di sua iniziativa questa dizione, e mi sono ritrovato iscritto come "psicoterapeuta di orientamento psicoanalitico-integrato").

Quanto più si procede verso il centro della linea che congiunge le due tipologie estreme di terapeuti - cioè quanto più aumenta l'esperienza - tanto più l'atteggiamento dialogico-dialettico passa da riluttante a convinto, da debole a forte, da implicito a esplicito.

26 Novembre 2001, From Licia Filingeri

Gli apporti dei colleghi sono talmente ricchi di ulteriori spunti di riflessione, che mi riesce difficile operare una scelta per un proseguimento della discussione.. Fortunatamente, i ritmi di ciascuno di noi sono diversi, così coglierò per ora solo uno spunto, e magari nel frattempo altri ne svilupperanno altri, altrettanto importanti. Innanzi tutto, è utile il report di Cavagna di qualche tratto significativo del contenuto dell'articolo di Pine, che forse non tutti hanno sottomano in questo momento (mi domando se l'articolo tradotto del 1988 cui Davide accenna sia lo stesso, o una revisione, di quello cui faccio riferimento, pubblicato originariamente nel Journal of the American Psychoanalytic Association, vol. 36, n. 3, 1988, e tradotto per Gli Argonauti da Viviana Velicogna).
Mi associo (anche se probabilmente non tutti saranno d'accordo)con l'esortazione di Carere all'uso più libero dei termini teoria, paradigma, modello. Non per negare il problema, ma per non appesantire in questa sede la discussione, già molto articolata.

Vorrei fare una premessa citando da Pine. Riguardo alle quattro psicologie ( "metodi per riordinare i dati delle vite che si sono evoluti dai processi di ascolto", quindi conoscenza del funzionamento umano) dice: "ciascuna di esse assume un punto di vista differente sul funzionamento della psiche umana, sottolineando fenomeni in qualche modo diversi...ciascuna aggiunge qualcosa di nuovo alla nostra comprensione teorica, così come ciascuna ha una rilevanza significativa nella situazione clinica", premettendo, a maggior chiarimento, che in un precedente lavoro ha proposto " un quadro di come ciascuna potrebbe trovare la sua collocazione nella psicologia dell'individuo durante il corso dello sviluppo". Se è vero, aggiunge Pine, che esse sono " ben consolidate dal punto di vista della letteratura psicoanalitica...ritengo che ciascuna sollevi problemi differenti nel lavoro clinico e ci metta in guardia rispetto a diverse sfaccettature dei processi di cambiamento" .

Dice ancora Pine "le domande correlate influenzano il nostro punto di vista storico-ricostruttivo- formulativo" (quindi, modelli antropologici diversi, con obiettivi diversi, e domande diverse, così la intendo io, da cui il problema da me posto inizialmente dell'interferenza/compatibilità e confusività). "Ciascuna delle quattro psicologie ha una concezione in qualche modo differente dell'umanità e dei nostri compiti essenziali". Esse sono "prospettive differenti sui fenomeni", oltre che "psicologie della persona", psicologie separate ma anche "prospettive dell'esperienza" utili nello stato di "attenzione liberamente fluttuante", cioè di "ascolto senza pregiudizi", quando le menti sono " recettive all'organizzazione di quel particolare contenuto di quel particolare paziente in quella particolare ora". Infine, Pine mostra le quattro psicologie "come mezzi per esplorare il potenziale mutativo dell'incontro psicoanalitico", rispetto agli elementi verbali e all'insight, e per gli effetti relazionali del trattamento, parte del suo saggio molto importante, in cui sottolineerei il termine "esplorare", che non significa "agire tecnicamente" quando si è nelle secche. Almeno, così mi pare di intendere, e questa distinzione mi pare importante. Infatti, quello che più mi preme sottolineare, è che, con la pregnante immagine della cassetta di arnesi più utile di una casa già pronta per un ipotetico Robinson Crosuè (fa il paio con quel detto secondo cui, a chi ha fame, è meglio insegnare a pescare piuttosto che offrirgli del pesce), Pine definisce le quattro psicologie come strumenti " che possono essere usati flessibilmente quando ci si trovi in difficoltà nella posizione di ascoltatori analitici: non offrono una struttura teoretica, ma sono "immensamente utili per " andare avanti" nel fare analisi"; "strumenti concettuali per analizzare un processo che semplicemente accade ". Una mia assimilazione/accomodamento (per usare l'utile e chiaro schema concettuale di Tullio, nonché l'importante riferimento a Piaget) mi inclina a vedere nelle (quattro) psicologie sì degli strumenti "che valgono in una condizione clinica di incaglio", "artefatti ad uso del terapeuta con i quali ricondurre determinati fenomeni clinici entro un quadro di coerenza narrativa e processuale", come precisa Davide, ma non strumenti a cui ricorrere nel caso di incaglio costituito da una traslazione confusa. Allora mi viene in soccorso la teoria della tecnica, e poiché io aderisco ad una particolare teoria della tecnica, in quanto maggiormente corrispondente alla mia formazione e a come io sono fatta, così come credo avvenga a ciascuno di noi, ecco che la confusività si fa per così dire minore (almeno, nella mia coscienza di terapeuta, che riesce, come osserva acutamente Tullio, a "canalizzare il processo sui binari della propria teoria"). Resta salva, quindi, l'utilità non perturbante di conoscere, ed eventualmente applicare , le (quattro) psicologie, che consiste , se ho ben capito, soprattutto nell'allargamento complementare del fatto conoscitivo riguardo alle psicologie della persona.

26 Novembre 2001, From Davide Cavagna

Innanzitutto una precisazione di cui sono debitore a Licia Filingeri.
> Mi domando se l'articolo tradotto del 1988 cui Davide
> accenna sia lo stesso, o una revisione, di quello cui faccio riferimento,
> pubblicato originariamente nel Journal of the American Psychoanalytic Association,
> vol. 36, n. 3, 1988, e tradotto per Gli Argonauti da Viviana Velicogna).

In effetti, verifico grazie alla segnalazione della collega che il lavoro di Pine è stato effettivamente pubblicato nel 1988. Per una qualche svista, la traduzione di Carlo Casnati cui mi sono riferito (Psicoanalisi, 1999, vol. 3, n.1) riporta come anno di pubblicazione il 1996. Ad ogni buon conto, per chi volesse consultare la versione originale, eccone gli estremi: Pine F., Four psychologies of psychoanalysis, role in clinical work.., J. Amer. Psychoanal. Assn., 1088, 36: 571-596. Segnalo infine che nel 1990 è apparso il volume di Pine Drive, Ego, Object, and Self (New York: Basic Books) in cui l'autore affronta e amplia la sua concezione sulle quattro psicologie. Venendo quindi all'interessante intervento di Carere, che ringrazio per le puntuali delucidazioni sulla dialettica "implicita" ed "esplicita" in terapia, mi permetto di rispondere brevemente ad alcune sue osservazioni. Dice Carere:
>Le "psicologie" sono definite prima "utensili" - quindi costruzioni di livello
>subordinato rispetto alla teoria - poi "visioni del mondo" - quindi costruzioni di
>livello sopraordinato. Sono giochi di prestigio [omissis].

In effetti, Carere stesso ricorda come:
> Tipicamente nell'integrazione assimilativa si fa questo: si ammette una
> pluralità di punti di vista nell'operare clinico (punti di vista che di
> volta in volta possono essere detti "paradigmi" o "utensili" o "visioni del
> mondo" - questo mi sembra secondario),

Non credo però che utilizzare in modo interscambiabile termini quali paradigmi/utensili/visioni del mondo sia cosa di poco conto. In effetti, quello che mi sembra rilevante, della concezione di Pine, è che le quattro psicologie possono essere degli utensili proprio IN QUANTO visioni del mondo. L'autore sembrerebbe indicare cioè che nella pratica clinica ci si trova ad utilizzare alcune visioni del mondo anche per la loro valenza terapeutica. Questo fa parte non tanto e non solo della teoria implicita che ognuno di noi ha della persona umana (ognuno ha la sua/le sue psicologie ingenue), quanto di quello che si vuole "passare" al paziente in termini di rappresentazione di sé-con-l'altro. In effetti, questo spiega a mio avviso una parte della discrepanza, sentita da molti, tra modelli teorici di riferimento e strumenti tecnici impiegati. E' quanto in nuce mi sembrava indicasse la stessa Filingeri, ponendo il problema. Che poi queste "psicologie" diventino "paradigmatiche" risulta senz'altro un affascinante problema per gli epistemologi... Prendo atto poi del fatto che Carere stia pensando alla possibilità di una psicoterapia (integrata o meno che la si chiami) che abbia una "dipendenza relativa" dalla psicoanalisi, e come questa sia ancora una realtà da venire anche rispetto all'attuale situazione culturale e sociale (di cui il suo accenno all'episodio occorsogli mi sembra un chiaro e credo deplorevole esempio). Ritengo infine di una qualche utilità una distinzione logica tra teoria e modello, in quanto il modello per sua natura ha una potenza esplicativa più bassa della teoria, e questo è un indubbio vantaggio se consideriamo l'attuale stato dell'arte terapeutica. Con un paragone forse non del tutto calzante, un conto è la relatività ristretta, un conto la relatività generale: predittività sì dei modelli, ma di potenza minore (e quindi "locale") rispetto alle teorie generali (della mente).

27 Novembre 2001, From Paolo Cozzaglio

"Ciascuna delle quattro psicologie ha una concezione in qualche modo differente dell'umanità e dei nostri compiti essenziali".
Forse potremmo dire che ogni "psicologia" può corrispondere a un momento evolutivo diverso della personalità? Come dire che per la problematica individuativa di un paziente è utile la "lettura kleiniana", piuttosto che per quella di un altro paziente è utile la "lettura adleriana" e così via? Il punto allora non sarebbe quello di venire a capo dell'antinomia citata da Carere "terapeuta scolastico-terapeuta eclettico", bensì quello di considerare la dialettica terapeuta-paziente come un sistema intersoggettivo che supera ogni particolarismo di scuola. Mi sembra - almeno questa è la mia esperienza, mi pare condivisa da Lucia Filingeri - che ogni nuovo rapporto analitico ponga degli obbiettivi a sé stanti (sia per il paziente, che per il terapeuta) pur mantenendo una regola comune: quella della continua riflessione dialogica e della ricerca di un senso. Che poi questa regola venga applicata ai sintomi, ai sogni o al comportamento... è storia che fa parte di ogni singolo processo analitico. Mi rifaccio alla riflessione di Silvia Montefoschi in L'uno e l'altro: interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico (Milano: Feltrinelli, 1977). Cito: "Il primo interrogativo che mi pongo, per analizzare le operazioni che si compiono entro il rapporto tra me e il paziente, si rivolge al che cosa io faccio. Io non agisco direttamente sugli istinti, non sugli affetti, non sulla struttura psichica data come cosa; io mi rivolgo a un soggetto nella misura in cui egli si rivolge a me. Ciò di cui mi occupo, quindi, è anzitutto il modo dell'altro di mettersi in rapporto con me, in quanto è solo in questo suo rapportarsi che egli esplicita la sua problematica... io considero la problematica dell'altro come rapporto di conoscenza che egli ha con i suoi vissuti... io mi occupo quindi anche del modo dell'altro di relazionarsi a sé stesso. Lo strumento che adopero per compiere questa operazione è il mio relazionarmi al paziente... e poiché il modo con cui utilizzo, nella relazione con l'altro, i miei contenuti mentali ed affettivi, sta già nel come io uso trattarli, lo strumento si colloca nel mio relazionarmi a me stessa". Mi sembra che ciò che Montefoschi scrive vada oltre il concetto di transfert-controtransfert, e si inserisca in quello che Stolorow ed Atwood chiamano per l'appunto "campo intersoggettivo" (I contesti dell'essere, Torino: Bollati-Boringhieri, 1995) e che sarebbe interessante approfondire nel dibattito. In altre parole, non è che usare "tecniche" diverse fa diventare eclettici. Penso che ciascuno di noi rimanga personalmente aderente alla scuola in cui si è formato, anche perché questa riflette in nostro modo individuale di essere e di "fare" terapia. Piuttosto la tecnica "diversa" potrebbe riflettere il contesto intersoggettivo che si viene a creare nel rapporto analitico con quel particolare paziente.

27 Novembre 2001, From Paolo Migone

In data 26/11/2001 Licia Filingeri ha scritto:

> Mi domando se l'articolo tradotto del 1988 cui Davide
> accenna sia lo stesso, o una revisione, di quello cui faccio riferimento,
> pubblicato originariamente nel Journal of the American Psychoanalytic Association,
> vol. 36, n. 3, 1988, e tradotto per Gli Argonauti da Viviana Velicogna).

Mi intrometto brevemente nel dibattito non tanto per fare un intervento (che eventualmente farò in seguito) ma per ricordare ai colleghi le pubblicazioni di Fred Pine.

Pine (che è lo stesso che scrisse nel 1975 assieme alla Mahler e a Anni Bergman il noto libro La nascita psicologica del bambino, tradotto da Boringhieri nel 1978), ha scritto anche un libro suo tradotto in italiano: Pine F. (1985). Developmental Theory and Clinical Process. New Haven, CT: Yale Univ. Press (trad. it.: Teoria evolutiva e processo clinico. Torino:Bollati Boringhieri, 1995).

Un secondo libro, ricordato da Cavagna (Drive, Ego, Object, and Self. New York: Basic Books, 1990), era stato programmato e tradotto da Bollati Boringhieri ma poi non è mai uscito.

L'articolo citato da Licia Filingieri è questo: Pine F. (1988). The four psychologies of psychoanalysis and their place in clinical work. J. Am. Psychoanal. Ass., 36, 3: 571-596 (trad. it.: Le quattro psicologie della psicoanalisi e la loro importanza nel lavoro clinico. Gli argonauti, 1990, XII, 45: 95-114; uscito anche su Psicoanalisi, 1999, vol. 3, n. 1).

Vi sono poi vari articoli di Pine sulla sua proposta delle quattro psicologie (ad es.: Motivation, personality organization, and the four psichologies of psychoanalysis. J. Am. Psychoanal. Ass., 1989, 37: 31-64; From technique to a theory of psychic change. Int. J. Psychoanal., 1992, 73: 251-254; ecc.), e soprattutto è uscito un numero monografico della rivista di Lichtenberg (Psychoanalytic Inquiry, non ricordo quale numero), con un ricco dibattito sulla sua proposta.

27 Novembre 2001, From Piero Porcelli

Grazie a Licia per aver rilanciato il dibattito su uno dei temi più appassionanti di questo mestiere. Ho apprezzato molto l'intervento di Tullio, preciso e puntuale come sempre, e ho trovato particolarmente felice lo schema proposto per la chiarezza e semplicità. Ho l'insegnamento di Modelli di Psicoterapia alla scuola di specializzazione in Psicologia Clinica a Bari e da qualche anno l'argomento del corso è l'integrazione in psicoterapia. Una domanda mi ha particolarmente colpito quest'anno. Una ragazza mi ha detto: molto interessante tutto questo, ma cosa devo fare per imparare ad usare questo approccio? conoscere tutte le tecniche di psicoterapia? La mia risposta e' stata scontata, la più ovvia: prima una buona formazione di base in un modello psicoterapeutico, e poi l'apertura mentale per allargare la prospettiva. In realtà, la ragazza ha colto un elemento importante, ed e' quello su cui continuo ad aver dubbi su questo aspetto. Da un lato, infatti, l'integrazione e' indispensabile e inevitabile, anche per il "terapeuta scolastico", secondo l'espressione di Tullio. Dall'altro, mi resta una perplessità: l'approccio integrativo, secondo l'idea di "terapia dialogico-dialettica" (che mi sembra in linea con l'idea di integrazione teorica di proposta da Stricker e Gold), e' un approccio che resta necessariamente legato all'esperienza del terapeuta? Condivido che "terapeuti esperti di scuole diverse finiscono per assomigliarsi tra di loro più di quanto assomiglino a terapeuti inesperti della loro stessa scuola", come dice Tullio. Ma, come viene detto qui e come sottintendeva la domanda della ragazza a lezione, senza l'esperienza del terapeuta l'integrazione non riesce a diventare carne nella prassi terapeutica.

Ora, mi chiedo, e chiedo a tutti:

1) può essere considerato maturo (quindi affidabile) in linea di principio un approccio clinico che in realtà non si può trasmettere, non si può' esportare, cosi' legato comâè al sostrato dell'esperienza del terapeuta che gli consente di dialogare con altri colleghi esperti ma essere lontano da una formalizzazione compiuta?

2) non c'è il rischio, in questo modo, di allargare la forbice fra la psicoterapia "evidence-based" e quella "experience-based" (usando la felice espressione di Paolo Migone, qualche tempo fa in lista)? Indipendentemente dalle opinioni di ciascuno sul valore clinico, individuale, concreto della pratica clinica "evidence-based", credo che nessuno di noi si auguri che nuovi approcci terapeutici, affascinanti sul piano del modello, si allontanino dai controlli dell'evidenza empirica.

29 Novembre 2001, From Tullio Carere

In data 27-11-01, Piero Porcelli ha scritto:
>Ho l'insegnamento di Modelli di Psicoterapia alla scuola di specializzazione
>in Psicologia Clinica a Bari e da qualche anno l'argomento del corso è
>l'integrazione in psicoterapia. Una domanda mi ha particolarmente colpito
>quest'anno. Una ragazza mi ha detto: molto interessante tutto questo, ma
>cosa devo fare per imparare ad usare questo approccio? conoscere tutte le
>tecniche di psicoterapia? La mia risposta e' stata scontata, la più ovvia:
>prima una buona formazione di base in un modello psicoterapeutico, e poi
>l'apertura mentale per allargare la prospettiva.

A mio parere questa è una delle due partenze possibili: quella scolastica. L'altra è quella eclettica (almeno in linea di principio: per la legge attuale è ammessa solo la prima via). Affermazione confortata dalla ricerca, peraltro, che ha mostrato che "terapeuti" improvvisati, privi di qualsiasi formazione, non facevano peggio di quelli regolarmente formati in un approccio. Come mai? La formazione scolastica (cioè secondo un modello determinato) dà e toglie: arricchisce in competenze specifiche, impoverisce in libertà di percezione e risposta (c'è tutta una letteratura psicoanalitica sui danni del training psicoanalitico regolare: indottrinamento, infantilizzazione, perdita di spirito critico, e simili). Quindi è possibile partire da un modello, e recuperare in seguito a poco a poco la libertà di movimento, come è possibile partire da questa, guidata solo dal comune buon senso, integrando strumenti specifici a poco a poco. Entrambe le vie convergono verso la terapia "esperta", dialogico-dialettica.

>Ora, mi chiedo, e chiedo a tutti:
>1) può' essere considerato maturo (quindi affidabile) in linea di principio
>un approccio clinico che in realtà' non si può trasmettere, non si può
>esportare, cosi' legato comâè al sostrato dell'esperienza del terapeuta che
>gli consente di dialogare con altri colleghi esperti ma essere lontano da
>una formalizzazione compiuta?

Non credo che la maturità possa essere trasmessa o esportata. Si può trasmettere ed esportare l'abilità nell'applicare un modello dato, ma questo ha, mi sembra, poco a che fare con la maturità (mentre ha molto a che fare con l'immaturità).

>2) non c'è il rischio, in questo modo, di allargare la forbice fra la
>psicoterapia "evidence-based" e quella "experience-based" (usando la felice
>espressione di Paolo Migone, qualche tempo fa in lista)? Indipendentemente
>dalle opinioni di ciascuno sul valore clinico, individuale, concreto della
>pratica clinica "evidence-based", credo che nessuno di noi si auguri che
>nuovi approcci terapeutici, affascinanti sul piano del modello, si
>allontanino dai controlli dell'evidenza empirica.

Bisogna intendersi sull'"evidence". Se per terapia evidence-based si intende quella manualizzata, efficacy-oriented, il suo valore "clinico, individuale, concreto" è molto basso. I manuali vanno bene per la ricerca, ma nella pratica reale la loro utilità è limitata a trattamenti molto brevi e molto mirati. Nella terapia "vera" i manuali servono a poco, quando non sono dannosi.

Se invece l'evidenza cui si fa riferimento è quella della ricerca effectiveness-oriented (che studia la terapia come avviene nel setting clinico naturale), la forbice tra "evidence-based" e "experience-based" non ha motivo di essere. Se fossi più giovane e lavorassi in un ambiente istituzionale, invece di essere, come sono, un terapeuta di campagna, organizzerei subito una ricerca sulla "buona seduta", di questo tipo: le trascrizioni di sedute registrate in un contesto clinico naturale sarebbero valutate da rater indipendenti per [1] la qualità dell'outcome (buona, media, bassa), e [2] lo stile prevalente del terapeuta (scolastico, dialogico, eclettico). La correlazione tra [1] e [2] sarebbe quindi analizzata secondo vari parametri (età, sesso, livello culturale, motivazione, e altri). Mi aspetterei risultati di questo tipo: la terapia scolastica funziona meglio con terapeuti giovani e pazienti motivati a trattamenti brevi e mirati, quella dialogica con terapeuti più anziani e pazienti motivati a trattamenti senza limiti di tempo. Grazie, Piero, per i tuoi interventi sempre stimolanti.

3 Dicembre 2001, From Paolo Migone.

Voglio anch'io fare un commento sulla proposta di Fred Pine. A me sembra che possa essere intesa in due modi diversi. Il primo riguarda la sua scelta delle "quattro psicologie" (quali sono, come si integrano l'una con l'altra, perché ha scelto quelle quattro e non altre, perché 4 non 5 o 6 o 15 ecc.). Il secondo prescinde da questi contenuti e riguarda un discorso più ampio, di metodo, cioè la questione più generale che vi sono modi diversi di vedere le cose, varie teorie, diverse scuole di psicoterapia, in ultima analisi come si può porre il problema della integrazione in senso lato (qui Pine avrebbe potuto scegliere 2 psicologie o 15, il problema non cambierebbe). A me sembra che il primo modo sia più banale, meno interessante (le teorie cambiano sempre, a seconda dei periodi storici e delle aree geografiche, per cui tanto vale non perderci tempo), mentre questo secondo modo con cui Pine ci fa riflettere sia più interessante (le riflessioni che faccio sono basate anche sulla recente lettura dell'ultimo articolo di Pine, uscito sull'Int. Journal of Psychoanalysis, 5/2001, intitolato "Ascoltare e parlare psicoanaliticamente - ma con in mente che cosa?", tratto dalla sua "Heinz Hartmann Honorary Lecture" tenuta al New York Psychoanalytic Institute il 28 novembre 2000).

Pine dice che tutte queste psicologie, queste teorie, sono state inventate da qualcuno perché in un qualche modo gli servivano, sembrava che lo aiutassero a capire meglio il paziente. Quindi possono avere una certa utilità, tutte, nella misura in cui sono servite a chi le ha inventate, a seconda del paziente che aveva di fronte, del suo sviluppo o maturazione, della sua età, del suo sesso, della sua diagnosi, del problema specifico che presentava, ecc. A volte ci tornano in mente, ci sembra che "funzionino", e allora le usiamo, almeno ci proviamo, e anche a noi sembra che funzionino queste belle metafore che vari autori ci propongono per capire e aiutare i nostri pazienti. Hanno quindi un valore d'uso. Pine non è affatto interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli, perché sa che questo è un discorso ben più complicato e ambizioso; gli basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione clinica, una sorta di eclettismo, se vogliamo chiamarlo così. Ma perché Pine insiste su questo? Dove vuole arrivare? Cosa vuole dirci? Io avevo sempre capito poco il discorso di Pine, anche perché non lo avevo letto approfonditamente, e avevo sempre provato una certa antipatia per le sue idee, antipatia che non avevo mai espresso pubblicamente perché appunto lo conoscevo poco. Ma ora, dopo la lettura di questo suo ultimo articolo, la mia antipatia si è trasformata in una certa simpatia, e voglio spiegarvi perché, anche per confrontarmi con voi.

Pine rifugge dalle "grandi teorie" che possano spiegare tutto. C'è un suo esempio che può essere illustrativo, e riguarda i tentativi di spiegazione dell'Olocausto nazista. Come sappiamo, l'Olocausto rimane un po' un mistero, e tanti storici hanno provato a spiegarlo, chi in un modo, chi nell'altro, ma tutti miravano a trovare la "vera" spiegazione di come mai sia potuta accadere una cosa del genere (motivi sociali, economici, psicologici, ecc.). Una autrice (I. Clendinnen, Reading the Holocaust, Cambridge Univ. Press, 1999) ha scritto un libro sull'Olocausto rinunciando fin dall'inizio alla pretesa di spiegarlo definitivamente, convinta che le "grandi teorie" possano ingannare, avere uno scopo difensivo divergendoci da altre possibili spiegazioni, e invece ha raccolto una serie di micro-spiegazioni basandosi sui dati obiettivi, cioè interrogando i documenti disponibili (diari, discorsi, interviste, autobiografie, ecc.) e specifici gruppi di persone coinvolte (carnefici, vittime, membri della polizia, gerarchi vicini a Hitler, soldati impegnati nel lavoro di bassa manovalanza nello sterminio, SS, ecc.), per capire quali erano le precise ragioni di ciascuno. In questo modo, cerca di ricostruire piccoli pezzi di significato, nel tentativo di rintracciare diverse strade che possono aver portato al risultato finale. Questo esempio così lontano secondo Pine può essere collegato a quello che ci interessa, il lavoro analitico.

In un passaggio successivo, Pine ci dice che di fatto l'analista lavora già su più livelli, soprattutto perché ciò avviene senza che lui se ne accorga. Ad esempio lui segue un certo modello tecnico, ma il paziente lo percepisce in un altro modo. In genere, il modo con cui gli analisti riescono a far passare un viraggio di modello, pur mantenendo l'apparenza di essere legati a uno solo, è nascosto nella universalmente riconosciuta importanza di tre fattori: il tatto, il timing, e il tono di voce. Con questi tre trucchetti, come un vero e proprio prestigiatore, l'analista riesce a virare di modello tecnico senza che nessuno se ne accorga a livello conscio, né lui, né il paziente, né la comunità dei colleghi. Il più rigido freudiano ortodosso, che lavora sempre e solo sulla interpretazione neutrale del conflitto a livello della costellazione impulso-difesa - sembra che dica Pine - con un semplice trucco, con un gioco di prestigio, di soppiatto diventa un convinto kohutiano.

Non solo, ma - ci dice Pine - tante volte ci è sembrato di aver detto "la cosa giusta" a un certo paziente, di aver fatto "proprio quello che andava fatto" e di essere molto soddisfatti di noi. Ma anni dopo, ripensando a quella situazione clinica o rileggendo le nostre note su quel caso, alla luce di nuovi modelli teorici che nel frattempo abbiamo appreso ci accorgiamo che quella "cosa giusta" era avvenuta solo grazie a qualcosa di completamente diverso da quello che avevamo creduto, cioè "malgrado noi", per così dire, cioè le cose potevano essere molto meglio spiegate con una teoria che a quei tempi noi non conoscevamo. La realtà, insomma, è per sua natura sempre molto più complessa di quanto noi crediamo di capirla. Qui Pine anche cita vari esempi per dimostrare come certi analisti senza saperlo implicitamente includevano nella loro teoria già cose che molti anni dopo avrebbero più compiutamente teorizzato altri autori che fonderanno scuole di pensiero opposte (cita ad esempio la questione del transfert in Greenson e poi in Gill). Inoltre, tante cose accadono che noi non conosciamo nel regno del non verbale e dell'hic et nunc, cioè esistono molteplici codici cognitivi, canali di comunicazione, e noi ne siamo coscienti solo di uno alla volta, e magari le cose più importanti accadono in livelli che noi al memento non consideriamo affatto. Ed ecco quindi che qui Pine collega questo discorso alle quattro psicologie, cioè alla importanza per l'analista di tenerle in considerazione tutte, senza sposarne una sola. Più precisamente, Pine si serve di questo discorso per fornire un ampliamento teorico del concetto di "attenzione liberamente fluttuante" dell'analista nell'ascolto del paziente, nel senso che se è pur vero che la importanza della "evenly suspended attention" o "evenly hoovering attention" (complementare alla regola aurea, quella delle "associazioni libere" del paziente) è ben sottolineata da tutti, non viene in genere teorizzata in questo modo come fa Pine. La attenzione liberamente fluttuante dell'analista cioè dovrebbe riguardare anche le teorie che si hanno in mente. E quale è la concettualizzazione più generale che a questo riguardo si può fare per spiegare come mai vi sono diverse teorie, diversi modi di ascoltare il paziente? E' molto facile qui rispondere: la variabile fondamentale è costituita dalle caratteristiche del paziente, quelle che citavo prima (sviluppo o maturazione, età, sesso, diagnosi, problema specifico che presenta, ecc.): sono quelle che nel linguaggio della ricerca in psicoterapia vengono definite "patient variables", le variabili del paziente, che rendono conto della maggior parte della varianza (a parità di "therapist variables", naturalmente, anch'esse molto importanti). E' questo quello che ho capito di Fred Pine. Quello che mi piace è la sua modestia verso la complessità della realtà, per sua natura inconoscibile, ma avvicinabile solo attraverso i vari (tanti) occhiali delle nostre teorie a disposizione, e adottare solo una "grand theory" può appiattire troppo i dati e può non farci vedere qualcosa. Naturalmente rimane aperta la questione di come possono essere integrate teorie tra loro contraddittorie. Per ora mi fermo qui, anche per non essere troppo lungo e quindi illeggibile in una discussion list.

3 Dicembre 2001, From Pietro Spagnulo

Sono proprio contento di aver letto l'intervento di Paolo Migone! Finalmente una lettura aperta e stimolante di un contributo teorico specifico, come può essere quello di Pine. Finalmente ho sentito una vibrazione speculativa, un lasciarsi andare a dubbi (ed aperture), un riconoscere che vi sono più livelli di lettura di una teoria: di cui almeno uno interno ad esso (la sua coerenza, la sua comprensibilità, i suoi collegamenti con la comunità che la accoglie), ma anche uno esterno, che si rivolge alla intera comunità scientifica, e non ad un sottogruppo (sia detto senza offesa!) culturale. Migone (ciao Paolo, ci siamo conosciuti al congresso di Psichiatria di Torino, allo stand di Ecomind, ti ricordi?) mi offre l'occasione di accedere ad un livello più generale del dibattito, che chiamerei epistemologico. Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo livello NON appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi. E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da quello degli altri colleghi fin qui intervenuti. La mia formazione originariamente psicoanalitica (analisi personale con un membro della SPI, supervisione con altro membro della SPI, ecc. ecc.) ha subito negli ultimi anni una progressiva trasformazione. Ho "dovuto" riconoscere, che se si prova a ragionare in modo aperto, non solo non si può lavorare con un solo modello in testa, ma, soprattutto, non si può più "appartenere" ad una sola sottocomunità, sia pure così articolata e complessa come quella psicoanalitica. La mia posizione attuale (mi definisco genericamente psicoterapeuta) unita alle mie origini (psicoanalitiche) mi rendono piuttosto sensibile a percepire un automatismo così radicato tra gli psicoanalisti da apparire troppo scontato. Se si discute di psicologie e di modelli della mente, la psicoanalisi non è il punto di partenza! Troppe cose sono accadute in questi anni: lo studio della comunicazione non verbale, gli studi sull'intelligenza artificiale e sulla memoria, la psicolonguistica, gli studi delle scienze cognitive e quelli sulla metacognizione, teorie sulla complessità, gli avanzamenti dell'ipnosi, gli indubbi successi di interventi psicoterapeutici brevi ed efficaci orientati al famigerato sintomo, solo per citarne alcune, per accontentarsi di voler a tutti i costi incastrare una riflessione di ampio respiro in un modello che, pur nelle sue infinite varianti, rimane legato ad alcuni presupposti ormai centenari.

Cito qui, solo forse per provocare, ma spero di essere chiamato in ballo per approfondire il discorso (della serie: se non vi interessa taccio!), i seguenti residui archeologici:

1. Concezione difensiva della psicopatologia;
2. Inconscio come categoria mentale confusa che implica sia una modalità di pensiero (processo primario), ma anche un luogo (quasi cerebrale), il luogo delle verità nascoste;
3. La paradossale (per una psicologia del profondo) supremazia della consapevolezza nel processo di cambiamento;
4. La supremazia della parola.

A questi preconcetti diffusi nella comunità psicoanalitica contrappongo:

1. Un'idea della psicopatologia intesa come una serie di "soluzioni" (inadeguate, ma non difensive);
2. Un inconscio come processo per definizione inaccessibile, e non come categoria mentale sede di verità;
3. Il ruolo fondamentale dei processi creativi inconsci nei percorsi di cambiamento;
4. L'importanza del corpo, dei canali percettivi e della comunicazione non verbale.

Riguardo poi all'intervento specifico di Paolo Migone, condivido la necessità di rinunciare alle "grand theories", ma propongo il concetto di "teoria personale del terapeuta" che è il tentativo individuale che ognuno di noi compie per muoversi in un terreno così poco sicuro come quello della psicoterapia. In altri termini, ritengo che ogni terapeuta costruisca una sua "grand theory" privata, un suo modello della mente (assolutamente originale e distinto dai suoi modelli di riferimento), una sorta di mappa personale, che modifica ed aggiorna quasi quotidianamente e che è il vero terreno di confronto di ciascuno di noi con i pazienti e con i dibattiti scientifici. Se possiamo rinunciare alle Teorie generali assolute, non possiamo non tenere conto dei modelli personali con i quali lavoriamo e che, per quanto individuali, possono manifestare tratti comuni che decidono della reciproca accettazione, comprensione, assimilazione del lavoro degli altri.

3 Dicembre 2001, From Davide Cavagna

Il giorno 3-12-2001 Paolo Migone, ha scritto:

> E' questo quello che ho capito di Fred Pine. Quello che mi piace è la sua
> modestia verso la complessità della realtà, per sua natura inconoscibile, ma
> avvicinabile solo attraverso i vari (tanti) occhiali delle nostre teorie a
> disposizione, e adottare solo una "grand theory" può appiattire troppo i
> dati e può non farci vedere qualcosa.

Apprezzo l'intervento di Paolo Migone, che nella sua esposizione chiara e sincera permette di fare il punto della situazione. Estrapolando dal suo discorso, vorrei sottolineare alcuni aspetti:

1) importantissimo rilevare come le teorie "della mente nella mente" del terapeuta, dice Migone,
> hanno quindi un valore d'uso.
2) Ne consegue come il lavoro dell'analista (preso come caso particolare)
> cerca di ricostruire piccoli pezzi di significato, nel tentativo di
rintracciare diverse strade che possono aver portato al risultato finale.

3) Per far questo, l'analista ricorre a
> Tre trucchetti : il tatto, il timing, e il tono di voce.
Siamo sicuri che siano semplici trucchetti, o che in realtà siano proprio alcuni degli strumenti peculiari del lavoro clinico?

4) Migone ne conclude, saggiamente a mio avviso, che
> La realtà, insomma, è per sua
> natura sempre molto più complessa di quanto noi crediamo di capirla.
il che spiega la necessita di *rielaborare* gli interventi perché assumano un senso via via più adeguato alla realtà. Detto ciò, si arriva all'ultimo punto:
6) Quale destino per la teoria? Migone afferma:
> Naturalmente rimane aperta la
> questione di come possono essere integrate teorie tra loro contraddittorie.

E qui rilancio una domanda: siamo sicuri che *integrare le teorie* sia proprio necessario, dal punto di vista teorico e pratico? Potrebbero anche esserci controindicazioni a questa *integrazione*... Penso cioè che il mito della Teoria Unica possa creare più problemi di quelli che si propone di risolvere, non tanto perché integrare una teoria sia un'impresa titanica e faticosa, quanto per il fatto che pensare di integrarla diventa, in FANTASIA, un compito grandioso, sovrumano e quindi disumanizzante. Questo, paradossalmente, non significa però che non si possa arrivare a una teoria unica (o meglio unificata) della psiche. Ma ogni cosa a suo tempo...

3 Dicembre 2001, From Licia Filingeri

Non ho letto l'articolo di Pine su cui ampiamente riferisce Paolo nel suo illuminante contributo, ma, da quello che capisco, specie nel passaggio relativo all'importanza per l'analista di tenere in considerazione tutte le (quattro) psicologie, senza sposarne una sola, ma tenendole in mente in uno stato di "attenzione liberamente fluttuante", esso spazza via ogni dubbio (per chi ne avesse avuti), quale quello espresso piuttosto pesantemente e , mi pare, e con fraintendimento del pensiero di Pine, da Gedo.

Gedo (http://www.argonauti.it/dialogo/gedo.html) scrive, parlando degli "sforzi ecumenici di integrazione": "Più recentemente anche Pine (1990) è diventato un ecumenista: egli propugna l'uso simultaneo di quattro punti di vista teorici ma dimentica di specificare le regole attraverso le quali dovrebbe avvenire il passaggio dall'uso di un punto di vista all'altro: secondo me ciò non corrisponde a una vera integrazione, è piuttosto un'accozzaglia di elementi (per non dire un pasticcio)". Ora, dato che, e credo che su questo siamo tutti d'accordo, "l'integrazione è indispensabile e inevitabile", ma "senza l'esperienza del terapeuta l'integrazione non riesce a diventare carne nella prassi psicoanalitica", come dice saggiamente Piero Porcelli, esperienza e non REGOLA, è possibile, come ricorda Tullio Carere, "partire da un modello, e recuperare in seguito a poco a poco la libertà di movimento, come è possibile partire da questa, guidata solo dal comune buon senso, integrando strumenti specifici a poco a poco. Entrambe le vie convergono verso la terapia "esperta", dialogico-dialettica".

3 Dicembre 2001, From Paolo Migone

In data 03/12/2001 Pietro Spagnulo ha scritto:
>Ma, ed è qui il punto, inizio subito col dire che questo livello NON
>appartiene in modo esclusivo alla psicoanalisi.
>E qui mi discosto subito dal contributo di Paolo Migone, ma anche da quello
>degli altri colleghi fin qui intervenuti
.

Il tuo contributo mi trova sostanzialmente d'accordo. Volevo però dire che il discorso che facevo io era rivolto, e ovviamente a maggior ragione, alla psicoterapia in toto, con le sue mille teorie. Ti faccio un esempio: modelli clinici comportamentistici, basati sulla teoria dell'apprendimento, possono benissimo stare nell'armadio mentale del terapeuta mentre cerca di capire il paziente. Penso che anche Pine, seppure faccia un discorso interno alla psicoanalisi (cioè le sue quattro psicologie sono quattro teorie psicoanalitiche) sarebbe d'accordo.

In data 03/12/2001 Licia Filingeri ha scritto:
>l'articolo di Pine... spazza via ogni dubbio
>(per chi ne avesse avuti), quale quello espresso piuttosto pesantemente e,
>mi pare, e con fraintendimento del pensiero di Pine, da Gedo.
>Gedo
http://www.argonauti.it/dialogo/gedo.html scrive, parlando degli
>"sforzi ecumenici di integrazione":" Più recentemente anche Pine (1990) è
>diventato un ecumenista: egli propugna l'uso simultaneo di quattro punti di
>vista teorici ma dimentica di specificare le regole attraverso le quali
>dovrebbe avvenire il passaggio dall'uso di un punto di vista
>all'altro: secondo me ciò non corrisponde a una vera integrazione, è
>piuttosto un'accozzaglia di elementi (per non dire un pasticcio)".

Forse Gedo (che non fu il solo nel coro degli autori che criticarono Pine) non ha frainteso Pine, nel senso che Pine fa un discorso clinico, non tocca la più complessa (e sicuramente molto interessante) questione dell'integrazione teorica, di un modello generale della psicoterapia. Come sappiamo, Gedo è stato uno degli autori più importanti in questo senso, quando nel 1972 con Goldberg, e ancor meglio nel 1979 con Al di là dell'interpretazione, propose il suo modello gerarchico basato su cinque livelli di funzionamento psichico correlati a cinque tipi diversi di interventi tecnici.

5 Dicembre 2001, From Tullio Carere

In data 3-12-01, Paolo Migone ha scritto:

>Pine non è affatto interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli,
>perché sa che questo è un discorso ben più complicato e ambizioso; gli
>basta, per portare avanti il suo discorso, una approssimativa integrazione
>clinica, una sorta di eclettismo, se vogliamo chiamarlo così.

Caro Paolo, non mi sembra giusto dire che Pine non è interessato alla questione della integrazione teorica dei vari modelli. Considera che cosa scrive (Pine, 2001, p. 908):

"In prior writings (1990, 1998) I have given some arguments for viewing our various psychoanalytic models of mind as part theories that can find a place in a larger, more complete theory of mind. This can be achieved without falling into an internally contradictory eclectic muddle if one focuses on the clinical level theories and observations that are, after all, the base of the various conceptual models and if, simultaneously, one separates one's thinking from the metapsychological structures built on top of those clinical formulations...This latter (integration) is undertaken at the level of the developing child and of the clinical process"

In sostanza, secondo Pine i vari modelli psicoanalitici possono essere visti come parti di una teoria generale della mente. A questa teoria generale, che non è un semplice affastellamento internamente contraddittorio di teorie e tecniche, si può arrivare concentrandosi sul livello clinico delle teorie, e rinunciando alle sovrastrutture metapsicologiche. A una vera integrazione si arriva seguendo il filo dello sviluppo psicologico del bambino e del processo clinico. In altre parole, l'integrazione terapeutica è un'organizzazione delle varie teorie e tecniche in funzione delle fasi dello sviluppo: ad esempio la psicologia del sé offre dei modelli di lettura e delle tecniche di intervento corrispondenti a una fase molto precoce dello sviluppo. Ordinerò i suoi scritti precedenti, in particolare il testo del '98, per saperne di più. Nell'articolo che stiamo commentando, peraltro, non c'è traccia di questa teoria generale. Sembra piuttosto che Pine si muova in modo genericamente eclettico. Se stiamo a questo scritto, la tua osservazione citata sopra è giusta.

8 Dicembre 2001, From Pietro Spagnulo

Grazie Paolo per aver chiarito il tuo punto di vista. Ma continuo a non afferrare il dibattito in oggetto. Capisco che ci siano molte questioni "interne" alla psicoanalisi, ma dubito fortemente che tra queste sia compreso un dibattito sulla integrazione dei modelli e sull'eclettismo, che mi sembra sia poi il tema centrale di questo scambio di opinioni in lista. Cosa significa dibattere questioni di ordine così generale "all'interno della psicoanalisi"? Cosa vuol dire "pensare psicoanaliticamente"? Cosa si intende "all'interno della psicoanalisi" per eclettismo? Esiste oggi la possibilità di una solida formazione "non eclettica" che non assomigli in qualche modo ad una teologia?

Faccio un esempio. Da un punto di vista assolutamente generale le teorie scientifiche sono ovviamente approssimazioni, nessuno scienziato se ne meraviglia, e spesso (soprattutto nel campo psicologico) ci troviamo di fronte ad un collage di "pezzi" di teoria, ciascuno sufficientemente funzionante nel suo ambito di applicazione, ma tra di loro piuttosto scollegati. Ogni tanto, piuttosto raramente, esce fuori qualche modello rivoluzionario che integra due o tre "pezzi" che prima sembravano appartenenti a campi e livelli diversi. Così funzionano le cose. Perché tanto allarme di fronte ad appena "quattro" psicologie visto che oggi ne possiamo contare quattrocentoquarantaquattro? Che ci sia sotto sotto una nostalgia onnipotente di una teoria che tutto spiega e tutto sa, tipica degli intellettuali degli anni '70? Mi auguro proprio che, per rispondere a queste domande, non prevalga un bisogno di appartenenza sulla domanda di conoscenza.

8 Dicembre 2001, From G. Giacomo Giacomini

Solo "quattro" psicologie? Analisi, psicoterapia sistematica, dialettica.
 
In data 26 novembre 2001 Lucia Filingeri ha scritto:
>"Mi è venuto da riflettere sui problemi derivanti dalla possibilità di
>applicazione di vari paradigmi nel corso di una stessa analisi· Fino a
>che punto questo inserimento di un nuovo modello interferisce (o è
>compatibile) con il processo che abbiamo messo in moto, partendo da
>determinate premesse? Rischiamo di creare nel paziente un discorso confusivo?"

Commento: Riflessioni come quelle di L. Filingeri possono essere assai utili, in quanto ci offrono l'opportunità di considerare alcune delle principali contraddizioni epistemologiche pertinenti alle nostre discipline.

Si tratta, in effetti, di problematiche che, sin dalle origini, sono state trattate in vario modo dai padri fondatori della psicoterapia analitica moderna e che, inevitabilmente, ogni psicoterapeuta è destinato ad affrontare nella propria esperienza professionale. Quante "psicologie" possono essere impiegate in un trattamento psicoterapeutico, da parte dello psicoterapeuta, nei confronti del suo paziente? Se si adotta un punto di vista puramente empirico che tenga conto, di volta in volta, esclusivamente dei "bisogni" immediati del paziente e della sua particolare "psicologia", si potrà anche sostenere la tesi che, poiché ogni paziente è una personalità che ha una sua unicità e una sua specifica "psicologia", ogni psicoterapia è a sua volta un fatto unico che richiede, di volta in volta, uno specifico e irripetibile intervento, non codificabile e non sistematizzabile secondo una formulazione logica generale. In effetti, nell'era "preanalitica" della psicoterapia, il rapporto medico-paziente veniva inquadrato in una relazione di aiuto interpersonale fondata sull'autorità del medico e sulla sua capacità di influenzare il paziente, sul piano dialogico (verbale e non verbale), con argomenti persuasivi e, soprattutto, suggestivi, a livello emotivo, intellettuale e comportamentale. Il fatto che, a seconda delle diverse tipologie del paziente e delle diverse condizioni psichiche che in uno stesso paziente potevano osservarsi, occorresse fare ricorso prevalentemente al consiglio, o alla spiegazione, o alle istruzioni, o agli ordini, o alla suggestione, ecc., portava a considerare la psicoterapia come una procedura di per sé eclettica, nella quale le diverse modalità di intervento dovevano essere vagliate di volta in volta, a seconda delle circostanze contingenti, in funzione sia dei bisogni immediati del paziente e dell'ambiente circostante, in cui egli doveva trovare in suo adattamento, sia della possibilità, da parte del medico, di instaurare, nel paziente, una condizione di dipendenza efficace, proponendo di volta in volta la propria figura come guida, come modello, come consigliere, come oracolo, come profeta, ecc.

E' ben noto come la psicoterapia analitica sia nata fondamentalmente in antitesi con un simile eclettismo, sulla base di un'esigenza critica che portava lo psicoterapeuta ad interrogarsi non tanto sull'opportunità di ottenere risultati più o meno appariscenti ed immediati sui "disturbi" e sui "sintomi", quanto sulla necessità di trovare una spiegazione il più possibile specifica e razionale del processo psicoterapeutico, tale da rendere possibile la costituzione della psicoterapia come una disciplina fondabile "scientificamente", sia sul piano teoretico, sia su quello professionale. Con l'introduzione del concetto di "analisi" e di "metodo analitico", compare, in psicoterapia, l'esigenza di una sistematizzazione del complesso di esperienze che hanno luogo nel rapporto dialogico del medico col paziente, soprattutto in funzione della costituzione di un metodo validabile per la ricerca e per la prassi terapeutica. Non è dubbio che Freud, sul piano teoretico, costituì precisamente la sua dottrina psicoanalitica secondo il modello della cosiddetta "psicologia degli elementi" secondo la quale, in analogia con le scienze naturali (soprattutto la fisica e la chimica) avrebbe dovuto essere possibile ridurre, per via analitica, i fatti di osservazione, anche i più complessi ed eterogenei, a fatti elementari omogenei, idonei ad una concettualizzazione e ad una sperimentazione, secondo il metodo naturalistico della quantificazione, dell'associazione e della causalità fisicalizzata. Nel suo sistema teorico, rappresentato dalla metapsicologia, le istanze dialettiche inerenti ai punti di vista topico e strutturale (come le contrapposizioni antitetiche di Inconscio-Conscio, Io-Es, Piacere-Realtà, ecc.) sono in effetti subordinate ai punti di vista economico e dinamico, secondo i quali il fondamento dei fatti psichici dovrebbe essere ricondotto a quanti di energia fisicalizzata sottoposta alla legge naturale dell' omeostasi (Cannon) e della costanza (Fechner).

In una tale prospettiva, la stessa dialettica del transfert viene ridotta ad una associazione per "falso nesso", cioè ad una operazione di "trasferimento" di cariche energetiche, originariamente impiegate in pregressi investimenti oggettuali (rappresentati dalle figure genitoriali), verso un nuovo "investimento" energetico, il cui termine oggettuale è rappresentato dal medico stesso. Inoltre, la stessa problematica del linguaggio è teorizzata da Freud in termini associazionistici e intellettualistici, che non lasciano spazio al tema dell'Io riflessivo e dell'interiorità soggettiva.

Il significato che nella dottrina freudiana assume il concetto di analisi è pertanto strettamente collegato ad una fondamentale esigenza di sistematizzazione della psicoterapia come teoria e come prassi: per la soluzione di tale esigenza viene peraltro adottato da Freud il modello analitico tipico delle scienze naturali, della scomposizione dei fatti di esperienza in elementi semplici, quantificabili, matematizzabili e riconducibili ad automatismi elementari, regolati da leggi di causalità fisicalizzata. Una simile concettualizzazione dell'analisi doveva condurre ad una sistematizzazione di ordine naturalistico, non compatibile con la concreta problematica dell'esperienza soggettiva, come personalità, come linguaggio e come relazione psicoterapeutica.

In tal modo, si determinava precocemente, nella dottrina freudiana, la contrapposizione paradossale tra una teoria che, da un lato, si proponeva di soddisfare le esigenze di sistematizzazione del pensiero razionale, ma non corrispondeva alla reale esperienza psicoterapeutica e, dall'altro lato, una prassi che, quanto più si riproponeva di aderire alla realtà dell'esperienza psicoterapeutica, tanto più era costretta a discostarsi dall'ideale di una sistematizzazione teoretica (naturalistica).Una simile teorizzazione naturalistica dell'analisi doveva condurre Freud a considerare come "non scientifiche" tutte le forme di concettualizzazione direttamente collegate alle "qualità" dell'esperienza psichica: anzi, persino alle stesse costruzioni psicologiche della sua dottrina psicoanalitica non avrebbe potuto riconoscersi un'autentica realtà, ma soltanto un significato fittizio, giustificabile in funzione di un'utilità pratica, peraltro provvisoria, perché destinata ad estinguersi, quando le "autentiche" scienze naturali avranno individuato, in termini quantitativi, la composizione fisico-chimica degli importi energetici su cui dovrebbero fondarsi gli "accadimenti" psichici.

Non sembra dubbio pertanto che, secondo Freud, il metodo analitico, concepito in senso naturalistico, debba rappresentare l'unica possibile garanzia per una sistematizzazione delle esperienze psicoterapeutiche, anche se tale sistematizzazione, in ultima istanza, avrebbe dovuto realizzarsi su un terreno di ordine quantitativo fisicalistico, estraneo alle qualità tipiche di tali esperienze, così da condurre, come esito finale, ad unâestinzione della stessa psicoterapia, come disciplina specifica, metodicamente autonoma, per ridurla alla dimensione delle neuroscienze. E' altrettanto indubbio che il rifiuto di Freud ad accettare una concezione dell'analisi che non fosse quella di una ricerca dei fondamenti "quantitativi" degli "accadimenti" psichici e psicoterapeutici, secondo il metodo naturalistico, dipendesse dall'intendimento di preservare la sua psicoanalisi da concettualizzazioni "non scientifiche" o "ametodiche", tipiche delle "altre" psicoterapie.

La tesi avanzata da C.G. Jung, secondo il quale anche l'analisi psicoterapeutica non avrebbe un valore metodico sistematico, in quanto, in realtà, esisterebbero, sul piano della prassi empirica, non solo molte e diverse psicoterapie, ma anche vari e differenti procedimenti "analitici", assume una impostazione epistemologica antitetica rispetto alla concezione teoretica ed alla funzione metodica assegnata all'analisi da S. Freud. In effetti, l'impostazione junghiana sembra escludere non solo per le psicoterapie non analitiche, ma anche per le stesse psicoterapie analitiche, qualsiasi reale possibilità di sistematizzazione, a qualsiasi livello: psicopatologico, personologico, della prassi terapeutica. Com'è noto, secondo Jung, il fondamento costitutivo della personalità, così come del processo psicoterapeutico, è rappresentato dal principio di individuazione, che, attraverso la dialettica archetipica degli opposti, dovrebbe condurre al conseguimento del Sé. Tale principio di individuazione e la dialettica ad esso correlata, si svolgono, tuttavia, in funzione di una realtà trascendente, cui appartiene la stessa dimensione del Sé. Questa subordinazione dell'analisi psicoterapeutica alla Trascendenza fa sì che non solo il processo analitico sfugga ad ogni possibilità di razionalizzazione e di sistematizzazione, ma che persino la dialettica del transfert e del rapporto dialogico medico-paziente non assuma un autentico significato logico, inerente all'esperienza soggettiva e intersoggettiva, ma venga condizionato da significati trascendenti di carattere esoterico, estetizzante e teologizzante, di rango ontologico-metafisico. Tale richiamo alla trascendenza rende il dialettismo del rapporto intra ed intersoggettivo puramente apparente, in quanto il processo terapeutico è affidato all'immediatezza intuitiva dell'Erlebnis e dell'Einsicht, nei quali, in ultima istanza, si rivela la Trascendenza e la sua intenzionalità. Perciò, da un lato, la concezione freudiana del metodo analitico interpreta l'esigenza di sistematizzazione del processo psicoterapeutico, ma introduce un principio di razionalizzazione di ordine naturalistico, che ne estingue la soggettività e l'originalità; dall'altro lato l'impostazione junghiana, che si ripropone di interpretare il carattere multiforme dell'esperienza interiore nella varietà delle sue antitesi e delle sue contraddizioni, non riesce però a conferire a tali antitesi un autentico fondamento dialettico, che viene trasferito, dall'interiorità soggettiva, alla dimensione della trascendenza. Ancor oggi, le scuole di psicoterapia analitica, che dovrebbero interpretare l'ideale freudiano per una sistematizzazione della psicoterapia, sembrano oscillare tra queste due posizioni contrastanti. In effetti, da un lato, abbiamo una teorizzazione sistematica che, ispirandosi, tuttavia, a modelli naturalistici neurobiologistici, si astrae dall'interiorità originaria della soggettività e della sua dialettica immanente, dando così luogo ad una dicotomia radicale tra teoresi e prassi. Dall'altro lato, si contrappone una visione empirica, asistematica ed eclettica della stessa analisi, che, disperando di poter pervenire ad una qualsiasi sistematizzazione, giunge ad una concezione misticheggiante ed estetizzante del processo analitico, che vede nella stessa dialettica non un principio logico, ma un fatto a sua volta empirico, oppure trascendente. Noi possiamo trovare gli stessi limiti misticheggianti ed estetizzanti, tipici della psicoterapia junghiana, in quelle stesse scuole fenomenologiche che (come nel caso di M. Heidegger e di L. Binswanger) si richiamano ad una concezione ontologico-metafisica della Trascendenza, che nega all'esperienza del soggetto interiore qualsiasi autenticità dialettica. Gli stessi limiti sono riconoscibili nelle più recenti formulazioni teoriche della psicologie psicoanalitiche del Sé, della soggettività e dell'Intersoggettività, che si richiamano alla teoria del narcisismo già, a suo tempo, inaugurata da Freud, senza però svilupparne adeguatamente le implicazioni dialettiche, in funzione di una teoria dell'Io riflessivo come personalità autonoma. Sotto questo profilo, ancora ai nostri giorni, noi troviamo riproposte le esigenze di una sistematizzazione delle esperienze psicoterapeutiche da autori come J.E. Gedo che, giustamente, giudica l'eclettismo come un "pasticcio", ma, nel contempo, auspica che la sistematizzazione della psicoanalisi possa trovare la sua fondazione metodologica nelle neuroscienze; in tal modo, però, egli viene a ritrovarsi nelle stesse posizioni di S. Freud e del suo originario "Progetto per una psicologia", senza avvedersi che, su questa via, si giunge all'estinzione della psicoanalisi e della psicoterapia sistematica, nella loro specificità disciplinare e metodologica. Dall'altro lato, abbiamo le posizioni di un autore come lo R.D. Stolorow, che giustamente critica il neurologismo del "progetto" freudiano e segnala gli equivoci cui va incontro la stessa psicologia del Sé, della soggettività e dell'Intersoggettività, quando, a sua volta, assegna al Sé e al Soggetto un fondamento neurologistico. Tuttavia, quando lo stesso Stolorow si ripropone di conferire un fondamento sistematico alla psicologia del Sé e dell'Intersoggettività, egli non perviene ad un'autentica metodologia dialettica, ma ritorna su vecchi modelli gestaltistici e sulle posizioni di un fenomenologismo ontologizzante e trascendente che, inevitabilmente, ci riporta all'intuizionismo del misticismo e dell'estetismo. Un'analisi sistematica dell'esperienza psicoterapeutica come relazione intrasoggettiva ed intersoggettiva rende necessaria una concezione metodologica della dialettica come forma logica dell'interiorità soggettiva, escludendo ogni riferimento di ordine naturalistico o trascendente.

Per ulteriori approfondimenti, si rinvia al riferimento bibliografico:

- Giacomini G.G.: PSICOPATOLOGIA CLINICA, DIAGNOSI PSICHIATRICA, TIPOLOGIA DELLE PSICOPATIE, TEORIA DELLA PERSONALITA' E GIUSTIFICAZIONE DELLA PSICOTERAPIA, IN UN INQUADRAMENTO DIALETTICO. RIFERIMENTI ALLA TAVOLA EPISTEMOLOGICA UNIVERSALE (TEU), presente nella Rivista telematica "Psychomedia", nella rubrica di Psicodiagnostica e Psichiatria Clinica.

Altri riferimenti bibliografici:

- Gedo J.E.: RIFLESSIONI SU ERMENEUTICA E PSICOLOGIA, trad. it., in "Psicoterapia e scienze umane", anno XXXI, nˇ 4, 1997.
- Giacomini G.G.: IL PROBLEMA EPISTEMOLOGICO DELLA PSICOTERAPIA SISTEMATICA: IL METODO ANALITICO E LA SUA FONDAZIONE DIALETTICA, La Nuova Scienza, Genova, 1984.
- Giacomini G.G.: PSICOTERAPIA PROFESSIONALE E FORMAZIONE DELLO PSICOTERAPEUTA, La Nuova Scienza, Genova, 1983.
- Giacomini G.G.: PRELIMINARY EPISTEMOLOGICAL REMARKS ABOUT THE CONCEPTS OF "I", "EGO", "SELF", "MYSELF", "SUBJECTIVITY" IN PSYCHOLOGY AND PSYCHOANALYSIS. RELATIONS WITH THE UNIVERSAL EPISTEMOLOGICAL TABLE (UET). I: THE CONCEPTS OF "I", "EGO", "SELF", "MYSELF", "SUBJECTIVITY" IN PSYCHOLOGY; II: THE CONCEPTS OF "I", "EGO", "SELF", MYSELF", "SUBJECTIVITY" IN PSYCHOANALYSIS.; III: THE CONCEPTS OF "I", "EGO", "SELF", "MYSELF","SUBJECTIVITY" IN A DIALECTICAL ANALYTIC PERSPECTIVE, in: "Professional Psychotherapy", A.A. XIX, n. 1-2, La Nuova Scienza, Genova, 2001.
- Giacomini G.G.: LA DIALETTICA ATTUALISTICA COME LOGICA DELL'IO E TEORIA DELLA PERSONALITà, in "Psicoterapia Professionale" AA. XII-XIX, n. 1-2, La Nuova Scienza, Genova, 2001.
- Giacomini G.G.: PSICOANALISI FREUDIANA E ANALISI EPISTEMOLOGICA, in "Psicoterapia Professionale", A. I, n. 1, 1984.
- Giacomini G.G.: TAVOLA EPISTEMOLOGICA UNIVERSALE, in "Psicoterapia Professionale" AA IX-XI, 1994.
- Stolorow R.D.: I CONTESTI DELL'ESSERE, trad. it., Boringhieri, Torino, 1995.

P.S.: I colleghi che desiderassero ricevere l'articolo: TAVOLA EPISTEMOLOGICA UNIVERSALE potranno richiederlo via e-mail all'indirizzo: giacomin@libero.it

30 Dicembre 2001, From Gian Paolo Scano

Per quanto molto in ritardo vorrei proporre qualche riflessione sul tema delle "quattro psicologie" (dizione che, a dire il vero, mi crea fastidiosi brividi neuronali). Conosco le tesi di Pine, ma onestamente non le trovo né stimolanti né interessanti; trovo invece stimolante l'insieme dei temi che sono stati sollevati nel dibattito suscitato da Licia Filingieri. Del resto, nel nostro ambito, quando si solleva una qualunque pietra "teorico-tecnica" i problemi si affastellano a grappoli ( e questo non è certo un male), ma i grappoli si intersecano in modo confuso e ingovernabile (e questo, invece, credo sia un segno del malessere della nostra disciplina). Io provo a separare qualche grappolo. Il problema dell'utilizzabilità di segmenti teorici o tecnici di differente provenienza concettuale ha, credo, valore differente se ci si riferisce alla pratica del singolo terapista oppure se si ragiona più in astratto in termini storico-critici, in termini diciamo (genericamente) teorici o se addirittura ne parliamo in termini di "teoria della tecnica". Proverò a distinguere i quattro livelli.

1. LIVELLO DEL POVERO DIAVOLO. Credo che noi terapisti che operiamo di questo tempi siamo tutti dei "poveri diavoli". Io, almeno, mi ci sento. Ci troviamo a muoverci in territori sconfinati con mappe che sappiamo poco rispondenti al territorio e con bussole tarate su "direzioni" che si riferiscono alla partizione di un altro spazio (in ambito psicoanalitico uno spazio disegnato da Freud in termini economico-dinamici). Tullio spesso picchia duro sul tasto delle certezze di scuola e, naturalmente ha ragione, sia in senso generale (una mappa non è mai il territorio) sia in particolare riguardo all'oggi, in cui data la situazione delle teorie, le "certezze" possono facilmente sfiorare registri... comici. In questo momento, infatti, il problema più che dall'eccesso è determinato dal vuoto di teoria. Così il "povero diavolo" si arrangia con quello che passa il convento, con la vecchia teoria in cui è cresciuto, con elaborazioni che provengono da altre parti, con qualche intuizione che crede di poter ritenere affidabile, con buon senso e qualche coniglio dal capello. Da questo punto di vista credo che tutti, in un modo o nell'altro, facciano quanto Licia esprime con la metafora della pittura e non credo che ciò valga soltanto per la questione delle "quattro (o più) psicologie". Probabilmente ci comportiamo in tal modo anche a riguardo a tematiche più oscure e complicate, prendendo dei rischi che, in circostanze più confortevoli, forse ci potremmo risparmiare. Probabilmente a ognuno di noi, in maniera più o meno consapevole, avviene anche quanto Tullio descrive con la sua opposizione e il suo grafico. Da questo punto di vista anche l' atteggiamento di umiltà e di apertura descritto da Pine (quello che Paolo Migone ci ha partecipato a partire dal saggio più recente ) è sicuramente un ottimo auspicabile viatico sia in generale che in particolare in questa situazione di quaresima teorica e teorico-tecnica. Tutti siamo costretti a "integrare" e a operare continue sintesi personali sia per necessità (carenza di teoria), sia per virtù (le teorie sono per loro natura "strumenti provvisori"). Non credo però che si debba e si possa scambiare questo stato di necessità con "il migliore dei mondi possibili" o che lo si debba intendere (fatta salva la prudenza, l'umiltà e il dubbio che derivano dalla natura interpersonale del nostro lavoro) come una realtà necessaria, una caratteristica ineludibile e saggia della nostra disciplina guarita finalmente dalla sua irresistibile "voglia di teoria". E' un guaio, la cui entità si svela quando si passi a osservare il problema a partire dagli altri livelli.

2. Le "Psicologie" di cui parla Pine (pulsionale, dell'Io, oggettuale, del Sé) sono davvero differenti "teorie", psicologie o, addirittura "paradigmi"? Non si tratta di essere precisini; a seconda di che cosa esse sono cambiano le carte in tavola! Come ha notato Davide Cavagna "Pine riconosce come le quattro psicologie siano a tutti gli effetti "psicoanalitiche" Egli motiva la dicitura di "psicoanalitiche" in base alla presenza di assunti comuni, ovvero: - il determinismo psichico - il funzionamento psichico inconscio - il cosiddetto "processo primario" . Quelli che Pine chiama "assunti" (solo il determinismo lo è) sono le linee portanti della "psicologia freudiana" in quanto implicano tutto il settimo capitolo della Traumdeutung. Se le quattro "psicologie" condividono questi assunti semplicemente condividono la "psicologia freudiana" e allora le altre tre cosa sono? e in che rapporti stanno con la prima? Sappiamo dai tempi di Rapaport che oltre alla "teoria generale", la psicoanalisi contempla una "teoria speciale", il cui ruolo è quello di fornire un raccordo tra la formale astrazione della metapsicologia e la singolarità del caso concreto e il cui fondamento, seppure non in termini necessitanti, ( proprio per questo più che una teoria è una somma organica di generalizzazioni cliniche) è dato, però, dalla teoria formale. La teoria della libido, la teoria delle relazioni oggettuali e quella del sé sono "teorie" di questo livello subordinato e dunque non sono né teorie a sé, né tanto meno psicologie o paradigmi. Non solo. Se conosciamo assai bene i raccordi della teoria della libido con la metapsicologia, resta, invece assai confuso il rapporto tra le teorie oggettuali e del sé con la teoria formale (e, dal mio punto di viste, anche quello di quelle psicodinamiche della "psicologia dell'Io" costruite tramite una "contaminatio" con quelle oggettuali), infatti a parte pochi tentativi tutt'altro che chiari in senso indipendentista (Fairbairn e il "secondo Kohut") o integrazionista (il "mondo rappresentazionale" di Sandler) questi rapporti non sono mai stati chiariti in modo critico. E allora si possono o no mescolare queste "teorie? D fatto sono state mescolate e non solo nelle teorie personali di ogni terapista ma anche in visioni d'insieme che sono disponibili in tutte le librerie sotto forma dei "libri più venduti" negli ultimi trenta anni. E' stato fatto e, sotto molti aspetti, forse era necessario farlo (sempre per una questione di "poveri diavoli"), ma questo non significa che si "potesse" farlo o che si tratti di operazioni limpide e logicamente corrette da un punto di vista teorico e logico. Il problema infatti è storico-critico. Si tratta di capire perché la teoria (già quella freudiana) si è sviluppata in un modo piuttosto che in un altro; perché sono nate quelle province (ben più di quelle indicate da Pine) che poi hanno dichiarato indipendenze sospette e così via. Da questo punto di vista Pulsione-Io-Oggetto-Sè non indicano né quattro teorie né quattro psicologie: La prima è una teoria, che ai più oggi appare falsificata, la seconda è un tentativo di riscrittura e (nell'ottica di Rapaport) di formalizzazione della prima, le altre due sono tentativi di correggere le aporie della prima a partire da generalizzazioni cliniche, sacrosante ma non necessariamente generalizzabili in senso globale. Tali correzioni sono state condotte senza alcuna precisazione riguardo alla compatibilità con la teoria di base e senza alcuna giustificazione dei fondamenti teorico-concettuali. Tanto più che si tratta di tranches teoriche nate nel grembo della teoria madre! E' stupefacente come passi quasi inosservato nella letteratura il fatto che le elaborazioni oggettuali sono state introdotte dallo stesso Freud tra il 1912 il 1915 (Introduzione al narcisismo e Pulsioni e loro destini), che Freud in tal modo si trovò a un passo dal superamento della teoria pulsionale ( e si può sostenere con buone ragioni che ne fosse consapevole!), ma che esse furono rifiutate a causa della loro inconciliabilità con la teoria di base. Possibile che ciò che non era compatibile nel '15 diventi "ovviamente" compatibile dopo il '50? Si tratta di una storia assai oscura, mai chiarita dal punto di vista storico-critico e senza che si sia mai vista una effettiva volontà di chiarirla. Il sospetto è che, se le cose stanno in questo modo, la parola "integrazione" sia fuori luogo e che si debba parlare piuttosto di contaminazione e degrado o di gattopardismo per motivi istituzionali e di appartenenza. Il vero problema da questo punto di vista era ed è la soluzione del problema del 1912-15. L'integrazione non c'entra.

3. Se ora ci volgiamo all'orizzonte più precisamente teorico il problema si aggrava. I più considerano falsificata la teoria che dovrebbe supportare logicamente le differenti teorie speciali (in parole povere si tratta delle differenti psicodinamiche). E allora su quale supporto le possiamo mescolare secondo una logica che non sia l'abito di Arlecchino? Un tentativo serio fu compiuto da Gedo e Goldberg; essi proposero un modello gerarchico in cui le differenti "psicologie" erano intese come riguardanti fasi evolutive differenti (e quindi presumibilmente anche fasi differenti dell'analisi) e dunque coordinabili in una teoria unificata. Mi pare che il tentativo non abbia avuto grande successo anche perché sfortunatamente vide la luce quando le critiche dei rapaportiani avevano già segato la sedia metapsicologica su cui il modello unificato logicamente poggiava. L'altra idea molto diffusa e molto accattivante è che queste siano questioni di lana caprina, che la psicoanalisi è essenzialmente prassi clinica e che il supporto che consente un terreno comune è proprio l'esperienza clinica. E' difficile criticare questa idea, perché si rischia di apparire schierati con le gelide astrattezze delle teorie contro la calda umanità dell'esperienza. Naturalmente l'esperienza è importante, ma si colloca con compiti differenti su uno scaffale differente rispetto a quello che devono logicamente occupare le teorie. Da questo punto di vista le tesi di Pine mi sembra vadano di concerto con quelle del più noto saggio di Wallerstein (One psychoanalysis or many? [1988]) e del suo presidenziale intento ecumenico. E in questo senso le critiche di Gedo mi sembra siano tutt'altro che fraintendimenti; infatti le proposte di Pine sono una specificazione di questo punto di vista strategico. Gill, sulla cui aderenza al piano della esperienza clinica non si possono nutrire dubbi, ha criticato in modo esauriente e puntuale questa posizione in un contesto in cui si parlava appunto di Pine e di Wallerstein. A partire dal livello teorico, tuttavia, si può avere qualche dubbio che il nocciolo del problema sia quello cui fa riferimento Pine. Certo negli anni ottanta quando tutto il mondo era relazional-oggettuale o Kohutiano il problema poteva sembrare quello posto da Pine, ma oggi? Oggi ciò che è in discussione non sono le "psicodinamiche", ma proprio quelli che Pine, con qualche imprecisione chiama gli "assunti" e cioè oltre al determinismo, l'inconscio rappresentazionale, il processo primario e secondario, il conflitto pulsione-difesa, l'assunto naturalistico, il ruolo della conoscenza, i fattori di cambiamento e la nozione stessa di cambiamento... Infatti il confronto e la malintesa integrazione non si realizza nei confronti delle psicodinamiche quanto piuttosto nei confronti di aree teoriche più radicalmente alternative caratterizzate dal richiamo all'intersoggettività, che curiosamente stanno nei paraggi dei problemi che Freud affrontò all'epoca del narcisismo. E' nei confronti di queste istanze che l'assimilazione deteriore è al lavoro: si veda per esempio il curioso e insospettabile dibattito sull'enactment, che è forse il punto caldo di questa malintesa integrazione. Proprio il caso dell'enactment suscita il sospetto che l' "integrazione" sia piuttosto confusione, ancora la solita strategia di contaminare per non cambiare. 4. Infine se guardiamo il problema dal punto di vista della teoria della tecnica l'entità del guaio appare in tutta la sua chiarezza. Più d'uno (mi sembra) ha fatto riferimento alla teoria della tecnica come a uno strumento relativamente rassicurante. Ma se sono in discussione le cose, cui ho appena fatto riferimento, che tipo di rassicurazione può dare una teoria della tecnica che di quelli "assunti" è la specificazione logica e conseguente? Se la nozione di conflitto crolla per l' assenza (logicamente) giustificata di uno dei due contendenti (la "pulsione") che ne è del secondo contendente, la difesa, la cui trattazione è sangue e carne della teoria della tecnica? Senza la pulsione la difesa perde l'ingaggio! Se l'inconscio rappresentazionale va in pensione, la nozione di fantasia inconscia rischia di restare senza senso e allora che ne sarà di quelle sezioni della teoria della tecnica che prosperano su questa nozione (il transfert, il sogno, la stessa difesa...) Se la conoscenza non dovesse essere considerato il fattore essenziale di cambiamento (come molti anche tra di noi pensano) che ne è dell'interpretazione, unica freccia nella faretra della teoria della tecnica classica? ma soprattutto che ne è di tutto l'impianto strategico della teoria della tecnica che sul fattore conoscenza struttura tutta la sua strategia terapeutica? Se i fattori relazionali sono quelli essenziali come molti di noi pensano allora "il tatto, il timing, e il tono di voce", i "trucchetti" di Pine, forse tanto trucchetti non sono; forse sono invece accanto ad altre cose (quelle per esempio cui si riferisce il dibattito sull'enactment!) segnali che si riferiscono a quel livello essenziale di interazione tra terapista e paziente, in cui avvengono i veri giochi a prescindere dalle teorie di ciascuno. La teoria della tecnica non tiene in nessun conto tale livello essenziale perché è costruita a partire da altri presupposti. Ma a che servono una teoria che non rende conto di ciò che effettivamente accade in tale interazione e una teoria della tecnica costruita su una teoria che sorvola su tali livelli e su tali fattori perché è costruita sulle regole di un altro gioco? Questo secondo me è il vero guaio che fa di ciascuno di noi un "povero diavolo" che si deve arrangiare come può anche con i collages consapevoli e soprattutto con quelli inconsapevoli. A me pare, tuttavia, che qualcosa stia avvenendo, e si tratta di una integrazione di tipo differente. Grazie al silenzioso lavorio di tanti "poveri diavoli", all'allentarsi dei vincoli istituzionali e di scuola, al progresso delle discipline di confine, al sottovalutato lavoro della ricerca sulla psicoterapia e forse anche allo spirito del tempo, le sicurezze di scuola si stanno allentando, forse una nuova casa sta prendendo forma, più in là, in un punto virtuale di un futuro non lontano e in un orizzonte concettuale che ogni tanto comincia a intravedersi. Forse non sarà la casa di nessuno, così potrebbe essere la casa di tutti i poveri diavoli, che anche in quella casa dovranno comunque continuare ad arrangiarsi, perché, fortunatamente la mappa non è mai il territorio. Vi chiedo scusa per la lunghezza; spero basti a scusarmi il fatto che per mesi vi ho lasciato (forzosamente) in pace. Approfitto per augurare a tutti un buon 2002, sperando magari che porti qualche segno di avanzamento nella costruzione di quella casa ancora lontana.

22 Gennaio 2002, From G. Giacomo Giacomini

"Quattro psicologie" per il "povero diavolo"? (ovvero: Il dilemma della psicoterapia contemporanea: analisi sistematica o empirismo ateoretico?)

In data 30 dicembre 2001 G.P. Scano ha scritto:
"Credo che noi terapisti che operiamo di questi tempi siamo tutti dei "poveri diavoli". Così che il "povero diavolo" si arrangia con quello che passa il convento, con la vecchia teoria in cui è cresciuto, con elaborazioni che provengono da altre parti, con qualche intuizione che crede di poter ritenere affidabile, con buon senso e qualche coniglio nel cappello. Non credo però che si debba e si possa scambiare questo stato di necessità con il "migliore dei mondi possibili" o che lo si debba intendere come una realtà necessaria, una caratteristica ineludibile e saggia della nostra disciplina guarita finalmente dalla sua irresistibile *voglia di teoria* ".

Commento: Un diffuso senso di sconforto sembra permeare il momento attuale della psicoterapia analitica, in merito alla possibilità di conferire a questa disciplina un coerente statuto teoretico.

E' un sentimento che si può cogliere, in particolare, negli ambienti della psicoanalisi freudiana, soprattutto da quando, essendo stato messo in discussione il fondamento scientifico della "metapsicologia", gli psicoanalisti hanno visto dissolversi proprio quel caposaldo della "scientificità" sul quale si reggeva la propria rivendicazione di "unicità" razionale e di "diversità" metodologica rispetto alle "altre" psicoterapie, considerate "suggestive" e, comunque, "non scientifiche". In tal senso, il fatto che un simile sentimento risulti molto meno evidente negli ambienti di altre psicoterapie "analitiche" (junghiana, adleriana, fenomenologico-esistenziale, ecc.) non può apparire casuale, dal momento che, sin dalle origini, queste hanno rinunciato a qualificarsi sul piano della "scientificità e della "sistematicità", per cui, nel loro ambito, il concetto di "analisi" e di "metodo analitico" è venuto ad assumere un significato sostanzialmente diverso.

Non è dubbio, per esempio, che, per A. Adler, l'analisi abbia la funzione di smascherare gli aspetti deteriori di una soggettività egocentrica, strutturata in funzione di strategie ostili e rivendicative verso il mondo esterno: in quest'ottica, il suo ultimo fine sarà quello di promuovere i sentimenti sociali, che sono stati ignorati e svalutati nel corso di una storia individuale caratterizzata dal bisogno esasperato di negare e ipercompensare, fittiziamente, un sentimento di inferiorità profondamente radicato. E' evidente che una simile impostazione ha ben pochi riferimenti con tematiche di ordine biologico o scientifico-naturalistico: in effetti, essa si concentra principalmente su fini essenzialmente sociologico-rieducativi, che si ispirano ad una metodologia pragmatistica, il cui termine di paragone è rappresentato dal livello di socializzazione e di adesione, da parte dell'individuo, ai valori universali che il mondo esterno gli propone.

Allo stesso modo, anche per C.G. Jung, l'analisi non riveste un significato specifico, di ordine scientifico, propriamente razionale e sistematico. Secondo Jung, se il paziente presenta problemi legati alla sessualità, lo psicoterapeuta potrà iniziare l'analisi con il metodo di Freud; se i problemi sono caratterizzati dal sentimento di inferiorità e dalle esigenze di ipercompensazione correlate alla volontà di potenza, si potrà ricorrere ad Adler; però anche altri metodi, come quello di J.H. Schultz, o altri tipi di suggestione, potranno andar bene. Il momento cruciale dell'analisi junghiana sarà rappresentato dal fenomeno del transfert, che tuttavia non riveste affatto lo stesso significato di quello assunto nella psicoanalisi freudiana. Il transfert, secondo Jung, inizierà allorquando, nella psiche del paziente, faranno irruzione i simboli archetipici dell'inconscio collettivo, dai quali verranno coinvolti al tempo stesso l'analizzando e l'analista. La relazione che così verrà a stabilirsi tra gli archetipi, l'analizzando e l'analista, non potrà essere concettualizzata razionalmente, ma soltanto "intuita" e "vissuta", anzi, "convissuta" con il paziente, da parte dell'analista, senza alcuna illusione non solo di poter essere esplorata in termini razionali, ma neppure di essere guidata o controllata secondo chiari criteri logici. I contenuti archetipici dell'inconscio, una volta rivelatisi nell'individuo, non potranno essere governati: al contrario, guideranno l'individuo come complessi ideoaffettivi imperscrutabili, verso mete non accessibili da parte dell'intelletto. Se lo svolgimento del "transfert" sarà favorevole, nella psiche del paziente si porrà in opera la cosiddetta "funzione trascendente" che, attraverso la composizione "dialettica" della antitesi archetipiche, promuoverà il cosiddetto "processo di individuazione" e condurrà al conseguimento del cosiddetto Selbst (Sé), concepito come una unità omnicomprensiva degli opposti, di ordine trascendente. In tal modo, lo psicoterapeuta potrà essere eletto, fideisticamente, al ruolo di grande mediatore della trascendenza (o di oracolo, o di profeta, ecc.), anche in funzione delle intuizioni interpretative di cui sarà stato in grado di disporre nel corso del processo di individuazione. E' evidente che, anche in questa prospettiva fideistica, il processo analitico avrà ben poco a spartire con una metodologia razionale e sistematica, e che la stessa interpretazione terapeutica avrà più il carattere di una rivelazione da parte della Trascendenza, piuttosto che essere il risultato di uno sviluppo dialogico inter ed intrapersonale.

Per illustrare un simile processo, il linguaggio delle discipline esoteriche come l'alchimia, o quello mistico dell'esperienza religiosa, o quello dell'intuizione estetica, ecc. saranno considerati più adeguati di qualsiasi concettualizzazione razionale, dal momento che l'intenzionalità di tale processo non apparterrà al nostro intelletto, ma alla dimensione trascendente dell'inconscio collettivo.

Analoghe considerazioni valgono per quegli orientamenti fenomenologici ed esistenzialistici per i quali lo sviluppo della personalità e del processo psicoterapeutico dipende dalla rivelazione di un mondo di significati nei quali si configura l'intenzionalità della Trascendenza.

E' evidente che i continuatori di quelle scuole psicoterapeutiche per le quali non si è mai posto in primo piano il progetto di una fondazione scientifica dell'analisi, non possono avvertire, neanche oggi, alcuna carenza epistemologica per la mancata attuazione di un tale progetto. Il fatto che, viceversa, una simile carenza sia avvertita, con un senso di smarrimento, dai seguaci della psicoanalisi freudiana, indica che questa scuola non ha ancora rinunciato al compito originario del suo maestro fondatore e, in questo senso, un tale smarrimento può essere rivelatore di una inappagata esigenza critica.

A questo punto, però, se si intende veramente adottare una prospettiva storico-critica, occorre rilevare che, malgrado il tempo trascorso dalla fondazione della "metapsicologia" freudiana, nulla è sostanzialmente mutato in ambito psicoanalitico, in merito all'autenticazione teoretica della psicoterapia ed alla possibile sistematizzazione della prassi analitica. In effetti, noi assistiamo oggi, da un lato, ad un tentativo di rilancio della metapsicologia, secondo la concezione già formulata dalla cosiddetta psicoanalisi "mainstream" (dominante, soprattutto negli USA, sino agli anni '60), i cui autori di riferimento erano rappresentati da A. Freud, O. Fenichel, H. Hartmann, D. Rapaport (si veda, al riguardo, il saggio di L. Rangell, in appendice all'edizione del cinquantenario [1995] dell'opera principale di O. Fenichel, "La teoria psicoanalitica delle nevrosi").

Dall'altro lato, acquista una crescente rilevanza la psicologia psicoanalitica del Sé, della soggettività e dell'Intersoggettività, i cui antecedenti teoretici si trovano peraltro già presenti nella concezione freudiana del narcisismo (1914). Ancora per il passato abbiamo rilevato come il principio del narcisismo, in quanto presuppone, da parte dell'Io, un atteggiamento riflessivo primario, richiedesse l'introduzione di una metodologia dialettica, che, peraltro, contraddice l'impostazione naturalistica assegnata da Freud, sin dalle origini, alla propria ricerca, con la sua teoria della libido e delle pulsioni istintuali. Il fatto che, viceversa, nella dottrina freudiana la teoria del narcisismo restasse subordinata alla teoria naturalistica della libido, non poteva certo consentire un adeguato sviluppo del concetto dell'Io riflessivo (Sé) e del metodo dialettico che gli è pertinente.

In effetti, il principio dell'Io riflessivo (Sé) comporta una prospettiva teoretica per la quale l'Io è, al medesimo tempo, soggetto e oggetto di se stesso, così che non può essere ignorato, in particolare, in tutte quelle condizioni psicopatologiche (come le cosiddette "nevrosi narcisistiche") in cui si evidenziano, in forma esasperata, i sentimenti, a loro volta tipicamente riflessivi e contraddittori, dell'autostima e dell'autocritica, dell'autovalorizzazione e dell'autodeprezzamento, del merito e della colpa, dell'autogiustificazione e dell'autoaccusa, dell'autoaffermazione e dell'autonegazione, dell'individuazione e della spersonalizzazione, ecc.

Nonostante l'introduzione del principio del narcisismo richiedesse l'adozione di una metodica dialettica, Freud preferì mantenersi fermo alla teoria naturalistica della libido, così che, nella successiva elaborazione sistematica della metapsicologia ("L'Io e l'Es", 1922), i punti di vista topico e strutturale, nonostante le loro possibili implicazioni dialettiche, restavano subordinati ai punti di vista economico e dinamico. Questo dualismo teoretico tra una psicologia psicoanalitica fondata sul principio libidico-pulsionale ed una psicologia fondata sull'Io riflessivo (Sé), viene a proporsi nella stessa teoria della tecnica, elaborata già nell'ambito della psicoanalisi "mainstream", da autori come O.Fenichel, R.Sterba e, soprattutto, R.Waelder.

In particolare, R. Sterba e O. Fenichel hanno messo in evidenza l'importanza dell'Io riflessivo come soggetto che osserva e soggetto che è osservato, nel quadro del processo psicoanalitico, anche se hanno ridotto questo primario carattere dell'esperienza ad una sorta di scissione empirica, indotta secondariamente nell'Io del paziente dal suo rapporto transferale con l'analista.

Nella ricerca di R. Waelder viene evidenziata la necessità del superamento della psicologia naturalistica libidico-pulsionale, in funzione di una psicologia dialettica dell'Io riflessivo, tanto nella teoria, come nella prassi terapeutica. E' importante sottolineare come nell'impostazione adottata dal Waelder non esista alcuna dicotimia tra teoria e prassi, dal momento che l'impostazione dialettica adottata sul piano teoretico è pienamente rispondente alle problematiche personologiche riscontrabili nella prassi analitica. Dopo il contributo del Waelder, il dibattito sul problema della fondazione scientifica dell'analisi, nella teoria e nella prassi, non ha registrato significativi progressi, fatto salvo il costante interesse a tenere aperto il problema stesso, contro le tentazioni dei facili irrazionalismi ed eclettismi.

Se, da un lato, anche nell'ambito della stessa psicoanalisi "mainstream" venivano sottolineati i limiti della metapsicologia e del suo fondamento libidico-pulsionale (D. Rapaport), dall'altro lato, non può dirsi che, sul piano metodologico, sia stata conferita al principio dell'Io riflessivo (Sé) un'appropriata formulazione dialettica, dalla quale dipende la possibilità di una visione sistematica dell'analisi psicoterapeutica nella teoria e nella prassi.

In realtà, per quanto concerne il principio del Sé, si può affermare che la vicenda della ricerca psicoanalitica sia stata pur sempre caratterizzata dall'antinomia epistemologica tra le posizioni pseudorazionali di un neurologismo scientista e quelle, irrazionalistiche, di un intuizionismo empatico. Abbiamo così, da un lato, una metodologia che, identificando la scientificità con il naturalismo acritico, presume di garantire un fondamento sistematico alla teoria psicoanalitica, riducendola, in realtà, nei termini di un cognitivismo neurologistico. (Si veda, al riguardo, la posizione di J.E. Gedo).

Questa posizione metodologica, tra l'altro, è responsabile di una dicotomia tra teoria e prassi, in ambito psicoanalitico e psicoterapeutico, in quanto riconosce solo alla teoria (naturalistica) e non alla prassi (empatica) un autentico fondamento scientifico: in tal modo, però, il processo della prassi terapeutica, in quanto non fondabile secondo una logica coerente e sistematica, può aver luogo soltanto in funzione di formulazioni concettuali deboli, contraddittorie e provvisorie, destinate ad essere abolite e sostituite dalla concettualizzazione ben più rigorosa delle neuroscienze, non appena queste avranno raggiunto un adeguato sviluppo. Si tratta, come ben si vede, di una impostazione epistemologica fondata sul principio della spiegazione, che non si discosta, peraltro, in ultima analisi, dallo stesso progetto freudiano, il quale assegnava alle neuroscienze il compito di formulare l'ultima parola in qualsiasi questione di ordine psicologico, psicoanalitico e psicoterapeutico.

Dall'altro lato, noi troviamo le posizioni di quei teorici del Sé e dell'Intersoggettività che, pur considerando l'Io riflessivo (Sé) come una realtà originale, non riducibile al neurologismo naturalistico, presumono di garantirne l'autenticità esclusivamente sul piano dell'esperienza immediata (Erlebnis), dell'empatia (Einfühlung) e dell'intuizione più o meno trascendente (Einsicht).

Su queste posizioni si trovano i teorici della psicoanalisi del Sé e dell'Intersoggettività, i quali, come R.D. Stolorow, si richiamano all'irrazionalismo delle dottrine gestaltiche o della Trascendenza ontologico-metafisica che, più o meno esplicitamente, rinviano a visioni misticheggianti o estetizzanti del processo psicoanalitico.

Nell'attuale panorama, composito e spesso dispersivo, che ci viene offerto dalla psicoanalisi contemporanea, noi possiamo certamente correre il grave rischio di smarrire il senso dell'unità razionale della ricerca teoretica e della prassi terapeutica, cadendo in quello che G.O. Gabbard definisce efficacemente il "pasticcio" dell'eclettismo. Tuttavia, seguendo una coerente metodologia storico-critica, non è troppo difficile individuare, nella sua autenticità dialettica, il principio logico della specifica conoscenza personologica, che solo può consentirci di elaborare una teoria sistematica della prassi psicoanalitica e psicoterapeutica. E' ovvio che, in questa prospettiva, assume un'importanza determinante la formulazione di una teoria dialettica che sia realmente conforme alle problematiche personologiche e psicoterapeutiche; e che, pertanto, non potrà certo ridursi alle tradizionali concezioni della dialettica, di ordine empirico o ontologico-metafisico (di matrice platonica, o hegeliana, o marxista, o junghiana, ecc.).

Al giorno d'oggi, pertanto, in merito alla nostra prassi psicoterapeutica, la scelta tra le "quattro" (o più) psicologie del "povero diavolo" o l'impostazione metodologica di una psicoterapia che intenda conquistarsi un fondamento analitico sistematico, dipenderà soprattutto dal nostro impegno epistemologico e dalla nostra aspirazione a conferire alla nostra professione un serio e coerente statuto scientifico.

Per ulteriori approfondimenti, si rinvia ai riferimenti bibliografici riportati in fondo alla mia mail uscita in lista in data 08/12/01, col titolo: "Solo 'quattro' psicologie? Analisi, psicoterapia sistematica, dialettica". Di C.G. Jung, si veda LA PSICOLOGIA DEL TRANSFERT, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1962.
 
 G. Giacomo Giacomini, Psichiatra Psicoterapeuta Direttore dell'Istituto per le Scienze Psicologiche e la Psicoterapia Sistematica  - Centro Studi per l'Analisi Dialettica (CESAD), Direttore della Rassegna: "Psicoterapia Professionale - Professional Psychotherapy", Via A.M.Maragliano 8/5, 16121 GENOVA, tel./fax: 010/580903; e-mail: giacomin@libero.it, Internet: http://digilander.iol.it/istpsico

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