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A. M. P.
SEMINARI 19999 - 2000
Laura Gasbarrone

Ipertensione arteriosa e psiche


L'interesse per la malattia ipertensiva va sempre più crescendo nella popolazione per una serie di motivi. Innanzi tutto l'ipertensione arteriosa costituisce una delle più diffuse patologie del nostro secolo, ed anche uno dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare insieme ad altre condizioni quali il diabete, l'obesità, l'ipercolesterolemia e il fumo di tabacco. Il problema non è solo costituito dall'elevazione pressoria di per sé, ma anzi la maggior parte delle attenzioni viene giustamente rivolta alle complicanze d'organo dell'ipertensione, le quali una volta instaurate sono spesso l'anticamera di patologie più complesse ed invalidanti che possono ridurre sensibilmente l'autonomia individuale, quali l'infarto del miocardio, l'ictus cerebrale, l'insufficienza renale o le arteriopatie periferiche. Come conseguenza della crescente consapevolezza nella popolazione della diffusione della malattia ipertensiva, negli Stati Uniti d'America la terapia dell'ipertensione arteriosa costituisce oggi la seconda causa di richiesta di assistenza medica, dopo le infezioni delle alte vie respiratorie. Nonostante ciò, è purtroppo noto che solo la metà dei soggetti con ipertensione arteriosa sa di essere ipertesa, solo la metà di questi assume una terapia medica, e solo una ulteriore metà dei soggetti trattati ha in realtà un buon controllo pressorio. A ciò si aggiunga che, a parte una esigua percentuale di pazienti per i quali l'ipertensione è secondaria ad una identificabile causa renale, surrenalica o endocrina, nella maggior parte dei pazienti con ipertensione arteriosa non è identificabile una causa specifica, per cui la legittima domanda del paziente sul perché dell'insorgenza della sua malattia rimane il più delle volte senza risposta. Quindi quando si parla di ipertensione arteriosa, ovunque se ne parli, vale a dire su giornali, su riviste mediche specializzate, settimanali, in televisione o in salotto, si attrae invariabilmente la giusta curiosità di chi, essendone affetto, vorrebbe conoscere la causa della propria malattia, ma rimane purtroppo senza risposta di fronte al medico che si arrampica sugli specchi di vaghe motivazioni, citando tra l'altro anche i cosiddetti fattori nervosi, ma comunque lasciando il paziente con un alone di mistero che veleggia intorno alla sua malattia fondamentalmente sconosciuta, ma per la quale vengono elargiti consigli sulle norme di vita e, all'occorrenza, le opportune terapie farmacologiche.
Un altro aspetto a mio avviso importante è costituito dal fatto che, anche per la diffusione dell'uso domiciliare di apparecchi per la misurazione della pressione arteriosa (PA) sia manuali sia automatici, questa malattia, in contrasto con il mistero delle sue origini ed anche in contrasto con altre malattie meno misteriose nelle cause di insorgenza ma sicuramente meno misurabili oggettivamente con un numero, permette al paziente la conoscenza esatta del suo valore, per cui la misurazione registrata dalla colonnina di mercurio assume un simbolo di certezza di "quantità di malattia", se così si può dire: più è alto il valore di PA massima o di minima, più importante e potenzialmente grave è la malattia, e oltretutto la constatazione di eventuali variazioni della misurazione, che comunque rientrano nella fisiologia di una certa variabilità pressoria, può a volte indurre nel paziente l'inutile angoscia di un aggravamento che magari non esiste.
Ma l'interesse che per questa malattia hanno anche i cultori della psicosomatica non è solo di oggi. E credo che proprio partendo dall'analisi delle osservazioni e delle ipotesi formulate nel corso del tempo, potremo tentare di trovare il bandolo della matassa di questa così intricata materia.
Poco più di un anno fa Bernard Engel ha riesaminato tutta la letteratura comparsa sulla rivista specializzata Psycosomatic Medicine dal 1939 al 1997, trovando in questo periodo di tempo circa 200 articoli che avevano come argomento la PA, e di questi il 90% era proprio sull'ipertensione. Questo particolare interesse derivava, anche negli anni più remoti, dalla supposizione che fattori comportamentali psicologicamente determinati potessero contribuire sia alla progressione della malattia sia alla condotta terapeutica dei pazienti ipertesi. Alexander, ormai circa 60 anni fa, fu il primo ad esprimere questo concetto, e ancora prima nel 1905 Gaisböck interpretava il pensiero di molti pazienti che consideravano il termine ipertensione riferibile ad una "elevazione della tensione nervosa e/o fisica", ed osservava che tra i soggetti con alta PA sistolica si poteva ritrovare una "inusuale frequenza di direttori di grosse imprese che ricoprivano cariche professionali con un alto grado di responsabilità i quali, dopo un lungo periodo di superlavoro psichico, diventavano nervosi". Veniva quindi coniato il concetto di "personalità ipertensiva", sulla cui legittimità ancora oggi in realtà si dibatte, che sarebbe caratterizzata da tre aspetti fondamentali: ira repressa, tendenza alla sottomissione e ansia.
E' comunque interessante prendere in considerazione l'analisi effettuata da Engel. Nei primi trenta degli anni in esame il ritmo di pubblicazione di articoli sull'argomento era di 1,5 per anno; nei dieci anni successivi è stato esattamente il doppio, per raddoppiare nuovamente negli ulteriori dieci anni seguenti; in tempi più recenti il ritmo si è ulteriormente incrementato, fino ad arrivare al 38% nell'ultima decade. A questo crescente interesse sull'argomento si è anche tentato di trovare alcune spiegazioni: innanzi tutto nel periodo dopo la II guerra mondiale vi è stato un comprensibile aumento dell'attività scientifica in ogni campo della medicina, che è cominciato negli anni '50 e che è poi continuato per tutti gli anni '70; in secondo luogo si è tenuta proprio in quel periodo la "Timberline Conference" sugli aspetti psicofisiologici delle malattie cardiovascolari, i cui atti sono stati pubblicati proprio su Psycosomatic Medicine nel 1964, e da quella conferenza sono emerse molte affermazioni sul ruolo che i fattori psicologici possono giuocare nella storia naturale dell'ipertensione e delle malattie cardiache, cosicché l'interesse di molti studiosi è stato ulteriormente stimolato; in ultimo alcuni nuovi approcci terapeutici quali le tecniche di rilassamento e di biofeedback venivano sviluppandosi verso la fine degli anni '60, gettando le basi della medicina comportamentale che emergeva successivamente negli ultimi anni '70.
Non c'è dubbio che gli aspetti più frequentemente esaminati in tutta questa mole di lavori siano state le interazioni tra le caratteristiche o stati psicologici, quali l'ostilità, l'ira, l'ansia e, in minor misura, i caratteri di tipo A e B e la PA; altri lavori hanno cercato di misurare la reattività emozionale di fronte ad una serie di condizioni correlate all'attività lavorativa. L'esame sistematico di questi aspetti ha sempre cercato di mettere in evidenza alcuni punti fermi nel ruolo tra psiche e ipertensione arteriosa, che cercheremo di ricordare.
Dall'analisi della letteratura effettuata da Engel, emerge che vi sono correnti di pensiero a favore del ruolo che stimoli affettivi ed emozionali possono avere nella storia naturale dell'ipertensione arteriosa e correnti di pensiero contrarie. Ovviamente i primi sostengono che qualunque sentimento o sensazione può essere dannoso, e i lavori sperimentali intrapresi con questa ottica hanno invariabilmente considerato questi stimoli emozionali come "eventi stressanti", apparentemente allo scopo di dimostrare il loro punto di vista. I secondi, anche se altamente critici sul ruolo che emozioni ed affetti possano avere nell'eziologia dell'ipertensione arteriosa, sembrano anch'essi comunque accettare il concetto di "evento stressante", soprattutto nel contesto del rapporto medico/paziente. Le conclusioni di tutti questi studi vanno comunque, sempre secondo Engel, considerate con cautela perché a volte carenti in quanto a rigore scientifico e metodologico: molti, sempre secondo Engel, concludono troppo facilmente che lo stress causa ipertensione attraverso l'aumento di attività del sistema nervoso simpatico, e spesso invocano l'argomento tautologico che, visto che lo stress causa l'aumento della PA attraverso l'incremento di attività del sistema nervoso simpatico, lo stress di conseguenza deve causare ipertensione. Questo studio era comunque limitato ad una popolazione al di sotto dei 30 anni.
Circa l'aspetto riguardante il rapporto medico/paziente, molto spesso oggetto di esame in passato e ancora oggi fonte di controversie, molti hanno enfatizzato l'importanza di uno stimolo "iatrogeno" nella valutazione del paziente: alcuni sono a favore del beneficio clinico di un rapporto positivo medico/paziente, alcuni considerano importante l'atteggiamento del medico per la risposta del paziente alla terapia, altri ritengono che la relazione interpersonale aumenti comunque la PA. In conclusione il medico, così come qualunque altra figura professionale specifica, non può essere considerato uno stimolo neutrale: basti immaginare con quale facilità può essere trasferita sul paziente la fiducia o la sfiducia in una determinata terapia, o con quale facilità si può tendere a trattare in modo eccessivo o viceversa insufficiente pazienti specifici. Non solo, ma l'effetto "iatrogeno" della figura del medico si esprime ancora di più nella ormai definita ipertensione da "camice bianco", la quale si esaurisce con l'automisurazione, pratica che contro-condiziona l'effetto iatrogeno della misurazione clinica; in altre parole, la risposta pressoria del paziente davanti al medico è ben nota, e in questa situazione il medico viene a costituire un involontario stimolo negativo.
Vediamo comunque quale è il concetto di ipertensione arteriosa che emerge da questi lavori scientifici. Innanzi tutto la PA è considerata un dato fisico che varia considerevolmente nella popolazione, e nelle persone fattori individuali quali l'età, il sesso, altre patologie e le circostanze ambientali contribuiscono tutti alla sua variabilità; non si riteneva all'epoca esistesse un singolo valore al di sopra o al di sotto del quale si potesse parlare rispettivamente di ipertensione o no, anche se era chiaro come vi fosse una correlazione positiva piuttosto stretta tra livello di PA media, comunque misurata, e il rischio di morbidità o morte, per cui il medico tratta con terapia medica i pazienti che ritiene siano ipertesi. Per inciso, questa condotta sarebbe oggi assolutamente criticabile visti gli orientamenti diagnostici dettati negli ultimi anni dalle linee guida internazionali sull'ipertensione arteriosa. In ultimo si considera che la diagnosi di ipertensione essenziale è stata attribuita a pazienti in cui l'eziologia della malattia è diversa, con rischio di complicanze quindi differenti. Alcuni lavori cercano di sottolineare eventuali fattori favorenti la genesi dell'ipertensione, quali l'aumento delle resistenze periferiche e la vasocostrizione, anche se non era noto il meccanismo in causa; sicuramente fattori renali possono determinare ipertensione, anche se più spesso le alterazioni renali sono dovute al danno dell'ipertensione; inoltre il concetto di ipertensione borderline era considerato sinonimo di ipertensione iniziale. Altri consideravano invece l'ipertensione arteriosa un disordine costituzionale nel quale fattori ereditari ed ambientali costituivano le maggiori determinanti. Tra quelli che prendevano in considerazione i fattori psicogeni, c'era chi riteneva che la collera cronicamente inibita si manifestasse nella cronica elevazione pressoria, mentre altri ritenevano le personalità passive e dipendenti, incapaci di esprimere liberamente impulsi ostili, come caratteristiche tipiche degli ipertesi. Un altro studio epidemiologico riferiva invece che la depressione e l'ipertensione in una popolazione adulta aumentavano significativamente il rischio cardiovascolare e lo stroke.
Comunque, oltre alla meritevole opera di esame analitico della letteratura effettuata da Engel, molti altri AA. hanno cercato di affrontare il rapporto tra ipertensione arteriosa e psiche, ed è difficilissimo trovare conclusioni concordanti. L'uso della metodologia di studio e dei dati del "Framingham Heart Study", che a tutt'oggi credo sia ancora il più credibile degli studi clinici e oltretutto una inesauribile fonte di dati scientificamente obiettivi, ha permesso a Markowitz di prendere in esame i fattori psicologici predittivi dell'insorgenza di ipertensione arteriosa, seguendo per 18-20 anni 1123 adulti di età superiore a 45 anni inizialmente normotesi, definendo l'ipertensione sia la condizione già accertata della malattia e trattata con idonea terapia ipotensiva sia il riscontro di valori di PA superiori a 160/95. Lo studio conclude che solo i soggetti di sesso maschile che nel corso dell'osservazione presentavano livelli basali di ansia superiori ai soggetti che rimanevano normotesi, manifestavano poi l'ipertensione; i più anziani del gruppo, di età superiore ai 60 anni, esprimevano sintomi di collera, intesa come risposta somatica e affettiva a sentimenti di collera, di base bassi ma erano meno portati ad introiettare la collera rispetto ai normotesi. In una analisi multivariata che comprendeva anche le variabili biologiche, l'ansia rimaneva un fattore predittivo indipendente di ipertensione solo negli uomini di media età, mentre nei più anziani l'espressione dei sintomi d'ira o la mancata espressione non costituivano segni predittivi significativi. Ulteriori approfondimenti inoltre dimostravano che solo livelli molto alti di ansia costituivano un rischio negli uomini di età media, ma nessuna variabile psicologica era predittiva di ipertensione nelle donne, in qualunque età. Questa ultima osservazione potrebbe lasciare perplessi, anche rispetto ai risultati di altri studi nei quali si dimostrava relazione tra ansia e ipertensione nelle donne, ma viene rilevato che la differenza è dovuta al differente ruolo delle popolazioni femminili nei due studi: infatti nello studio Framingham si trattava di donne non professionalmente impegnate. Vedremo successivamente quale può essere il ruolo della attività lavorativa. Comunque lo studio Framingham non esclude del tutto il ruolo dell'ansia nella patogenesi dell'ipertensione arteriosa, dato anche l'interesse crescente in tal senso di numerosi altri studi psichiatrici di follow-up che hanno dimostrato in pazienti con disturbi d'ansia seguiti per più di sei anni l'insorgenza dell'ipertensione nell'86% dei soggetti già dopo soli due anni dalla comparsa dei sintomi di ansia, oltretutto ad una età media di 38 anni, vale a dire dieci anni prima rispetto ai controlli di pari età senza sintomi d'ansia. Queste conclusioni potrebbero avere implicazioni, come già accennato in precedenza, anche terapeutiche, poiché esclusivamente in questi pazienti selezionati potrebbe essere presa in considerazione secondo alcuni, ad esempio Wells e Jacob, la terapia dell'ansia così come quella degli altri fattori di rischio dell'ipertensione, anche con le tecniche di terapia comportamentale, di rilassamento e di biofeedback, che potrebbero essere considerate aggiuntive alla terapia non farmacologica dell'ipertensione.
Pickering comunque muove una critica fondamentale all'uso discorde in questi studi dei questionari che vengono somministrati per individuare le caratteristiche della personalità dei soggetti in esame, i quali tentano di distinguere lo "stato", cioè la misura dello "stato d'animo" che è quindi soggetto a variazioni situazionali, dalle "caratteristiche", che sono invece una misura della personalità e quindi considerate relativamente stabili .
Più volte nel corso degli studi clinici è stato affrontato il problema della ipertensione clinica isolata, cioè del riscontro di PA elevata essenzialmente in ambiente medico, e i cui meccanismi non sono ancora stati chiariti. Questa condizione è stata paragonata alla "iper-reattività" a stress mentali prodotta dalla attivazione simpatica e associata ad un rischio maggiore di sviluppo di ipertensione e di malattia coronarica, per cui se il meccanismo sottostante è lo stress, anche l'ipertensione clinica isolata dovrebbe avere un significato clinico. In base a quest'ultima considerazione, la si può attribuire ad una reazione di allarme alla presenza del medico, quindi ad una risposta involontaria ad uno stress psicologico. In uno studio intrapreso per chiarire questo argomento, Munakata affermerebbe in realtà che le due condizioni, cioè l'ipertensione e la malattia coronarica, sarebbero correlate a caratteristiche psico-comportamentali diverse: i soggetti meno collerici e con le caratteristiche comportamentali sottomissive del tipo B sembrano atti a dimostrare ipertensione clinica isolata, mentre i soggetti con le caratteristiche comportamentali del tipo A sarebbero più inclini a dimostrare la risposta ipertensiva allo stress mentale e inoltre a sviluppare malattia coronarica.
Gli stessi AA hanno poi riscontrato che nella popolazione giapponese, nella quale tuttora l'alto numero di morti improvvise da superlavoro (karoshi: nei soggetti con interesse pressoché esclusivo nell'attività lavorativa) costituisce un rilevante problema socio-economico, il carattere di tipo A costituisce un fattore di rischio indipendente di sviluppo di ipertrofia ventricolare sinistra negli uomini con ipertensione essenziale, indipendentemente dai valori di PA, verosimilmente per un eccesso di risposta del sistema simpatico agli stress psico-sociali. Infatti in questo studio anche i valori medi di PA sistolica e di PA diastolica erano da 7 a 10 mmHg superiori rispetto a quelli registrati nelle donne, prevalentemente non lavoratrici, a parità di valori di PA in ambiente clinico, evidentemente per stress occupazionali superiori. Inoltre la correzione della PA con opportuna terapia medica non si dimostrava ugualmente efficace nel ridurre l'ipertrofia ventricolare sinistra dei pazienti con ipertensione essenziale, per cui ci si auspica una correzione addizionale del comportamento di tipo A al fine di ottenere un effetto sinergico anche sulla ipertrofia ventricolare sinistra. Nelle donne, al contrario, la PA registrata con monitoraggio ambulatoriale era più strettamente correlata alla ipertrofia ventricolare sinistra che non al tipo di carattere: c'era quindi una correlazione più stretta con il danno d'organo effettivo.
Tornando ad esaminare la correlazione tra la cosiddetta ipertensione da camice bianco ed eventuali stati psicologici, si nota che non c'è assolutamente opinione unanime sull'argomento. Soggetti non ipertesi sottoposti a misurazione clinica e ad automisurazione domiciliare della PA non hanno dimostrato differenze significative tra la differenza delle due metodiche di misurazione e le loro problematiche psicologiche quali ansia, depressione o altra sintomatologia, per cui Donner conclude che l'ipertensione da camice bianco è una reazione specifica "idiosincrasica" all'ambiente clinico di per sé. Come si concilia questa ipotesi con quella di altri studiosi che hanno posto una "classificazione" dell'ipertensione da camice bianco, considerandola una condizione meritevole di osservazione e forse di terapia medica? Inoltre è stato anche osservato il contrario: uno studio condotto da Cuspidi in ambiente clinico, nel quale venivano seguiti pazienti ipertesi, ha dimostrato nel 50% un buon controllo della PA clinica, che però non corrispondeva ad analogo buon controllo rilevato dal monitoraggio ambulatoriale durante la vita quotidiana, per cui si tendeva a sovrastimare la percentuale di pazienti con buon controllo pressorio terapeutico e certamente non c'era in questi casi un "effetto camice bianco".
Questa ipotesi sarebbe anche in accordo con altre osservazioni in base alle quali la tensione da lavoro, definita come alto impegno psicologico e scarsa autonomia decisionale in ambiente lavorativo, sarebbe associata ad ipertensione e malattia cardiovascolare. L'effetto della tensione lavorativa in molte persone continuerebbe anche dopo il lavoro, con una mancata riduzione dei valori pressori durante le ore serali, per una incapacità a sufficiente rilassamento, ovvero secondo Steptoe a causa del "carico allostatico", termine con il quale ci si riferisce alla cronica iper-attività del sistema psicologico stress-controllato, che si manifesta come fallimento nel recupero dopo la cessazione della domanda; la traduzione in un comune modo di dire quotidiano costituisce l'incapacità a "staccare la spina". Questa valutazione era indipendente dai valori basali di PA, dall'età, dal sesso e dall'indice di massa corporea, cioè non era correlata ad altri fattori noti di rischio cardiovascolare. Quindi la differenza nella risposta psicologica allo stress potrebbe avere un ruolo nel rischio cardiovascolare.
Alle stesse conclusioni giungono altri AA, secondo le cui osservazioni lo stress lavorativo determina un effetto cumulativo sulla PA, che si manifesta nel tempo e che non necessariamente è reversibile. E' inoltre più accentuato nelle persone in fascia d'età più avanzata, tra i 50 e i 60 anni, che non nelle persone più giovani, tra i 30 e i 40 anni. Questi soggetti, sottoposti a monitoraggio ambulatoriale della PA per 24 ore, dimostrano valori sostanzialmente più alti sia di PA sistolica sia di PA diastolica non solo durante l'attività lavorativa, ma anche a casa e durante le ore notturne; il fenomeno è particolarmente spiccato in soggetti con alta tensione lavorativa, identificando così un gruppo particolare di ipertesi rispetto alla popolazione generale. Oltretutto, osservati con le stesse modalità di studio tre anni dopo, hanno dimostrato un aumento dei valori già alti precedentemente riscontrati, indipendentemente da altri fattori di rischio, confermando l'effetto cumulativo ipotizzato. Se veniva rimossa la tensione lavorativa, Schnall poteva dimostrare una sensibile riduzione della PA. A questo proposito l'esempio tipico è rappresentato dal non infrequente riscontro, durante il monitoraggio ambulatoriale, di valori di PA elevati durante le ore lavorative che rientrano nella norma in coincidenza con gli orari di timbratura di uscita del cartellino di presenza!
Da questo punto di vista è noto che quelle oggi rare popolazioni che vivono lontane dalla cosiddetta civiltà industriale godono ancora di un basso rischio cardiovascolare, legato verosimilmente al loro "stile di vita". La loro attività essenzialmente fisica, le loro abitudini alimentari prive di cibi grassi, permettono di mantenere una PA bassa, che non si incrementa né con l'età né con la massa corporea, bassi livelli di glicemia, di colesterolemia, indipendenti dal sesso. Sembra che la segregazione sia la ragione fondamentale di queste caratteristiche di una popolazione della Amazonia presa in esame: infatti non appena si verifica il contatto con le popolazioni di cultura occidentale il loro rischio cardiovascolare cambia drammaticamente. Quindi Pavan conclude che non solo i fattori genetici, l'attività fisica, ma sicuramente anche i fattori ambientali nel senso degli stress sociali, per questa popolazione in origine estremamente bassi, costituiscono la ragione della loro condizione non a rischio.
A proposito del concetto di stress si potrebbe parlare a lungo. Il termine comprende una reazione complessa che permette il riconoscimento e l'abilità di superare eventi percepiti come inusuali, inadeguati e difficili. Lo stress è quindi un fenomeno che comprende un ampio spettro di aspetti e di conseguenze complesse. E' anche un termine usato spesso in modo improprio. E' stato usato per la prima volta nel diciassettesimo secolo per indicare difficoltà e sofferenza. Successivamente e nel diciannovesimo secolo è stato usato intendendo lo sforzo lavorativo e la sensazioni di pressione, e all'inizio del ventesimo secolo per descrivere lo stato di tensione e di resistenza a forze esterne. Cannon fu il primo ad usare questo termine in medicina, ed altri dopo di lui hanno compiuto ricerche sullo stress definendone le basi concettuali. La definizione riportata da Nazzaro di "risposta non specifica dell'organismo a qualsivoglia richiesta" può sembrare generica, ma in realtà è piena dell'importanza del concetto in fin dei conti individuale di stress, che implica obbligatoriamente una valutazione soggettiva: la reazione biologica innescata da un evento stressante si verifica solo se l'individuo ha percepito un evento come una emozione scatenante, cioè solo se c'è stata la partecipazione psicologica all'evento e la valutazione cognitiva di questo come un evento stressante.
Forse meno impegnativo può sembrare il concetto di ansia. I disturbi d'ansia colpiscono circa il 24,9% delle persone nel corso della loro vita. L'ansia può essere definita come una caratteristica normale con una reazione emozionale eccessiva rispetto ad una determinata situazione. Pertanto la definizione di "disturbo d'ansia" e il confine tra la "normalità" e la "patologia" può cambiare continuamente. Originariamente l'ansia è stata definita una "risposta universale a situazioni di pericolo". Ci si è accorti che alcuni individui dimostrano una risposta eccessiva agli stimoli emozionali, caratteristica definita da alcuni come "nevrosi" e "ansia" da altri. Secondo Spielberger la caratteristica di personalità ansiosa comprendeva una costellazione di aspetti della personalità quali la scarsa autostima, la scarsa fiducia in sé stessi e l'aumentata vulnerabilità all'ansia in situazioni coinvolgenti. Al contrario lo stato d'ansia misura le sensazioni soggettive di tensione, di inquietudine, di apprensione e di stimolo autonomico. Studi in soggetti con ipertensione definita borderline hanno dimostrato chiaramente che l'attività del sistema nervoso simpatico è coinvolta nella comparsa di ipertensione arteriosa. Young ha quindi valutato il rischio cardiovascolare e di ipertensione nella popolazione Tecumseh del Michigan, studiando la reattività allo stress, mediante la valutazione di due attività elementari quali il calcolo aritmetico e l'attività fisica isometrica, che costituiscono due differenti stimoli di reattività cardiovascolare: mentre il primo valuta puramente l'attività simpatica, il secondo coinvolge i meccanismi feedback di sensibilità muscolare e i segnali biochimici localmente generati insieme all'attivazione simpatica. I risultati dello studio non hanno supportato l'ipotesi di iper-reattività che presuppone che i soggetti con tratti di ansia spiccati siano più reattivi allo stress; al contrario vi era una relazione inversa tra ansia e reazione allo stress. Inoltre i soggetti con personalità ansiosa completavano un minor numero di calcoli aritmetici con un numero maggiore di errori rispetto a quelli che presentavano personalità ansiosa meno spiccata. Ma mentre il minor numero di esercizi completato può suggerire una scarsa collaborazione, il maggior numero di errori fa invece ritenere gli individui più stressati. La correlazione negativa tra personalità ansiosa e reattività può riflettere l'interazione tra tono simpatico e risposta cardiovascolare. Una down-regolation dei recettori in presenza di un alto tono autonomico e una up-regulation in risposta alla diminuzione del tono è in genere un ben documentato fenomeno fisiologico di riadattamento. E' comunque palesemente evidente l'aumento del tono simpatico nei giovani con ipertensione borderline: il livello di catecolamine, così come la risposta al blocco recettoriale, lo spillover della norepinefrina e il tono simpatico sono nettamente aumentati; questi pazienti con ipertensione borderline hanno una caratteristica diminuzione della risposta -adrenergica. E' comunque difficile stabilire in maniera conclusiva se i sintomi d'ansia o gli attacchi di panico siano presumibilmente mediati dall'attivazione del sistema nervoso simpatico. Mentre altri AA hanno riscontrato aumento della PA sistolica e diastolica e della frequenza cardiaca durante gli attacchi di panico, portando validità all'ipotesi che attacco di panico e ansia siano accompagnati da attivazione simpatica, tuttavia le catecolamine basali venivano riscontrate solo modestamente incrementate in pazienti con tali disturbi. Inoltre veniva riportata diminuzione del numero dei recettori -adrenergici sui linfociti, supportando ancora l'ipotesi che l'attacco di panico sia accompagnato da attivazione -adrenergica. Altri hanno dimostrato correlazione negativa tra ansia e numero dei recettori -adrenergici linfocitari. In conclusione, secondo Young, l'aumento dell'attività simpatica prodotta dall'ansia porterebbe ad una diminuzione compensatoria della sensibilità all'eccitazione simpatica.
Altri studi identificano chiaramente una associazione tra l'espressione della collera e l'ipertensione, del tutto indipendente dagli altri fattori di rischio dell'ipertensione stessa. Everson, in una popolazione finlandese di media età, ha evidenziato una correlazione più significativa per i soggetti che esprimevano la collera rispetto a quelli che la introiettavano, e che si accentuava nei quattro anni successivi di osservazione. I meccanismi specifici mediante i quali l'espressione della collera aumenti il rischio di ipertensione rimangono da chiarire, anche se gli effetti patologici determinati dall'ira e dallo stress mentale possono far ritenere plausibile questa associazione, attraverso l'attivazione del sistema nervoso simpatico e dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con aumento della frequenza cardiaca, delle resistenze vascolari, della secrezione di cortisolo, delle catecolamine, del glucosio e dell'insulina, meccanismi tutti che possono contribuire alla comparsa o alla progressione dell'ipertensione, e da ultimo anche fattori di crescita e meccanismi endoteliali, stimolati da caratteristiche psicosociali e da fattori stressanti.
Ancora aspetti quali gli attacchi di panico, l'ansia e la depressione sono stati indagati per verificare la loro importanza nella resistenza alla terapia farmacologica di pazienti con ipertensione arteriosa. Gli attacchi di panico sono stati evidenziati nel 33% dei pazienti in esame, contro il 39% dei controlli che erano in buon controllo terapeutico della PA, per cui la differenza non era significativa; anche l'incidenza di ansia e depressione non erano significativamente diverse. Tuttavia l'incidenza di questi disturbi era comunque abbastanza alta considerando globalmente i soggetti con ipertensione arteriosa: infatti anche in studi retrospettivi la prevalenza di ipertensione in pazienti con attacchi di panico era del 15%, piuttosto alta rispetto a pazienti che non presentavano attacchi di panico, 9%. Nei successivi cinque anni di osservazione il primo gruppo sviluppava ipertensione più frequentemente rispetto al gruppo di controllo, e si dimostrava una associazione significativa tra ipertensione e disordini d'ansia generalmente intesi. D'altra parte la prevalenza di attacchi di panico o di disturbi da panico viene stimata intorno al 36% e 13% rispettivamente, negli ipertesi, mentre la stima nella popolazione generale è stimata rispettivamente tra il 7-10% e il 2-4%. Nello studio Davies comunque avanza l'ipotesi che, poiché si trattava di pazienti selezionati per essere inviati ad un reparto specialistico per il loro problema di ipertensione, questo fatto stesso può aver condizionato l'insorgenza dell'ansia.
Gli stessi AA in altri studi comunque confermano l'ipotesi che nell'ipertensione vi sia una associazione significativa con gli attacchi di panico: la prevalenza del disturbo psichico è del 35% tra i pazienti seguiti dal medico di base e del 39% in quelli ospedalizzati, sia maschi che femmine, mentre nei normotesi sarebbe del 22%; a volte i sintomi di attacco di panico vengono impropriamente attribuiti alla terapia medica, che quindi viene impropriamente sospesa .
Del tutto recentemente vari disturbi della psiche sono stati considerati da Jula per valutare l'eventuale associazione con l'ipertensione. Si sa che fattori psicologici possono aumentare acutamente la PA, ma come poi possano condurre ad una stabile elevazione pressoria, come descritto da alcuni, non è ben noto. In uno studio che valutava disordini quali l'espressione della collera, l'ansia, l'ostilità, la depressione e l'alexitimia, cioè la scarsa capacità di provare ed esprimere emozioni e la scarsa propensione ad esternare il proprio pensiero, si è visto che solo quest'ultima condizione sembrava correlata all'ipertensione e poteva differenziare il gruppo in osservazione rispetto ai controlli. In realtà gli altri sintomi di disturbo psichico possono fluttuare con il tempo e le circostanze, mentre l'alexitimia è generalmente considerata una caratteristica stabile della personalità, spesso associata al sesso maschile, a basso livello culturale, basso livello socio-economico, debolmente associato all'avanzare dell'età. Vi sono anche teorie non solo socioculturali ma anche neurobiologiche, le quali suggeriscono che questa condizione può essere correlata all'interruzione della comunicazione limbica-neocorticale, o che possa risultare da un deficit nella comunicazione interemisferica o da una disfunzione dell'emisfero destro. Le teorie psicologiche invece suggeriscono che la crescita in un ambiente privo di stimoli emozionali, un rapporto materno incapace di far prendere coscienza delle emozioni, o un trauma psicologico importante nella storia passata possano essere determinanti per lo sviluppo di questa patologia. Più recentemente è stato suggerito che, indipendentemente dalle cause, l'alexitimia possa riflettere un deficit nel processo cognitivo e nella regolazione delle emozioni; per cui la scarsa capacità di prendere consapevolezza delle emozioni e di farvi fronte renderebbe gli individui alexitimici vulnerabili agli stress continui.
A questo punto, dopo aver revisionato le incertezze della letteratura sull'argomento, mi pare indubbio che emerga comunque un interrogativo comune fondamentale circa la modalità con cui disturbi psichici espressione di stress genericamente inteso possano influenzare l'insorgenza dell'ipertensione, non solo ma di tutte le altre patologie in cui si suppone un ruolo dello stress, e cosa rende conto della diversa vulnerabilità alle malattie stress-correlate in persone che vivono esperienze di vita simili. Dobbiamo riallacciarci al concetto di "carico allostatico" precedentemente menzionato e introdotto da McEwen per cercare di capire qual'è l'effetto a lungo termine della fisiologica risposta allo stress. La "allostasi", cioè l'abilità di raggiungere o conservare stabilità comunque attraverso dei cambiamenti, è un fenomeno critico per la sopravvivenza. Attraverso l'allostasi il sistema nervoso autonomo, l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il sistema cardiovascolare, metabolico e il sistema immune proteggono il corpo rispondendo agli stress interni ed esterni. Il prezzo di questo adattamento allo stress è il carico allostatico, cioè il logoramento che risulta dalla cronica iperattività o ipoattività dei sistemi allostatici. Sia gli stress acuti sia gli stress cronici, cioè l'accumulo di carichi quotidiani di minore intensità, possono avere conseguenze a lungo termine. I fattori genetici non spiegano la variabilità individuale nella sensibilità allo stress, come dimostrato dalla mancanza di concordanza tra gemelli identici in situazioni analoghe. Soprattutto due fattori determinano la risposta individuale a situazioni potenzialmente stressanti: il modo di percepire una situazione e lo stato generale di salute, determinato non solo da fattori genetici ma anche dalle scelte comportamentali e dello stile di vita. Se un individuo percepisce una situazione come un pericolo, fisico o psicologico, ciò sarà cruciale nel determinare la risposta comportamentale, sia che questa si manifesti con la fuga da una situazione, con il combattimento o con la paura, e la risposta fisiologica, cioè la perdita del controllo o le palpitazioni o l'aumento del livello del cortisolo. Anche la capacità di abituarsi a stress ripetuti è determinata dal modo in cui vengono percepite le situazioni. Ad esempio circa il 10% delle persone che parlano ripetutamente in pubblico continua a vivere la situazione come stressante, e il loro cortisolo ogni volta aumenta. La risposta fisica ad una variazione, una situazione di pericolo fisico o psicologico, è bifasica: inizia con una risposta allostatica che introduce i cambiamenti adattativi e termina eliminando questa risposta quando il pericolo è cessato. La risposta più comune coinvolge il sistema nervoso simpatico e l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con l'attivazione del rilascio delle catecolamine, la secrezione di corticotropina dall'ipofisi e il successivo rilascio di cortisolo. L'inattivazione successiva del sistema riporta il tutto ai livelli basali. A volte però l'inattivazione può essere inefficiente, per cui c'è una sovraesposizione agli ormoni dello stress che si mantiene nel tempo per cui si determina un carico allostatico con conseguenze fisiopatologiche.
Fondamentalmente quattro situazioni si accompagnano al carico allostatico. La più frequente ed ovvia è costituita dagli stress frequenti: ripetute elevazioni dei valori pressori accelerano il processo aterosclerotico aumentando il rischio cardiovascolare. Nel secondo caso manca l'adattamento a ripetuti stress dello stesso tipo, per cui si ha una prolungata esposizione agli ormoni dello stress. Nel terzo tipo c'è una incapacità ad eliminare la risposta allostatica dopo il termine dell'evento stressante: ad esempio dopo il calcolo aritmetico la PA non torna nei limiti di norma; con l'avanzare dell'età vi è comunque una fisiologica riduzione della efficienza dei meccanismi di feedback. Nel quarto caso una risposta inadeguata di alcuni sistemi allostatici determina aumento compensatorio di altri sistemi: ad esempio se la risposta del cortisolo non è adeguata, vi è un aumento di secrezione delle citochine. Va sottolineato che il sistema allostatico è anche influenzato dal fumo di tabacco, dall'uso di alcool, dalla dieta e dall'esercizio fisico, condizioni tutte che è noto possono in qualche maniera influenzare l'ipertensione arteriosa. I sistemi allostatici più studiati sono quelli del sistema cardiovascolare con le sue connessioni con l'obesità e l'ipertensione. La perdita del controllo sul lavoro aumenta il rischio cardiovascolare, e lo stress lavorativo (elevato impegno psicologico ma ridotto margine decisionale) abbiamo visto che determina aumento della PA e della massa ventricolare sinistra. Lo stress cronico, inteso come sensazione di stanchezza, perdita di energia, irritabilità e demoralizzazione, e l'ostilità sono correlati con aumento di reattività del sistema coagulativo, in particolare con l'aumento del fibrinogeno e delle piastrine e quindi con aumento del rischio di infarto del miocardio. L'ipertensione, e abbiamo abbondantemente verificato questo concetto dall'esame della letteratura, è uno dei più sensibili indici di stress lavorativo, particolarmente in alcune categorie di lavoratori o in alcune condizioni socio-economiche: i controllori del traffico aereo sviluppano ipertensione con una frequenza annuale 5,6 volte superiore rispetto a piloti non professionisti con caratteristiche fisiche iniziali identiche; nelle suore di clausura la PA rimaneva invariata nel corso di 20 anni, mentre in donne paragonabili per età e condizioni fisiche che vivevano nel mondo esterno aumentava con l'età.
Queste considerazioni potrebbero avere anche implicazioni di carattere terapeutico, come già accennato. Secondo Sharma i medici potrebbero aiutare i pazienti a ridurre il loro carico allostatico imparando loro ad usare l'abilità di riconoscere i propri limiti e l'abilità al rilassamento. Altre due cause importanti di carico allostatico sono l'isolamento e la perdita di controllo nell'ambiente di lavoro, per cui interventi di carattere sociale, certamente difficili da attuare, potrebbero teoricamente essere utili. Tornando a quanto già accennato in precedenza, è verosimile che alcune terapie comportamentali di rilassamento possano essere di utilità nell'influenzare lo stato psicologico di pazienti ipertesi o potenzialmente tali: alcuni hanno dimostrato cambiamenti significativi nello stato d'ansia, negli atteggiamenti di difesa, nell'autostima e anche in alcune abitudini quali l'alimentazione dopo terapie di rilassamento di sole cinque settimane.
Anche il sistema nervoso centrale, soprattutto le strutture dell'ippocampo, che hanno una alta concentrazione di recettori per il cortisolo, risultano danneggiate dallo stress, sia per l'aumento della secrezione di cortisolo nello stress acuto, con soppressione dei meccanismi che nell'ippocampo e nel lobo temporale regolano la memoria a breve termine, sia per atrofia dei neuroni piramidali a causa di un meccanismo coinvolgente i glucocorticoidi e i neurotrasmettitori eccitatori rilasciati durante e dopo lo stress; questa atrofia è reversibile se lo stress è di breve durata, ma stress prolungati nel tempo possono uccidere le cellule dell'ippocampo. La RMN ha dimostrato che situazioni stressanti quali episodi depressivi ricorrenti, patologie post-traumatiche possono essere associate ad atrofia dell'ippocampo. Anche il sistema immune partecipa alle reazioni da stress con la ridistribuzione dei linfociti e dei macrofagi e la loro compartimentalizzazione lungo le pareti vasali, la cute, i linfonodi e il midollo osseo, con la mediazione dei glucocorticoidi; la cronicizzazione dello stress comporta alterazioni della risposta immunitaria ritardata, con implicazioni patologiche.
Quali sono i meccanismi fisiologici messi in atto dal sistema nervoso simpatico nell'ipertensione arteriosa? Esistono due principali riflessi neurali coinvolti nella regolazione della PA: i barocettori dell'alta pressione dell'arco aortico e del seno carotideo e i barocettori cardio-polmonari della bassa pressione. I segnali afferenti entrati nel centro vasomotore del tronco encefalico determinano impulsi efferenti attraverso i nervi simpatici e parasimpatici verso il cuore e i vasi sanguigni. I nervi simpatici e le loro secrezioni catecolaminiche inducono i loro effetti attraverso molteplici interazioni con i recettori presinaptici e postsinaptici. Normalmente l'aumento della PA o della pressione venosa centrale riducono la frequenza cardiaca e la PA attraverso una stimolazione vagale e una inibizione del simpatico; nell'ipertensione persistente questi riflessi vengono ad essere influenzati da modificazioni funzionali e strutturali, cosicché un dato incremento della PA, ad esempio, induce una minore riduzione della frequenza cardiaca. La minore sensibilità dei barocettori arteriosi negli ipertesi e la loro regolazione ad un livello superiore sono probabilmente il principale determinante dell'aumentata variabilità pressoria e della ridotta inibizione del centro vasomotore del tronco encefalico. Si ipotizza che la loro nuova regolazione possa essere dovuta a modificazioni genetiche del rivestimento endoteliale del seno carotideo e dell'arco aortico e/o dei centri vasomotori, ma le stesse modificazioni possono essere il risultato del danno anatomico vascolare, endotelio mediato, indotto dall'ipertensione. L'endotelio è oggi considerato l'organo principale, se così si può dire di una struttura universalmente distribuita nell'organismo, della omeostasi pressoria a causa della enorme quantità di sostanze vasodilatatrici e vasocostrittrici che produce di per sé e in risposta ad altri stimoli; Il risultato finale è l'innesco di un meccanismo a cascata che causa aumento delle resistenze vascolari sistemiche attraverso il rimodellamento vascolare. Senza entrare nel merito specifico delle tappe biochimico-funzionali-anatomiche di quanto avviene, a titolo di esempio elenchiamo alcuni dei meccanismi che intervengono:
- neuropeptidi, noradrenalina, ATP, sostanza P, peptide correlato al gene della calcitonina e peptide intestinale vasoattivo agiscono sui recettori della media provocando vasocostrizione o vasodilatazione ;
- ATP, aceticolina, 5-idrossitriptamina e sostanza P, rilasciati dalle cellule endoteliali per shear stress o ipossia, agiscono sui recettori delle cellule endoteliali per secernere fattore rilasciante di derivazione endoteliale (EDRF = ossido nitrico) o prostaglandine, che a loro volta inducono rilasciamento della muscolatura liscia;
- angiotensina II, vasopressina e istamina sono anche prodotte da alcune sottopopolazioni di cellule endoteliali;
- lo shear stress induce aumento di espressione del fattore di crescita dei fibroblasti e di quello di derivazione piastrinica, e aumento di espressione di alcuni proto-oncogeni;
- l'endotelina di produzione endoteliale, potente vasocostrittore, risulta aumentata, così come l'espressione endoteliale del suo gene regolatore; i mediatori endoteliali interagiscono poi con il trombossano A2 e con i recettori piastrinici, con innesco delle alterazioni emocoagulative;
- a ciò vanno di conseguenza aggiunte le interazioni con le citochine, parte secrete dalle cellule endoteliali e parte dalle cellule infiammatorie richiamate nei vasi sanguigni.
Le interazioni tra tutti i meccanismi elencati sono in parte note in parte ipotizzate, ma costituiscono il corrispettivo anatomico del substrato tra ipertensione arteriosa e psiche. E' in parte come la vecchia questione dell'uovo e della gallina, ma a seconda delle circostanze può essere vera l'una o l'altra ipotesi. Secondo Folkow vi deve essere comunque una minima iperattività di un meccanismo pressorio che aumenta inizialmente la PA, ad esempio un evento stressante iniziale (?) creando un feedback positivo che determina l'ipertrofia parietale e quindi la persistenza dell'ipertensione, a cui si può o meno aggiungere l'intervento di meccanismi di risposta anomali o la presenza di sostanze circolanti che intervengono nei meccanismi del rialzo pressorio.
In conclusione ci sembra di poter dire che il rapporto tra ipertensione arteriosa e psiche passa attraverso l'intreccio di reazioni biologiche e comportamentali: oggi si tende sempre di più a ritenere che i pazienti ipertesi abbiano meccanismi biologici di adattamento in qualche maniera inefficaci, non orientati in senso vantaggioso e incapaci di modellarsi di fronte ai cambiamenti intrinseci od estrinseci dell'organismo. I sistemi percettivi e i meccanismi di scelta non sembrano capaci di rispondere a stimoli biologici e a stress psicologici continuamente, ma tendono a prolungare la fase di adattamento biologico-comportamentale e funzionale non intenzionalmente fino a raggiungere un nuovo equilibrio ma ad un livello superiore, che può essere a volte durevole ma a volte piuttosto precario.
Dobbiamo allora ritenere che il compito del medico nella fase in cui vede un paziente probabilmente iperteso, oltre a fornirgli l'elenco delle modifiche dello stile di vita necessarie secondo le linee guida internazionali, può essere anche quello di indirizzarlo presso un laboratorio specialistico di psicofisiologia? Probabilmente non è questa l'ipotesi più frequente, ma certamente nell'approccio al paziente iperteso è doveroso cercare di porre attenzione anche ad eventuali problematiche psichiche che potrebbero essere parte in causa nella patogenesi e nello sviluppo della malattia ipertensiva.

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