PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 1998 - '99

A. M. P.
SEMINARI 1998 - '99
Prof. Fabio Mura

Ideazione fobica e comportamenti ossessivi


Sconfiggere la solitudine, liberarsi dal peso della colpa, fugare i ricordi dolorosi è condizione indispensabile per gustare la vita ed aprirsi ad esperienze gioiose. Per molte persone è un'impresa ciclopica, un affanno interminabile tra tentativi ed insuccessi continui.
Ciascuno, nel progetto della propria vita, vorrebbe inserire il piacere di nuove conoscenze, di incontri affascinanti, di scoperte esaltanti pur accarezzando, allo stesso tempo, l'idea di avere un rifugio tranquillo a portata di mano con affetti rassicuranti immediatamente fruibili: da contraddizioni di questo tipo, tanto semplici quanto diffuse, nascono, talvolta, divergenze profonde, conflitti interni che, se esasperati, portano nell'animo umano dilanianti lacerazioni e fantasmi terrificanti.

I versi di un Poeta contemporaneo che inneggia alla vita con la metafora del viaggio di Ulisse nel suo ritorno ad Itaca, recitano così:

          "Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
          fa voti che ti sia lunga la via,
          e colma di vicende e conoscenze.
          Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
          o Poseidone incollerito: mai
          troverai tali mostri sulla via,
          se resta il tuo pensiero alto, e squisita
          è l'emozione che ti tocca il cuore
          e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
          né Poseidone asprigno incontrerai,
          se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
          se non li drizza il cuore innanzi a te."

          (Costantino Kavafis : "Itaca". Poesie, Mondadori, 1961)

Il Poeta sostiene che il desiderio di conoscere, di esperire la vita nelle sue molteplici sfaccettature, può sconfiggere ogni paura e può dare all'uomo il coraggio di osare, andare avanti, percorrere anche i cammini più insidiosi, sempre che il suo pensiero voli alto, sia cioè sostenuto da un ideale, da un credo che mantenga viva la capacità di emozionarsi e di appassionarsi; da qui l'esortazione a non temere mostri e a non vedere nemici dappertutto essendo questi realmente spaventosi e temibili solo se li si reca dentro di sé e si consente al cuore di rizzarli innanzi, ad ogni passo del proprio cammino.
I pericoli più temibili per l'uomo sono, infatti, le angosce che lo macerano, pronte a tradursi in oggetti e situazioni spaventose ad ogni soffio di vento. E' questa la condizione fobica che vede la persona insidiata continuamente dai fantasmi che essa stessa crea.

Fobia deriva dal verbo greco fobéo che significa, spaventare, atterrire, e fobia è appunto la condizione dell'essere atterriti da qualcosa, qualcosa che in qualche modo richiama l'idea terrificante della morte. Nella mitologia greca Fobos è raffigurato come figlio e compagno di Ares, dio della guerra, causa di sterminio e di lutto.
Il senso della morte impregna l'ideazione fobica, qualsiasi sia l'oggetto o la situazione temuta; così i coltelli, i microbi, le sostanze tossiche, i luoghi alti, gli spazi angusti richiamano l'idea della morte perché potrebbero produrre la perdita della vita per causa di ferita, infezione, avvelenamento, precipitazione, soffocamento e così via.

Per il fobico non ha importanza che l'evento paventato abbia scarsissime probabilità di attuarsi in relazione alle circostanze del momento, ma è la possibilità in sé, in quanto possibilità, che richiama l'idea di quell'evento e rende incombente il pericolo che esso accada. Perciò potremmo includere le fobie nella patologia della coscienza, in quanto viene a ridursi o a mancare totalmente la capacità critica, la capacità di valutazione del rapporto tra causa ed effetto, proprio riguardo all'evento temuto.
Se dal punto di vista strettamente psicopatologico è legittimo domandarsi che cosa può alterare il senso critico della persona e modificare i parametri di valutazione fino a sovvertire i concetti di probabilità, di distanza, di temporalità, dal punto di vista umano è altrettanto legittimo chiedersi cosa può accendere nell'uomo tanto terrore per alcune ordinarie situazioni della vita quotidiana, da rendergli l'esistenza veramente difficile, a volte invivibile.

Il caso di Marino può aiutarci a comprendere tutto ciò:

Marino, rupofobico da oltre trent'anni, descrive con dovizia di particolari il momento in cui insorse il suo disturbo: "Frequentavo allora, da qualche settimana, l'istituto di entomologia; fresco di laurea mi era stata offerta, infatti, l'opportunità di accedere alla carriera universitaria. Ricordo che, un giorno, l'assistente al quale ero stato affiancato per una ricerca mi condusse in laboratorio e, presa da un contenitore una cavalletta viva, la mise in un'ampolla con del cotone imbevuto di formaldeide. Vidi quell'insetto morire in pochi istanti e, immediatamente, fui colto da un senso di soffocamento indicibile, come se io stesso mi trovassi dentro quell'ampolla. Dovetti allontanarmi dal laboratorio ed uscire dall'istituto per riuscire a respirare bene, come se l'aria, in quel luogo, mi fosse improvvisamente venuta a mancare. Da quel momento ho temuto ogni cosa che potesse in qualche modo sporcarmi o contaminarmi ed ho cercato di evitarla come se si trattasse di un veleno mortale."

Il disturbo si presentò quindi all'improvviso, scatenato da un fatto apparentemente banale, un'osservazione sperimentale. Ma quell'osservazione, per il contenuto simbolico che la connotava, ha certamente innescato nella mente di Marino un processo associativo di travolgente portata emozionale: vedere l'insetto morire per asfissia dentro l'ampolla lo fece sentire come l'insetto, chiuso e senz'aria respirabile, lui l'insetto e l'istituto l'ampolla, ed ebbe il terrore di poter morire per asfissia; fu colto dal panico e dovette fuggire fuori, all'aria aperta, in cerca di ossigeno.
Da allora cercò di tenersi a distanza da qualsiasi elemento che potesse inquinare l'aria, l'acqua, l'ambiente in cui lui fosse venuto a trovarsi. Evitava perciò con cura i luoghi dove venivano usate sostanze chimiche o dove alloggiavano malati, i locali poco puliti, gli esercizi pubblici troppo trafficati, gli ospedali e i cimiteri e le strade che vi passavano accanto. Quando non riusciva ad evitarli si sentiva contaminato ed in preda ad un disagio insopportabile; doveva perciò lavarsi il più presto possibile, cambiare l'abito e provvedere che questo venisse accuratamente pulito.

La vita di Marino divenne da quel giorno molto più accidentata, con ostacoli ed insidie ad ogni angolo, complicata inoltre da dubbi ricorrenti: "Dovetti lasciare l'istituto di entomologia poiché tra sostanze chimiche ed altri agenti inquinanti non potevo più vivere. Ma anche fuori dell'istituto, in altri luoghi come, ad esempio, le aziende agricole dove, più tardi, esercitai la mia professione di agronomo, dovevo stare sempre attento a dove mettere le mani, all'erba che calpestavo, all'aria che respiravo; guai se venivo a sapere che nei campi dove mi trovavo erano stati usati degli anticrittogamici o dei pesticidi; in quel caso dovevo correre a lavarmi ed a cambiarmi d'abito; ma pur così facendo non ero ancora sicuro: spesso ero tormentato dal dubbio che mi fosse rimasta addosso qualche particella venefica e dovevo ripetere le operazioni igieniche più volte."
E proprio il dubbio venne a costituire l'elemento dominante della sua vita ed il motivo principale della sua sofferenza. Da bambino la paura spesso lo atterriva; ma da questa aveva imparato a difendersi in qualche modo, mentre dal dubbio no; il dubbio, ora, lo assaliva inaspettatamente anche quando gli sembrava d'aver fatto ogni verifica; era come se, per usare le sue parole, "si fosse insinuato nell'anima", e per ripararsi da esso non trovava altro che ripetere e ripetere ciò che, inutilmente, aveva già fatto per proteggersi.

La coazione a ripetere costituisce il nucleo della patologia ossessiva, e la storia di Marino evidenzia chiaramente la correlazione tra questo e l'ideazione fobica.
Nel modo di essere dell'ossessivo il timore fobico alimenta costantemente il dubbio, per cui egli non si sente mai al sicuro, protetto da ciò che teme, ed allo stesso tempo il dubbio sostiene la fobia e la nutre, per cui la paura, anche se sostanzialmente avvertita come infondata, viene amplificata dal dubbio risultando sempre più minacciosa; e a nulla servono le strategie di protezione, ripetitivamente attuate, poiché null'altro sono che lo sviluppo, dovuto, delle idee e dei sentimenti che scatenano la fobia e la mantengono; il rituale riparatore è, infatti, esso stesso impregnato dal dubbio patologico che lo necessita.

Di grande attualità è, ancor oggi, l'analisi che Karl Jaspers faceva, all'inizio del secolo, dell'ideazione coatta che caratterizza il modo ossessivo: "Le idee coatte sono caratterizzate dal fatto che l'individuo crede in un contenuto generalmente significativo, pur sapendo che tale contenuto è falso. Esiste una lotta fra convinzione e conoscenza del contrario, che si distingue tanto dal dubbio quanto dalla ferma opinione"; e, a proposito del dubbio patologico che la sostiene, affermava: "Nel dubbio esiste una ponderazione riflessiva dei motivi che portano alla indecisione, sotto forma di un giudizio psicologicamente unitario, mentre nella coazione sussistono contemporaneamente convinzioni e consapevolezza del contrario. ... Esiste un contrasto permanente fra coscienza della verità e coscienza dell'errore; entrambe si sospingono in qua e in là, ma nessuna può ottenere il sopravvento, mentre nel giudizio del dubbio normale non si sperimenta né giustezza né falsità ma, in questo atto unitario, per il soggetto il fatto rimane indeciso."

(Jaspers K.: Allgemeine Psychopathologie. Heidelberg 1919.
Springer, Berlin-Gottingen-Hedelberg , settima edizione 1959.
Prima edizione italiana, Il pensiero Scientifico Editore, Roma 1964).

Se, nell'accostarci ai disturbi fobici, abbiamo ipotizzato la legittimità di annoverarli fra i disturbi della coscienza, i disturbi ossessivi, per l'inscindibile complesso ideativo-coattivo che li caratterizza, potremmo situarli al confine tra patologia della coscienza e patologia della volontà.

Anche quando è trascinato dalle passioni più violente l'Io della persona sana rimane pur sempre in grado di orientare le proprie scelte, di controllare i propri istinti e dirigere la propria affettività, e conserva piena consapevolezza di ciò che vuole e di ciò che non vuole, delle idee su cui ama soffermarsi e dei pensieri che preferisce scacciare. L'ebbrezza della passione sembra, anzi, derivare proprio dall'impressione esaltante di poter sempre condurre il gioco, anche quando questo diviene molto rischioso.
Nel modo di essere ossessivo la capacità dell'Io di orientare i contenuti della propria coscienza appare fortemente compromessa. E' come se buona parte delle scelte personali venissero in qualche modo imposte, sia per quanto concerne i contenuti del pensiero che quello delle azioni; come se l'individuo non fosse più in grado di autodeterminarsi, dando l'impressione di aver perduto gran parte della possibilità di operare mediante scelte libere e consapevoli.

Quando una persona avverte d'aver perso la capacità di scegliere volontariamente dove indirizzare la propria attenzione, il proprio interesse, la propria fantasia, prova il disagio terribile della perdita della libertà, della costrizione, della prigione più dura, perché libertà significa, infatti, per ogni uomo, poter agire ma, soprattutto, poter pensare ciò che più gli aggrada.
L'ossessivo appare, infatti, tormentato dal non sentirsi più padrone dei suoi pensieri: questi compaiono all'improvviso, senza che lui li solleciti, anzi, proprio quando non li desidera; e le azioni si attivano di conseguenza, anch'esse non volute ma rese obbligate dalla necessità di proteggersi da quegli stessi pensieri assillanti.

"Se l'Io non è più padrone, se non ha alcuna influenza sull'oggetto che vuol fare contenuto della propria coscienza, se piuttosto il contenuto momentaneo della coscienza persiste anche contro questa volontà - sostiene Kurt Shneider - allora l'Io si pone in lotta contro questo contenuto, che vorrebbe ma non può scacciare, ed esso acquista il carattere della coazione psichica. ... Il soggetto, invece della normale coscienza di dirigere la sequenza dei contenuti ai quali egli si rivolge, ha la coscienza coatta di non potersi sottrarre ad essi."
Il carattere peculiare della patologia ossessiva è, nella definizione classica, il modo coatto, cioè assolutamente indipendente dalla volontà, in cui pensieri ed azioni si propongono all'individuo dal proprio interno; e questa proposizione viene letta come una sorta d'imposizione poichè il soggetto, che di tale patologia soffre, non riesce in alcun modo ad affrancarsi da quelle idee e dagli atti che ne derivano.

Ma lo psicopatologo non può limitarsi alla descrizione del fenomeno; egli deve chiedersi da chi e da dove proviene quest'imposizione, e perché.
Certamente le teorie freudiane sull'inconscio e la prassi psicoanalitica hanno fortemente contribuito a trovare risposte per tali quesiti, ma è soprattutto il metodo suggerito dall'antropoanalisi che, consentendo di affacciarsi più agevolmente nello spazio coartato dell'interrelazionalità ossessiva, ha permesso e di cogliere le diverse sfaccettature del disturbo e di comprendere, caso per caso, le dinamiche attraverso le quali questo si sviluppa.
Porsi nei panni del paziente fobico per comprendere il significato dei suoi rituali ossessivi non è impresa facile neanche per lo psichiatra più esperto. Al cospetto di questi pazienti si prova, infatti, un greve senso d'impotenza, come se il magma che imbriglia la loro volontà trasfondesse nello spazio terapeutico rendendolo vischioso.

Per accedere nell'animo delle persone fobiche e per aprire le porte simboliche dietro cui esse si barricano è necessario un lavoro da certosino, finalizzato al consolidamento del terreno comunicativo; solo così facendo si consentirà loro di vincere il terrore, comunemente evidenziabile in essi, nelle fasi iniziali della terapia, di addentrarsi nella "palude insidiosa" dell'intimità dialogica.
Una volta preparato il campo terapeutico ci si potrà muovere in modo più spedito, ponendo, comunque, la massima attenzione ai paletti che lo delimitano: solo entro tali confini, infatti, potrà essere condotta col minor rischio possibile l'indagine retrospettiva, la rivisitazione della storia personale del paziente, alla ricerca dei nuclei conflittuali della sua nevrosi.

Per il fobico-ossessivo avvertire che il terapeuta è capace di sentire allo stesso modo in cui egli sente, non costituisce solamente motivo di rassicurazione, ma è il sine qua non della terapia. La fiducia nel terapeuta si basa in gran parte su questo sentimento dell'essere compresi, dovuto principalmente alla capacità, attribuita al terapeuta, di sentire in modo analogo al proprio e quindi di cogliere e portare dentro di sé (einfuhren), per sanarla, la profondità e la drammaticità della propria sofferenza, anzitutto accettandola e, in qualche modo, condividendola.
Tutto ciò facilita quel percorso a ritroso, lungo le tappe della propria angoscia, che il paziente può compiere solo se coadiuvato dalla presenza partecipante del terapeuta: si tratta, infatti, di un cammino accidentato e faticoso in cui il disagio del paziente, sostenuto dall'attuale condizione morbosa, rende molto vivi, nel ricordo riemergente, i dolori del passato; in tale contesto, la con-presenza operativa dell'antropo-analista assume una fondamentale valenza terapeutica.

Può essere utile, come esempio, riportare alcuni brani tratti dalle sedute del lungo percorso terapeutico di Marino che, al solo scopo di offrire una traccia espositiva ho evidenziato in sequenza numerica.

1) Il sogno del feto

Nel corso di una seduta Marino racconta un sogno: "C'era una donna che mi sorrideva e mi accarezzava in modo seducente; ero molto affascinato da lei perché era proprio il tipo di donna che mi è sempre piaciuta: morbida, accogliente e carezzevole. Ad un certo momento, però, l'atmosfera cambiò e divenne molto meno piacevole: la donna si allontanò per gettare via qualcosa; mi resi conto che si trattava di un feto e realizzai, d'un tratto, che quel feto ero io stesso. Fui colto da un fortissimo senso d'angoscia e mi svegliai molto agitato".

2) Il ricordo della madre

In un'altra seduta Marino descrive la madre: "Era molto bella ed io le ero molto attaccato. Ricordo che mi addolorava vederla andar via, ma questo accadeva spesso poiché, più volte durante la settimana, prendeva l'autobus per recarsi a Cagliari dove abitava mia nonna. Ritornava solo alla sera tardi ed io ricordo lucidamente, ancora oggi dopo tanti anni, con quanta trepidazione la stavo ad aspettare, preoccupato che le potesse succedere qualcosa ed allo stesso tempo offeso perché mi aveva lasciato a casa e non mi aveva portato con sé... Credo di aver provato nei suoi confronti rabbia ed anche desiderio di farle del male. Ricordo che desideravo morire, così lei avrebbe sofferto per la mia scomparsa e, solo dopo averla vista soffrire a lungo, finalmente soddisfatto, sarei resuscitato".

3) la disgrazia

All'età di 12 anni la vita di Marino fu segnata da una grave tragedia: durante un'alluvione la casa dove abitava coi genitori ed i fratelli crollò e tutta la famiglia rimase sepolta sotto le macerie; il padre e la madre con alcuni fratelli perirono; lui ed un altro fratello si salvarono miracolosamente: "Ricordo un boato e la netta sensazione di precipitare nel vuoto, poi il silenzio, il buio, il freddo, un peso opprimente sopra il mio corpo che mi impediva di muovermi; e poi le voci di qualcuno che chiamava me ed i miei fratelli, qualcuno che ci veniva in aiuto".
"Nei giorni successivi, quando mi dissero che mio padre e mia madre erano morti, e con essi i miei fratelli, pensai che per me la vita fosse finita e che, da solo o in un orfanotrofio non avrei avuto comunque alcun futuro".

4) l'accoglienza e l'affetto

Marino fu invece accolto nella famiglia di una zia dove trovò calore e affetto e grande dedizione: "Mi trattavano tutti con tanta cura e mi davano molto amore. Oserei dire che nella famiglia di mia zia ricevetti l'affetto che avrei voluto avere da mia madre e da mio padre: quelle carezze e quella tenerezza che avevo sempre desiderato e che mi erano sicuramente mancati, mi venivano prodigati in abbondanza da mia zia e dalle mie cugine".

5) la separazione e il lutto

Quel periodo felice durò solo qualche anno. All'età di 14 anni gli zii decisero che Marino dovesse essere ospitato in un collegio per orfani a Cagliari: "Quando mio zio mi accompagnò in collegio, ricordo il mio stato d'animo. Nel salire le scale di quell'istituto mi sentivo morire, o meglio, era come se assistessi lucidamente al mio funerale! Fu allora che pensai veramente alla fine, ancor più che nei giorni della disgrazia, perché, confinato in quella prigione, avrei certamente perduto ogni cosa, il mondo intero e, con esso, tutto ciò che amavo".

6) la solitudine

Il primo anno passato in collegio viene ricordato da Marino come la fase più triste e buia della sua vita: "Il tempo trascorreva all'insegna della tristezza e dello sconforto; piangevo spesso, amareggiato dalla mia solitudine, ed il ricordo dei bei giorni passati nella famiglia degli zii rendeva ancora più difficile la condizione presente". Nel collegio si sentiva come in gabbia ed i rari momenti di evasione consistevano nelle giornate di vacanza in cui gli veniva consentito di allontanarsi per recarsi dai parenti. "Fu in quel periodo - ricorda Marino - che cominciai ad avvertire delle paure che in precedenza non avevo mai provato, come, ad esempio, la paura di non trovare nessuno dei parenti ad accogliermi alla fermata dell'autobus, una volta arrivato in paese; se ciò accadeva venivo colto da un vero e proprio terrore per cui, non riuscendo a scendere dall'autobus, mi facevo riportare a Cagliari da dove ero partito".

7) La vita sessuale

"I miei primi approcci al sesso, le mie prime esperienze, le feci con una ragazza più grande di me che prestava sevizio nel collegio come assistente. Lei era amorevole e disinvolta; io impacciato ed ombroso; mi stizzivo quando la vedevo parlare con altri; mi arrabbiavo quando alle feste ballava con altri, e le tenevo il broncio per giorni e giorni. Più avanti negli anni, mantenni sempre, nei confronti dell'altro sesso, un atteggiamento diffidente e preoccupato, pur essendo molto attratto dalle donne. Era come se volessi continuamente prova, dalle ragazze che mi interessavano, della massima attenzione nei miei riguardi e della più grande dedizione. Avrei voluto essere sempre vezzeggiato e coccolato; e, se ciò non accadeva, mi incupivo col solo risultato di allontanarle ulteriormente da me; e questo mi riempiva di amarezza, non riuscendo a farmi una ragione dell'essere trattato freddamente, io che desideravo solo calore e tenerezza!"
"La mia vita sessuale - rivela Marino in un'altra seduta - non è mai stata molto soddisfacente; dapprima le difficoltà derivavano dal fatto che la mia donna doveva essere seria e di buoni sentimenti, e bastava poco per convincermi che non lo fosse! Poi, quando finalmente trovai la persona giusta e la sposai, mi resi presto conto che le cose non andavano per il meglio; ero spesso pervaso, nell'intimità del rapporto, da un senso di vuoto, di gelo inquietante che mi preoccupava e mi lasciava insoddisfatto".

8) L'idea della morte

"L'idea della morte è sempre in agguato, da molti anni, pronta ad inquinare ogni cosa che faccio, ogni progetto, ogni incontro; so che può comparire all'improvviso in qualsiasi momento, quando lavoro, quando guido l'auto, quando sono a tavola o davanti al televisore, quando faccio l'amore, ed anche quando dormo. Di recente ho fatto un sogno in cui, insieme a mia figlia partecipavo ad un funerale; ma nel sogno sapevo che il morto ero io e rimproveravo mia figlia perché, durante il funerale, non riusciva a tenere un comportamento consono alla circostanza, non dimostrando alcun rispetto per il padre defunto".

Al di là delle suggestioni interpretative che i brani, tratti dalle sedute registrate di Marino, offrono sul versante strettamente psicanalitico, per consentire alla discussione di svolgersi nel campo più specifico, e per me sicuramente più congeniale, dell'analisi fenomenologica, vorrei concisamente riprendere e sottolineare alcune problematiche che emergono nel caso che ho proposto alla vostra attenzione:

1) La problematica del conflitto e dell'angoscia.
2) La problematica del tempo in rapporto alla libertà di decidere.
3) La problematica del rivelarsi.

La problematica del conflitto e dell'angoscia

Partendo dal presupposto che l'angoscia affonda le sue radici nel conflitto sia esso presentato come operante tra istanze psichiche (voler essere e poter essere) o tra parti costitutive dell'Io (Es e Super-Io), va da sé che il conflitto intrapsichico non può che derivare da un conflitto relazionale introiettato, da un conflitto tra persone, tra soggetti, tra soggetti interagenti. E l'essere della persona, il suo esistere, consiste nel suo essere nel mondo, nella sua erlebniss, nel suo manifestarsi, nel declinarsi della sua presenza.
L'angoscia, per definirla con le parole di Binswanger, non può essere intesa né come un sentimento, né come un affetto, ma solo come una daseinsangst, il terrore della perdita della presenza, dell'inconsistenza dell'esserci. "Si dà quando l'essere della persona, la sua esistenza, il suo essere-nel-mondo è minacciato nella sua esistentività, quando la presenza tende a perdere il proprio mondo, quando è minacciata di divenire una nuda presenza mutila di declinarsi con chicchessia e in qualsivoglia modo".

"L'angoscia, intesa sul piano antropologico, è l'angoscia della persona che si affaccia all'orrore del nulla". (Cargnello, "Alterità e alienità")
E se il mondo, sostiene Cargnello, esiste per ciascuna persona solo in quell'articolazione unitaria che è caratterizzata dal suo essere nel mondo, nel momento in cui si vanifica l'una, si vanifica anche l'altro.
Potremmo dunque definire l'angoscia come la perdita del senso del mondo, la Verweltlichung, la smondanizzazione, ciò che accade quando si perde il dialogo, il senso del rapporto vero, quando il mondo non parla più all'essente dell'essente.
L'angoscia svanisce quando cessa questa minaccia, e ciò può accadere solo quando si riaffaccia, nel campo esistentivo, la possibilità, la prospettiva dell'incontro, del dialogo che si compia con qualsivoglia modalità espressiva, dal linguaggio parlato a quello mimico gestuale, dal linguaggio del corpo a quello del sintomo psicopatologico.
Considerati in quest'accezione sia le fobie che le ossessioni appaiono un modo di difendersi dall'angoscia.
E' in tal modo, infatti, che viene consentito a queste persone di ricostituirsi un mondo e con esso la loro propria presenza, di recuperare in pratica il senso dell'esistenza.

La problematica del tempo in rapporto alla libertà di decidere

La prima problematica si collega implicitamente alla seconda. La presenza, come dimensione dell'essere-nel-mondo è, infatti, un temporalizzarsi, un porsi nel tempo.
Nel momento in cui la presenza, minacciata dall'angoscia, tende a riaffermarsi, pur con modalità psicopatologiche come la fobia o l'ossessione, si ricostituisce in una sua temporalità specificamente evidente nella periodicità con cui si riaffaccia la situazione fobica o nella ripetitività dei rituali ossessivi.
Il ricordo diviene, così, una presenza senza tempo, o più propriamente, l'attualizzazione di un qualcosa già percepito, il ritrovamento di una presenza già vissuta che trova la più suggestiva definizione nella concezione prustiana del tempo-ritrovato (le temp retrouvé).
Riproporre i termini conflittuali attraverso la simbologia fobica permette così di recuperarsi al mondo come presenza che, anche se ancora travagliata, si pone come presenza-esercitante, una presenza che può esprimersi con una forma di azione, proprio attraverso l'attuazione del rituale ossessivo.

E' facile comprendere, a questo punto, che il comportamento ossessivo non si esprime secondo un'obbligatorietà degli atti che esclude l'intenzionalità; il passato conflittuale, infatti, viene rimesso in gioco con l'implicita intenzione di provare a superare, nella sua riproposta, il conflitto originario, ed è solo così che, proprio grazie alla scelta intenzionale di attualizzare simbolicamente il passato, il fobico dischiude l'uscio alla speranza.
E l'orrore della fine cede, esorcizzato da una ripetitività senza fine.
Possiamo quindi affermare che nell'ossessivo la coscienza del tempo è alterata, monca, in quanto declinata prevalentemente nella percezione del presente e nella ritenzione del passato, risultando carente della terza componente fondamentale, la protenzione, la proiezione verso il futuro che, nel normale, si esprime mediante il senso della possibilità.

Il campo della possibilità coincide con quello della libertà in quanto una persona può considerarsi veramente libera se, mentre agisce, ha la coscienza di poter decidere liberamente, in qualsiasi momento, di agire diversamente da come sta agendo. Ma questa coscienza manca nell'ossessivo, in quanto egli ha perso il senso del poter-essere come possibilità di essere altrimenti da come è.
Sulla problematica della libertà dell'individuo in relazione al tempo la posizione di Husserl è molto chiara e viene esplicitata sia nelle "Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica", sia nelle "Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interiore del tempo".
Tale tema viene inoltre ripreso nelle "Meditazioni Cartesiane"; per Husserl la temporalità, come coscienza del tempo è un fatto prettamente soggettivo "Il tempo subiettivo si costituisce nella coscienza assoluta atemporale che non è oggetto, bensì soggetto".

La problematica del rivelarsi

La problematica in oggetto è legata alle due precedenti, in quanto rivelarsi significa farsi conoscere, mostrare ciò che si vale, letteralmente "togliersi il velo", scoprirsi, e quindi ritornare alla condizione primitiva.
Anche nel caso preso in esame traspare, come di regola nella patologia fobico-ossessiva, l'ambiguità espressa dalla necessità di ripararsi dalla minaccia di perdita della presenza e, contemporaneamente, dall'ansia del rivelarsi, del farsi conoscere, dello scoprirsi.
Tale ambiguità riflette altre discrepanze che caratterizzano il modo di essere ossessivo; nel mondo dell'ossessivo coesistono, ad esempio, autenticità ed inautenticità in una continua, lacerante contrapposizione; e la posizione fenomenologica, specie nella formulazione di Heiddeger, può fornire una chiave interpretativa di tutto ciò.
Se i concetti di essere e non essere trovano un senso soprattutto in rapporto al tempo ( il presente è, il passato era ma non è più, il futuro sarà ma non è ancora), il vero problema, secondo Heiddeger consiste nell'autenticità del tempo. Sia il presente che il passato ed il futuro possono essere vissuti in modo autentico o inautentico, traducendosi così in modo di essere o di non essere.(Heiddeger, Essere e tempo).
Tra i tanti esempi facilmente osservabili di modi inautentici, la passività, l'inerzia, l'attesa, la ripetitività, l'indecisione; a questi si contrappongono i modi autentici che sono il coraggio di fare delle scelte, la progettualità, l'impegno ideologico, l'intenzionalità relazionale che conduce alla decisione anticipatrice.

La decisione anticipatrice, l'intenzione di essere, di svolgere la propria vita dando ad essa l'impronta del divenire, la possibilità di evolversi, tutto questo, secondo Heiddeger è il modo autentico di vivere, ma è anche quello che, in quanto svolge il filo del tempo, avvicina inesorabilmente alla fine.
Per l'ossessivo, condurre la propria esistenza all'insegna dell'attesa equivale a sospendere il corso del tempo nel tentativo, peraltro vano di ripararsi dall'umano destino che è quello di morire. Ma situarsi ambiguamente tra essere e non essere, in un limbo lattiginoso ed inconcludente scandito dalla ripetitività degli atti, gli fa inevitabilmente sentire l'alito della morte dalla quale tenta disperatamente di proteggersi.
Aprirsi alla vita, esprimere i desideri, liberare le passioni, fare coraggiosamente le proprie scelte, costituisce il fondo irrivelabile del fobico-ossessivo, ed egli pertanto, nell'ambigua declinazione del "vorrei se potessi osare" sceglie di svolgere, inautenticamente, la propria esistenza.


PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 1998 - '99