PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 1997 - '98

A. M. P.
SEMINARI 1997 - '98
Rosario Merendino

Alcune riflessioni sull'esperienza psicoanalitica con pazienti affetti da tumore


      ... La volontà si sottrae periodicamente al dominio e alla direzione dell'intelletto,
      e quindi del motivi: essa allora si presenta come cieca, incomposta,
      distruttiva forza naturale e si estrinseca come tendenza ad annientare tutto ciò
      che trova sul suo cammino.

      (Schopenhauer, "Supplementi a II mondo come
      volontà e rappresentazione", VI. II, cap.32, 415)

Le mie riflessioni sul rapporto mente-soma e sul concetto di "pensiero" hanno preso le mosse dall'esperienza lunga e complessa del lavoro svolto con gli analizzandi nell'ambito delle relazioni psicoanalitiche con loro instaurate. Mi sono spesso domandato quali fattori determinavano mutamenti e trasformazioni, sia nell'analizzando che in me, ogniqualvolta la mia interpretazione di un sogno, di un atto mancato, di un gesto motorio e di una emozione, cioè un atto del mio pensiero, provocava neII'analizzando, sia pure temporaneamente, la scomparsa di un sintomo somatico o la modificazione di uno stato d'animo o l'accrescimento immediato della carica libidica che spingeva il soggetto a riflettere e, poi, ad operare e produceva in me una inaspettata intuizione o un improvviso ricordo o la comprensione istantanea di un problema personale fino ad allora rimasto oscuro o un sollievo emotivo - ogniqualvolta insomma provocava in ambedue l'allargamento dell'orizzonte conoscitivo ed affettivo. Mi sono anche domandato quali forze inconscie le mie parole stimolavano, quando, analizzando certe massicce difese caratteriali e facilitando l'allentamento del meccanismo della rimozione e della proiezione, emergevano nel paziente antiche e arcaiche angoscie che, bloccate dai meccanismi di censura proprie dell'Io e impedite dall' accedere immediatamente alla coscienza, prendevano la via del soma e si presentavano sotto forma di disturbo fisico o di vera e propria malattia con possibile esito letale, e magari risvegliavano pure in me simili angoscie mettendo in crisi il mio senso di essere e di esistere, cioè la mia identità di soggetto pensante e senziente, o addirittura, in mancanza di una pronta elaborazione mentale, indirizzandole sul soma e facendolo ammalare. Sembrava che il mio pensiero, trasmesso all'altro, avesse il potere di riattivare il suo pensiero e il suo corpo e viceversa che il pensiero dell'altro, attraverso oscuri canali comunicativi, condizionasse il mio mondo interno e la mia vita fisica. Mi sono fatto l'idea che il fattore trasformativo e terapeutico sia, in una terapia psicoanalitica, ma direi, in generale, in ogni rapporto profondo tra persone, la relazione conscia - inconscia di pensiero tra analista e analizzando, tra l'una persona e l'altra. Ciò ha significato per me che il campo dell'azione terapeutica comprende in eguale misura due componenti la coppia paziente - terapeuta. Di questa relazione il linguaggio verbale e la comunicazione preverbale, lo scambio di parole e di gesti, e espressione e strumento insieme. Ma questa idea ne implica un'altra e cioè che il pensiero lavora sempre costruendo relazioni tra sé e l'altro da sé. La mente rappresenterebbe perciò la qualità tipica ed essenziale dell'organismo psicofisico umano di escogitare ed organizzare la complessa rete delle relazioni col mondo interno ed esterno allo scopo di sviluppare e mantenere la vita. Possiamo dire che. ovunque vi è relazione - non importa se essa in alcuni casi viene negata o risulta mancante - lì vi è pensiero e viceversa.

Stimolato dall'esperienza sopraddetta, ho cercato di capire quei fenomeni di grave patologia organica che talvolta si presentavano nei miei pazienti psicoanalitici. Ho avuto pazienti affetti da leucemia mieloide, da tumore alla mammella, da Aids e da colite ulcerosa, per non parlare delle patologie spesso mortali insorte nella cerchia de miei parenti, dei colleghi e degli amici. Chi vi parla si è scontrato, a sua volta, in un passato non lontano ed in circostanze di grande stress fisico ed emotivo, con eventi di grave autoimmunità con rischio di morte.
La mia proposta teorica è, in parole molto semplici, che la malattia mortale in genere ed in particolare la malattia tumorale derivi dalla perdita precoce, oltre una determinata soglia, della capacità comunicativa del soggetto sia nei confronti del mondo esterno che nei confronti del mondo interno. In termini psicoanalitici la malattia mortale insorge quando l'Io non possiede o perde la capacita di mediare tra pensiero e realtà esterna o interna.
E' stato rilevato (Merendino 1997) che il soggetto umano rappresenta il punto nodale di una rete potenzialmente infinita di relazioni. Come apparato fisico l'individuo è immerso in un brodo energetico ambientale e vive per lo scambio continuo con esso: vi è un apparato respiratorio deputato a recepire e ad elaborare l'ossigeno; vi è un apparato digerente e metabolico deputato a recepire ed elaborare il materiale nutritivo, le proteine, i carboidrati, le vitamine e i minerali di cui il vivente umano ha bisogno e che l'ambiente offre; vi è un apparato idrotermico deputato a regolamentare il passaggio, dal fuori a dentro e viceversa, degli elementi necessari alla vita e così via. Come apparato psicomentale l'individuo lavora incessantemente a mantenere un rapporto funzionale col mondo esterno e col mondo interno tramite investimenti affettivi e di senso, coadiuvato dalla memoria, dalle tracce mnestiche degli oggetti e delle esperienze, dalle fantasie, dalle idee e dall'elaborazione intellettuale degli eventi. C'è intatti un continuo processo di comunicazione tra la percezione sensoriale, il bisogno, l'emozione, la pulsione, il desiderio, l'azione da una parte e dall'altra l'intelletto, cioè quell'istanza specifica, detta Io, che sintetizza l'esperienza e produce di essa, più o meno adeguate rappresentazioni mentali.
Un primo ambito di stabilità vitale è dunque costituito dalla comunicazione dell'apparato psicofisico mentale con gli oggetti esterni necessari alla sua sopravvivenza come individuo e come membro del gruppo; un secondo ambito di stabilità vitale riguarda l'attività intellettuale di apprendimento, di cernita e di utilizzazione delle percezioni, delle emozioni e delle pulsioni provenienti dall'esterno e dall'interno, che fungono da stimolo per il lavoro del pensiero. Ma è opportuno precisare la complessità del concetto di relazione: esso comprende tutta la gamma dei modi possibili di rapportarsi agli oggetti interni ed esterni, cioè il modo di relazionarsi per contatto e congiungimento tramite i sensi - e ciò implica la mediazione del soma -, il modo di relazionarsi per conoscenza - e ciò implica la mediazione dell'intelletto - ed infine il modo di relazionarsi per significato - e ciò implica la mediazione degli affetti e delle emozioni. Sono questi modi mediante i quali il Sé, come noi chiamiamo il soggetto pensante e senziente, introduce dentro di sé o espelle da sé gli oggetti e a sua volta viene assunto o espulso da un altro Sé. II gioco della vita si svolge fondamentalmente secondo la legge del prendere e del lasciare, del tenere dentro e del tenere fuori, dell'assumere e dell'espellere, del riempire e dello svuotare - legge che viene adempiuta con l'aiuto di quel principio basilare, regolatore degli equilibri vitali, che e' stato definito principio del piacere/dispiacere (Freud 1925). Per una informazione più completa circa i modi di relazionarsi per contatto - congiungimento, per conoscenza e per significato rimando a un mio recente lavoro "Sul concetto di pensiero", pubblicato in una miscellanea edita da Anna Ludovico dal titolo "Cervello e computer o metodo per utilizzare tecnologia e ragione".
L'esperienza ci insegna che questi tre modi di relazionarsi sono attivi, nello stato di normalità, contemporaneamente. Il contatto ed il congiungimento tramite i sensi ed il soma raggiunge intatti il suo scopo se accompagnato dalla conoscenza dell'altro e dal significato affettivo dell'unione con l'altro. Così pure la relazione tramite conoscenza e affetto si completano se accompagnati dal desiderio di unirsi all'altro mediante il contatto sensoriale, cioè mediante la presenza all'altro, e mediante la sessualità, se essa è progettualmente compresa nel rapporto. La scissione tra loro di questi tre modi operativi può invece indurre in uno stato patologico ed esprimere una limitazione della comunicazione ed un disagio psichico.

Se manteniamo come punto fermo l'assunto che, ove vi è relazione, ivi opera il pensiero, se inoltre manteniamo l'assunto che il pensiero è la matrice relazionale e relazionante dell'apparato psicofisico umano, allora non possiamo non ritenere che anche le operazioni corporee ed il corpo stesso siano condotti e sostenuti dal pensiero. Ciò che chiamiamo "mente" andrebbe pertanto considerato non come un'organizzazione a sé stante, separata e distinta, dal soma; essa comprenderebbe invece il soma, si esprimerebbe mediante il soma e realizzerebbe ogni relazione insieme al soma. Potremmo definire il soggetto umano come corpo pensante e, contemporaneamente, come mente corporeizzante. L'esperienza nell'ambito relazionale psicoanalitico m'induce a pensare che non vi è alcuna operazione mentale che non abbia una sua corrispondenza nel soma, che non vi e alcuna operazione somica che non abbia una sua corrispondenza mentale. Ma attenzione: non si tratta di un sistema dualistico composto in parallelo dalla mente e dal corpo, come se questi due ambiti andassero sempre insieme in perfetta concordanza; la "corrispondenza" di cui sopra non è definibile come complementarità e polarità di due realtà in sé distinte che coabitano e interagiscono strutturalmente tra loro. II soma è una operazione del pensiero cosi come lo è la mente; sono due modi di essere di un unico organismo e di un unico soggetto umano. Non è difficile capirlo, se teniamo presente il fatto che il concepimento, donde ha luogo la generazione di un nuovo soggetto umano, è l'operazione congiunta di due strutture pensanti, cioè della relazione di due individui mente - corpo; il loro prodotto è dunque una unità insieme fisiologica e mentale, è un soggetto umano potenzialmente capace di pensare e di agire. L'embrione, come dopo il neonato, il bambino e l'adulto sono fin dalla loro origine dotati di quella qualità che abbiamo chiamato pensiero, onnicomprensiva del corpo e della mente, principio attivo di ogni operazione relazionale. Tutto ciò significa che noi, curando la mente, curiamo anche il corpo e, curando il corpo, curiamo nello stesso tempo la mente.

Torniamo adesso a considerare la malattia. Sottolineo quanto ho detto all'inizio: la malattia si manifesta, in forma graduale per intensità e gravità, ogni qual volta la comunicazione verso l'esterno e la comunicazione all'interno diminuiscono fino a ridursi ad un minimo oltre il quale il Sé mente - soma non può più garantire la vita e si dissolve. Possiamo dire, in termini più specificatamente psicoanalitici, che la malattia fisica e la malattia mentale, separate o insieme, sono il segno di una riduzione della capacità relazionale del soggetto e quindi rivelano una disfunzione che, se non bloccata per tempo, diviene letale per il mantenimento della vita. II problema è serio, se si pensa che la maggior parte delle difese (l'idealizzazione, la scissione, la rimozione, la negazione ed altro) costruite dal soggetto per regolamentare i rapporti comunicativi con l'esterno e col Sé comprende, in varia misura, la riduzione della capacità relazionale del soggetto e, spesso, del gruppo umano, in cui egli è inserito.
La psicoanalisi ha il precipuo scopo di curare e ripristinare nella giusta misura la relazionalità del soggetto; essa pertanto è essenzialmente finalizzata a contenere entro limiti accettabili e perfino ad eliminare i processi patologici, non solo quelli psichici e mentali ma anche quelli organici, se questi non sono ancora giunti oltre la soglia della irreversibilità. Lo psicoanalista non dà farmaci, ma cerca di creare nel sofferente le condizioni mentali necessarie al superamento totale o parziale della crisi comunicativa sia in direzione del mondo esterno che in direzione del mondo interno. I farmaci sono indispensabili per ripristinare l'equilibrio chimico, energetico e funzionale dell'apparato; ma i farmaci non hanno effetto di per sé, se la mente del soggetto non è in grado di accettarli e di assimilarli. Ripeto ciò che ho appena detto: è un assunto fondamentale della psicoanalisi che non vi sia evento mentale che non abbia la sua corrispondenza somatica, e che non vi sia evento somatico che non abbia la sua corrispondenza nella mente. Naturalmente la psicoanalisi si domanda che tipo di corrispondenza vi sia in ogni caso singolo, ma occorre assumere che non si tratti mai di una corrispondenza materiale, quanto piuttosto di una corrispondenza di senso. Che il farmaco entri nel circolo attraverso la cannula di una flebo, non significa che la mente ipso facto accolga e faccia proprio il farmaco; essa accoglie il farmaco soltanto se escogita un senso per questo accoglimento e quindi se, in base al senso escogitato, il farmaco può essere accolto nel Sé - perché non si tratta mai di un accoglimento nell'apparato, ma di un accoglimento nel Sé, cioè di un atto che viene ritenuto, arbitrariamente, come rafforzamento del senso di sé, della propria immagine e della propria identità di soggetto senziente e pensante.
Nel momento in cui il medico o lo psicoanalista incontrano il paziente sorge e poi si sviluppa una relazione tra loro, una nuova relazione tra le tante che ciascun componente la coppia terapeutica possiede. Vi è una affinità basilare tra i due, perché ciascuno di loro è un apparato psicofisico mentale dotato di tutte le funzioni che abbiamo sopra enumerato. E poiché l'apparato dell'uno è ed ha II suo specifico linguaggio che si esplica nello svolgimento di tutte le funzioni fisiche, psichiche e mentali che ben conosciamo, esso è naturalmente predisposto a comunicare con l'apparato dell'altro, cioè a intendersi con l'altro. Il linguaggio del Sé come struttura psicocorporea è universale ed è dato : ovunque vi sia un individuo umano vi è una comunanza e una reciprocità sul piano delle percezioni sensoriali, delle emozioni, degli affetti, delle azioni e dell'intelletto. E' possibile vedersi, parlarsi e capirsi tramite il medesimo linguaggio corporeo e mentale che ciascuno condivide con l'altro.
Non è comune invece l'insieme arbitrario delle fantasie, delle rappresentazioni, delle immagini e del senso di sé che ciascun individuo si è formato nel corso della sua evoluzione e della sua storia personale. Anzi le ricerche sulla vita mentale neonatale ed infantile provano a sufficienza che un'idea di sé e del rapporto con la madre il piccolo se la forma fin dalle prime ore di vita e che questa idea è determinante nel processo di formazione delle prime difese e della capacità comunicativa. Dico arbitrario perché questo insieme di rappresentazioni e di idee è dovuto all'inventiva del soggetto, non è prevedibile, può cioè prendere una configurazione e può pure prendere una configurazione diversa a seconda delle circostanze. C'è pertanto una singolarità che distingue le persone e che occorre conoscere e comprendere per poter comunicare e dar garanzia al sereno svolgimento delle funzioni della vita e dell'esistenza.
La malattia non riguarda direttamente il linguaggio dato e universale del Sé psicocorporeo, ma riguarda in prima istanza la singolarità, l'idea che il Sé possiede di se stesso. Infatti è proprio questa idea ad influenzare in maniera determinante la capacità del soggetto a comunicare col mondo esterno e tra sé e sé, tra intelletto e istintualità; in altri termini è quest'idea che può interpretare e utilizzare il linguaggio universale psicocorporeo in un senso o in un altro. E' questa idea di Sé a sviluppare le vie e le regole della complessa rete relazionale verso l'interno e verso l'esterno, a costruire cioè le difese e a costituire i comportamenti atti a rendere la vita pienamente possibile e godibile.

Cercherò di esemplificare la proposta che vi ho esposto con un esempio clinico recente. Una mia ex paziente mi chiede, dopo alcuni dalla fine della sua analisi, di riprendere i contatti con me. Da tempo si sta aprendo agli affetti dopo aver trascorso lunghi anni in una condizione di asetticità completa. Ciò la porta sempre più ad analizzare ed elaborare la dimensione affettiva e sessuale che non è stata mai vissuta e che adesso si presenta come un bisogno cui non è giusto né possibile sottrarsi. Riemergeva, come una specie di colpo di coda, II problema fondamentale della paziente: la non comunicazione tra il livello istintuale e l'intelletto, la negazione della propria istintualità - che l'intelletto, questa essenziale istanza elaborativa dell'lo, aveva operato privilegiando la costituzione di un sé idealizzato e monadico - di conseguenza la non comunicazione tra l'apparato psico - fisico - mentale e il mondo esterno come fonte di stimoli, di bisogni e di soddisfacimenti - niente amore, niente sesso, niente amicizie, niente piacere, niente desiderio, niente fede.
Riprendiamo i nostri incontri col ritmo di una seduta settimanale. II discorso analitico mira ad elaborare una definitiva separazione dalla madre, la quale si era sempre imposta alla figlia come unico polo affettivo. Occorreva a questo proposito continuare a fare il duro lavoro, già iniziato nell'analisi precedente, di disidentificazione dalla madre che da sempre aveva proiettato sulla figlia l'idea che l'uomo, inteso come maschio, è un essere immorale a cui ci si doveva sottrarre con la rinuncia sistematica all'attività sessuale e all'affetto coniugale. E' comprensibile, in questo quadro, che la madre non veda di buon occhio la ripresa dell'analisi della figlia; cerca con tutti i mezzi di trattenerla presso di sé di impedirle l'analisi. Abbiamo anche qui uno stato di non comunicazione: scissione tra l'intelletto e il mondo istintuale, che non permette di riconoscere I bisogni elementari della vita, e scissione tra sé e la realtà con le sue esigenze e le sue relazioni affettive.
Ma ecco che la madre si sente male. Dalle analisi risulta il risveglio del tumore che l'aveva colpita poco dopo l'inizio della prima analisi della paziente; non appaiono metastasi diffuse, però la malata ha difficoltà respiratorie che affaticano il cuore. II gruppo familiare fa corpo unico intorno alla malata, in parte negando in parte minimizzando la malattia, ma soprattutto nascondendo alla mia paziente il vero stato delle cose, considerata la sua fragilità emotiva, a loro dire. Ma la paziente si rivolge di sua iniziativa al team di esperti che già aveva avuto la madre in cura e apprende la verità. Contro il parere di tutti e non cedendo alle seduzioni materne che inscenano, ogni volta che lei deve andare in analisi, crisi acute, la paziente continua puntualmente la sua analisi. Ma deve fare i conti con i sensi di colpa per la mancata devozione verso la madre e con un ansia crescente che tocca la soglia dell'insopportabilità. Tuttavia la paziente mantiene pienamente la sua capacità di analizzare e di mediare tra sé e la realtà. E questo rende efficace il nostro lavoro.
Ma stranamente io comincio ad avvertire insofferenza verso la paziente che, tutte le volte, mi riversa addosso le sue ansie, i suoi sensi di colpa e la sua disperazione. Dico "stranamente", perché nel corso di lunghi anni mai avevo provato sensazioni del genere, anzi avevo sempre sentito gradevole la paziente, perché molto collaborativa. II mio controtransfert segnalava l'azione di una intensa identificazione proiettiva su di me da parte della madre e, contemporaneamente, da parte della paziente stessa. L'oggetto Sé separato, che io rappresentavo agli occhi della madre, veniva attaccato dall'odio nel tentativo di ridurre la mia comunicatività e di annullare il rapporto maturativo che si era instaurato tra la paziente e me; dall'altra parte la paziente volgeva verso di me, che nel transfert fungevo da madre possessiva oppressiva e repressiva, quale era la madre reale, II suo odio vendicativo. Una duplice minaccia di morte faceva pressione su di me. Con la paziente potevo parlare, ma con la madre no.
Mi trovavo in questo periodo in una fase di intensa elaborazione del lutto dovuto alla perdita di un importante legame istituzionale ed affettivo insieme. Al venir meno della comunicazione ufficiale col gruppo si sostituiva il tentativo di ripristinare una comunicazione con esso tramite il lavoro del pensiero e la ricerca di un nuovo senso della propria identità, libera da relazioni formali ma ricca di relazioni di significato e di conoscenza. Ed ecco che II lavoro con la paziente apre le porte ad un'ulteriore messa in crisi della mia capacità relazionale e terapeutica. II mio controtransfert manifesta una latente spinta a troncare la comunicazione con la paziente che è alle prese con un forte attacco al legame. Ciò nonostante la comunicazione continua, sia con lei in quanto parte del mondo esterno, sia con me stesso tramite l'autoanalisi e l'analisi. Succede l'imprevisto: il ripetuto disequilibrarsi della tenuta glicemica alternante dal basso all'alto mi provoca una irritazione del rene destro, con produzione impropria di emazie e di emoglobina nell'urina e di un blocco intestinale, e mi costringe al pronto soccorso con conseguente ricovero. Non posso ricevere per alcuni giorni i pazienti, ma torno a casa dopo sei giorni, in tempo per incontrare la paziente. Mi sento piuttosto malconcio, riesco tuttavia a sostenere la fatica del lavoro analitico. La questione che mi tormentava era quella di spiegare la mia malattia. Mi domandavo con urgenza che rapporto c'era, se c'era, tra la malattia della madre e la mia. Lavorammo sui sogni e sulle libere associazioni; contemporaneamente seguivo I miei sogni che si caratterizzavano, in questo periodo, per un forte senso di sconfitta e d'impotenza di fronte a personaggi che attentavano all'identità morale della mia persona. Dal materiale emerso mi sono fatto un'idea di quanto poteva essere successo. II Sé narcisistico onnipotente della madre, non potendo più ottenere soddisfacimento dalla figlia, che stava completando il suo cammino di individuazione - separazione, né potendo tollerare la ferita e la frustrazione derivanti da quel processo trasformativo, gioca la sua ultima carta, il ricorso all'attacco distruttivo che porti ad un esito catastrofico per tutti. La malattia mortale mette in mostra ed attua il progetto di morte universale: il Sé della madre tenta di incatenare a sé la figlia, s'impadronisce del suo tempo e delle sue forze, esige una totale attenzione e dedizione fino a condurla allo sfinimento fisico e psichico. Naturalmente entra in competizione col Sé dell'analista che continua il suo lavoro settimanale con la paziente. Ma II Sé dell'analista non sarebbe in grado di opporre resistenza al Sé della madre se non potesse attingere forza dal proprio assetto narcisistico arcaico. I due Sé, quello che attacca e quello che controattacca, coincidono, ma il loro intento è essenzialmente diverso: il primo è orientato alla distruzione della vita mentale - somica, il secondo viene orientato dall'lo funzionante a proteggere la vita ed il pensiero.
In breve tempo i due schieramenti si delineano e si definiscono con chiarezza. II Sé narcisistico della madre da una parte, teso a distruggere la rete relazionale dell'lo trascinando nella fine tutti coloro che contrastano la sua opera di morte, il Sé narcisistico dell'analista che non cede ed incrementa con tutte le forze il movimento d'individuazione - separazione della figlia. Ma l'odio, che è il motore del Sé narcisistico onnipotente della madre, raggiunge l'analista e scuote, risvegliandolo, il suo odio antico. II senso d'insofferenza verso la paziente cede il posto ad un senso di rabbia vendicativa verso il Sé materno. Con la differenza che, mentre l'odio della madre si diffonde e travolge, oltre alla madre stessa, la figlia ed parenti, l'odio reattivo dell'analista, contenuto e controllato dentro se stesso dall'lo, non passa all'agire, ma viene tenuto in buona parte nell'ambito dell'elaborazione mentale. La parte che resta temporaneamente non elaborata cerca urgentemente un contenimento, ma non trovandolo nell'immediato, defluisce e si scarica nel soma dell'analista, che si ammala, e provoca, oltre allo squilibrio glicemico, dolori renali e addominali che fanno, in fase diagnostica, ipotizzare la necessità di un intervento chirurgico. Ma il disturbo è di breve durata, anche se le conseguenze di debilitamento e di astenia si protrarranno per circa due mesi.
Attualmente l'analisi continua, ma la situazione della madre si aggrava lentamente anche se inesorabilmente. La paziente sta cercando di capire ed elaborare il suo odio per la madre; comincia a discernere che l'odio si riferisce all'assetto difensivo narcisistico distruttivo e che la madre è vittima inconsapevole della propria difesa arcaica onnipotente e, come tale, merita pietà; comincia a capire che si può amare la madre, pur nella necessità di contenere con fermezza entro limiti tollerabili la sua spinta coatta a dominare il mondo.

Questa esperienza recente ha cominciato a gettar luce nella mia mente sulla specificità mentale del tumore maligno. Stando al caso esposto, esso sembra insorgere in soggetti che, per motivi difensivi, si sono costruiti un'immagine di sé ed un carattere essenzialmente monadici ed hanno alimentato un sistema di controllo onnipotente dei rapporti affettivi e delle relazioni sociali. Ne è derivato un Sé narcisistico profondamente autarchico e scisso dall'Io, nel senso che l'lo viene organizzato, spesso in forma ossessiva o maniacale, in funzione del Sé e non del rapporto con la realtà. Possiamo quindi ritenere che il tumore sia una tipica manifestazione del Sé arcaico arelazionale ed esploda nel momento in cui il controllo onnipotente della realtà, vista e sentita come persecutoria, sfugge di mano. Questa esplosione può essere considerata come l'estremo tentativo, in alternativa al delirio paranoico, di mantenere il potere e annullare la ferita e la frustrazione narcisistiche. II tumore maligno esprime tutta la virulenza distruttiva del Sé arcaico arelazionale che si trasforma in Sé persecutorio: Si manifesta intatti come evento invasivo che toglie sempre più spazio alle organizzazioni fisiologiche funzionanti e vitali fino ad attaccare organi essenziali alla vita, come se essi fossero delle entità persecutorie da scindere, paralizzare ed eliminare. Esso attenta fondamentalmente alle relazioni biologiche e fisiologiche e agli scambi energetici che costituiscono e garantiscono il buon funzionamento degli apparati di cui si compone l'organismo, mentre vengono inconsciamente visti e sentiti come maligni e minacciosi. In linea di massima possiamo inoltre pensare che gli altri tipi di malattia, mortali o no, siano dovuti in larga misura a disfunzioni deII'Io con riguardo particolare alla difficoltà di costruire valide difese nei confronti di traumi affettivi ed emotivi. C'è un Io che media rapporti con la realtà, ma non è sempre all'altezza della situazione a causa di un manchevole pensiero o di una insufficiente o inadeguata carica affettiva ed emotiva. Ma non c'è una visione persecutoria non elaborabile della realtà. Naturalmente occorre, anche qui, attenersi al caso particolare.
In sintesi: i soggetti affetti da tumore maligno presentano un assetto psicomentale caratterizzato da una forte angoscia persecutoria nei confronti delle relazioni con gli altri e con se stessi; essi si difendono assumendo un'idea autarchica e narcisistica di sé ed un controllo onnipotente verso le relazioni. II loro Sé monadico onnipotente si trasforma, nel caso sorga una inarrestabile incontrollabilità delle relazioni in Sé narcisistico distruttivo. La malattia tumorale è rappresentabile come l'estremo tentativo di recuperare ed attivare l'onnipotenza allo scopo di annullare il presunto attacco persecutorio da parte di una rete relazionale che si evolve e si muove al di fuori e indipendentemente dal Sé narcisistico del soggetto. Ma non potendo colpire a morte la realtà che si evolve, il Sé attacca le parti vive di se stesso e si autoelimina.

A causa delle dinamiche proiettive insorgenti tra malato e terapeuta (medico o psicoanalista) può accadere che quest'ultimo regredisca al livello primitivo del proprio assetto narcisistico e possa coincidere col Sé narcisistico del malato per competere con esso. L'Io evoluto del terapeuta è o dovrebbe essere in grado di superare analiticamente la coincidenza e di passare a livelli più differenziati di relazione. Se in molti casi non è più possibile condurre il malato a guarire, è tuttavia pensabile che una relazione matura e comunicativa tra terapeuta e malato possa realizzarsi e produrre nel sofferente sollievo e serenità. E' possibile che il malato a contatto col terapeuta riscopra almeno parzialmente il senso di sé in armonia con gli altri e che ciò gli renda accettabile la vita e, con essa, la morte.

Roma, il 21.8.97

Bibliografia

- De Rosa E., Zerbino E., De Rosa G., Corsello S.M., "La relazione psicosomatica. Studio metodico sul paradigma deII'anoressia mentale". Edizioni Borla, Roma 1983.
- Freud S., (1925), La negazione, 0SF 10, 197-201.
- Merendino R.P., Sul soggetto analitico. Per una definizione del concetto di campo, in
"Pensare la psicoanalisi. Elaborazioni di esperienze cliniche". Franco Angeli, Milano
1997, 24-45.
- Merendino R., Sul concetto di pensiero, in "Cervello e Computer o Metodo per utilizzare tecnologia e ragione, a cura di Ludovico Anna, Lithos editrice, Roma 1997, 95-105.


PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 1997 - '98