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A. M. P.
SEMINARI 2001 - 2002
Prof. Luigi Frighi

Il culto dei morti e il pellegrinaggio cristiano alle tombe dei defunti.
Considerazioni storico-antropologiche.


La mia relazione può prendere l'avvio dalla constatazione che l'uomo ha, da sempre, ricavato dall'itinerario della sua esistenza terrena, più o meno breve, un sentimento di precarietà che ha espresso mediante speculazioni filosofiche, immagini artistiche, metafore letterarie.
Una similitudine tra le più convincenti, propria del pensiero greco-romano, fu quella di confrontare le vicende della vita con quelle di una rappresentazione teatrale (theatrum vitae) nella quale gli uomini finiscono per agire come attori (mimi) di uno spettacolo più o meno esaltante.
Si può ricordare, a questo proposito, il commiato di Augusto dalla vita, come viene narrato da Svetonio, con l'invito ad applaudire perché la recita era riuscita bene sino in fondo.
Un altro modo di esorcizzare lo sgomento provocato dall'effimero fluire dell' esistenza, consistette nel medievale concetto del contemptus mundi, disprezzo talmente globale del mondo da non valere la pena di restarvi a lungo.
Più avanti, il pensiero dell'uomo escogitò altre vie: l'illuminismo e la costante ricerca della supremazia della ragione sulla dimensione del sacro e del contenuto delle tradizioni, in una visione sempre più antropocentrica degenerata nell'illusione di un progresso senza fine.
A questo punto sarebbe interessante confrontare la coreografia del ballo Excelsior, celebrante, agli inizi del secolo scorso, il trionfo dell'uomo tecnologico, con l'iconografia della dance macabre del quattrocento, dai significati premonitori più che evidenti.
Ancora, e più recentemente, il tentativo di superare la finitudine della condizione umana si è manifestata attraverso le fantasie di conquiste planetarie e di immersione in un universo sottratto ai nostri parametri spazio-temporali.
Tuttavia, e con chiara evidenza, l'esorcisma umano più antico e tuttora validamente operante, è quello di ritenere possibile un prolungamento della vita al di là della morte.
Esso coincide con il rifiuto inveterato di assimilare la fine dell'essere alla dissoluzione fisica e con l'affermarsi della coppia cristiana costituita dall'anima immateriale ed eterna e dal corpo materiale e mortale, concezione che lo studioso Schmitt collega a quella pagano-germanica di un doppio, quasi fisico, che sopravvive alla morte.
Questa opinione, indubbiamente consolatoria, a prescindere da specifiche credenze religiose, ha tutta via contribuito a creare, nella rappresentazione mentale degli esseri umani, la fantasia di un confine fluttuante tra la vita e la morte.
Alla precarietà dell'esistenza terrena veniva a contrapporsi un mondo popolato da presenze non definitivamente collocate, bensì passibili di ritorni inquietanti da cui occorreva premunirsi o difendersi con una serie di cerimonie rituali il cui anello terminale era costituito dalla sepoltura.
Occorre tenere presente che l'esistenza di aree riservate alla dimora dei trapassati, presuppone, dal punto di vista culturale, un livello di organizzazione avanzato della comunità e si struttura in forme diverse, nello spazio e nel tempo.
Infatti, i problemi legati all'ideologia funeraria di un'epoca si intrecciano talmente con fattori religiosi, sociali e di potere da costituire, nell'insieme, una complessità di difficile interpretazione.
Lungi quindi dall'intento di poter affrontare, anche in minima parte, siffatta problematica, si darà luogo ad accenni e suggestioni storico-letterarie che, in qualche modo e nei limiti di una non specifica competenza, potranno servire da filo conduttore dell'intero discorso.
Per quel che riguarda la Grecia antica, le fonti principali di conoscenza in questo ambito sono le descrizioni dei rituali funerari reperibili nei poemi omerici e il notevole repertorio di immagini che decorano la ricca produzione in ceramica, sopratutto ad Atene.
Ad esempio i versi omerici dell'XI libro dell'Odissea documentano il destino dei mortali (psichè) dopo la morte biologica immaginata come la fuori uscita della psiché dalla bocca o da una ferita.
Quando la psichè che durante la vita ha rappresentato nel corpo la conditio si ne qua non di ogni funzione corporea, spirituale ed emozionale, si libera, dopo la morte dell'involucro del soma, la vita umana viene a cessare e ciò che rimane risulta materia inerte.
L'anima che aveva reso possibile la vita, continua a vivere nell'Ade, precisamente come idolo, figura umbratile senza memoria, individualmente determinata, nella sua apparenza esteriore, dall'aspetto fisionomico dell'essere umano che una volta aveva animato ed è questo che permette ad Ulisse, nella sua catabasi all'Ade, di riconoscere la psichè di sua madre Anticlea.
Nella concezione dell'universo greco, la posizione dell'Ade, dimora dei defunti, è immaginata al di là dell'Oceano che racchiude l'ecumene a mò di anello liquido.
L'ubicazione è quanto mai vaga e, infatti, la nave di Ulisse, per raggiungerla, deve arrivare ai confini dell'Oceano profondo dove si trovano il popolo e le città dei Cimmeri, siti e popolazioni che appartengono al regno delle favole, anche dal punto di vista geografico e fanno parte di quel mondo irrazionale che giace al di là del mondo reale, lo circonda ed è a sua volta lambito dall'anello del fiume Oceano al di là del quale non esiste più nulla.
La rappresentazione di una terra mitica, nelle vicinanze dell'Ade, avvolta in torbidi vapori e in nuvole di nebbia che il sole non riesce a trapassare, ha il suo contrapposto nella concezione di terre, ugualmente mitiche, situate nello splendente oriente, segnalate come Olimpo, Elisio, Isole Beate.
Per il defunto non esiste nell'aldilà alcuna speranza; l'unica preoccupazione che sembra affliggere i personaggi omerici è quella di non venire adeguatamente sepolti e quindi privati di ciò che è dovuto ai morti: concetto che comprende il cerimoniale funebre, i doni, la costruzione della tomba, la sepoltura e il rimpianto. Tutto questo è ben evidenziato dall'impellente richiesta ad Ulisse da parte di Elpenore, già membro del suo equipaggio, rimasto sulla soglia dell'Ade, di ricevere quella sepoltura che gli era mancata in quanto i suoi compagni non si erano accorti della sua morte.
Quando più tardi, nella storia della Grecia, l'attenzione si sposterà sempre più dalla comunità all'individuo, il riscatto dalla morte solo formalmente rimarrà alla memoria collettiva, mentre sempre più imperiosa risulterà l'adesione a concezioni misteriche, evidenti nel diffondersi dei riti eleusini, nei quali risultava esplicito l'aspetto soteriologico della promessa di una salvezza individuale.
Come scrive Aries, nella sua esemplare: Storia Della Morte in Occidente, nonostante la loro familiarità con la morte, gli antichi temevano la vicinanza dei morti e li tenevano in disparte.
Onoravano le sepolture, ma uno degli scopi dei culti funebri era quello di impedire ai defunti di tornare a turbare i vivi.
Poiché il mondo dei vivi doveva essere separato da quello dei morti, a Roma la legge delle Dodici Tavole proibiva di sotterrare i morti all'interno della città.
La parola funus significava insieme il cadavere, i funerali e l'assassinio, mentre funestus indicava la profanazione provocata da un cadavere.
Per questa ragione le necropoli erano situate fuori della città, lungo le vie consolari.
Il Codice Teodosiano ripete lo stesso divieto al mondo cristiano perché sia preservata la sanctitas delle case degli abitanti e, in un primo tempo, le sepolture avvengono in cimiteri fuori delle mura cittadine.
Un secolo dopo, malgrado i divieti del diritto canonico, con l'inizio e il propagarsi del culto dei martiri, morti molto speciali come opportunamente li chiama Peter Brown nel suo libro: La società e il sacro nella tarda antichità, i morti rientrano nelle città da cui erano stati banditi per millenni, tanto è vero che, nel linguaggio medievale, la parola chiesa non designava soltanto gli edifici ecclesiastici, ma anche il cortile antistante destinato a cimitero.
Tornando al concetto religioso, più o meno vivo nella tradizione popolare, connesso al timore dei viventi di una commistione coi defunti, si può fare riferimento per quel che riguarda il mondo greco antico, ad un tentativo di superamento delle ansie che derivavano da quella credenza, attraverso un tipo di rappresentazione che ha trovato la sua espressione più significativa nella ricorrenza delle festività ionico-attiche degli Anthesteria, riti durante i quali le anime ritornavano sulla terra, si mescolavano ai vivi e venivano da essi ospitati.
Se ci spostiamo dal mondo greco a quello romano ci accorgiamo che, in questo ambito, il significato del rituale del mundus corrispondeva, in una certa misura con quello delle Anthesterie, in quanto esprimeva il tentativo di regolamentare un eventuale ritorno dei morti, sia spazialmente che temporalmente.
Il mundus, infatti, nella descrizione che ne fa l'autore latino Festo, corrispondeva a una fossa a due piani ed era consacrato agli dei inferi e a Cerere, dal momento che le potenze degli inferi e le divinità della vegetazione presentavano culti strettamente connessi tra loro.
Sempre secondo Festo, la parte inferiore del mundus, consacrata agli dei Mani, era chiusa per l'intero anno, tranne che per tre giorni: 24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre. Questi giorni di apertura (mundus patet) in cui gli spiriti dei morti tornavano tra i viventi, erano considerati pericolosi e in essi era proibito condurre ogni genere di affari e di manifestazioni pubbliche.
Quantunque non si sia mai giunti ad una localizzazione esatta del mundus (al Palatino, nel luogo dei Comizi al Foro, all'incrocio del cardo col decumano massimo?) è ovvio che esso doveva avere un indubbia rappresentazione spaziale.
Secondo De Martino, il simbolo mundiale configurava il cielo e la terra, il sopra e il sotto, concentrando in sè lo spazio cosmico e culturale.
Il ritorno dei morti attraverso il mundus, spazialmente definito era altresì contenuto temporalmente in tre precise giornate per cui si può ragionevolmente supporre che il contesto rituale riuscisse perfettamente nello scopo di sollevare i viventi dalla minaccia di un ritorno caotico degli spiriti altrimenti incontenibile.
Per quel che riguarda, invece il discorso teologico cristiano sul culto dei morti, Morin ritiene che esso cercò, sostanzialmente, di trasformare delle società arcaiche in società metafisiche che accettassero l'idea di una totale separazione tra i vivi e i morti, respingendo le apparizioni dei morti, gli spettri e i fantasmi nell'area delle competenze diaboliche.
Da notare che manca in italiano l'esatta traduzione del termine francese revenants che contiene in sè l'idea del ritorno dei morti sulla terra sotto forma di apparizioni.
Tuttavia, tale sforzo trasformativo, cui accennava Morin, non è mai stato facile nè si è mai tradotto in risultati definitivi.
Un primo, notevole ostacolo consistette nel dover superare la concezione di un tempo circolare, presupposto dell'eterno ritorno e accettarne una relativa a un tempo svolgentesi in linea retta, con un principio e una fine.
L'aspettativa messianica della religione ebraica era un esempio di quest'ultima concezione del tempo, ma si sa quanto fu difficile per gli stessi ebrei mantenerla dal momento che i ritorni periodici del popolo ebraico verso l'idolatria, sono stati spiegati come manifestazioni esteriori del rifiuto di valorizzare la storia e quindi di considerarla nei termini di una teofania.
Lo Sheol, parola di origine incerta, usata per designare il soggiorno dei morti, luogo dove essi discendono e sperimentano desolazione e caos nella totale confusione tra buoni e cattivi e dove i morti (i Refaim) non possono nemmeno lodare YAWH, né i vivi potevano andare oltre il cordoglio (manifestazione di una comprensibile pietà funebre) e tanto meno sconfinare nei culti di venerazione degli antenati. Sembra anzi che alcuni episodi di idolatria riferiti al culto dei Bal, idoli cananei, siano stati, in realtà, tentativi da parte degli ebrei di istituire cerimonie e sacrifici dedicati ai defunti intesi come antenati e attuare in questo modo un insieme di pratiche che potevano pericolosamente competere con l'esclusivo culto di YAWH, sostenuto dalla casta sacerdotale.
D'altra parte, la rappresentazione veterotestamentaria dello Sheol era quella di una civitas munita, una cittadella cinta di mura e dotata di porte chiuse da chiavistelli.
Un altro problema diverso da quello della temporalizzazione, che il cristianesimo dovette affrontare, al fine di operare una netta separazione tra vivi e morti, fu quello dell'ubicazione ultraterrena dell'anima.
Era, infatti, diffusa la tacita convinzione che il morto fosse presente, simultaneamente, nella tomba e in qualche dimora spirituale.
Come scrive Mircea Eliade, siffatta concezione della plurilocazione dell'anima che risulta prevalere nel mondo mediterraneo, fu ugualmente accolta dalla chiesa cristiana.
D'altra parte, non potrebbe spiegarsi altrimenti il culto particolare riservato ai Martiri della Chiesa dei primi secoli.
Lo testimoniano, tra l'altro, l'usanza del refrigerium presso le loro tombe (modeste libagioni in onore del defunto venerato, consumate nelle prime agape cristiane) e, ancor più, l'ambita sepoltura nei retrosanctos, cioè nelle tombe il più vicino possibile al corpo inumato del martire, al fine di riceverne la spinta a salire direttamente in cielo.
Vi furono, durante il medioevo, a riprova della difficoltà ad accettare interamente l'idea relativa a un distacco totale dell'anima dal corpo, credenze ben salde legate al prolungamento della vita terrena di una categoria di morti privilegiati: i santi, attraverso le reliquie.
Significative sono anche le notizie storiche che riguardano il trattamento riservato a cadaveri riesumati per essere tratti in giudizio o per essere sepolti altrove.
Si può ricordare, a questo proposito, che nell'anno 897 fu proclamato da papa Stefano VI un bando per un giudizio solenne contro papa Formoso, deceduto l'anno prima.
Il morto venne citato a comparire di persona dinanzi al tribunale di un sinodo.
Il cadavere del Papa, estratto dalla tomba, venne rivestito dei paludamenti pontifici, deposto su un trono e, alla fine del processo, non avendo potuto difendersi per ovvie ragioni, trascinato per le vie di Roma e, tra le urla della plebaglia, gettato nel Tevere.
Un altro esempio può esser tratto da quel che accadde alle ossa di Manfredi, dissepolte e traslate "a lume spento, sine cruce, sine luce, di fuor del Regno", su comando del papa Clemente IV.
L'episodio che commosse Dante (III canto del Purgatorio) sta a dimostrare che anche le ossa di uno scomunicato potevano alloggiare qualche residuo dell'anima maledetta del defunto, dal momento che era necessario spostarle al fine di evitare che contaminassero un luogo appartenente alla chiesa, seppure come feudo.
Da ultimo, si può ricordare la leggenda "metropolitana" medievale relativa al rumore delle ossa che venivano percepite come provenienti dal sepolcro di papa Silvestro II, a quel tempo collocato nella basilica di S. Giovanni in Laterano.
Il rumore delle ossa e un rigagnolo di acqua scaturente dallo stesso monumento costituivano secondo la leggenda segnali indubbi dell'imminente decesso del papa in carica.
Tralasciando altre semplificazioni sull'argomento, è giunto il momento di puntualizzare un'altra credenza, ugualmente importante e diffusa, che si riferiva alle frequenti apparizioni di morti che tornavano a visitare ambienti che erano stati a loro familiari.
A parte l'ovvia funzione delle pesanti pietre tombali che dovevano impedire ai morti di frequentare il mondo dei vivi, esiste una vastissima letteratura sui fantasmi e gli spettri e sulle cavillose distinziosi tra apparizioni frutto di fantasie inquietanti ed altre considerate immagini veritiere di una sostanza priva di corpo.
D'altra parte, l'introduzione del suffragio delle anime dei defunti venne indubbiamente favorito dal racconto dell'apparizione di morti dall'anima in pena che chiedevano di essere liberati dalle sofferenze inflitte loro nell'aldilà.
Dalla vita dell'abate Odillon, scritta dal cardinale Pier Damiani, si ricava un episodio che viene riportato nella Leggenda Aurea di Iacopo da Varazze e dal quale si evince come l'abate in questione, avendo scoperto che nei pressi di un vulcano in Sicilia si udivano, sovente, le urla e le grida dei demoni che si lamentavano perché le anime dei defunti venivano spesso strappate dalle loro mani, grazie alle elemosine e alle preghiere, ordinò che nei monasteri cluniacensi a lui sottoposti, si celebrasse, dopo la festa di tutti i santi, la commemorazione dei defunti.
L'istituzione di una precisa giornata, il 2 novembre, dedicata alla commemorazione dei defunti fu dovuta, per l'appunto, all'abate di Cluny in un'epoca compresa tra il 1024 e il 1033 e venne in seguito approvata dalla Chiesa.
Essa costituì senza dubbio, una forte difesa per i cristiani contro il ritorno inquietante dei morti, allo stesso modo che il rituale del mundus aveva agito nell'ambito della società romana.
La geografia, cioè il reperimento spaziale della dimora dei morti (è dei secoli XI e XII la nascita definitiva del Purgatorio) e la temporalizzazione (iscrizione di una data precisa di commemorazione nel calendario liturgico) costituirono i parametri entro i quali andò a strutturarsi un efficace contesto rituale reso patente dal pellegrinaggio del 2 novembre ai cimiteri cristiani.
L'imposizione di una specifica data poteva, inoltre, rappresentare il punto di raccordo tra numerose logiche temporali destinate ad incrociarsi in modo che il tempo individuale proprio del morto (la data del suo decesso, il tempo che è trascorso in seguito) veniva a combinarsi con i tempi collettivi (sopratutto liturgici) che valorizzano certi momenti dell'anno.
Malgrado le barriere erette contro il paventato ritorno dei morti, nel corso dei millenni fu sempre altrettanto forte il desiderio di compiere un viaggio nell'aldilà, come è dimostrato dai miti, poemi, estasi e riti ad esso connessi.
Secondo Ginzburg, la struttura delle fiabe di magia imperniate sulle peregrinazioni dell'eroe, rielabora il tema del viaggio dell'anima, dell'iniziando e dello sciamano nel mondo dei morti.
Si è già fatto cenno alla catabasi di Ulisse all'Ade che si riallaccia al mito preomerico, tanto celebrato, di Ercole e Alcesti.
Per quel che riguarda il medioevo cristiano, nella già citata Leggenda Aurea di Iacopo da Varazze, è riportato il racconto relativo a san Patrizio che, resosi conto degli scarsi risultati della sua predicazione agli Irlandesi, pregò il Signore di inviare qualche segno che li spaventasse e, nel medesimo tempo, li inducesse a credere.
Questo sembrò attuarsi nell'apparizione di una specie di grotta senza fondo (il famoso pozzo di san Patrizio) nella quale, stando alle notizie che si diffusero, per l'appunto a partire dal XII secolo, venne a praticarsi una incubatio particolare, con esito in visioni sull'aldilà.
Il luogo, forse residuo di un culto celtico precristiano, era sottoposto all'attenta sorveglianza ecclesiastica esercitata da un vicino monastero, secondo la quale benché la pratica rituale non venisse incoraggiata, era tuttavia, consentito ai fedeli accedere alla prova che finiva per assumere un rigoroso carattere penitenziale.
Un'altra testimonianza dell'ambiguo rapporto tra defunti e viventi può essere desunto dai procedimenti di divinazione necromantica dei quali esistono descrizioni storiche che val la pena di rievocare brevemente.
E qui, di nuovo, ci, imbattiamo nella discesa all'Ade di Ulisse con il proposito di eseguire una nekya
(parola greca che configura un'interrogazione ai trapassati) nei confronti dell'indovino Tiresia che rassicura l'Eroe sul suo ritorno a Itaca e, nel contempo, lo illumina sulla causa delle sue avversità durante il viaggio, ricordandogli l'ira di Poseidone cui aveva accecato il figlio Polifemo.
Anche nella Bibbia troviamo un episodio di necromanzia.
Esso riguarda il re Saul che, nell'imminenza di una rischiosa battaglia con i Filistei, decide di consultare un'indovina sul perché del perdurante silenzio di YAWH contrapposto alle sue invocazioni.
Saul si reca, di notte e sotto mentite spoglie, nella vicina città di Endor all'indirizzo dell'unica necromante rimasta, perché scampata alla strage da lui stesso ordinata nei riguardi di ogni sorta di maghi, streghe e indovini.
La pitonessa in questione riconosce subito il re Saul e ne rimane naturalmente impaurita per le possibili conseguenze del suo operare, ma Saul riesce a tranquillizzarla e alla domanda della necromante su quale morto essa debba evocare risponde: "Fammi salire Samuele (il profeta che l'aveva unto re ed era morto qualche tempo prima).
Il rito ha luogo in un'atmosfera di tregenda: "Ho visto, proclama la pitonessa, salire dalla terra un vecchio avvolto in un sudario".
Questi si rivela per Samuele che si rivolge a Saul e gli chiede: "Perché mi hai disturbato e costretto a salire? Tutto è peraltro inutile, Dio stesso ti è diventato nemico e sta per consegnare il tuo regno a David. Domani tu e i tuoi figli sarete con me". La tremenda profezia cade come una folgore sulla testa di Saul che stramazza a terra pieno di terrore.
Inutile aggiungere che il giorno seguente testimonia il completo avverarsi della profezia pronunciata da Samuele.
Altro esempio di necromanzia è quello descritto da Lucano, nel VI libro della Farsaglia (come riporta Paolo Lombardi nel libro Il Filosofo e la strega (La ragione e il mondo magico).
In questo racconto è Sesto, figlio di Pompeo, che si reca a consultare, nelle vicinanze dell'accampamento, una maga della Tessaglia: Eritto che in uno scenario molto più horror di quello di Endor, evoca dal Tartaro l'ombra di un morto che, seppure in modo oscuro, presagisce sia l'imminente sconfitta di Pompeo che l'ormai prossima morte di Cesare.
Da quanto è stato sinora riferito risulta abbastanza evidente quanto la dimensione antropologica e universale del ritorno dei morti sia presente, nella tradizione occidentale, a partire dall'antichità sino al medioevo e al folklore contemporaneo.
Le probabilità di apparizioni dei revenants erano, specie nei tempi passati, connesse a persone morte in circostanze particolari: bambini morti senza battesimo, donne defunte poco prima o subito dopo le nozze, suicidi e morti ammazzati.
La brevità della relazione impedisce un approfondimento sui riti della morte in ambiti culturali diversi, tuttavia va detto, come osservazione generale che, presso le società cosiddette tradizionali, la forma particolare di esistenza che si attribuisce ai defunti dipende, in gran parte, dallo svolgimento regolare e completo del rito di passaggio della sepoltura.
Ad esempio, la cultura malgascia appare talmente permeata dall'esigenza di mediare con il mondo dei morti che i riti funebri che hanno luogo nel Madagascar vengono ad assumere un'importanza fondamentale nel trasformare il defunto da presenza persecutoria (fase della morte umida) ad antenato protettore (fase della morte secca), per cui i morti vengono spostati da una tomba all'altra allo scopo di riunire le ossa a quelle degli antenati protettori e, altre volte, vengono riesumati per sostituirne il sudario ormai consunto.
D'altra parte, non è immaginabile per questo tipo di società lo stesso percorso che Aries ha descritto nella già citata: Storia della Morte in Occidente.
In essa l'Autore propone una periodizzazione nell'espressione degli atteggiamenti occidentali di fronte alla morte, secondo la quale una prima fase detta della "morte addomesticata" (familiarizzata) corrisponde alla lunga continuità della società contadina precristiana e cristiana.
La seconda fase, a partire dall'XI secolo, è quella della "morte di sé" della "nostra morte" che si accompagna all'orrore del trapasso e alla paura del giudizio dell'anima, mentre la terza fase corrisponde alla "morte dell'altro", nel XIX secolo con l'esaltazione del lutto e l'influsso del romanticismo sui monumenti cimiteriali.
L'ultima fase, infine, coincide con la "morte nascosta e la morte dimenticata", caratteristica della nostra epoca.
Prima di concludere questa relazione storico-antropologica, al fine di non trascurare un richiamo professionale, verranno descritti brevemente due casi clinici, giunti all'osservazione dell'Autore e riferentesi a pazienti con sintomi fobici centrati l'uno sul corpo di un familiare defunto e l'altro su un bambino non nato.
Per il primo paziente si trattava del cadavere del nonno che avrebbe potuto materializzarsi come una specie di zombi.
Per fugare il fantasma, egli era costretto, ogni sera e più volte anche durante la notte, ad aprire l'armadio nella stanza e a guardare sotto il letto al fine di sincerarsi che non vi fosse alcuna presenza di quel tipo.
Nell'altro caso si trattava di una signora sposata, madre di due figli ancora fanciulli, che aveva subito un aborto procurato al terzo mese di gravidanza.
Quantunque la decisione di abortire fosse ampiamente giustificata sul piano medico, la paziente, trattata, per altre ragioni, con psicoterapia analitica, sperimentò una depressione reattiva accompagnata da sintomi fobici relativi al feto di cui, nella produzione onirica, andava alla ricerca nei bidoni della spazzatura.
Dopo mesi di terapia, la paziente riferisce il seguente sogno:" Sono al funerale per la morte di David, un figlio che era nato morto (nessuno dei suoi figli aveva questo nome dal richiamo messianico e di terra promessa), incontro una persona che mi chiede: come stanno i tuoi figli? Rispondo: uno è morto piccolissimo, non era ancora nato. C'era una specie di carrettino con una cassa piccolissima trainato da cavalli. Io sto dietro al carro e ci sono anche i miei genitori ai quali non ho mai comunicato l'aborto. Dico ad uno dei figli che mi accompagna: non ti preoccupare, i tuoi fratelli sono a casa e stanno bene. Continuavo a pensare che dopo la morte di David tutto sarebbe stato diverso e riflettevo: nessuno l'ha conosciuto, perché sono qui? Ero sollevata dal fatto che nessuno mi faceva domande sul bimbo morto e, intanto il funerale percorreva strade tortuose e sembrava non finire mai".
Dopo questo sogno, l'idea prevalente sull'aborto perse gradualmente vigore e la paziente sembrò uscire dal lutto connesso all'episodio.
Era come se, avendo provveduto ad un decorso funerale, pur attraverso strade tortuose e defatiganti
(forse per far perdere le tracce al defunto) si fosse giunti alla conclusione che i morti devono stare definitivamente con i morti e i vivi collocarsi saldamente nel mondo dei vivi.
Se si vuole trarre dall'insieme della relazione una qualche considerazione di ordine antropologico culturale che abbia, al presente, un qualche valore, si potrebbe formulare l'ipotesi che nei pellegrinaggi alle tombe dei defunti che si svolgono ritualmente intorno alla data prefissata del 2 novembre, sia possibile evidenziare, oltre ai sentimenti di pietà per i propri morti una sorta di impulso, a livello inconscio, a verificare di persona che i defunti stiano veramente al loro posto, in tombe murate, in dimore ben custodite e sufficientemente precluso ad una loro eventuale sortita destinata ad inquinare il mondo dei vivi.
Per comprendere meglio ciò che, a prima vista, potrebbe apparire come un paradosso, è giusto riflettere su ciò che scrive Schmitt (nel suo libro : Spiriti e fantasmi nella società medievale) a proposito della funzione sociale che può svolgere la memoria dei morti.
Quest'ultima va intesa, secondo l'autore, non solo come una forma di memoria collettiva, ma anche come una tecnica dell'oblio la cui funzione consiste nel raffreddare la memoria mostrando di conservarla, di placare il ricordo doloroso del defunto fino a farlo progressivamente sparire.
Si tratta, aggiunge Schmitt, di una tecnica di ordine classificatorio, dal m omento che colloca i morti nella giusta e univoca posizione di morti, in modo tale che i vivi possano ricordarsi di loro senza paura né sofferenza.


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