PSYCHOMEDIA --> ENGLISH HOME PAGE
JEP ON LINE --> HOME PAGE


JEP ON LINE - PAPERS & INFORMATION
FORUM APERTO. Il fine dell'analisi, sua fine
Scrivere a: redazione@psychomedia.it
(Per inviare contributi, aggiungere sempre come Oggetto (o Subject): JEP - La fine dell'analisi)


Amici, vorrei avere un aiuto da chi di voi è disposto a darmelo.

Il 29 aprile partecipo ad un convegno alla facoltà di Filosofia di Roma sul tema della Fine, ed io devo parlare su “Il Fine e La Fine dell’Analisi”. Fine come termine e fine come scopo.
Secondo voi, come dire in poche parole il FINE ULTIMO DELL'ANALISI per W.R. Bion?

Per Freud era "Wo Es war, soll Ich werden" (traduzione approssimativa: “Dove Cosa era, là Io devo addivenire”).Per la Klein la possibilita' di essere grati, rinunciando all’invidia. Per Winnicott il ritrovamento della capacita' creativa del soggetto. Per Kohut la rinuncia al narcisismo. Per Lacan la parola piena assumendo il proprio desiderio. E per Bion?

E siete d’accordo col modo in cui ho sintetizzato la posizione degli altri autori?

Aggiungo intanto qui sotto le reazioni che mi sono giunte finora da amici e colleghi.

Grazie per l'attenzione

Sergio Benvenuto


Caro Sergio,
ho qualche perplessità sul fatto che questi grandi psicanalisti pensassero a un fine ultimo dell'analisi. Anche Freud, che pure era aristotelico, non pensava che la psicoanalisi dovesse avere una teleologia, anche se poi aforizzava "wo Es war...". Lo faceva per parare l'irruzione del medicalismo di Ferenczi, che proponeva le terapie brevi. Certamente non fu per Lacan il fine ultimo dell'analisi l'avvento della "parola piena", un termine che Lacan lasciò presto cadere, come del resto il termine "desiderio", sostituito da "godimento". Forse proprio Bion è colui che meno dei suoi predecessori e contemporanei flirtò con la teleologia. E questo è il suo indiscutibile merito scientifico. Chi parla di "fine ultimo" ha il suo giusto posto tra i banchi di chiesa, non in un laboratorio psicanalitico o scientifico. Lasciamo la finalità agli psicoterapeuti. O no?

Antonello Sciacchitano


Fine per Bion: Trasformare gli elementi beta in alfa e diventare spirito assoluto.

Cristiana Cimino

PS - Dimenticavo: Bion, il più teleologico di tutti


Un'oscillazione che possa non essere troppo violenta, un pendolo sufficientemente armonico fra le due posizioni.

Adalinda Gasparini


La fine dell’analisi per Bion è l’accoglimento della verità. Questo è il cibo necessario alla mente, mentre la mancanza di verità è tossica per la mente.
La verità è la cosa-in-sé, è esperienza originaria emotiva della realtà e di se stessi.

Antonello Correale


Mi sembra che un sogno che anticipò la mia fine analisi fosse il seguente: "Attraversavo dei gabinetti "marini", cioè senza soffitto, e mi ritrovavo su una spiaggia vagamente settembrina e che, altrettanto vagamente, assomigliava a quella della mia infanzia. Uno spazio sgombro"
Un significato possibile per tale sogno è il seguente: dopo aver riattraversato brani della mia esistenza secondo una modalità "aperta", cioè non intimistica, mettendo anche a rischio la mia "reputazione", cioè ciò che reputavo vero di me stesso, ma anche cercando di toccare con gli occhi e con le mani ciò che di dimenticato, apparentemente inutile - ma fertile - nascondeva il possibile futuro della mia esistenza ... giungo a questo spazio sgombro dove si sono esaurite le domande iniziali; forse ne urgono di nuove ma per il momento si "vede" la fine con occhi più pacati perché, per così dire, le finalità hanno fatto una cura dimagrante.
L'analisi passerà attraverso momenti protomentali (Bion) trasferali transizionali o simbolici ma non credo si possa dire come sarà la fine. La fine ci penderà sempre un pò di sorpresa, come d'altronde ogni vero inizio.

Paolo Tucci Sorrentino


La ardita scommessa di Lacan sulla fine dell'analisi coincide con la decostruzione del soggetto sul registro fallico, questione che Lacan si è posta nel modo più radicale, assai più dello stesso Freud (vedi il Seminario X di Lacan). Ne consegue un soggetto mancante, "demimetizzato" (cito Lacan).

Cristiana Cimino


Non ricordo dove, ma so che per Freud l'analisi finisce quando per il paziente incomincia la capacità d'amare. Delle definizioni date dai colleghi che hanno partecipato al forum concordo con quella di Correale.

Maria Giovanna Campus


Il giorno 20/apr/2010, alle ore 09.04, Sergio Benvenuto ha scritto:

Entro nella passerella di interventi sul Fine dell'Analisi giunta fin qui NON per chiuderla, anzi per rilanciarla.

Vorrei manifestare qualche perplessità a proposito di quello che hanno detto alcuni, su per giu’: “per Bion (ma forse per tutti i grandi analisti) l’analisi non ha UN fine, anche se ha UNA fine”.  Non conosco Bion abbastanza, ma credo che questa tesi non sia sostenibile.

Quando un paziente viene da noi, potremmo reagire a quel che dice in migliaia di modi diversi, o in nessun modo. Se scegliamo un modo (silenzio incluso), è perché comunque, anche se inconsapevolmente, abbiamo un fine. Abbiamo un’idea, per quanto oscura, di quel che è o dovrebbe essere la nostra posizione come analisti. Credere che l’analisi sia un processo spontaneo in cui l’analista non fa mai delle scelte discende da una filosofia empirista per cui tutto è esperienza diretta, una filosofia che mi sembra inadeguata. Molti analisti autori non concettualizzano il loro fine, ma il nostro sforzo dovrebbe essere appunto di esplicitare quel che non vogliono o non riescono a dire.

In effetti, anche chi dice “funzione dell’analisi è far sì che ogni soggetto scopra o inventi lui stesso il fine della propria vita” esprime comunque un fine, ben solido e preciso.  Se dico “il fine ultimo della mia vita è campare alla giornata” anche questo è un fine, abbastanza ascetico (solo dei santi o degli psicotici ne sono capaci). Perché ci sia qualsiasi forma di azione e l’analista a suo modo agisce occorrono comunque dei fini; anche se poi si potrà scoprire che i suoi fini sono contraddittori, insufficienti, camuffati, inconsapevoli. Se un analista dice che opera senza avere alcun fine in mente, secondo me ha dei fini inconsci, e rischia appunto di esserne più che mai dominato.

Per ora mi pare che l’espressione più perspicua per illustrare il/la fine dell’analisi per Bion sia: “trasformare gli elementi beta in alfa per accogliere la verità”. Ma qualcuno potrebbe farmi cambiare idea.

Sergio Benvenuto


Il giorno 20/apr/2010, Antonello Sciacchitano ha scritto:

Forse è bene un breve ripasso di storia della filosofia alla mia maniera.
Cito dal cap. IV della Introduzione alla "Kritik der Urteilskraft", nota in in Italia come "Critica del giudizio", del signor Immanuel Kant. (Sarebbe meglio tradurre "Critica della facoltà del giudizio").

"Die Zweckmäßigkeit der Natur ist also ein besonderer Begriff a priori, der lediglich in der reflektierenden Urteilskraft seinen Ursprung hat".

Traduzione: La conformità  della natura a un fine è, dunque, un particolare concetto a priori, che ha la propria origine unicamente nel giudizio riflettente".

Come? Kant non si era dichiarato humeano? Come? Non fu David Hume a decostruire il principio di ragion sufficiente? Come? Non fu Descartes a bandire la teleologia dal discorso scientifico?
Calma! Va tutto bene. Non c'è nessuna contraddizione. Il giudizio teleologico è a priori nel senso che è del soggetto, non dell'oggetto. Fa parte del giudizio riflettente, che per Kant è quel particolare giudizio soggettivo non riconducibile ad alcun concetto. La nozione di Kant dovrebbe essere illuminante per l'analista. Qui io la banalizzo un poco per volgarizzarla meglio di quanto non facciano i professori di filosofia: Il giudizio teleologico è una necessità soggettiva, come, in Italia, tenere a una squadra di calcio. Si è interisti o milanisti, poco importa. Quel che importa è che si è tifosi, necessariamente. Ma il tifo non ha nessuna influenza sulla partita di calcio effettivamente giocata. Bion può credere che il fine dell'analisi sia di trasformare gli elementi alfa in beta, ma questo non ha nulla a che fare con l'effettivo processo dell'analisi. L'algoritmo alfa-beta è il suo modo di descrivere tale processo secondo i pregiudizi del proprio tifo. E Bion lo sa bene, se è vero che alla fine - in nome della verità? - ha buttato a mare la sua griglia, diventata a quel punto una rete da pesca.
Perché il punto fecondo è proprio questo: poco importano i pregiudizi più o meno dottrinari dell'analista per condurre un'analisi. L'analista può anche operare con principi falsi. L'importante è che sappia operare bene con la falsità come esca per pescare la carpa della verità - ricorda Freud, citando Polonio, in "Costruzioni nell'analisi".
Quindi continuiamo, kantiamente, a parlare di fine dell'analisi, sapendo che parliamo da tifosi.
A proposito, io tengo al Milan, purtroppo.

Antonello Sciacchitano


Il giorno 20/apr/2010, Paolo Tucci ha scritto:

Le parole di Antonello evocano in me sentimenti di vicinanza.
Forse, nelle differenti risposte di tutti noi, gioca un equivoco, che è pure una differenza teorica. Parliamo di quali sono i presupposti – teorici – perché un’analisi possa finire, o parliamo dell’effettiva esperienza di fine?
Io mi riferivo alla seconda. Questo per tanti motivi tra i quali che la fine, come la morte, solo pensata non è fine verace. Perché la fine dell’analisi è comunque un cambiamento che ha del catastrofico, sembra arrivare dal territorio del non sapere e del non conosciuto. Quando una fine d’analisi è vissuta o quando una fine è decisa … penso sia bene ricordarsi questa esperienza che non ha uguali.
Poi si potrà ripensare al percorso fatto e legittimare questa sensazione in base ai nostri più che legittimi pregiudizi: se sufficiente l’esperienza di trasformare gli elementi beta in alfa, il divenire 0, ecc.
Ma come tanti indizi non fanno prova così non si potrà mai sapere quanti presupposti occorreranno perché ci sia fine.

Paolo Tucci


Concordo con Sergio, aggiungo che se l'analisi non avesse un fine non potrebbe nemmeno avere una fine... E poi, che senso avrebbe iniziare un percorso senza un obiettivo? A meno di menare il can per l'aia.
Parafrasando Freud, per Winnicott il fine dell'analisi è: "Dove c'era il falso Sé, ci sarà il vero Sé'" ovvero l'autenticità dell'individuo in un rapporto dialettico e creativo con l'ambiente (al posto del predomino dei modelli indotti. E c'è molto lavoro da fare sia da parte del paziente che dell'analista. Altro che processo spontaneo!)

Edi Gatto Pertegato


La mancanza di un fine perpetua la cura. Su questo Fachinelli ha scritto pagine memorabili. Il rischio, sempre presente, di rendere l''analisi interminabile (penso proprio a Freud e allo zoccolo duro su cui necessariamente si arenerebbe la cura) è al servizio di un uso distorto della posizione dell'analista con tutte le implicazioni etiche del caso.

Cristiana Cimino


Mi chiedo se la metafora del tifo e della partita di calcio – usata da Sciacchitano – non rischi di essere un boomerang per la sua argomentazione. E’ proprio vero quel che lui scrive, che “il tifo non ha nessuna influenza sulla partita di calcio effettivamente giocata”? Eppure è ben noto che ogni squadra preferisce giocare “in casa”, segno che il sostegno dei tifosi, almeno in parte, influisce sulla partita.
In un recente film di C. Eastwood, “Invictus”, si ricostruisce la politica sportiva di Nelson Mandela quando divenne presidente del Sud Africa. Scelta quanto mai perspicua: la politica è un’estensione dello sport competitivo, e del resto lo sport è il più diffuso impegno politico delle masse. Mandela si rende conto che è essenziale per il suo progetto – la riconciliazione storica tra neri e bianchi in Sud Africa – che la nazionale di rugby, South Africa Springboks, vinca il campionato del mondo nel 1995. Il film – che originariamente si chiamava “The Human factor” (!) – mostra in modo egregio come la nazionale sudafricana abbia vinto alla fine il campionato proprio grazie al tifo di Mandela.

Fuor di metafora: non credo affatto che la psicoanalisi sia una teoria scientifica come la fisica e la chimica. Non è come scienze che, da tempo, hanno eliminato l’idea che la Natura abbia fini (cause finali, le chiamava Aristotele). La psicoanalisi è piuttosto come la storia, la politica o la pedagogia, che sono comprensibili solo grazie a cause finali. Contro Durkheim – per il quale bisognava puntare ad una “fisica sociale” che eliminasse i fini soggettivi – aveva invece ragione, secondo me, Foucault. Quest’ultimo ha ricostruito la storia proprio come un’arena di progetti, programmi di potere, piani filosofici, ecc.
Mi rendo conto che la mia domanda iniziale si prestava a confusione (ma quale asserzione non si presta a confusione? non è il malinteso la benzina che muove la macchina del dibattito intellettuale?). Ponendomi il problema dei fini dell’analisi secondo Freud, Bion, ecc., non volevo affatto dire che DI FATTO l’analisi diretta da un freudiano, da un bioniano, ecc., segua proprio il tracciato dei fini espliciti o impliciti! E’ come in politica: la politica è incomprensibile senza ricostruire i fini (anche quelli segreti) degli attori politici, ma è evidente che, per lo più, la storia non va secondo quei fini. La storia non è comprensibile senza progetti filosofici (come furono il cristianesimo, il liberalismo, il marxismo, il nazionalismo romantico, l’ecologismo, ecc.), ma questo non vuol dire affatto che i filosofi siano contenti di quel che essi in qualche modo producono! Tutt’altro direi. Sempre, nella storia, si vuole A e si ottiene poi, di fatto, B. Ma l’evento B sarebbe incomprensibile senza capire che si voleva A. Che un analista abbia certi fini non implica ipso facto che questi si realizzino. Ma quel che si realizza non è comprensibile senza i suoi fini e senza il loro eventuale fallimento.
Certo la psicoanalisi aspetta ancora il suo Machiavelli. Qualcuno insomma che ne faccia oggetto di scienza.

Sergio Benvenuto


Certamente l’analisi ha una sua finalità da cui viene orientata – nella sua determinazione concreta come esperienza con il singolo analista – ad una fine. Ma anche questa semplice affermazione viene contraddetta dall’interminabilità dell’analisi. Edy propone una formula che può andare benissimo per dare un orientamento di massima, ma non dimentichiamo che il falso-Sé svolge un ruolo ineliminabile nella storia dell’individuo e delle sue relazioni sociali. Non può essere annientato ma, solo, ridimensionato nelle sue eccedenze. Ma allora, quando è sufficientemente ridimensionato? Se il nostro scopo fosse quello di ricorrere ad una formula sufficientemente rassicurante ci troveremmo al punto di partenza. Ritornando all’esempio già fatto del calcio; la fine analisi non è come la fine di una partita in cui, trascorsi i 90 minuti di prassi, si torna a casa. Restando in metafora, quel geniale allenatore balcanico che è stato Boskov diceva: “Rigore è quando arbitro fischia!” La frase è meno stupida di quanto possa apparire ad un lettore della “Gazzetta dello Sport”.
Ma allora, quale il fine dell’analisi? Ricordiamo cosa convenne l’IPA pochi anni or sono quando tentò – con approccio un po’ analitico ed, anche, vagamente megalomane – di stabilire cosa fosse l’analisi. Ne concluse che è quella cosa che si fa 4 volte alla settimana, con l’ausilio di un lettino. Pertanto non possiamo che riferirci al singolo autore, Bion in questo caso.
Ho letto Bion, in parte, privilegiando il suo saggio sui gruppi e l’ultimo suo pensiero che copre gran parte della sua produzione. Non mi sembra di aver trovato nulla di specificamente riferito alla fine dell’analisi. Anche tra noi, nessuno ha riportato una citazione al riguardo. Forse non è solo una nostra mancanza: per chi, come Bion, parla di intuizione anche la fine non può essere dedotta da un sistema di prescrizioni ma solo intuita, ritrovata come d’incanto. Certo, per capire quando siamo prossimi alla fine può aiutarci il pensiero di Bion, cioè l’insieme delle sue opere e, se volessimo condensarlo in formulazioni più brevi potremmo ricorrere a suoi concetti da noi già ricordati come, ad esempio, l’esperienza del divenire O.
Ma come utilizzare queste sue indicazioni?
Una differenza vi è tra l’interpretazione e quelle particolari parole – anch’esse una interpretazione? – che sanciscono la fine di un’analisi. A me sembra che tra le due cose vi debba essere una notevole distanza. Se non altro perché di interpretazioni se ne possono fare tante, ciascuna potendo correggere o mettere a punto quella precedente, mentre di fine analisi ve ne può essere una sola, irrevocabile.
A proposito di interpretazione, Antonino Ferro ha reso nota, richiamandola più volte, quell’espressione di Bion per cui “una interpretazione può essere data sei giorni, sei mesi, o sei anni più tardi di quando è stata pensata”. (Ferro, in L’Educazione Sentimentale n. 4 Guerini e Associati, pag 67). La tentazione cui sono indotti i più è di immaginare che l’enunciazione di una interpretazione possa essere rimandata e quindi pronunziata, con le dovute integrazioni, sei giorni, sei mesi, o sei anni più tardi di quando è stata pensata.
La frase di Bion, pronunziata nel corso del 15° incontro di Brasilia, è la seguente: “Bisogna dire che tutto questo è alquanto vago, ma, se questa paziente continua a venire da lei, allora può darsi che diventi un po’ più chiaro perché il materiale si accumula. Sulle prime tutto è vago, e bisogna far ricorso alle teorie, ma ogni volta che la paziente viene ci sarà qualcosa di più su cui basarsi. Questa storia sulla paziente e la sua amica fornirà un’interpretazione che lei darà sei sedute più tardi, sei mesi più tardi, sei anni più tardi. Ed è per questo che è così importante tenere i propri sensi ben aperti rispetto a quanto accade nella stanza d’analisi davanti ai propri occhi.”
Credo che il suggerimento di Bion possa essere interpretato così: è necessario tenere “i propri sensi ben aperti rispetto a quanto accade nella stanza d’analisi davanti ai propri occhi”. All’inizio si può essere tentati di fornire una interpretazione, spinti da un desiderio che viene rafforzato dalla memoria delle teorie che ci sono state insegnate. Ma tutto ciò sarebbe vago e non ci fornirebbe una base sufficientemente attendibile, così come ci augureremmo. In verità non possiamo sapere quando potremo pensare – per poi dare – la nostra interpretazione, potrebbe accadere anche sei anni più tardi. Dunque, in base alle teorie non potremo dire quando sarà possibile fornire una interpretazione, né quale, sono anzitutto “i nostri sensi e i nostri occhi ben aperti” a guidarci.
Ora, se questo è l’intendimento di Bion nei confronti di una semplice interpretazione, cosa si vuole che dica nei confronti della fine analisi?
Sergio Benvenuto afferma che “sempre, nella storia, si vuole A e si ottiene poi, di fatto, B” Ma volere A sarebbe necessario. Questa differenza tra A e B è uno dei motivi che ha spinto taluni, ad esempio, a sostenere che il Freud clinico è diverso da ciò che Freud affermerebbe in teoria. Fare la stessa operazione con Bion credo sia più difficile perché Bion si nutre, per lo più, di una teoria diversa e non crede che volere A sia necessario. Preferisce attendere che B accada. La sua è, piuttosto che una teoria della previsione, una teoria del saper attendere.
Bion diceva di sé che era un “analista in formazione”. Dunque anche le sue analisi andavano prendendo forma pian piano. Non vi è da scandalizzarsi. In fondo la Seconda Considerazione Inattuale (di Nietzsche) dice qualcosa di molto simile. E poi: Dio è morto e sono i fedeli che ne hanno decretato la fine. Ma l’annunzio ha luogo perché i fedeli ancora non lo sanno. Qualcosa accade: non possono essere i nostri pregiudizi a guidarci, ma “i nostri sensi e i nostri occhi ben aperti”.
Dicevo che l’annunzio “l’analisi è finita” è molto più di una interpretazione. In primo luogo perché, più di ogni interpretazione, si fa in due o più ovvero, come ogni verità, nasce da un accordo. In secondo luogo perché è ciò che, accadendo, dà senso all’accaduto. E’ vero, nel corso dell’analisi siamo guidati dalle teorie, ma queste sono l’orizzonte necessario perché si dia l’evento. Ma non ne sono la causa.
E’ solo con la fine dell’analisi che ne comprenderemo veramente il fine, l’inizio ed il corso. Una moltitudine di antilopi e mammiferi d’ogni specie non fanno una giraffa. A proposito, sapete che hanno la lingua blu?

Paolo Tucci Sorrentino


Invio volentieri alcune riflessioni sulla Fine Analisi.
La prima, è una domanda. Mi appare chiaro che non si dà alcuna analisi senza un fine, qualsiasi esso sia. Anche se ti ricordo che a Milano, all’inizio di via Spiga, da via Manzoni, c’è un bar che si chiama Black Swan. E in ogni modo il fine dell’analisi mi appare senz’altro come una categoria analitica, che appartiene all’analisi, mettiamo come il transfert o l’inconscio. Mentre la fine dell’analisi mi sembra piuttosto un accidente dell’analisi, un qualcosa di contingente. Se le cose stanno così,non mi sembra facile stabilire connessioni tra il fine dell’analisi e la fine dell’analisi. Ma il punto che mi interessa di più chiedere a voi, è se veramente l’analisi interminabile, l’analisi che non ha fine, sia il Male. Stabilire come un dogma che un’analisi debba evitare la sua, diciamo così interminabilità, pone qualche interrogativo. In particolare: se fosse stato un interrogativo problematico di Freud la sua riflessione sulle analisi terminate e su quelle interminate?
Voglio raccontarti un aneddoto divertente. Quando lavoravo alla clinica psichiatrica dell’università di Losanna, il mio maestro e direttore della Clinica (e analista didatta) Christian Muller, al mio amico Pierre Baron che era andato a chiedergli che cosa fare poiché il suo analista, Baudoin, era appena morto, gli rispose: “Mais votre analyse est terminée, puisque votre analyste est mort”.
Uscendo dallo scherzo, sto da tempo lavorando intorno all’idea che l’analisi stessa sia senza fine, che duri sempre, anzi che il fine dell’analista sia quello di concorrere alla sua interminabilità, in altre parole un’analisi chiamata terminata è un’analisi interrotta e un’analisi chiamata interminabile è semplicemente un’analisi continua (come è bene che sia).
 
Giampaolo Lai


In questa ambigua faccenda del fine/della fine dell’analisi credo che convenga adottare un approccio scientifico, in nome del moderno meccanicismo.
So che questa impostazione dà sui nervi agli ortodossi (e non solo a loro), ma non ci posso fare nulla. Non voglio polemizzare con nessuno. Adotto l’approccio scientifico perché ha un grande vantaggio, forse due. Alla debolezza epistemica, che ne fa un discorso meno arrogante di quello filosofico o, peggio, teologico, la scienza unisce la possibilità di formulare idee chiare e distinte, facili da accettare o rigettare. Non è poco, in quanto il risultato può servire democraticamente a molti, senza imporsi a nessuno.

Sistemata la vicenda del fine dell’analisi come pretesa soggettiva, che vale quel che vale (poco) nel contesto del kantismo, per quanto riguarda la fine dell’analisi partirei dal teorema di Turing. Turing dimostrò una versione pratica del teorema di incompletezza di Gödel, sfruttando lo stesso algoritmo di dimostrazione: il metodo diagonale, inventato da Cantor quarant’anni prima.
In breve, dopo Turing, si sa che non esiste la macchina di calcolo che calcoli correttamente, per ogni macchina di calcolo, se tale macchina, equipaggiata con certe informazioni iniziali, si fermerà nel calcolo, avendo raggiunta la soluzione del problema, oppure proseguirà a calcolare all’infinito, essendo entrata in un loop di calcolo tanto inutile quanto ossessivo.
Equiparata la vicenda analitica a una vicenda calcolistica – è un’ipotesi volutamente riduttiva e debole – si sa che non esiste il metacalcolo che preveda se tale vicenda finirà oppure no in un tempo finito. Insomma, se non esiste il criterio meccanico per predire correttamente se un processo meccanico si arresterà oppure no, a maggior ragione non esiste un criterio meccanico per prestabilire se un processo tanto complesso e articolato (ma a mio parere pur sempre meccanico) come l’analisi terminerà o no.
In altri termini, non esistono segni da cui l’augure analista possa trarre l’ispirazione per predire il termine dell’analisi. Tanto basta a sottrarre l’analisi alla presa eziologica e deterministica della medicina. (In questo caso il medico parlerebbe di prognosi).
Questo è un risultato che mi tengo ben stretto, perché mi permette di lavorare in clinica con la giusta libertà, non essendo il mio lavoro determinato da linee guida burocratiche e/o predefinite.
Concludendo, viva la fine dell’analisi, così com’è – indeterminata e contingente, come preferisce dire Giampaolo Lai –, se l’analista e l’analizzante riescono a costruirne una caso per caso.

Tuttavia, contraddicendomi in parte, oso dire che dispongo di un criterio clinico effettivo per stabilire, almeno a posteriori, se un’analisi è finita oppure no. Se nell’analisi l’analizzante si impratichisce a sufficienza nel trattamento dell’oggetto del desiderio, allora l’analisi è finita. Allora comincia la vera relazione d’oggetto per quel poco che al soggetto resta da vivere.

Antonello Sciacchitano


La terminabilità e l'interminabilità dell'analisi mi sembra abbiano riferimenti differenti: la prima ad un contratto ed ad un setting, la seconda ad un aspetto dell'esistenza di una persona: l'ethos. Tutti cercano, in un modo o in un altro, di autoanalizzarsi. Dipende poi dalle conoscenze di cui dispongono. Ma proprio in virtù di questa doppia valenza potremmo dire che l'analisi prepara a quest'altra fase in cui l'analizzante accetta di continuare il cammino da solo. E' ancora analisi? Non userei un sostantivo. In ogni caso non si tratta di un cambiamento da poco, ma di una assunzione di responsabilità drammatica.
Circa la fine dell'analisi come accidente può essere una proispettiva stimolante; solo che essere accidente, di per sé, non dice nulla. Gli accidenti offrono determinazione  alla nostra vita. Si tratta del significato che riusciremo a dargli, se riusciremo a dargliene uno. Così come le analisi che sembrano non finire mai, si tratta di vedere caso per caso.
Circa Freud mi sembra che il suo cruccio determinante fosse l'oscillazione dell'idea di costruzioni in analisi tra una verità storica, oggerttiva ed una verità che soddisfa sufficientemente i due protagonisti. E' da questo doppio orientamento epistremologico che poi deriva la fine o il fine dell'analisi e, in fondo, la sua terminabilità o interminabilità.

Paolo Tucci


Forse confondiamo facilmente la fine con il fine. L'analisi è un pezzo di vita di cui tutti sappiamo con meccanica certezza (Sciacchitano) l'unica "certa possibilità" (Heidegger) che è la sua fine, ma di cui nessun meccanico saprà dirci quale sia il suo fine. La fine riguarda l'oggetto vivente (il Körper), il fine riguarda l'oggetto che sa di essere (il Leib) nell'orizzonte di un proprio indefinibile, incalcolabile, divenire. Frontegggiamo il nostro divenire solo riducendolo in segmenti o in aree quasi geometricamente definite della nostra esistenza (l'accoppiamento amoroso, il progetto lavorativo, l'impegno sociale e politico, ecc.), e per ciascuna di queste sezioni postuliamo specifici oggetti il cui possesso manipolatorio costituirebbe il fine e simultaneamente la fine di un mortificante sentimento di mancanza. E' quel che capita ovviamente anche agli psicoanalisti che, ritagliandosi una più o meno definita area "teorica" nella riflessione sull'esistenza, ne colgono alcuni "oggetti" come i più rilevanti, e trattandoli come traguardi raggiungibili, ne fanno ampollosamente il loro "fine". Non ricavo dalla mia esperienza personale né da quelle che mi è capitato di ascoltare una stabile dissoluzione del sentimento di mancanza, se non per attimi di estatica continuità con il presunto oggetto (non c'é più allora relazione che significa pure relativizzazione) o in condizioni più stabili di anestesia e di aprassia dovunque e comunque originate. 
L'analisi è solo un modo particolare di riflettere su quella condizione di irriducibile mancanza che da sempre ha costretto l'uomo a fare domande, a interrogare il suo piangere come il suo ridere. In questo nostro tempo le risposte assiomatiche, teologali come scientifiche, non velano più sufficientemente la nostra incertezza, e ne nasce il "pensiero complesso": l'incertezza non è più il nemico da sconfiggere, ma la condizione stessa della nostra conoscenza, che sempre più richiede una paziente negoziazione tra gli opposti che essa stessa genera. L'analisi può essere una pratica di negoziazione tra soggetti contrapposti non solo nella reciprocità interlocutoria, ma in sé medesimi, e ciò, talvolta, produce un effetto prodigioso: una non sopraffazione dell'un interlocutore sull'altro può indurre un allentamento in ciascuno dei due delle tensioni sopraffattive di alcune proprie componenti ideo-affettive su altre. E viceversa.
Per quanto possa essere palestra di atti comprensivi, l'analisi non può sottrarsi alla sua contingenza: entra a far parte di un ambiente nel quale si possono produrre innumerevoli cambiamenti in una circolarità di rimandi tale da mettere in crisi ogni criterio di linearità deterministica. Questi stessi cambiamenti "prodotti da un'analisi riuscita" inducono quindi la necessità di "riprendere l'analisi", che questa avvenga come ripresa di un dialogo sistematico o col mantenere viva l'attitudine interrogativa (diceva Gadamer che l'arte del domandare è domandare ancora). Non so se questa mia riflessione si approssima a ciò a cui alludeva nella sua mail Giampaolo Lai.

Diego Napolitani


Il soggetto è negatività, come è negatività l’essere con l’altro (da psicoanalisti diremmo l’oggetto). Questo essere con l’altro non può, per essere vero, riportare ad una unità o identità, ma solo ad una radicale apertura di sé che si muove su un fondo di separatezza. Nessuna fusione o con-fusione, l’incontro con l’altro è reciproca alterazione (v. J.L Nancy), esso prevede un’uscita da sé nell’esposizione, nell’apertura all’altro. In termini più analitici: la rinuncia al fallo (Fachinelli avrebbe detto: ”Bisogna farsi femmine...”) e l’accesso all’oggetto. Questo passaggio attraversa la perdita di senso e i vissuti di impotenza (proprio l’ /Hilflosigkeit/). Questo mi sembrerebbe un buon fine (finalità) dell’analisi, se di psicoanalisi si parla.

Cristiana Cimino


Sembra che il latino finem derivi il suo significato dalla radice “find” o “fed” che significa: fendere, dividere. In tal modo all’idea di fine si lega quello di confine. La fine sarebbe ciò che divide qualcosa da qualcos’altro che viene dopo. In tal modo il prima e il dopo non solo vengono distinti ma, anche, messi in relazione. Così come avviene tra confinanti. Questo potrebbe spiegare come  il fine dell’analisi - così come il significato della sua fine - non sia dato a priori ed una volta per tutte, ma venga costantemente rielaborato.
Aggiungo poi delle citazioni di Bion tratte dalla sua terza discussione a New York, che potrebbero essere utili a Sergio nella sua ricerca perché sfiorano il tema della fine o del fine dell’analisi. Bion così esordisce:
“Voglio mettere l’accento su di un problema in divenire che mi pare sia della massima importanza. Con ‘problema in divenire’ intendo che esso non ha nessuna risposta fissa; è un problema sempre aperto.
E’ bene che un analista di tanto in tanto si chieda perché sta facendo analisi e se ha intenzione di farla all’indomani e il giorno successivo e così via. Si finisce con il prendere l’abitudine di dare per scontato che ha deciso di essere un analista, di essere un analista per tutta la vita, come se fosse una questione chiusa; mentre io penso che questo possa restare un problema aperto. [ Nella pratica analitica l’esempio specifico del problema generale viene offerto dalla decisione di continuare o d’interrompere l’analisi].
Quando questo problema emerge, bisogna che l’analista pensi attentamente al modo di discuterne con l’analizzando; soltanto l’analista può sapere che linguaggio usare e come formulare la questione: ‘Perché lei viene qui?’, ‘Cosa si aspetta?’, ‘Che cosa pensa che io abbia intenzione di fare?’. Ci sono numerose risposte: al paziente è stato consigliato di venire, oppure ci è stato inviato, o ha sentito parlare di noi. Questo non spiega nulla, è una risposta superficiale. Ma la questione resta aperta – questo paziente che viene da tre anni, quattro anni, cinque anni, tre settimane o tre sedute, perché viene di nuovo oggi? Può darsi che si abbia un’idea del perché è venuto ieri, ma ieri non è oggi. Si può avere un’idea che cambia continuamente sotto l’impatto dell’esperienza che continua ad avvenire; quindi il trattarlo come se fosse un argomento chiuso non lascia spazio ad un ulteriore sviluppo. (…)
Non mi è mai capitato di pensare di essere particolarmente diverso da altri analisti. Invece mi è capitato di rendermi conto di non sapere quanto avrei voluto riguardo alla psicoanalisi; questo l’ho capito parlando con un altro analista e mettendo a confronto se sue idee con le mie, e l’ho capito anche parlando con i miei pazienti che mi dimostrano continuamente che non ne so granché sull’argomento(…)
Il tempo passa, invecchiamo, e se le nostre idee restano sempre le stesse ci dev’essere qualcosa che non va. E’ molto più probabile che non ci accorgiamo del cambiamento che avviene dentro di noi; l’effettivo lavoro che svolgiamo, sia che consista nella conduzione di un negozio, o nell’essere medico o chirurgo o analista, ha un effetto su di noi. E’ possibile che non sia per nulla chiaro in che consista tale effetto. Quando eravamo piccoli gli adulti ci dicevano: ‘Come sei cresciuto!’; ci facevano stare in piedi davanti ad un muro, segnavano l’altezza, e là! Ecco la prova che si era cresciuti. Ma se il bambino sta realmente ‘crescendo’, non possiamo mettere la personalità davanti alla parete e segnarne la crescita.”

Paolo Tucci


Non solo per Giampaolo Lai, ma per un filone analitico importante, non c‚è fine dell'analisi. l'analisi con un analista può finire ˆ la fine è contingente - ma prosegue per il resto della vita come auto-analisi. Il fine dell'analisi è che non finisca mai, perché la soggettivazione è infinita. ("Soggettivazione" è un termine di calco psicoanalitico francese; altre scuole usano altri termini, ad esempio "esprimere il vero Sé".) Per alcuni che diventano analisti, la propria analisi prosegue sine die con i propri analizzanti. E‚ una visione non messianica dell'analisi, non millenarista, non punta ad alcun compimento. L'analisi è un lavoro che prosegue per tutta la vita, come fare le abluzini ogni giorno o alimentarsi.

Per un altro filone, invece, c‚è una fine dell'analisi, un voltar pagina nell'esistenza. Ma a sua volta questa fine è interpretata diversamente a seconda dei vari fini.
Secondo me i vari fini si distribuiscono, nella storia della psicoanalisi, secondo due poli. Ad un polo abbiamo l'impostazione tipica dell'Ego Psychology germano-americana, secondo la quale il fine è una riconversione adattativa: l'Io deve cercare di esprimere le proprie pulsioni adattandole al contesto sociale in cui vive. E‚ come quando diciamo che una zona agricola, ad esempio, si riconverte ad attività industriali. Per altri invece l'analisi è messianica: è una conversione soggettiva. (Sul senso di "messianico" mi ispiro al libro ormai famoso di Agamben "Il tempo che resta"). Ovvero, l'analisi punta ad una metanoia, come diceva l'apostolo Paolo, ad una totale conversione della propria psiche. Allora, il fine e la fine dell'analisi sono una conversione (messianica) o una semplice riconversione (adattativa)?

Credo che le due posizioni sulla fine dell'analisi (o infinita, o finita) siano di fatto TRASVERSALI alle varie scuole. Ovvero, ogni scuola non ha una posizione ufficiale sulla fine dell'analisi, una certa libertà di pensiero, per dir così, viene lasciata ai singoli analisti, anche se ortodossi. O potrei sbagliarmi. Mi chiedo se le questioni VERAMENTE importanti non siano proprio quelle che dividono gli analisti trasversalmente.

Qual è la mia posizione personale? Francamente la cerco ancora. Ad un certo punto, è un fatto, le analisi finiscono. Intuitivamente la cosa è comprensibile, ci si dice "questo analizzante ha superato la fase della propria vita in cui aveva bisogno dell'analisi". E‚ come quando si è stati felicemente sposati per anni e poi si divorzia, ma senza rancore e restando amici : quell'amore è passato, si volta pagina. Il che in sé non è né un bene né un male. l'analisi ha dato molto, ma altre esigenze sembrano subentrare al posto del desiderio di analizzarsi. La questione che io avevo posto quindi non è pratica - in pratica, ognuno se la sbroglia secondo i propri criteri a naso - ma teorica: ovvero, come capire teoricamente quel che si fa in pratica.
(Un approccio che respngo tende a pensare che teoria e pratica siano due orbite distinte: da una parte una Metapsicologia, dall'altra una pratica non-riflessa, istintiva, viscerale. In realtà, in psicoanalisi come in tanti altri campi, la vera domanda teorica è: "ho una pratica, e questa va anche bene - ma allora, CHE COSA STO FACENDO?")

Sergio Benvenuto


Caro Sergio,
il fatto che un analista consideri che all'analisi appartiene la proprietà di essere interminabile, oppure, al contrario, che all'analisi appartiene di terminare nel tempo, non è solo un'opzione teorica. L'adozione di un punto di vista, piuttosto che di un altro, di una teoria o dell'altra, ragionevolmente ricade nella pratica. Le risposte dell'analista, in qualche modo, spesso, saranno riconducibili alla sua teoria. Naturalmente, se si accetta il punto di vista di Sergio Benvenuto, che riprendo dalla sua mail: ("Un approccio che respingo tende a pensare che teoria e pratica siano due orbite distinte: da una parte una Metapsicologia, dall'altra una pratica non-riflessa, istintiva, viscerale. In realtà, in psicoanalisi come in tanti altri campi, la vera domanda teorica è: "ho una pratica, e questa va anche bene - ma allora, CHE COSA STO FACENDO?"). Allora, con queste due premesse, che l'analisi è naturalmente interminabile, e che la teoria si innesta nella pratica, se il fine dell'analisi per un analista sarà nel tempo che scorre, e per un altro sarà nell'eternità al di fuori del tempo, mentre il primo si darà daffare affinché l'analisi finisca (mettendo tutta la soggettivazione nell'analizzante, mettendo tutto il vero sé al posto del falso sé), il secondo analista lascerà che l'analisi sia eterna, ovvero che non abbia un futuro ma solo un presente al di fuori del tempo. Insomma, questo secondo analista non si darà daffare perché le cose cambino, ma lascerà che le cose siano come sono. Alla domanda: "Che cosa faccio?, l'analista del secondo tipo risponderà: "Lascio che l'analisi resti eterna", nemmeno interminabile, ma eterna. Sarebbe interessante se in questo Forum ci sbilanciassimo a fornire qualche esempio pratico di sedute di un tipo o dell'altro. Grazie per l'ospitalità. Un caro saluto.

Giampaolo Lai






PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
JEP ON LINE --> HOME PAGE