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PSICOTERAPIA E FARMACOTERAPIA

Antonello Correale



La questione dei farmaci ci ripropone il problema del corpo. È possibile pensare al corpo come qualcosa che ci è al tempo stesso profondamente familiare e profondamente estraneo?
Da un lato, nulla ci sembra più nostro del nostro corpo. Lo sentiamo animato dai nostri affetti e continuamente attraversato dai nostri bisogni – la fame, il sonno, il sesso. Anche i nostri desideri ce lo fanno sentire vivo e familiare: la ricerca dell’oggetto nelle sue varie forme e anche la irraggiungibilità dell’oggetto, oltre a determinare frustrazione, determina un senso di vitalità. Perfino alcune ricerche significative delle neuroscienze ci dicono che il desiderio in se stesso, sentito come spinta interna al corpo, dà piacere, anche se in certa misura resta insoddisfatto.
Ma il nostro corpo ci è, al tempo stesso, profondamente estraneo. Il guardarsi allo specchio, al mattino, non ci confronta solo col corpo ideale, col corpo allo specchio, ma ci confronta col reale del nostro corpo, con quello che gli è successo nella notte, con quella ruga che ieri non c’era, con quel certo gonfiore delle palpebre.
Anche le sofferenze del corpo ci risultano profondamente estranee. Tutti sappiamo come un semplice mal di denti possa modificare tutto il nostro rapporto colla vita e col mondo, farci vedere le cose diversamente, in una luce sgradevole o addirittura sinistra.
Vorrei approfondire e ulteriormente chiarire questo punto, citando due passi del Giulio Cesare di Shakespeare, che mi pare si prestino particolarmente bene a questo fine.
Dopo l’uccisione di Cesare, Bruto immerge le mani nel sangue di Cesare e le mostra al popolo come segno di vittoria: “Non l’ho fatto per odio per Cesare, ma per amore per Roma”, dice Bruto, quasi spaventato che il sangue di Cesare racconti al popolo un’altra storia, più tragica e, in qualche modo, meno ‘politica’.
Successivamente, Antonio, prima del celebre discorso in memoria di Cesare, bagna le mani nel sangue dell’ucciso e le mostra al popolo: “Ecco il sangue di chi vi ha amato ed è morto per amore dei cittadini di Roma”, dice Antonio, anch’egli appellandosi, per così dire, al sangue di Cesare.
In tutti e due i casi, quello che colpisce è lo straniamento profondo che si verifica colla comparsa del sangue: il sangue di Cesare non è Cesare, non riguarda l’uomo politico, il tiranno o il salvatore, l’eroe o il reprobo. Riguarda un corpo morto, che prima era vivo, e apparteneva a Cesare, mentre ora è di tutti e di nessuno. La centralità del corpo si presenta in modo violento e rimanda a un piano, in certa misura, incommensurabile con quello delle figure attive del dramma.
In un secondo episodio, ricompare il corpo. Bruto, nella sua tenda, si prepara alla battaglia, che si svolgerà la mattina successiva. È notte. Bruto è assalito da tristi pensieri, sensi di colpa, slanci di speranza. Chiede al suo attendente di suonargli qualcosa. Il giovane soldato prende il liuto, pizzica qualche corda, comincia una melodia. Ma la stanchezza lo tradisce, è molto insonnolito, si addormenta sul liuto, quasi cadendo su di esso. Bruto si commuove, gli sposta il liuto da sotto il corpo, perché possa dormire più tranquillo.
Anche qui, è possibile cogliere molte possibilità simboliche. Ma oltre a queste, compare un piano irriducibile: il sonno, il corpo vivo e stanco, l’aspetto biologico quasi opaco e cieco, che attraversa le parti in campo e confonde lo spettatore, abituato comprensibilmente a gioire o a dolersi, perché si identifica appunto con una delle parti in campo.
Le cose vanno come se il corpo ci richiamasse a una realtà, che è al tempo stesso centrale e periferica, il substrato necessario della vita, ma che deve essere dimenticato, in certa misura, perché la vita possa svolgersi secondo le sue regole consuete. Se il corpo chiede prepotentemente di farsi sentire - il sangue, il sonno - l’equilibrio si spezza e il periferico diventa centrale.
È chiaro che non intendo proporre una separazione tra mente e corpo in senso radicale.
La mente è sempre influenzata, anzi plasmata dal corpo: le pulsioni, le emozioni, i bisogni, il narcisismo. Tutto nasce e si sviluppa nella interfaccia tra somatico e psichico.
Ma qui sto parlando del corpo come puro macchinario biologico: le molecole, gli enzimi, le viscere, i meccanismi di base, appunto shakespearianamente, il sangue o il sonno. Quando la macchina non accetta di essere solo substrato necessario, l’equilibrio si rompe e tutta l’attività del soggetto ne risente profondamente.
Una conferma di quanto detto finora, ci viene dalle neuroscienze e in particolare dal concetto di emozioni vitali.
Antonio R. Damasio, in uno dei suoi libri più noti, Emozioni e coscienza, esprime questo concetto in modo molto efficace. Il titolo inglese di questo libro è The feeling of what happens, il sentimento di ciò che accade.
La tesi di Damasio è molto semplice. Ogni essere umano conosce la realtà, non solo attraverso giudizi o emozioni discrete o strutturate – piacere, gioia, vergogna, rabbia, nostalgia e così via – ma attraverso esperienze cenestesiche. In altri termini, conosco qualcosa attraverso lo stato corporeo che quella cosa determina in me.
Utilizzando una antica modalità di pensare dell’ebraismo, si potrebbe dire anche che le cose si conoscono colla mente, col cuore e collo stomaco.
Damasio, raccogliendo così un filone antichissimo di pensiero, ma corredandolo di dati empirici attuali, sostiene che per conoscere qualcosa si deve attivare, oltre al giudizio cognitivo e all’emozione che lo accompagna, un sentimento del corpo, che egli chiama emozione vitale, per distinguerla dalle emozioni discrete – rabbia, vergogna e così via.
Per esprimere le emozioni vitali, è necessario ricorrere a un linguaggio metaforico-sensoriale, al tempo stesso vago e preciso. Per esempio, posso dire che quel paesaggio mi fa sentire leggero o che quella persona mi fa sentire pesante, o che quell’oggetto mi fa sentire rugoso e ispido, mentre quell’altro mi fa sentire liscio. Le emozioni vitali si possono esprimere nello spazio – mi sento dilatato o costretto -, nel tempo – mi sento immobile o accelerato o proiettato, in avanti o all’indietro –, possono esprimersi come verificantisi alla superficie del corpo – sono morbido, rugoso, ispido, cedevole -, o al suo interno – mi sento un corpo estraneo nello stomaco o nei polmoni. Possono esprimersi come temperatura – mi sento gelido o bruciante –, o come volume – occupo molto spazio o nessuno –, o come peso-corpo leggero o pesante, o come vitalità - mi sento attivo e vivace o smorto e spento.
Sappiamo tutti che i poeti sono i più attenti interpreti di questo livello. Ma attualmente la psicologia dello sviluppo e le neuroscienze se ne interessano attivamente, e la psicoanalisi parla sempre più del come dire le cose oltre che del che cosa dire.
Daniel Stern ha parlato di emozioni vitali, in un modo molto simile a quello che sarà espresso da Damasio. Ma tutto lo sviluppo del Sé viene visto alla luce di questo aspetto.
Si potrebbe dire, anzi, che un concetto così problematico come quello di Sé, e così spesso usato in modo arbitrario e superficiale, acquisti alla luce di quanto detto una maggiore leggibilità e precisazione. Il Sé è il nostro esistere, è il nostro essere vivi in quanto tale, l’esistente che è in noi, che è noi. L’io è l’insieme delle operazioni mentali che mettiamo in atto per contemperare mondo esterno e desideri, istanze morali e impulsi originari, identificazioni e imitazioni transitorie, ideale dell’Io e io ideale.
Il corpo è il nostro esistente e accompagna il nostro conoscere con questa strana “musicalità” corporea, che sono le emozioni vitali e basiche.
Anche Wilma Bucci, un’autrice proveniente da campi diversi, parla, a proposito del codice multiplo, di livello sub simbolico. Questo mi sembra coincidre col livello del corpo cenestesico e della conoscenza attivata col supporto della dimensione appunto cenestesica dell’esperienza e che si raggiunge attraverso l’”azione referenziale”, un linguaggio cioè implicante la dimensione corporea del parlante.
Spero che questi pochi cenni ci permettano, anche se in modo molto veloce, di avvicinarci meglio alla pratica psichiatrica e concludere con qualche affermazione sul tema dei farmaci.
Nelle patologie psichiatriche gravi, il corpo accompagna la situazione psichica con modalità spesso imponenti, che possono in molti casi sopraffare la capacità di sopportazione del soggetto e addirittura impedire, colla loro intrusività, ogni attività mentale.
Nella psicosi, la costituzione di un mondo parallelo, impregnato di elementi mentali molto penetranti e dotati di grande invadenza, determina una sorta di preminenza della mente rispetto al corpo. Gli elementi psicotici sono dotati di forti qualità di ipersimbolizzazione e sembrano provenire da un mondo soprannaturale o comunque molto potente e universale. Il corpo ne risulta deprivato di vitalità, spento, disanimato, perché il mondo mentale lo schiaccia. La mente è ipercaricata di simboli ultrapotenti e il corpo ne esce appunto disanimato, un corpo di burattino, di legno o di cartone, senza vita propria. La mente fa tutto, il corpo non fa nulla, se non operazioni meccaniche senza vita.
Questa condizione è insopportabile e per fuggirla lo psicotico delira o compie gesti pericolosi o si rifugia in simbiosi ancora più devitalizzanti.
I farmaci sono essenziali per ristabilire un equilibrio e permettere di instaurare un dialogo fra corpo e mente.
Il borderline vive invece il suo corpo come continuamente perforato da oggetti duri e penetranti. Le esperienze traumatiche pregresse si riaccendono a ogni nuova frustrazione – reale o presunta – e confermano l’esperienza di un corpo avvolto da una membrana protettiva debole e insufficiente, che non assicura contro stimoli troppo potenti.
Anche le neuroscienze ci confermano che il borderline vive in un mondo che percepisce come una radio a volume troppo alto: tutto è troppo rumoroso. Perciò deve adeguarsi a questo livello di intrusività e invadenza, possibilmente capovolgendolo.
Immagini come un cervello non protetto dalla calotta cranica, o di corteccia cerebrale esposta all’esterno, senza meningi, si prestano bene a illustrare questa situazione soggettiva.
Il ricorso ai farmaci alleggerisce questa situazione e può permettere la costituzione di quella “meninge” farmacologia, in assenza della quale il sistema nervoso centrale è una fornace troppo bollente e incendiata. Il dialogo può cominciare.
Anche nella depressione maggiore avviene qualcosa di molto corporeo. Il soggetto depresso si terrorizza nel non trovare in sé il desiderio. Un corpo vivo, ma senza desiderio, è un corpo inconoscibile, forse mostruoso, comunque capace di far nascere un rimpianto spaventoso per quando il desiderio c’era e dava vitalità: perché sappiamo che è il desiderio provato a dare vitalità, più ancora che la sua soddisfazione.
Anche in questo caso, i farmaci permettono una riattivazione, che apre la strada alla possibilità di una psicoterapia.
I farmaci ci aiutano quindi a ritrovare una familiarità col nostro corpo, quanto questa familiarità va perduta e, attraverso questa via, ci consentono di aprire la strada al lavoro psicoterapico e psicoanalitico, che, in loro assenza, rischia, nei casi di patologie più gravi, di restare ostruito.


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