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TRA PSICOANALISI E PSICOTERAPIA

Cristiana Cimino



Si potrebbe pensare che il titolo di questa tavola rotonda affermi implicitamente che esista una prospettiva psicoanalitica ed una psicoterapeutica, ossia una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, da una parte. Dall’altra che il sapere relativo a ciascuno di questi modelli sia un sapere chiaro. Temo che non sia così. Il dibattito nella comunità scientifica è aperto e sempre più ingarbugliato, ci si interroga non solo sulle differenze e/o similitudini fra psicoanalisi e psicoterapia, che è una annosa questione, ma ci si pone una domanda ancora più radicale che riguarda lo statuto stesso della psicoanalisi, la sua esistenza e le sue possibilità di sopravvivenza. Questioni aperte e contraddittorie, ulteriormente sollecitate, almeno in Italia, da una legge sull’esercizio delle psicoterapie nell’ambito della quale la psicoanalisi non è prevista: essa viene equiparata a qualsiasi altra psicoterapia, come dire che in quanto tale “non esiste”. D’altro canto nello statuto della SPI, ad es., che dopo molto pensare ha deciso di uniformarsi alla legge, non compare mai il termine di psicoterapia, ossia nell’ambito del programma di training si fa riferimento solo alla formazione di psicoanalista. Potrebbero sembrare puri ingarbugliamenti e aporie dovuti all’ingerenza della legge: ho idea che sia qualcosa di più.

Ci si interroga insomma sulla natura stessa della psicoanalisi e sulla sua collocazione. Questo quesito e le possibili risposte ruotano, nell’ambito della psicoanalisi contemporanea (ma ormai da tempo), fondamentalmente intorno alla liceità o meno di collocare la psicoanalisi tra le scienze naturali, a sua volta collegata alla annosa questione mente-corpo. Nell’ambito di questa ventata che arriva soprattutto da oltreoceano, (nonostante essa prenda sempre più piede anche in Europa) esistono a grandi linee due posizioni (classificazione di John Gedo che ho rimaneggiato): 1) alcuni analisti non tengono conto del substrato somatico e sono orientati a pensare la psicoanalisi ed in genere la psicologia come interamente fondata sulla comprensione dei meccanismi che governano lo psichico (es. Merton Gill). Molti di questi autori hanno di fatto adottato una prospettiva del tutto ermeneutica, (priva degli obblighi a cui devono rispondere le così dette scienze naturali) la cui estrema conseguenza è che la psicoanalisi debba arrivare ad una “verità narrativa” (piuttosto che a una ricostruzione), sempre rimaneggiabile. L’ispiratore è Donald Spence, esponenti di spicco Roy Schafer, John Gedo, in Italia Nino Ferro.

E’ nota la reazione di Grunbaum (la psicoanalisi sarebbe “cattiva scienza” in quanto le sue ipotesi non sono adeguatamente sostenute da fatti, cioè dal dato empirico: insomma, le sue teorie non sono provate). Nota è anche la non trascurabile ricaduta sociale (assicurazioni) che ha avuto negli Stati Uniti. Essa è stata appoggiata da analisti ed epistemologi come Benjamin Rubinstein e Marshall Edelson. Grunbaum, che è in realtà un sostenitore della psicoanalisi, ha (inoltre) duramente criticato l’assunto per il quale ogni contenuto mentale possa convalidare qualsiasi ipotesi di causalità all’INTERNO della teoria psicoanalitica, una sorta di autoreferenzialità della psicoanalisi, insomma. Che è proprio quello che altri per la psicoanalisi rivendicano.

L’altra tendenza della psicoanalisi contemporanea, tra i cui rappresentanti si situano Rubinstein e Strenger, analisti ed epistemologi, 2) sostiene che il mentalismo (riconducibile al dualismo cartesiano) è incompatibile con le scienze naturali (nell’ambito delle quali si vorrebbe far rientrare la psicoanalisi) perchè non è verificabile. Questa tendenza propone una prospettiva monista per affrontare il problema mente-corpo, considerando di fatto il cervello come un processore di informazioni. In altre parole appoggia la critica di Grunbaum e sostiene che le ipotesi psicoanalitiche necessitano di una validazione extraclinica, che nella fattispecie risiederebbe nelle conoscenze di tipo neuropsicologico. Alcune di queste conoscenze sarebbero già in grado di invalidare alcuni assunti biologici freudiani alla base della matapsicologia, come il “principio di costanza” (il concetto di energia psichica non sarebbe più considerabile valido dal punto di vista biologico ma una nozione vitalista), il che di fatto priverebbe la teoria pulsionale della sua logica. Inoltre, secondo alcuni autori, come Robert Holt, da un lato la metapsicologia si fonderebbe sull’ipotesi che il SNC sia passivo; dall’altro, l’ ipotesi sottostante al principio di piacere-dispiacere sarebbe puramente quantitativa, tutti assunti non più sostenibili biologicamente. Il discorso sulla plasticità neuronale è stato più recentemente ripreso in una prospettiva interessante da Francois Ansermet e Pierre Magistretti, che tentano una coniugazione tra psicoanalisi e neuroscienze, ed in qualche modo, dagli studi sul trauma (l’autorità nel campo è Bessel Van Der Kolk). Recentemente il premio Nobel Kandel ha affermato che il punto debole della psicoanalisi starebbe nel non avere ancora trovato una modalità oggettiva di osservazione dei fatti.

Nonostante questa sfida alla metapsicologia freudiana non sia mai stata veramente raccolta, vari autori hanno tentato di trovare nuove concettualizzazioni e modelli per rispondere: Rosenblatt e Thickstun hanno tentato la riscrittura di una metapsicologia basata sull’ipotesi che le funzioni mentali sono fondamentalmente basate sulla comunicazione dell’informazione: l’input informativo attiva una serie di sottosistemi mente-cervello senza arrivare, in genere alla coscienza. Le attività del sistema mente-cervello hanno luogo attraverso un sistema di feed-back organizzato prima in settori e poi in programmi integrati che prendono la forma di una gerarchia al servizio degli scopi dell’individuo. Dall’invalidazione della teoria pulsionale origina il tentativo di mettere a punto una nuova teoria della motivazione: es. Lichtemberg e le cinque motivazioni innate che si organizzano attraverso un sistema di feed-back legato agli affetti. Secondo Wilma Bucci il terreno intermedio ideale tra psicoanalisi e neuroscienze è quello della psicologia cognitiva, dove raggiungerebbero il massimo dell’integrazione. Propone un modello di sviluppo cognitivo congruo con le attuali conoscenze neurofisiologiche (modello della processazione subsimbolica e simbolica, legato ai sistemi di memoria dichiarativi e procedurali: non esisterebbe un solo codice di base, il linguaggio, insomma, ma due almeno codici): l’ipotesi auspicata da Rubinstein. Bucci segnala che il sistema guida per l’azione è l’emozione, e che il nucleo dell’affettività è legato a schemi percettivi non verbali. La psicoanalisi dovrebbe quindi andare oltre la tecnica standard per raggiungere i vari livelli della gerarchia cognitiva, una tecnica che vada “al di là dell’interpretazione” (la vecchia tesi di Gill). C’è da chiedersi quale analista ormai pensi più che l’interpretazione sia uno strumento necessario e anche sufficiente.

Altri analisti, come George Klein, ormai molto tempo fa, e Wallerstein più recentemente, hanno tentato di mettere a punto una teoria puramente clinica della psicoanalisi, una sorta di “tout se tient”, che è di fatto un disconoscimento del pensiero freudiano che lega indissolubilmente teoria e pratica clinica.

Naturalmente per alcuni analisti la psicoanalisi va bene così com’è.

In Europa si è un po’ meno ammaliati, ma non tanto meno, dalla tentazione di ricorrere ad un ingenuo scientismo positivista, e si tende a pensare, in modo più complesso e problematizzato, che la formulazione e l’abbandono di modelli debba rientrare nell’ambito di sistemi di riferimento specifici.

Per quanto riguarda i due orientamenti nati dalla diaspora teorica e clinica, l’ultimo, curiosamente, attento al corpo, sostenitore della opportunità se non necessità di una riscrittura della metapsicologia, appare tuttavia più vicino agli assunti freudiani, soprattutto per quanto riguarda l’obiettivo di rendere la psicoanalisi “scientifica”, almeno nel senso di prevedere la sostituzione di nuove teorie a quelle esistenti, qualora se ne presentasse la necessità e/o possibilità. Il primo, invece, che non si pone il problema del corpo, che è il dato fondamentale (nella forma delle scoperte neuropsicobiologiche) da cui nascerebbe la necessità di riscrivere la metapsicologia, appare ormai lontanissimo dagli assunti freudiani, cosa che non manca di stupire, come da più parti è stato fatto osservare. Questa lontananza dal paradigma freudiano risiede nel sostanziale abbandono della teoria pulsionale, nel valore assoluto dato alla produzione continua di senso da parte della coppia analitica ed alla sua progressiva simmetrizzazione, talvolta dichiarata (v. Owen Renik) tra analista e paziente. La storia perde valore mentre ne acquista il qui ed ora della relazione e delle sue produzioni. Prevale la costruzione a fronte della decostruzione-ricostruzione. Trovo che il secondo paradigma risenta, come effetto rebound, del precedente tentativo di scotomizzare il controtransfert (soprattutto negli USA) come e precedentemente era accaduto con il transfert, sappiamo con quali conseguenze incresciose per lo stesso Freud. Questo orientamento ha avuto tuttavia il merito di introdurre un’idea di cura come continua risignificazione, non come semplice reperimento di materiale storico. Le sue estreme conseguenze (quelle che personalmente considero le attuali derive) portano ad una prospettiva che vede sempre più la relazione terapeutica come reale, come interazione tra “persone”.

Buona parte della psicoanalisi attuale sembra insomma avere rinunciato all’idea che la funzione analitica consista nella decifrazione di un linguaggio altro, per orientarsi verso una prospettiva per la quale ciò che è in superficie è altrettanto profondo del profondo, il che potrebbe anche funzionare, ma bisognerebbe chiarire in che senso. Certamente se parliamo del sintomo, che è superficiale e profondo al tempo stesso.

A questo proposito viene utilizzato l’argomento della maggiore democraticità ed antiautorità del rapporto terapeutico (“we generation”), ci si concentra di conseguenza sulla persone dell’analista e su ciò che egli apporta nel rapporto analitico. Questo orientamento tende a valutare fortemente una “qualità” di presenza dell’analista, del suo ascolto, e quindi le vicende del controtransfert. Non si può non pensare all’abusatissimo e piuttosto ambiguo concetto di empatia. Sta di fatto che per quanto riguarda un possibile elemento di specificità questo concetto non aiuta: l’empatia rientra tra i criteri evidentemente aspecifici per ammissione dei suoi stessi sostenitori. Penso che questa enfasi estrema data al controtransfert in tutte le sue declinazioni (sembrerebbe più opportuno parlare di transfert dell’analista) sia una variante del suddetto effetto rebound, una reazione al lungo periodo di uso scellerato della così detta “neutralità” e dell’“astinenza”.

Gli analisti hanno rinunciato (potremmo fare delle ipotesi sul perchè) all’occultamento punitivo di sé stessi, da una parte, e dall’altra, ad un tenore di frustrazione che non esito a definire sadico, nei confronti dei loro pazienti. Basti pensare a Langs che raccomanda agli analisti l’abito grigio di una taglia più grande (che non lasci intravedere le forme de corpo) e l’equivalente per le donne. O agli studi di tanti analisti anglosassoni, simili a celle monastiche. Desiderio di mostrarsi, di comparire, forse di “riparare”. Insomma, un tentativo di uscire da un modello di pratica clinica grottesco se non fosse tragico che, certo, non ha contribuito ad una diffusione laica della psicoanalisi, ma semmai a creare intorno ad essa un alone di mistero e/o di reverenza religiosi, forse per cadere, adesso, in qualcosa che non so se promette meglio.

Rispetto al problema della validazione (recentemente Polanyi ha ridimensionato l’importanza della validazione rispetto al processo della scoperta scientifica), vorrei citare un paradosso: la ricerca dice che i fattori aspecifici hanno un alto valore terapeutico ed allo stesso tempo ce l’ha anche la fiducia del terapeuta nel proprio metodo specifico: tanto più ci crede, tanto più cura, insomma. Naturalmente ci si chiede: cura rispetto a che? Quali sono i criteri di guarigione? Quanto c’entra l’adattamento, il corrispondere a una norma?

Questa più o meno la situazione attuale, la domanda iniziale seguita a porsi: esiste uno specifico della psicoanalisi, e se sì, qual è?

Posso dire la mia fatte queste doverose premesse.

Io amo la psicoanalisi e la pratico, e finché non sarà riscritto, se lo sarà, continuerò ad adottare il modello metapsicologico freudiano, che trovo elegante e potentissimo nella sua applicazione. Penso, tuttavia, che la psicoanalisi debba prevedere sia la formulazione che l’abbandono di modelli possibilmente specifici, senza preoccuparsi che essi siano precari e provvisori. Del resto non è la psicoanalisi disciplina del provvisorio, del disidentitario, della claudicanza, dell’allungatoia a fronte della scorciatoia? Cosa caratterizza la psicoanalisi, qual è il suo statuto? E’ certo nel metodo: attenzione liberamente fluttuante, transfert ubiquitario ma che in analisi si deve utilizzare e saperlo fare. A questo proposito Freud cita l’Amleto che, a Rosencrantz e Guildestern che tentano di scoprire il motivo del suo malumore, di farlo parlare, insomma, dice: “voi non riuscirete a farmi parlare, voi mi potete solo punzecchiare”. L’analista è uno che invece sa far parlare, naturalmente il soggetto dell’inconscio. E’ nell’esperienza fondamentale di analisi personale, e aggiungerei: fuori dall’istituzione, ma questo tema richiederebbe un testo a parte. E’ nel suo obiettivo, ossia la sostituzione del soggetto della coscienza con quello dell’inconscio. Credo che questo obiettivo sia ancora ben illustrato dalle due famose metafore freudiane del 1904 e del 1918: arte in via di porre a fronte di arte in via di levare, analisi come lavoro che il chimico compie sulle sostanze per isolare un elemento; “noi analizziamo, non facciamo sintesi, dice ad Anna, non ce n’è bisogno, gli elementi vanno a posto da sé.” In termini più moderni parleremmo naturalmente di decostruzione, di smantellamento del soggetto ingannatore della coscienza e del senso comune: attraverso i fraintendimenti (Bion), l’attenzione ai derivati dell’inconscio ed alle loro mille forme declinate nel sintomo e nelle sue trasformazioni, a ciò che parla attraverso gli strappi.

È in corso un’analisi dunque quando si presentifica, quando parla il soggetto dell’inconscio ed in base ad esso si costituisce un nuovo sapere. Per dirla con Freud, un sapere che non si sapeva di sapere (1926). E direi, anche, quando si rende possibile, sappiamo a che prezzo, la rinuncia al godimento (tossicomanico) del sintomo, andando “là dove l’Io deve andare”. Questo al di là di ogni assetto “esterno” ( e sappiamo che valore è stato dato ai rituali del setting analitico), ma anche di ogni appartenenza formale o di codifica giuridica.

E’ stato Freud il primo a porsi il problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: sempre nel testo del 1918 (Vie della terapia analitica), affronta il problema dell’estensione della psicoanalisi alle classi sociali meno abbienti, prevedendo con una certa sicurezza l’avvento di un giorno in cui sarebbe stato necessario formulare una “psicoterapia per il popolo”. Ma ciò a cui veramente tiene Freud è enunciare le due coordinate che fanno la differenza della psicoanalisi: la privazione, ossia l’astinenza, e la discrezione. Con questo termine semplice e mirabilmente esplicativo Freud si riferisce a quella attività analitica che ha a che fare con lo scoraggiare il paziente dall’identificarsi con il medico, in sostanza a non esercitare il potere che ovviamente egli possiede agli occhi del paziente. Credo che queste due coordinate conservino, nella loro accezione originale, si sa quanto tradita, lo stesso valore, come salvaguardia dall’indicazione, dal consiglio, dal sapere cosa è bene per un paziente, anche se sappiamo che la suggestione si annida ovunque. Ma non è un buon motivo per non sorvegliarla, sempre che si faccia della psicoanalisi, cosa che non è obbligatoria, né è disdicevole, anzi, fare della psicoterapia.

Quanto all’astinenza, ne ho già accennato, basta dire, con Freud, che il meglio è nemico del bene (l’esperienza della seduta a tempo variabile è illuminante, niente a che vedere con la tetraggine ed i setting punitivi di cui ho detto).

Molti pensano che la psicoanalisi sia una specie di sottoinsieme contenuto nella psicoterapia: l’analisi non è, insomma, solo una cura, va oltre. Non lo credo. E non lo credo nel senso che credo, invece, che proprio nella specificità della funzione analitica che ho ipotizzato, cioè quella di far parlare il soggetto dell’inconscio, formulare un sapere nuovo, una propria e unica verità, risieda il più potente strumento di cura. Cura e sapere, quindi, cura e conoscenza, se si fa della psicoanalisi, coincidono. Certo, in questa prospettiva la cura non ha niente di normativo o normalizzante, è lontanissima sia dal modello medico che dal modello che propone e chiede la legge. Perchè in fin dei conti questa legge non fa che il suo lavoro: regola una funzione sociale, quella psicoterapica. Essa fa quello che fa la medicina, che se non guarisce (quasi nessuna malattia guarisce, in medicina), conduce ad una migliore funzionalità, che va benissimo, ma ha poco a che fare con l’idea che io (e non solo io) ho della psicoanalisi. Essa non è normativa e se ne infischia anche della migliore funzionalità, dicasi pure adattamento. In altri tempi si sarebbe detto che è eversiva, Jacques Alain Miller ha detto che è terroristica. Questo pone costantemente a noi analisti problemi etici. Si sa da dove si parte, più o meno, certo non dove si arriva, né la strada. Bion si augura che l’analista provi sempre un po’ di paura nell’iniziare una seduta, e che sia provvisto di sufficiente coraggio per tenere la propria posizione.

Per tornare all’inizio, nella legge italiana compare il termine psicoterapia, come a dire: se esistono malattie dell’apparato cardiovascolare o gastrointestinale, possono esistere anche malattie della psiche, una volta digerito il fatto che non sono proprio malattie del cervello (alla maniera di Griesinger), per quelle c’è già la psichiatria o persino la neurologia. Siamo sostanzialmente nel paradigma medico della cura: malattia=cura=guarigione. La psicoterapia si può istituzionalizzare, regolamentare, forse lo si deve anche fare. Se è vero che la legge è un sintomo, come afferma Benvenuto, questo sintomo mostra il destino della la psicoanalisi e ancora una volta ci costringe a interrogarci su di essa. Nessuna disciplina si interroga tanto sul proprio statuto, persino sulla propria esistenza, la psicoanalisi morirà e ancora si chiederà se esiste e che cos’è veramente. Ma non credo che si interroghi perchè la legge la costringe a farlo o perchè è in crisi. Si interroga in quanto destinata a sfuggire sempre alla nostra presa, nonostante i tentativi di addomesticamento del discorso freudiano, a restare in una dimensione atopica ed anomica. Perchè funziona da oggetto perduto? Perchè il sapere che veicola è il vero unheimlich? Forse ambedue, e credo sia per questo che tiene vivo l’interesse, l’amore per lei.


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