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LA DIREZIONE DELLA CURA. TRA PILLOLE TEST E PAROLE

Sergio Benvenuto



Tra le persone colte in America, soprattutto tra psicologi e psichiatri, è molto diffuso un cliché: “Oggi le sofferenze mentali non si curano più con la psicoanalisi, ma con i farmaci.” In effetti, si ha l’impressione che oggi la psicoanalisi in America sia del tutto marginale (resto sempre stupito questi ultimi anni dal fatto che si diffondano in Italia correnti e autori psicoanalitici americani, insomma, da un paese dove la psicoanalisi è data per spacciata). Ma anche in America si osserva quel che ho osservato in Italia: che moltissime persone sia prendono farmaci, sia fanno una psicoterapia, spesso di tipo analitico. Contrariamente a quel che si dice, psicoanalisi e psicofarmacologia, di fatto, si sostengono segretamente a vicenda. Sono due interventi che si situano a due diversi livelli. Il compito concettuale difficile è distinguere in modo chiaro la specificità di questi due livelli. Tanto più che alcune ricerche hanno mostrato come una buona parte degli effetti degli anti-depressivi – ad esempio - possano essere ricondotti al placebo. E che differenza c’è tra il placebo farmacologico e il placebo psicoanalitico? E ha senso parlare di placebo psicoanalitico, ovvero di effetti non specifici della relazione analitica?
Ad esempio, in che cosa il transfert che lega un analizzando al suo analista differisce dal transfert che lega un paziente allo psichiatra che gli prescrive un farmaco? Forse che nel primo opera “il soggetto supposto sapere” mentre nel secondo opera “l’essere umano supposto potere”? E in cosa differisce il transfert – descritto da Freud come la ripetizione di legami arcaici nell’alambicco dello studio analitico – dai tipi di legami che ci legano ad altre persone, medico psichiatra incluso? Tutti i rapporti sociali intensi e coinvolgenti mettono in gioco un transfert, ma il problema è appunto distinguerli, ammesso che siano distinti: cosa separa il tipo di investimento affettivo che un analizzando fa nei confronti del suo analista rispetto a quello nostro nei confronti del maestro da cui impariamo il mestiere o il modo di pensare? O rispetto al politico che adoriamo, o all’avvocato a cui ci affidiamo in situazioni difficili, o al medico da cui ci facciamo curare con fiducia? Molto nella vita sociale è “transferale”, ma la questione di separare questi transfert resta aperta.


Si è spesso detto che la psicoanalisi sconti una sorta di peccato originale: di essere nata – sia come teoria che come pratica – da una configurazione sociale precisa, quella del medico libero professionista che riceve il cliente nel suo studio. La psicoanalisi è nata non nello squallore dell’ospedale psichiatrico, non nel crogiolo dei grandi numeri del Servizio Sanitario Nazionale, non nel lindo campus universitario, non nei furori delle assemblee o dei gruppi, ma nello studio del medico che – allora più che oggi – faceva stendere il paziente su un lettino. Clinica non viene da ÎÏÈÓË (kline), letto? La durata standard di una seduta analitica classica – tra 45 e 50 minuti – era la durata media, accettabile, di una visita medica a Vienna un secolo fa. E del resto, buona parte degli analisti riservano ancora il termine di “paziente” al loro…. analizzando, analizzante, cliente, interlocutore?... come chiamarlo?
Ben presto, come è noto, gli allievi di Freud cercarono di portare la psicoanalisi al di fuori della pratica clinica standard in studio. Allora si cercò di “vendere” l’approccio psicoanalitico agli eserciti belligeranti nella 1a guerra mondiale (cura delle nevrosi di guerra), poi si trattarono “pazienti” non originariamente previsti come curabili: bambini, psicotici, borderline, autistici, tossicodipendenti, malati somatici (medicina psicosomatica) – e anche istituzioni, gruppi, aziende. Si pensò ben presto che la psicoanalisi, come tipo di ascolto e come griglia interpretativa, potesse essere applicata nella pedagogia, nella prevenzione del crimine, nelle istituzioni sanitarie, nella medicina di base (gruppi Balint), negli ospedali psichiatrici, nelle imprese, ai disagi familiari e sociali, ecc. Queste applicazioni multiformi della psicoanalisi a contesti e soggetti al di fuori del classico setting raggiunsero un acme alla fine degli anni 60 e 70. Nell’effervescenza di allora fiorirono vari esperimenti di comunità terapeutiche o cliniche per psicotici, di terapie di gruppo, di interventi sociali, tutti a impostazione psicoanalitica. Alcuni libri – come quello di Racamier sull’analista senza divano – divennero bestseller e restano tali. Poi, un certo declino del prestigio della psicoanalisi a partire dalla seconda metà degli anni 80 ha ridimensionato queste ambizioni espansioniste del discorso analitico.
Ben presto, comunque, ci si è interrogati su che cosa fosse veramente quel che si è convenuto di chiamare l’ascolto analitico, se deportato fuori dal contesto in cui era sorto. In altre parole, una volta tolti tutti i rituali del setting analitico – la poltrona e il divano, le sedute scadenzate, la relazione a due escludente il mondo esterno, ecc. – che cosa alla fine resta come essenzialmente psicoanalitico? Se l’essenza della psicoanalisi non va confusa con le sue applicazioni e con i suoi rituali, che possono essere multiformi, in che cosa consiste questa essenza? E ancora: esiste veramente questa essenza?
Si vede bene come una questione in apparenza del tutto pratica – creare nuovi setting in cui far funzionare il discorso analitico – si lega strettamente, ben presto, ad una questione quasi filosofica: che cosa è davvero essenziale della psicoanalisi, per cui, tolto questo essenziale, essa non è più tale?


Alcuni hanno pensato che, una volta cambiato il setting, la stessa visione dell’uomo di Freud dovesse necessariamente cambiare. Il luogo e il modo di produzione di un sapere determinano il tipo di sapere stesso: cambiando i luoghi e i modi, il sapere stesso cambierà. Abbiamo avuto così teorie post-freudiane, o anti-freudiane, od a-freudiane, ispirate ai nuovi setting e ai nuovi utenti. Di solito, però, la psicoanalisi si è vista scavalcata da teorie molto diverse dalla psicoanalisi stessa, le quali si sono sviluppate appunto a partire da utenti di tipo molto diverso da quello originario dello psicoanlista. Nel trattamento delle famiglia, per esempio, è prevalsa la teoria sistemico-relazionale; nel trattamento dei gruppi la gruppoanalisi (Foulkes, Bion, Kaës, Napolitani); nella cura degli psicotici prima la fenomenologia poi la psichiatria organicista; nel trattamento dei bambini la teoria dell’attaccamento a partire da Bowlby, ecc. Ma la domanda resta: che cosa è essenzialmente la psicoanalisi?
In effetti, sin dai suoi albori, la psicoanalisi ha avuto un carattere spurio, impuro ed eteroclito. Essa è stata sempre un po' psicoterapia medica, un po' teoria scientifica, un po' pratica ermeneutica, un po' Buona Novella politico-esistenziale, un po' professione corporativa, un po’ consulenza spirituale. Alcune personalità non tollerano questo guazzabuglio. Esse vogliono purificare la psicoanalisi e schiacciarla su uno dei suoi tanti lati: o farne una scienza rigorosa, o ridurla a psicoterapia basata sulla Evidence Based Medecine (come quelli che dicono "la psicoanalisi è solo una psicoterapia, ma fatta bene"), o farne un'ermeneutica, o pura decostruzione (analisti derridiani), o una dinamica intersoggettiva. Il pericolo di queste "purificazioni" - od epurazioni - e' la loro hybris: la perdita di contatto con la rigogliosa impurità della psicoanalisi. Quella impurità che fa sì che essa morda sul reale, sempre complesso e impuro. Io trovo proficuo, e non fallimentare, il fatto che ciascun analista ancora si interroghi su che cosa sia la psicoanalisi. Forse perché, per mia indole, non amo le epurazioni, nelle quali eccelleva Stalin.
Ad esempio, la psicoanalisi nacque con propositi nettamente interpretativi: L’interpretazione dei sogni è il primo saggio veramente psicoanalitico. Da qui l’idea, ancora diffusa tra molti, che la psicoanalisi sia essenzialmente una forma di ermeneutica, che insomma essa sia una pratica squisitamente interpretativa perché l’essere umano è nel fondo un animale interpretante. L’ermeneutica lacaniana ha poi puntato su un’interpretazione enigmistica, considerare sogni e atti come rebus, ma sempre ermeneutica è. Questa riduzione ermeneutica della psicoanalisi però elimina molti altri aspetti fondamentali della stessa: il suo auto-interpretarsi anche come una cura (quindi non lontana dall’etica medica), di volersi anche una visione scientifica dell’essere umano, il suo fare appello ad una “economica” (ovvero ad una economia delle pulsioni), la sua pretesa di toccare comunque un reale, ecc. Tutti questi lati – diciamo non umanistici - della psicoanalisi vengono sacrificati alla sola ricerca interpretativa del senso.
All’opposto, la tendenza che vuole riportare la psicoanalisi nella psicologia scientifica e nell’ambito delle psicoterapie corroborate secondo protocolli scientifici tende ad eliminare completamente la sfida interpretativa dell’analista: questi ha da manipolare solo emozioni ed affetti facili da nominare, non dovrà arrischiarsi ad applicare codici o griglie interpretative che è difficile, o impossibile, verificare. Anche qui, però, si sacrifica una specificità della psicoanalisi: la sua scommessa per una chiave simbolica persuasiva, per quel che Wittgenstein – rifacendosi alla “fisica” di Goethe - chiamava una übersichtliche Darstellung, una rappresentazione perspicua.
A ciò dobbiamo aggiungere che la stessa psicoanalisi nel setting classico ha poi preso indirizzi etici, filosofici, scientifici e tecnici del tutto diversi. In effetti, i grandi filoni oggi presenti sulla scena internazionale – l’Ego Psychology, la Self Psychology, il kleinismo e bionismo, il winnicottismo, il lacanismo, gli approcci relazionali, quelli ermeneutici, e pochi altri – non sono solo delle differenze teoriche: ognuna di queste scuole comporta – in modo esplicito od implicito – una definizione di quel che sarebbe essenziale della psicoanalisi, sia come cura che come teoria della soggettività. In particolare, queste tendenze non condividono tra loro – o sembrano non condividere – quello che potremmo chiamare il fine ultimo dell’analisi, aldilà della tecnica che poi si adotta.
E’ vero, c’è un certo consenso tra analisti nel pensare che la psicoanalisi non sia semplicemente un trattamento di sintomi psicopatologici. Detto altrimenti, la psicoanalisi non è essenzialmente una psicoterapia – anche se in parte evidentemente lo è. Lo stesso Freud diceva che la psicoanalisi era anche un metodo psicoterapeutico. D’altra parte, la psicoanalisi non è nemmeno una tecnica – come ne esistono oggi tante – per incrementare la qualità della vita dei soggetti, per renderli più felici, più soddisfatti, più creativi, più produttivi. Anche se un analista (persino lacaniano) potrebbe portare tutte queste conseguenze come prova o segno del successo di un’analisi. Ma appunto, la guarigione o la soddisfazione del soggetto non sono cose che l’analista deve perseguire esplicitamente: sono qualcosa che l’analisi produce in sovrappiù, come una sorta di premio speciale per un’analisi riuscita. Il che ricorda certe tecniche orientali, come ad esempio quella zen del tiro all’arco: per colpire il bersaglio, devi dimenticare di dover colpire il bersaglio…


Eppure Freud si pronunciò su quel che per lui era il fine ultimo, la teleologia, della psicoanalisi. Disse che il fine dell’analisi era

Wo Es war, soll Ich werden.

Ci si è accapigliati spesso su come tradurre questa frase. Es è la terza persona neutra in tedesco, una persona che non abbiamo in italiano, da qui l’imbarazzo della traduzione. Si è ricorso al latino Id, ma perché non gli italiani Quello o Cosa? Io sceglierò proprio Cosa, come quando si dice “che cosa ti prende?” oppure “che cosa sta succedendo?” Inoltre – come ha ricordato Jean Oury in questo convegno – sollen è dovere in senso morale, per cui andrebbe tradotto con “devo volere”. E was è sia passato remoto (fu) che imperfetto (era).
Una traduzione possibile è allora:
“Dove Cosa (Es) era [fu], là Io devo voler subentrare”.
Un’altra è:
“Dove Cosa era [fu], là Io devo voler addivenire (accedere)”.
Tra le due traduzioni la differenza è essenziale. Werden infatti è un verbo ambiguo, significa sia diventare che subentrare. Si può quindi interpretare la suddetta frase di Freud o nel senso (1) che l’Io debba sloggiare l’inconscio, Es, oppure nel senso (2), che l’Io debba raggiungere uno status inconscio, che gran parte dell’Io debba passare dalla parte dell’inconscio, non più contrapporsi ad esso, pur restando Io. In questo caso Io non è semplicemente “l’Io” del modello topico di Freud, ma Io come soggettività nel senso più ampio.
In effetti, sono possibili due freudismi polari a seconda che si interpreti il dovere di Io come subentrare al posto dell’inconscio, oppure come entrare nello spazio dell’inconscio. Possiamo dire che la prima interpretazione è quella che ha guidato l’Ego psychology soprattutto americana – ma non solo -, che è stata dominante in molti paesi. La seconda interpretazione è di carattere piuttosto dionisiaco – nel senso in cui Nietzsche parlava di dionisiaco. Essa caratterizza in particolare la variante lacaniana, ma non solo. In effetti, Lacan propone la seconda interpretazione del detto freudiano, che traduce:
Là où C’était, Je dois advenir
Dove C’ è contrazione di ça (questo, quello), traduzione francese di es.
Per Lacan la soggettività deve prendere alcuni caratteri dell’inconscio, deve diventare essa stessa in qualche modo inconscia (anche perché per lui la soggettività vera è già inconscia).
Non sta a noi dire se la corretta lettura di Freud sia la prima o la seconda. La mia opinione è che Freud stesso oscilli fra queste due opzioni. Anche in questo, forse, la psicoanalisi è spuria: non ha un solo fine, ma più di uno. I suoi fini certo sono connessi, ma non si implicano in modo lineare e inferenziale.
In verità, i commenti successivi di Freud (in L’Io e l’Es) farebbero pensare che egli intenda la prima variante: che l’Io debba rafforzarsi a spese dell’inconscio (anche se per Freud l’Io è in gran parte inconscio). Freud evoca lo Zuidersee olandese, che aveva impressionato all’epoca: fette di terra erano state sottratte al mare e colonizzate. In questa ottica, l’analisi sarebbe una sorta di inaridimento, anche se molto parziale, del gran mare dell’inconscio? L’io essiccherebbe la liquidità magmatica dell’Es? L’Ego psychology ha sviluppato questo scopo etico della psicoanalisi come rafforzamento dell’Io. L’Io, rinunciando a meccanismi di difesa troppo rigidi e inappropriati, giungerebbe sempre più a controllare le pulsioni al fine di adattarsi alla vita sociale, che richiede all’Io rinunce e compromessi. Psicoanalisi adattativista, suol dirsi con un certo disprezzo. Ma è indubbio che la frase di Freud su cui stiamo riflettendo rende possibile questa lettura. L’estensione della soggettivazione implica di fatto se non un aumento, certo un perfezionamento delle difese e del controllo sulle proprie pulsioni, un incivilimento della barbarica libido.
L’altra lettura può essere a sua volta illustrata con un esempio marittimo. In questo caso, non si tratterebbe di essiccare parte del mare per costruirci campi e case, ma piuttosto di navigarci. Soprattutto se si naviga essenzialmente per vivere a contatto, direi in comunione, col mare. E’ il navigatore estremo, mistico, come descritto da Melville, Conrad o da “Il vecchio e il mare” di Hemingway. In questo caso non si tratta affatto di conquistare la terra al mare – l’Io all’Es – ma di vivere nel mare e col mare.
Questa risonanza marittima fu ripresa da Elvio Fachinelli, in particolare nel breve scritto “Sulla spiaggia”, pubblicato in La mente estatica. Proprio in questo mese ricorre il ventennale della sua scomparsa. Qui, davanti ad un mare di settembre, Fachinelli si lascia andare a pensieri e sensazioni che mettono radicalmente in questione la teoria di Freud imperniata sulle difese.

Rendere conscio può significare […] delineare, prima e dopo, il posto occupato dal sistema vigilanza-difesa. Non pretendere di far passare attraverso di esso ciò che non gli appartiene. Progetto infantile: svuotare il mare con un secchiello. […] Anche il progetto di Freud – prosciugare l’inconscio, come la civiltà ha prosciugato lo Zuidersee – è infantile. (La mente estatica, Adelphi, Milano, p. 21)

Questa insistenza sulla funzione difensiva rivela un presupposto offensivo, aggressivo, virile, di cui la psicoanalisi è intrisa. Invece Fachinelli rivendica una posizione più femminile, di accoglienza, di recettività, di lasciar essere o lasciarsi andare, di abbandono – di Gelassenheit dicevano i mistici tedeschi medievali. Non un ergersi della coscienza contro la natura, soprattutto contro la propria natura pulsionale, ma al contrario, abbandonare la propria coscienza nel gran mare dell’inconscio, che in un certo senso è il polo naturale dell’essere umano.

Ora il rombo del mare è un respiro calmo, profondo. Chiudo gli occhi. Non c’è bisogno di vigilare. I suoni, scollegati dal loro aggancio visivo, hanno più spazio, diventano voci singole, con timbro e grana diversa. Di fronte a ciascuna, non attesa né timore. Soltanto meraviglia (op.cit., pp. 24-25)

L’evocazione di questa estasi marittima sembra avere un rapporto molto tenue con la psicoanalisi, che per lo più avrebbe puntato invece sulle funzioni della difesa e del controllo. Ma il mare qui diventa protagonista come figura stessa del reale, di un qualcosa che circonda l’umano e lo definisce, ma senza appartenere ad esso. Un inconscio quindi non più ridotto all’umano troppo umano dell’intersoggettività, delle relazioni, della comunicazione, dello scambio linguistico, dell’interazione – come oggi pretendono molte psicoterapie alla moda - ma ad una abissalità ad un tempo distante e vicinissima. Un reale che non bisogna inaridire, ma che occorrerebbe abitare.


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