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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Carlo Sini

Immagine e immaginario in Wittgenstein e in Freud


Parole chiavi: Wittgenstein su Freud – “Aldilà del principio di piacere” – Senso etico del “Tractatus” - C. S. Peirce - Foucault e la psicoanalisi

Non sono poche le affinità che legano Wittgenstein a Freud, ma anche le critiche sono altrettanto importanti. Qui interessano soprattutto le critiche rivolte alla natura ibrida dei principali concetti psicoanalitici. Secondo Wittgenstein essi oscillano tra il corporeo e il mentale, il fisico e lo psichico, il fenomenologico e l’ermeneutico. È del resto noto che, dopo una prima fase di ampia e sostanziale adesione, Wittgenstein divenne col tempo sempre più critico nei confronti di Freud. Questo allontanamento va di pari passo con l’abbandono del “monismo” metodologico e semantico del Tractatus logico-philosophicus. Va peraltro anche ricordato che Wittgenstein sembra per lo più limitare il suo interesse alla Interpretazione dei sogni di Freud. In base a tale contesto e riferimento Wittgenstein rifiuta espressamente la pretesa di una soluzione monistica del problema dell’immagine e, più in generale, della mente. Per tali problemi ogni spiegazione causalistica che Freud presenti come definitiva è per Wittgenstein senz’altro da respingere. Ma davvero Freud riteneva di poter proporre una soluzione definitiva del problema della mente e della sua capacità immaginativa?

Ricorderei in proposito l’importantissima (anche se così raramente citata e considerata) osservazione conclusiva del famoso saggio Al di là del principio di piacere. Qui Freud ipotizza che tutto lo sforzo ermeneutico e il gergo psicoanalitico possano venire un giorno superati e accantonati dai progressi della biologia; ma poi aggiunge (ed è una vera gemma di consapevolezza critica da parte di uno scienziato “positivista”): “Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero, se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia e della chimica. È vero però che anche questi ultimi fanno parte soltanto di un linguaggio immaginifico, ma si tratta di un linguaggio che ci è familiare da tempo e che forse è anche più semplice”. Un linguaggio immaginifico? Che cosa intende dire Freud? Forse possiamo trovare la risposta ricordando una celebre e molto citata lettera di Freud ad Einstein. Dopo una succinta esposizione delle teorie psicoanalitiche, Freud osserva che forse le sue parole suggeriscono, nel suo illustre corrispondente, l’idea che la psicoanalisi sia una sorta di “mitologia”. E tuttavia, aggiunge, non sfocia ogni scienza naturale in una specie di mitologia? Non è quello che accade oggi anche alla fisica? Che i linguaggi della scienza naturale e persino della fisica sfocino in una mitologia è una presa di posizione molto netta; se ne potrebbe ricavare la convinzione secondo la quale ogni genere di teoria sia in fondo una mitologia. Ora, la cosa curiosa è che questo è appunto il principale rilievo critico sollevato da Wittgenstein nei confronti di Freud. La psicoanalisi, egli dice, è una teoria molto importante, piena di spunti sollecitanti e ricchi di interesse vitale; però rischia di diventare una mitologia. E in effetti si potrebbe, a mio avviso, concordare, se è vero che ogni sapere è nel fondo una mitologia; l’importante è rendersene conto, poiché non c’è peggiore mitologia di quella che ritiene che sia possibile un sapere privo di racconti e perciò di mitologie. Il sapere, ogni sapere, non è l’equivalente indistinguibile della e dalla cosiddetta “realtà”, ma è sempre la traduzione in un linguaggio noto della situazione problematica di volta in volta al centro dell’interesse. Tradurre l’ignoto in qualcosa di noto: ecco il lavoro della teoria, così come la mappa traduce a fini orientativi il territorio; ma è un bel guaio se qualcuno si illude che la mappa sia il territorio.

Tornando a Wittgenstein: egli accusa Freud di non avere una adeguata concezione della mente e di aver trattato il problema della immagine mentale in un modo che non convince. Bisogna procedere altrimenti, ma come? Emerge a questo punto quella che vorrei designare qui come la questione “etica”, parola che non ha, nelle mie intenzioni, nulla a che vedere con i problemi della morale. Mi spiego in breve, riferendomi alla notissima lettera che Wittgenstein scrisse a Ludwig von Ficker: l’argomento del Tractatus, egli dice, è “etico”. Introdotti da queste parole di Wittgenstein, divenute famose, faremo una breve incursione nel Tractatus per comprendere che cosa significhi trattare il problema dell’immagine mentale in modo “etico”. Dico subito, per chiarezza, che ciò che intendo sostenere è che Freud compie un analogo percorso almeno una volta nel corso della sua avventura teorica.

Prendiamo le mosse dalla proposizione 2.1 del Tractatus. Essa suona in maniera abbastanza sorprendente, ma poi anche cogente per tutto ciò che segue. Essa semplicemente dice:

“Noi ci facciamo immagini dei fatti”.

Noto subito che la medesima questione sottende l’inizio del già citato saggio di Freud del 1919-20, Al di là del principio di piacere: come sorgono le cosiddette immagini mentali? Cosa sono mai e quale scopo le caratterizza?

In Wittgenstein il problema è affrontato con una radicalità e con un coraggio teoretico straordinari. Essi trovano una manifestazione esemplare nella proposizione 2.141, forse persino al di là delle intenzioni consapevoli di Wittgenstein, soprattutto in merito alle conseguenze che una tale presa di posizione necessariamente implica. Si tratta infatti di una proposizione brevissima che, se adeguatamente intesa, rovescia di fatto tutta la storia della metafisica e il suo cosiddetto sostanziale “platonismo”. La proposizione dice: “L’immagine è un fatto”. Asserzione che spazza via ogni platonica “strategia dell’anima” (come io sono solito dire), cioè ogni interpretazione spiritualistica e psicologistica della mente e anzi la nozione stessa di mente acriticamente assunta come un’ovvietà dalla scienze psicologiche. Ogni riferimento al mentale, all’immagine psichica, alla proposizione fornita di senso, ogni riferimento insomma all’ “interno” dell’uomo e alla sua “intenzionalità”, che in qualsiasi modo contrapponga fisico e psichico, spirituale e corporeo, psicologico e fisiologico, viene contestato alla radice: l’immagine è un fatto e nient’altro che un fatto. Cioè, nei termini esatti di Wittgenstein, una combinazione di oggetti in uno stato di cose. Nulla di speciale o di soprannaturale.

Asserire che l’immagine è un fatto non significa però assumere il banale punto di vista del positivismo ingenuo o del riduzionismo materialistico. Così fraintese Heidegger, quando, in una conversazione privata, definì Wittgenstein “un crasso positivista”: è evidente che non aveva letto il Tractatus con la dovuta attenzione, se pure l’aveva letto. Asserire che l’immagine è un fatto elimina in un colpo solo tutte le soluzioni “facili”, cioè quelle soluzioni spiritualistiche che invero non risolvono alcunché. Invece l’asserzione mette in evidenza il vero problema, che si potrebbe esprimere così: come fa un fatto, quel fatto che per Wittgenstein è l’immagine, a rappresentarne un altro? Se non si possiede una risposta soddisfacente a questo problema, allora accade ciò che Wittgenstein ricordava nella citata lettera a von Ficker: che tanta gente parla a vanvera e non sa neppure quello che dice.

Come un fatto può raffigurarne un altro, mettersi al posto di un altro ovvero essere segno dell’altro? Questo, a ben vedere, non è che il problema capitale dell’intera filosofia occidentale. Il suo punto di partenza è l’enigmatica affermazione che leggiamo nel poema di Parmenide: “essere e pensare, il medesimo”. Se non lo fossero, saremmo perduti. Il nostro “farci immagini dei fatti” sarebbe una pura fantasia priva di qualsiasi verità. Invece, a quanto sembra, comprendiamo i fatti e li esprimiamo in proposizioni dotate di senso; proposizioni che possono essere vere o false, cioè conformi o non conformi all’ “essere”. Ma come facciamo a farlo? Bisogna evidentemente ipotizzare una qualche omogeneità tra due fatti: il fatto dell’immagine e quel fatto che è lo stato di cose significato dall’immagine. Si potrebbe ricordare l’esempio di Wittgenstein: l’incidente stradale. Il giudice che indaga sull’incidente chiede al testimone di descriverlo. Allora il testimone prende due fiammiferi e li dispone in un certo modo sul tavolo del giudice: “Ecco, la cosa andò così…”.

I fiammiferi sono cose che raffigurano altre cose, prese in un preciso stato o contesto. Dice Wittgenstein nella proposizione 2.16: “Il fatto per essere immagine deve avere qualcosa di comune col raffigurato”. Qualcosa di comune: ti koinon diceva Platone; ovvero: ci deve essere un tauton, una medesimezza, come si esprimeva Parmenide. Con un altro esempio di Wittgenstein si potrebbe chiedere come fa la parola “nave” a raffigurare la nave; e così come possa farlo un disegno della nave: stati di cose, come suoni della voce e segni di inchiostro, che raffigurano un altro stato di cose, materialmente del tutto diverso. Questo è il problema della “immagine logica” del Tractatus. Con questa espressione Wittgenstein non intende riferirsi a un particolare tipo di immagini, per esempio alle immagini che sarebbero “logiche” rispetto alle immagini invece “non logiche”: questo modo di ragionare è espressione di un “logicismo” che non sa quello che dice. Quando dice “immagini logiche” Wittgenstein si riferisce invece a qualsivoglia immagine, in quanto ogni immagine è dotata, per essere tale, della capacità di raffigurare, cioè di una capacità a suo modo “semantica”. È questa capacità delle immagini che è “logica”. Vi rientrano quindi il gesto, la parola, la scrittura, il disegno, la musica, la foggia dei vestiti e così via. Per esempio la partitura è una immagine della sinfonia; ma anche il disco è immagine della medesima sinfonia e la partitura è immagine del disco: stati di cose interscambiabili. Immagini che, solo in questo senso, cioè in questa loro capacità rappresentativa, sono appunto “logiche”. Logico è insomma tutto ciò che ha la capacità di stare per qualcos’altro, ovvero di funzionare come un segno: la semiotica, diceva Charles Sanders Peirce, è il fondamento della logica e in ultima analisi si identifica con essa. Il problema è comprendere questa capacità o questa funzione propria delle immagini.

La soluzione, detto in breve, consiste nel noto ricorso di Wittgenstein alla nozione dell’ “uso”, soluzione che troverà un ampio sviluppo nel cosiddetto secondo Wittgenstein. Uno stato di cose può funzionare come segno, un fatto può significarne un altro, quando ne intendiamo il valore simbolico, cioè quando lo mettiamo in pratica. Per riconoscere il simbolo nel segno, dice Wittgenstein, se ne deve considerare l’uso, quell’uso che è munito di senso (cfr. per es. Ricerche filosofiche, I, 45) . L’appello è quindi alla prassi, all’abito, alla risposta, all’azione sensata, cioè all’ethos. Con un esempio di Peirce (che prima di Wittgenstein pervenne alla medesima conclusione), il significato di una parola è ciò che siamo pronti a fare quando essa è pronunciata davanti a noi. Così, se mi si dice che questo pezzo di torrone è molto duro, ma io lo addento senza precauzioni, evidentemente non conosco il valore simbolico della parola “duro”; questo valore è infatti interamente definito dagli abiti d’azione e di risposta che sono pronto a mettere in pratica. Questo è anche l’intero significato della parola in questione.

La soluzione etica mostra che il problema della raffigurazione e dell’immagine non può trovare un’uscita, cioè una soluzione sensata, all’interno di esse. In altri termini: il rapporto del linguaggio col mondo, o del pensiero con l’essere, come diceva Parmenide, non può essere reso oggetto di un qualche linguaggio ulteriore o di una visione “oggettiva” esterna. Il linguaggio, dice Wittgenstein, è l’orlo del mondo: tutto ciò che è mondo è immediatamente linguaggio e viceversa, sino al punto che “io sono il mio linguaggio”, ovvero sono il mio mondo (cfr. 5.6 esgg.). Non posso trascendere il linguaggio come non posso trascendere il mondo. Non posso giudicare il linguaggio, poiché devo già stare in un linguaggio per farlo; e non posso giudicare il mondo, perché dovrei guardare il mondo da altrove, da “fuori”. Ciò che posso fare e che faccio è frequentare il mondo nel linguaggio e frequentare il linguaggio come un “fatto”, cioè come una parte di mondo che c’è. Ed è in questo senso che l’immagine è un fatto ed è un fatto pratico, non teorico. Ovvero: la stessa teoria è in definitiva una prassi, un modo di organizzare i segni in base a contesti d’uso ogni volta definiti. Si può dunque mostrare, come prima affermavo, che ogni teoria è un mito, un racconto, una “esposizione” che insegna come “comportarsi” nel mondo. Mondo e linguaggio, però, sono dei “trascendentali”: non possono essere resi oggetto di definizioni o di esposizioni definitive, poiché ogni definizione muove da loro, dal fatto del loro mutuo accadere simbolico, cioè nell’ambito della esperienza della significatività (del linguaggio e del mondo). Il mondo è tutto ciò che accade, dice Wittgenstein; ma tutto ciò che accade è per noi significativo, contiene appunto un valore simbolico, in quanto lo possiamo e lo dobbiamo tradurre in un abito di risposta così e così determinato; cioè in un’ “etica”, in un modo d’essere come aver da essere, in un sussistere in quanto costante aver da fare e averci a che fare.

Se con questi pochi cenni sono riuscito a suggerire come leggere il tema dell’immagine nel Tractatus, ora mi riferirò al citato saggio di Freud Al di là del principio di piacere: uno scritto molto controverso e talora criticato anche dagli psicoanalisti per il suo palese e dichiarato oltrepassamento del discorso scientificamente fondato. Lo stesso Freud riconosce, a un certo punto: “da qui in avanti il mio discorso sarà più che altro una speculazione”. Essa termina, come si sa, col riferimento a un celebre mito di Platone: il mito dell’androgino. Si tratta senza dubbio di uno scritto geniale quanto avventuroso ed erratico, che non so sin dove possa trovare una legittima applicazione nella pratica clinica. Freud vi enuncia l’ipotesi della pulsione di morte, ma non è questo il punto sul quale conviene qui soffermarsi. Vorrei invece rifarmi alla domanda che apre il saggio, domanda relativa a quale sia la legge che governa gli eventi psichici. Freud, come si ricorderà, prende le mosse da una franca autocritica: non è vero che tutti gli eventi psichici obbediscano al principio di piacere, come dapprima la psicoanalisi aveva ritenuto, anche sulla scorta di antiche teorie filosofiche. Bisogna riconoscere che il principio di piacere non riesce a dar conto, non riesce a spiegare tutti i fatti psichici, per esempio i sogni che rievocano un evento traumatico e più in generale il meccanismo stesso dell’angoscia che è alla base del transfert psicoanalitico. Di qui la necessità di allargare l’ipotesi relativa al funzionamento della mente e il tentativo di una nuova descrizione dell’apparato psichico, descrizione che si fonda, come si ricorderà, su una tesi illustrata dall’esempio della vescichetta (in un altro luogo Freud usa l’esempio del notes magico, con analoghi intenti).

L’idea fondamentale è che lo psichico sia sostanzialmente una soglia, esemplificata appunto dalla vescichetta: una soglia caratterizzata dal sistema percezione-coscienza (sistema PC). Questa soglia è un luogo di iscrizione e insieme di trasferimento degli eventi del mondo che circondano la vescichetta. A questo passaggio della costruzione teorica di Freud potremmo applicare, senza sforzo e senza residui, le due proposizioni di Wittgenstein dalle quali siamo partiti. Anzitutto “noi ci facciamo immagini dei fatti”, cioè: noi siamo immagini incarnate di mondo, siamo il nostro mondo iscritto, o una sua definita iscrizione. Siamo per esempio una vibratile e preoccupata oscillazione di eventi che su di noi si incidono lasciando traccia. Quindi, in secondo luogo, in quanto supporto di tracce, ogni nostra immagine è un fatto. Ragionando in questo modo, Freud persegue a sua volta il coraggioso tentativo di ricavare l’immagine psichica non da una presupposta teoria o idea della mente, ma da quei fatti che, in termini fisiologici, fanno riferimento, come dice Freud, alla corteccia cerebrale. La vescichetta non sarebbe che la corteccia cerebrale investita dagli eventi del mondo circostante, eventi che si traducono così in fatti psichici, cioè in tracce mestiche.

Come si sa, la vescichetta si protegge dalle esorbitanti forze del mondo con un rivestimento che segna la distinzione tra l’esterno e l’interno, per esempio nell’essere umano. La vescichetta fa del rivestimento il suo scudo, aperto da piccole feritoie (le vie sensoriali) mediante le quali ridurre le forze del mondo a piccole campionature. Esse poi vengono “legate” in base a criteri d’ordine spaziale e temporale. In questo modo la vescichetta tiene a distanza e tiene a bada l’irruenza del mondo, filtrandola e ordinandola.

La vescichetta però, in quanto luogo delle percezioni coscienti (sistema PC), deve poter non trattenere le tracce iscritte su di lei dagli eventi del mondo. Esattamente come l’anima nel De anima di Aristotele, la vescichetta deve mantenersi sempre “pulita” e disponibile a nuove “iscrizioni”. Deve appunto farsi soglia e tramite. Quindi essa lascia elasticamente transitare su di sé le percezioni, così che esse vadano a depositarsi nel luogo dell’inconscio sotto forma di immagini mnestiche. La vescichetta è come una tavoletta di cera, o come un notes magico, che ogni volta che ha percepito viene ripulita, cancellata, e così è pronta a percepire di nuovo. Essa infatti deve “rispondere” al mondo. La sua funzione è caratterizzata, anche nel suo caso, dall’uso: cosa fare del mondo e di fronte al mondo che si annuncia attraverso gli occhi, le orecchie ecc.

Le tracce mestiche non possono stare dunque nella coscienza, ma si sedimentano nella parte interna dello scudo e qui appunto emerge il problema: perché se la vescichetta può ripararsi, se sa schermarsi, rispetto alle forze incidenti e invadenti del mondo, non può però fare altrettanto rispetto alle tracce mnestiche che, traversandola dapprima come percezioni, sono andate a depositarsi, per così dire, dietro lo scudo: da questa parte la vescichetta è nuda, senza riparo. È l’effetto di queste tracce, è la loro incombenza dall’interno che è allora responsabile di tutti i fenomeni delle nevrosi e delle psicosi. L’essere umano, questa vescichetta cosciente, è un essere in continua tensione non solo rispetto al mondo, ma anche e più rispetto a quelle pulsioni interne per le quali non c’è possibilità di schermo o di difesa. O meglio: una difesa c’è ed è quella di operare su tali pulsioni con i medesimi criteri adottati per le forze del mondo esterno; si tratta appunto di proiettarle all’esterno, di confonderle con i fenomeni del mondo esterno, per poterle campionare e legare spazio-temporalmente. E così l’essere umano viene immaginando un mondo di fenomeni favorevoli oppure ostili, di creature amiche o nemiche, sulle quali scaricare la sua aggressività e la sua paura in forme superstiziose, magiche, allucinatorie, ovvero patologiche.

Questo concetto di proiezione diventa allora il centro propulsore teorico di tutta la psicoanalisi: è su di esso che si fonda la possibilità stessa della clinica. La quale opera sostanzialmente guidata dallo scopo di giungere a poter “vedere rettamente il mondo”, come direbbe Wittgenstein, cioè a vedere il proprio mondo senza superstizioni e senza “crampi mentali”. La teoria stessa è dunque, per Wittgenstein come per Freud, una prassi, una pratica, una risposta “etica” ai problemi della vita. Vedere rettamente il mondo non equivale alla costruzione di una teoria che abbia la pretesa di essere un’immagine “oggettiva” e “assoluta” del mondo, o alla formulazione di una teoria definitiva dell’uomo. Si tratta invece della acquisizione di un abito idoneo a tenere a freno l’aggressività e l’angoscia. Acquisizione che è un ripetuto esercizio che si apprende mettendo a frutto la tecnica del transfert psicoanalitico. Qualcosa di simile, per certi versi, all’analisi delle forme e dei giochi linguistici, analisi esercitata da Wittgenstein al fine di liberarsi dai propri fantasmi e crampi mentali “metafisici”.

Sin dove Freud fosse consapevole di questi esiti “etici” non è facile dire. Chi li ha però intesi esemplarmente è stato Michel Foucault ed è con una sua citazione che vorrei concludere. Al termine del suo libro forse più importante, Le parole e le cose, nel quinto paragrafo dell’ultimo capitolo, Foucault ha osservato che la psicoanalisi non va intesa né come una teoria generale dell’uomo, né come una antropologia. Essa è invece sostanzialmente una “pratica” che opera fronteggiando il dramma dell’uomo, cioè il dramma di un essere legato ai fantasmi del linguaggio e alla sofferenza connessa al desiderio. Ogni sapere analitico è pertanto caratterizzato dalla “strozzatura del rapporto tra due individui, l’uno dei quali ascolta il linguaggio dell’altro affrancandone in tal modo il desiderio dall’oggetto che ha perduto, facendogli intendere che lo ha perduto, e liberandolo dalla prossimità costantemente ripetuta della morte, facendogli intendere che un giorno morirà. Nulla è quindi più estraneo alla psicoanalisi quanto una teoria generale dell’uomo o un’antropologia o qualcosa del genere”. In questo senso, io direi, la psicoanalisi è essenzialmente un’“etica”.

Bibliografia

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- (1985) Geheime Tagebücher, “Saber”, 5.



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