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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Per una clinica dell'intergenerazionalita'

Francesco Stoppa



IL SOGGETTO CONTEMPORANEO E LA SUA FOLLIA. RIFLESSIONI SULLA CLINICA CONTEMPORANEA
Roma, 26 novembre 2010

Mi chiedo se in fondo Freud per primo non abbia dato origine a una clinica dell'intergenerazionalità. E d'altronde Lacan ha tra i suoi esordi un lavoro che intitola “I complessi familiari”.

Nonostante questo, gli psicoanalisti non sempre hanno messo nella giusta luce la funzione della famiglia e della coppia genitoriale nello sviluppo del soggetto e nel progresso della civiltà: in particolare, il ruolo esercitato dal discorso e dall’istituzione familiare non solo nella trasmissione dei valori, degli ideali e delle norme di una certa cultura, ma soprattutto nell'acquisizione da parte del figlio di ciò che Lacan ha chiamato “il sentimento della vita”. Si tratta di un concetto che appare unicamente nel suo scritto sulle psicosi, quando afferma che questa patologia “è un danno che si genera nella giuntura più intima del sentimento della vita nel soggetto”. La parola “giuntura” ci riporta al nodo tra reale, simbolico e immaginario, il cui corretto intreccio appare determinante non solo per l'ingresso del bambino nell'ordine delle cose, ma soprattutto per la qualità della sua presenza sulla scena del mondo.

Cosa accade a questo proposito nella psicosi? Lo vediamo particolarmente bene nella condizione schizofrenica, dove il paziente, a causa di un difetto a livello del registro immaginario, è tirato agli estremi del simbolico da un lato (che si assolutizza come un dispositivo dotato di un automatismo totalizzante che ne fa una materia solida e invasiva: le parole “trattate come cose”) - e del reale dall'altro (ragione per cui la sostanza vivente delle cose – a partire dal proprio corpo – assume tratti altrettanto inquietanti e persecutori che si rivelano ingestibili per le risorse del soggetto).

Ora, in che modo la famiglia – al di là o, meglio, al di qua degli aspetti normativi o educativi – favorisce l'installarsi del sentimento della vita, cioè della capacità dell’individuo di accogliere il mondo e le presenze che lo abitano – compresa la propria – dando loro un orientamento umano? In sostanza, dunque, il sentimento della vita coincide con una particolare capacità di abitare in modi sufficientemente creativi gli universali in cui è compresa la nostra esperienza, cioè il linguaggio e il corpo, riuscendo allo stesso tempo a collocare prospetticamente la propria vicenda personale in un orizzonte più ampio di quello di una singola esistenza. In una logica, appunto, transgenerazionale. Cosa che ci fa dedurre che una clinica dell'intergenerazionalità non può prescindere dall'analisi delle modalità con le quali il bambino viene introdotto in un mondo governato dai simboli.

Una madre e il suo bambino riescono in questo tipo di operazione riscoprendo e ricostruendo insieme la formula umana dell'esistenza, riannodando, nel qui ed ora del loro incontro, la trama complessa e talora traumatica del percorso di umanizzazione dell’essere parlante. Nell'attraversamento di quel laboratorio che è la prima infanzia, sono nella fattispecie entrambi chiamati al delicato compito – tutt'altro che automatico, come dimostra l'esito psicotico – di reinventare le condizioni umane del dispositivo simbolico che soprassiede l'esperienza di ogni essere parlante. Potremmo dire, a tal proposito, che la lingua materna rappresenta effettivamente il salvataggio del background affettivo, dello sfondo patico del linguaggio codificato e standardizzato. Non si deve infatti credere che “in principio” ci fu la lallazione e poi sia arrivato, come si trattasse di un'istanza maturativa, il corretto apprendimento del linguaggio adulto. In realtà, il linguaggio è già lì da sempre, potenza non di rado minacciosa, sorta di forca caudina che grava sui soggetti: non a caso Lacan parla dello psicotico come “martire del linguaggio”.

Prendersi gioco del linguaggio

Madre e figlio, quindi, si giocano il linguaggio, nel doppio senso da un lato di animarlo emotivamente e sensorialmente (l'alfabeto privato che li lega l'un l'altro, lalingua lacaniana) e dall'altro di dribblarne gli effetti più anonimizzanti grazie a quel dolcemente traumatico affiorare dell'eros materno capace di scompaginare l'organismo del lattante fino ad allora compiaciuto nel suo placido accomodamento agli standard omeostatici del principio di piacere. Una madre sufficientemente buona è, così, anche una madre seduttrice, e ciò che la distingue da una madre perversa è che la sua seduzione non ha come effetto il richiudersi della relazione su se stessa, sul bisogno di compensare la propria mancanza grazie all'esistenza del figlio, “feticizzando” il suo corpo: il suo erotismo è infatti il ponte che permetterà al bambino, invece, di innamorarsi della vita, di ciò che è al di qua e al di là di entrambi e del loro legame. Per far questo, come direbbe Winnicott, lei gli ha concesso di pensarsi l'inventore del mondo (cioè lo ha indotto a esercitare al massimo grado la sua creatività: un salutare delirio a due che come si vede serve a ridimensionare l'onnipotenza della macchina simbolica), o, come direbbe Lacan, lo ha fatto sostare e lo ha cullato al livello in cui la parola non serve a nulla, puro dispendio, godimento, ritmo che si giustifica in sé; ma, in questo modo, serbatoio di senso umano, “tesoro dei significanti”.

Quanto al padre, ciò che introduce il bambino al sentimento della vita è la presenza non tanto del pur necessario genitore simbolico, normativo, quanto del padre reale, quello che il piccolo Hans vorrebbe suo compagno di avventure in trasgressioni e atti contrari alle regole, grazie a cui, tra l’altro, prodursi escoriazioni e cicatrici, tracce tangibili – come nel fantasma del bambino picchiato dal padre – di un contagio fisico tra i due. Altre volte è il non facile recupero dell’immagine del padre umiliato, colto cioè nella sua impasse umana, a dare prova dell’autenticità non solo formale della trasmissione intergenerazionale. Ne troviamo degli esempi in quanto Freud stesso ci racconta a proposito del padre Jacob, ma in fondo la restituzione simbolica che il protagonista del recente film di Sorrentino, This must be the place, mette in atto nei confronti del padre morto, è resa possibile dal ritrovamento, nella rievocazione che ne fa colui che ne fu il carceriere nel tempo dell’internamento in un lager nazista, di un genitore inaspettatamente, forse per la prima volta percepito in tutta la sua disarmata umanità. E non a caso questo recupero di un padre “scarto” consentirà a quel soggetto decisamente borderline, e che sembra affetto da ciò che Bergeret ha definito “pseudolatenza prolungata”, di uscire dal suo stato limbico e, finalmente, crescere.

“L'eredità del padre è il suo peccato”, arriva a dire Lacan, che si sofferma anche sulle condizioni che possano renderlo un genitore degno di rispetto. Quali? L'aver fatto di una donna l'oggetto causa del suo desiderio (quindi aver dato consistenza, nella sua esistenza, alla presenza del cosidetto “oggetto a”) e avere, con lei, messo al mondo dei figli. In sintesi: un padre reale, che quindi gode, ma, a differenza del Padre di Totem e tabù, un padre il cui godimento, grazie all'amore per una donna, si civilizza, perde in autoreferenzialità per porsi al servizio dell'istituzione familiare. Quindi, interrogarsi sulla funzione della famiglia scorgendone, lacanianamente, il fondamentale influsso sul costituirsi del sentimento della vita, ci porta inevitabilmente non tanto su ciò che si trasmette, di generazione in generazione, con una continuità quasi ripetitiva, a livello di passaggio di norme e valori, quanto sulla sua funzione di barriera e ostacolo, sulla drammatica ma vitale capacità della famiglia umana di fare resistenza a un trasmettersi automatico delle cose umane. La famiglia, insomma, è il luogo della connessione tra passato e futuro, ma allo stesso tempo rappresenta l'elemento critico in questo passaggio stesso, il punto di discontinuità che ne deve rivitalizzare i fondamenti.

Perché, ad esempio, costruire una scienza a partire dall'Edipo, che è crisi, dramma, fonte di ferite pressoché immedicabili e di cui i nostri sintomi sono il memoriale? La stessa ridefizione della fase dello specchio, operata dal suo scopritore a partire dal suo decimo seminario, immette un fattore di forte instabilità al cuore del farsi del soggetto, della sua identità simbolica e immaginaria. In entrambi i casi è come se i genitori dovessero, a un certo punto, rivelarsi dei destabilizzatori dell'ordine stesso che vengono a incarnare; degli interpreti che ne devono reinterrogare i presupposti. Quando Lacan, seminario quinto, parla del “rapporto di ciascun genitore con la frase cominciata” [prima dell'arrivo del figlio], sostiene “che la frase sia sostenuta da una precisa posizione reciproca dei genitori rispetto a questa frase”. Nella coppia genitoriale va dunque riconosciuto un punto di paradossale disgiunzione con la catena generazionale, come se il nodo che fonda il patto tra le generazioni necessitasse di trovare, all'interno stesso dell'istituzione che la garantisce, quella familiare, una possibilità di rivisitazione del senso delle cose; e come se la rifondazione, questa restituzione simbolica, non potesse che svelare il reale in gioco, i corpi che vi sono inevitabilmente implicati, le presenze viventi (Lacan arriva a parlare di “significante vivente” a proposito di sé come padre) nell'operazione di trasmissione.

Scena primaria

Questo è il livello critico, traumatico, su cui sorge la psicoanalisi: l'origine sessuata del soggetto da due sessi diversi e in certo qual modo incompatibili, un'origine nella differenza, quindi, e – cosa su cui ritornerà spesso Lacan nel suo insegnamento – un avvento, quello dell'uomo, caratterizzato dal prodursi di resti, scarti, perdite: un taglio più che una fuoriuscita naturale. Un taglio che, dal già citato seminario decimo, non è più quello operato dal significante ma quello imposto dal farsi della vita. L’origine sessuata dimostra allora che, nell’esperienza umana, non è in virtù di un automatismo che una generazione si sussegue all’altra e che ognuno entra e partecipa di una storia. E qui la psicoanalisi ha visto bene, il bambino fantastica il coito tra i genitori – cioè l’atto che gli ha dato origine – come un episodio di violenza, “scena primaria” che spezza ogni idea di continuità indolore. La vita, fin dal suo esordio, è quindi “ostinata deviazione” dai canoni del principio di piacere. Il soggetto ha preso posto nel mondo in seguito a una lotta, non a una contrattazione o secondo un automatismo.

Ora, è a questo livello che ci è possibile cogliere e valorizzare il connotato di “istituzione” della famiglia, in quanto le istituzioni umane sono da sempre i luoghi deputati alla lavorazione simbolica della vita nella sua dimensione più reale e alla conservazione della sua cifra umana. In una parola, “il sacro”. Nascita, morte, trasformazioni e malattie del corpo, sessualità e violenza reciproca: le istituzioni hanno il compito di escogitare forme e modi di accoglienza e umanizzazione di queste realtà dell’esistenza. Escluse, tenute fuori dalle mura della città, esse rivelerebbero infatti il loro potenziale di esplosiva distruttività compromettendo il gradiente civile della società. Come ben sapevano i nostri antenati fino all'epoca industriale, esse vanno al contrario introdotte al cuore stesso della comunità, interrogate, elaborate. Ne vanno indubbiamente circoscritti gli aspetti più “crudi”, senza tuttavia smarrirne la forza contraddittoria e vitale, pena l’appiattimento e la resa della civiltà alla mera sopravvivenza della razza umana. Come se la macchina – magari in nome della sicurezza, dell’agio e del benessere – potesse girare omogeneizzando tutte le differenze e le contraddizioni della vita, forte di quel funzionamento automatico dei sistemi simbolici raggiunto, nella fattispecie, grazie all'inarrestabile progresso tecnologico della società postcapitalista.

Ci troviamo qui dinanzi a una questione cruciale per la psicoanalisi odierna, il cui oggetto (l’oggetto perduto di Freud e ancor di più l’oggetto causa di desiderio di Lacan) diventa per l’esattezza il grande escluso nel discorso del capitalista: laddove invece, all’interno del legame sociale, esso dovrebbe rappresentare un elemento di civiltà in quanto strutturalmente dissidente rispetto a ogni presa consumistica e in quanto non disponibile a operazioni di riciclaggio capaci di obliterare il posto della mancanza: una condizione di ossigenazione del sistema simbolico che rappresenta una tutela per il mantenimento della posizione fondamentalmente eccentrica e impredicabile del soggetto freudiano e per la corretta fondazione della comunità. Lacan – in linea con Bataille o Mauss - ne fa il motore silenzioso dei nostri dispositivi di organizzazione della realtà: di tale oggetto, dice che è “quella parte di noi stessi, della nostra carne, che resta presa dentro la macchina formale”, ma senza la quale “il formalismo logico non sarebbe assolutamente niente” (evocazione del nulla che ci attenderebbe una volta eliminato il posto della mancanza). A tale formalismo (i sistemi simbolici, appunto, con cui diamo un ordine al mondo) “diamo non solo la materia, non solo il nostro essere di pensiero, ma anche il pezzo carnale strappato a noi stessi. È questo pezzo che circola nel formalismo logico... È questa parte di noi stessi che è presa nella macchina ed è per sempre irrecuperabile. Oggetto perduto...”. Perduto per il singolo, un sacrificio, quindi, sul piano del narcisismo devoluto però al corretto istituirsi della realtà, fattore primo della nominazione nel campo dell’umano (il verbo latino instituere significa anche rinominare).

Cosa resta della famiglia

Ritengo, parlando di clinica dell’intergenerazionalità, che dovremmo rivedere una certa tendenza a prendercela con la famiglia moderna che mi pare essere invece il bersaglio primo – proprio in quanto istituzione e al pari delle altre istituzioni – della società neocapitalista la quale, ammaliata dalla potenza dei suoi sempre più rarefatti dispositivi simbolici, ormai disabitati di presenze reali (tecnica, mercato, informazione, burocrazia, finanza), sta in verità sferrando un vero e proprio attacco alla vita. Non ne concepisce infatti più e ne teme la complessità, l'imprevedibile variabilità, l'inevitabile caducità, perché tutto ciò fa resistenza all'utopia di un mondo finalmente capace di cancellare da sé ogni traccia di finitezza e dolore. Non stupisce, di conseguenza, il fatto per cui, come mai prima, il progresso si coniughi con la possibile distruzione delle condizioni di vita del pianeta. Ma questo inedito odio che la macchina umana riserva alla vita, questa vampirizzazione del vivente, la si coglie anche in altri dettagli dell'attuale funzionamento delle cose. Sarà ad esempio un caso che nelle istituzioni di cura o scolastiche noi, che dovremmo spendere la maggior parte delle energie nel sostenere l’incontro reale con dei soggetti reali, siamo invece costretti a dedicare un’incredibile quantità di tempo a occuparci della compilazione di resoconti di dati statistici, registri, certificati, verifiche, in obbedienza alla moderna logica di standardizzazione delle pratiche? Non abbiamo forse aziendalizzato, protocollato e sterilizzato l’educazione, la salute, la cultura? E ancora, è solo per un vezzo linguistico che le istituzioni di cura oggi si chiamano “servizi” e i pazienti “utenti”? Come non vedere anche qui il pericoloso evitamento, da parte della società del benessere, dell’ascolto e accoglimento della dimensione del sacro – come l'abbiamo prima definita - nelle nostre vite, nella vita della comunità, a favore dell’organizzazione, della logica dei costi/benefici, di un'asettica erogazione di prestazioni specialistiche?

Direi che l’emergenza non è tanto “cosa resta del padre?”, quanto cosa resta della famiglia e delle altre istituzioni, la cui funzione educativa e propedeutica alla vita reale delle persone è costantemente sconfermata dai messaggi della società del consumo e del profitto, dello spettacolo e del divertimento. Non è allora di padri e madri che hanno bisogno i giovani d’oggi – in fondo ne hanno ancora -, ma di ricostruire una comunità degna di questo nome, nella quale vi siano caselle ancora vuote, spazi insaturi. Una comunità dove l’accesso all’ordine simbolico, al campo del sapere e a quello degli oggetti, non sia regolato da un sistema che tappa ogni mancanza e non richiede più alcun livello di creatività ai singoli o ai gruppi umani. A pensarci bene, la lingua materna sta al linguaggio codificato come la comunità alla società organizzata: come dire, un principio di sana erotizzazione dei legami garantisce l’umanizzazione dei sistemi simbolici).

In realtà si pone qui la stessa questione che vige nella relazione intrafamiliare, e cioè il grado di possibile erotizzazione del campo dell’Altro, cioè l’esistenza o meno di possibilità di lavorazione e sviluppo della propria posizione soggettiva. È un tema che tocca direttamente l’identità di ciascuno ma oggi, in particolare, quella delle nuove generazioni. Concluderò quindi con un riferimento a quanto abbiamo potuto vedere, ad esempio, recentemente nei fatti di Londra.

La fase dello specchio nel tempo del discorso del capitalista

Quello che colpisce sempre, in queste forme selvagge di protesta, è il numero considerevole di vetri infranti, in particolare vetrine di centri commerciali. Potremmo dedurne qualcosa sulla particolare criticità della fase dello specchio nel mondo retto da quello che Lacan ha chiamato “il discorso del capitalista”, che non è propriamente un discorso, anzi è quanto disabilita gli altri discorsi e nasconde, sotto la una facciata di condiscendenza ai bisogni dei cittadini, la veemenza di un vero e proprio attacco al legame. Non è un caso che privilegi la dimensione dell'individuale su quella del collettivo e sacrifichi l'essenza intima delle cose sull'altare del consumo. L'oggetto che, in quanto perduto, sostiene la dimensione del desiderio, viene positivizzato e totalmente assorbito nelle logiche del mercato, e la mancanza che lo abitava strutturalmente diventa invece una mancanza contingente risolvibile da sempre nuovi beni e merci.

Ricordiamo che normalmente nello stadio dello specchio si forma l’identità corporea, ma allo stesso tempo anche quella sociale, del soggetto; nel passaggio dal narcisismo primario a quello secondario c’è infatti un corpo che diventa visibile a terzi, che è collocato in una realtà, entra sulla scena del mondo. E, soprattutto, assume lì una estensione prospettica nuova ciò che Lacan chiama “il sentimento della vita”. Se torniamo ai fatti di cronaca di cui sopra, vi possiamo cogliere, come attraverso una lente d'ingrandimento, una condizione più generale: cosa mostrano, di inguardabile, quelle vetrine fattesi specchi deformanti che i giovani rivoltosi mandano in frantumi? Per capirlo, pensiamo a cosa ne sarebbe della nostra immagine allo specchio (che ci riflette e in cui si accomoda, come all'interno di una cornice, la realtà che ci circonda) nel momento in cui qualcuno staccasse la foglia d'argento che lo rende qualcosa d'altro da un semplice vetro. Bene, nell'attimo in cui lo specchio si riducesse a semplice vetro, sparirebbe quella visione virtuale della realtà che, tra le altre cose, ci consente di stabilire una familiarità col mondo (Lacan direbbe che svanisce “la scena” che ci permette di abitare il mondo); e l’immagine del nostro corpo, sbiadita e confusamente riflessa da quello che, appunto, ora è solo un vetro, si troverebbe improvvisamente collocata allo stesso livello delle cose che sono al di là della superficie riflettente. Cioè nel reale, che non è che il mondo colto senza quella finzione spaziale – il cui connotato transizionale è ortopedico alla vita - che è appunto uno specchio. L’identità, di conseguenza, perderebbe ogni sua specificità, il corpo si farebbe omogeneo, coestensivo, alle cose, privo di quel suo valore speciale che un corretto attraversamento della fase dello specchio gli aveva finora garantito. Nessuna trascendenza, insomma, e lì, nello specchio spogliato della sua guaina protettiva – ad esempio, tornando a noi, nella vetrina di un centro commerciale - il corpo appare come un oggetto tra gli altri, merce tra le merci, affratellato, a seconda dei casi, ai cellulari dell’ultima generazione, a scarpe o vestiti, all'auto di nuovissima produzione. Dunque, la dimensione immaginaria e simbolica del corpo, nella fase dello specchio dell’individuo moderno, nel tempo del discorso del capitalista, corre il rischio di fissarsi e appiattirsi pericolosamente su un piano che non apre al sentimento della vita ma alla nuda vita e che fissa l'identità del soggetto tutt'al più come consumatore.

In conclusione, la forza implicita nella domanda di senso con cui le nuove generazioni interrogano la società e il proprio destino, qualora non trovi più le condizioni e i luoghi per esercitarsi, resta di conseguenza umiliata, generando una depressione diffusa oppure trasformandosi in violenza cieca, il cui primo moto è quello di frantumare quell'immagine intollerabile che rimanda il soggetto a un'identità opaca e non così diversa dalle merci, dai beni di consumo con cui siamo tutti “amorevolmente” nutriti.

 

Bibliografia

Freud, S.:

- (1977a) Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), in Opere, V, Boringhieri, Torino.

- (1977b) Totem e tabù, in Opere, VII, Boringhieri, Torino 1977.

Lacan, J.:

- (1974) “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti, vol. II, Einaudi, Torino.

- (1987) Il sintomo, in “La psicoanalisi”, 2, Astrolabio, Roma.

- (2005) I complessi familiari nello sviluppo dell’individuo, Einaudi, Torino.

Soler, C. (2010) Lacan, l’inconscio reinventato, Franco Angeli, Milano 2010.

Stoppa, F. (2011) La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano.

Winnicott, D.W. (1974) Gioco e realtà, Armando, Roma.


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