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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Air du temps
Olga Pozzi


Questione ricorrente in psicoanalisi: La psicoanalisi contemporanea (Eagle, 1984), Le nuove malattie dell’anima (Kristeva, 1993), Jacques Lacan e la clinica contemporanea (Ramaioli e altri, 2003), Idee per una Psicoanalisi contemporanea (Green, 2002), Le nuove carte della Psicoanalisi (Widlöcher, 1996), Metapsicologia oggi (ed. Pozzi, Thanopulos, 2005) sono solo alcuni esempi paradigmatici di un’esigenza caratteristica della Psicoanalisi di interrogarsi periodicamente sulla relazione di continuità/discontinuità tra i fondamenti dell’origine (teorici, ma anche, di conseguenza, metodologici e tecnici) e gli orientamenti attuali.
Questione complessa che convoca troppe variabili, spesso contrassegnate da ritmi trasformativi propri, ma tuttavia al tempo stesso per altri versi correlate e interdipendenti.
Il riferimento alla contemporaneità, senza ulteriori limitazioni e specificazioni, include scenari appartenenti a contesti e livelli molto differenti (economici, politici, sociali, culturali...), i cui tentativi di comprensione possono risultare illusori e confusivi, se non supportati da adeguati strumenti e competenze.
Risulta perciò necessario delimitare il nostro campo di osservazione, operando consapevolmente una messa tra parentesi che, per quanto amputi di componenti essenziali il discorso, ci consenta tuttavia di avvicinarci in prossimità dell’oggetto che più specificamente ci riguarda e dei correlati immaginari che lo sostengono.
La semplificazione (tale forse solo apparentemente) del discorso pone comunque molti quesiti e uno tra questi, di antica memoria, in ragione dell’inondazione di teorie e tecniche derivate dalla psicoanalisi risulta ormai non più eludibile: fino a che punto sono possibili variazioni della tecnica analitica elicitate dalle trasformazioni espressive e comunicative del disagio psichico, senza che se ne producano modificazioni tali da alterarne, fino allo stravolgimento dei fondamenti, la consequenzialità con le teorie?
E’ un discrimine mobile, dinamico, complesso, sottoposto a un doppio ordine di pressioni, che vanno dalla spinta all’oltrepassamento dei confini alla tentazione sempre in agguato dell’arroccamento ideologico.
Il consenso crescente di cui ha goduto la psicoanalisi ha contribuito alla proliferazione di teorie sempre più generalizzate e indebolite e al tempo stesso all’aumento della cosiddetta ‘devianza’, rendendo sempre meno identificabile la relazione tra teorie e tecniche.
Al tempo stesso la diffusione in ambito internazionale di orientamenti costruttivisti, coerentisti, kohuttiani, intersoggettivisti rende meno necessitata e sempre più arbitraria la correlazione tra nuove teorie e nuove tecniche.
Si è verificato nel corso del tempo anche nella nostra visione del mondo quello iato difficilmente colmabile tra il presente e il passato che, in tutt’altro contesto, sottolineava Remo Bodei. a prestito le sue parole, potremmo dire, a pieno diritto, che anche nel mondo psicoanalitico c’è il rischio che il presente possa procedere «maniera più sciolta, leggera e sperimentale (o, se si vuole, a tentoni), il secondo»–satocioè il pas- «per ossessionare meno e per imporre i suoi modelli con sempre maggior fatica»(R. Bodei, 2006, 142).
Evidenze che appaiono giustamente problematizzanti a fronte di considerazioni più acquietanti quali quelle espresse da Widlöcher quando afferma che «La Psicoanalisi è un metodo di terapia centenaria ed è naturale che la sua tecnica e le sue indicazioni si siano evolute con il passar del tempo» (Widlöcher, 1996, p. 11)
D’altro canto è auspicabile che la prassi psicoanalitica si confronti con le problematiche poste dalle nuove forme del disagio psichico, visibilmente sempre più correlate alle nuove forme del Disagio della civiltà, o della Civiltà del disagio.
La frequenza esponenziale con cui sono cresciute nel corso degli ultimi decenni le nevrosi narcisistiche, le bulimie, le anoressie, le nuove forme della depressione, l’uso mutilante del proprio corpo si configurano come palpabili testimonianze di quanto il tema della terapia psicoanalitica nella contemporaneità incroci quello della complessa trama dei tentativi di comprensione in chiave psicoanalitica della contemporaneità: nodo cruciale a monte dell’esigenza della cosiddetta “apertura” al mondo contemporaneo (il rapporto con le neuroscienze, con la filosofia, con il sociale) intesa appunto, frequentemente e unilateralmente, come proposta di comprensione in chiave psicoanalitica di ciò che accade nelle altre aree mediante l’uso di passe-partout validi per ogni circostanza.

Le nuove forme cliniche del vuoto hanno contribuito a fare chiarezza su una questione ritornante circa una delle presunte funzioni di un analista al lavoro, ritenuta fondamentale in passato (e talora anche nell’attualità): l’esercizio –non solo in senso metaforico- della funzione materna.
In un bel libro di qualche anno fa, Freud e la questione delle origini Lina Balestriere sottolinea che il punto non riguarda affatto la possibilità per l'analista di “fare la madre” (pretesa onnipotente, oltre che segnata da inautenticità fuorviante), ma di mettere in gioco la madre, per così dire, metapsicologica: princìpi di ritmo, di cadenza, di contatto; il principio, cioè, di costanza (Balestriere, 2003, pp. 57-8).
La conseguenza più significativa dello smantellamento del luogo comune dell’ingenuo richiamo alla funzione materna dell’analista, sic et simpliciter, ricca di implicazioni teoriche, pone in campo il decentramento della soggettività dell’analista, a favore di una situazione più complessa, che trascenda entrambi, analista e paziente: la relazione come struttura, come terzo, che dà forma all’interazione tra i due soggetti, alle modalità del setting, al contesto, alle aspettative, etc.
Un tipo di relazione nella cui formazione Green intravede, al posto della nota alleanza terapeutica, piuttosto una meno ottimistica “associazione terapeutica”, in grado di operare nel bene, ma anche nel male (Green, 2002).
Il lavoro con le anoressie e le bulimie ci ha costretto dunque a confrontarci con l’inadeguatezza dell’esercizio vicariante delle funzioni materne che ricordava la Balestriere: sia di quella di soddisfacimento (“avere abbastanza”), che di quella di acquietamento (“stare meglio”), non necessariamente coincidenti nei loro effetti, nel senso che il soddisfacimento, dopo una prima fase di sedazione, non produce necessariamente o totalmente acquietamento: anzi si configura costitutivamente come produttore di eccitazione, in ragione del fatto che il desiderio non può essere mai soddisfatto. Al raggiungimento dell’oggetto segue sistematicamente la delusione e poi sempre l’illusione di qualche cosa d’altro che possa colmare la mancanza, perpetuando l’eccitazione della ricerca nel continuo, e vano, passaggio da un oggetto all'altro.
La relazione terapeutica - particolarmente e peculiarmente impegnativa con la clinica ormai comunemente detta del vuoto (e in particolare con le forme delle anoressie e delle bulimie) - deve tener conto che proprio l’alterazione di queste funzioni primarie materne gioca un ruolo fondamentale nella formazione della patologia e che ogni tentativo di assumere a qualunque livello funzioni vicarianti da parte dell’analista troverà nella paziente una ferrea opposizione destinata a fomentare esiti terapeutici fallimentari.
Mai come in queste situazioni l’analista si è sentito, fino a un passato recente, fortemente spinto o a contrapporre una reazione esattamente speculare a quella assunta dall’atteggiamento onnipotentistico del(la) paziente, orientando i suoi interventi al raggiungimento del proprio ‘scopo superiore’; oppure, sedotto dalla particolare vocazione al martirio e dalla capacità di annullamento dei bisogni più primordiali esibita, ad accondiscendere alle pretese e alle richieste di gratificazioni; nell’un caso e nell’altro rischiando di veder consumarsi la sua funzione analitica nell’impotenza della collusione.
Le esperienze più recenti hanno indotto a confrontarsi, dolorosamente, con la difficoltà ed infine con l’inutilità di tentare di contrastare la forte spinta pulsionale (thanatos) attraverso strategie di imbrigliamento delle pulsioni: la strada da percorrere per contattare il pulsionale con scopi diversi da quelli inibitori sembra ancora in salita, complessa; e richiede tempi lunghi, talora difficilmente compatibili con l’incalzare dei fenomeni psicopatologici. Ma è l’unica percorribile e chiama in causa la centralità del corpo reale nel suo incrocio con la sessualità, il fantasmatico e il desiderio. Non c’è trattamento psicoanalitico che non debba fare i conti con l’intreccio di queste aree costitutive della soggettivazione. E, se accettiamo la definizione della pulsione come limite tra somatico e psichico, sono entrambi i versanti che entrano in gioco, in qualsiasi modo vogliamo intenderli e trattarli.
E’ tutto lì, segreto, nascosto, ingarbugliato, inespresso, apparentemente indicibile: tratti di sessualità polimorfa infantile, infarcita di sadismo, narcisismo che convivono assieme a tratti di sessualità cosiddetta matura, spesso facendosene difensivamente scudo. Situazioni che entrano necessariamente nella relazione analitica, ieri come oggi prepotentemente, o di soppiatto; ma che è necessario comunque sapere e potere cogliere.
Spesso sono i sogni che ci vengono in aiuto, quelli dell’analizzando, ma talora anche i nostri, con le associazioni, i ricordi, le connessioni con la storia, la biografia, e, non ultima, la realtà attuale (rivalutazione dell’importanza dei resti diurni). L’interpretazione del racconto dei sogni resta infatti uno strumento centrale dell’analisi ancor oggi, anche se ‘la tecnica’ ha subito nel corso del tempo qualche modifica.

Per tornare alle patologie delle condotte alimentari, notoriamente in continuo aumento, ci si è resi conto dell’importanza particolare che assume in questi casi -così come, per altri versi, nelle nevrosi narcisistiche- la possibilità di creare le condizioni più adatte a cogliere le opportunità fornite dagli eventi, spesso imprevedibili, legati ai meccanismi dell’après coup: intendo con questo riferirmi a quelle situazioni in cui non può funzionare a sufficienza il pur accorto esercizio di uno strumento attivo (l’interpretazione, ad esempio), ma solo l’ascolto dei movimenti più profondi del paziente, possibile solo quando si è in una condizione relazionale di autentica sintonia.
L’ascolto nei termini appena detti, invece, ci consente di essere attivamente presenti, quando nel corso di un'analisi si verifica la congiunzione tra una situazione attuale che determina intensi vissuti angosciosi, apparentemente inadeguati o almeno eccessivi (il secondo tempo dell’après coup) e l’evento traumatico iniziale (primo tempo del trauma, quello in cui è operante la fissazione), risignificato dall’intervento del secondo.
La funzione dell’analista, in queste circostanze, si esercita nella partecipazione, in termini di comprensione, risonanza emotiva, contenimento dell’angoscia (e solo successivamente d’interpretazione dei percorsi di risignificazione) all’interno di una rete transferale, che non si declina ormai più da tempo necessariamente con il solo ausilio delle interpretazioni di transfert, ma anche, e direi forse ancor più, certamente nel transfert.
La distinzione elicita importanti ricadute sull’assetto interno dell’analista e quindi sulle modalità della relazione analitica: mentre infatti l’enfasi eccessiva sulle interpretazioni di transfert crea nella mente dell’analista l’aspettativa e la ricerca del riscontro, l’ottica delle interpretazioni nel transfert consente una libertà di manovra più adatta a cogliere l’eventualità imponderabile nei modi e nei tempi; ed è a queste condizioni che potrà aprirsi uno spazio meglio adeguato a riconoscere l'occorrenza per interpretazioni di transfert davvero appropriate.
Nel contempo va diffondendosi con sempre maggior evidenza l’opportunità di tener conto che esistono “spazi privati”, “segreti” della mente, che non tollerano l’invasione analitica della messa in parole e il cui rispetto è conditio sine qua non per la costituzione di quell’area della sintonia su cui si fonda ogni tentativo di terapia psicoanalitica.
E se risponde al vero, come afferma Viderman, che nel transfert si trasferisce non (solo) ciò che è stato ripetuto, ma al contrario ciò che non è mai stato vissuto, ecco che il fantasma sopravanza la realtà e la storia: in altre parole, ecco che l’inconscio come regno dell’irrealizzato e il mondo fantasmatico entrano di diritto nell’attualità della relazione e il costrutto teorico di volta in volta si trasforma in esperienza diretta (Viderman, 1970).
Ma peccherebbe d’ingenuità chi sostenesse oggi che la funzione dell’analista si configura essenzialmente come quella appena tratteggiata dell’ottica delle interpretazioni in area transferale. E si scontrerebbe con una realtà ormai incontrovertibile: l’apertura al transfert da parte dell’analizzando può avere luogo solo in presenza dello sguardo per così dire voyeuristico dell’analista. Si dibatte sul fatto che, secondo i più, se non c‘è messaggio di passione, interesse, curiosità nella partecipazione dell’analista, non può costituirsi alcuna relazione in grado di produrre effetti; né può prendere forma quindi alcuna reale possibilità trasformativa.
Il dibattito si fa ancora più veemente e acceso quando entrano in campo le teorie sull’uso terapeutico del controtransfert, a cui si oppone molto decisamente Green (e prima di lui Lacan, per cui il controtransfert, errore principe dell’analista, costituisce la rimozione dei significanti dell’analizzante) quando, ad esempio, asserisce l’opportunità di espungere definitivamente l’idea che l’analista sia in grado non solo di interpretare autonomamente il proprio inconscio, ma anche di utilizzarlo a fini terapeutici quando lo ritenga opportuno (Green, 2002). Ma se intendiamo con Fédida che Il controtransfert è esperienza intima di una passione, ritengo che entri a buon diritto, con le opportune avvertenze e cautele, nel novero di quei movimenti emotivi e quell’interesse affettivo così necessari a rendere e a mantenere nel tempo viva e spontanea la relazione analitica (Fédida, 1992).
La questione del controtransfert diviene di particolare urgenza nelle relazioni terapeutiche con gli psicotici, perché è maggiormente in queste situazioni che l’assetto interno dell’analista viene messo a dura prova dal ritiro narcisistico del paziente, che respinge come non ricevibile ogni tentativo di approccio relazionale.
Nota Jacques André che «uno dei contrassegni dell’oggi è il fatto che l’analista riceve pazienti per i quali la psicoanalisi non è stata inventata, il cui funzionamento psichico è un’autentica sfida al metodo» (André, 2010, 351). E se l’analista resta imbrigliato nei suoi vissuti d’impotenza di fronte al ‘respingimento’ del paziente e accetta la distanza affettiva e relazionale impostagli come invalicabile, fornisce inconsapevolmente il suo contributo all’irrevocabilità dello scacco, che a questo punto può diventare anche lui ‘matto’.
L’opportunità di una posizione non intrusiva e poco incline al bombardamento interpretativo va sviluppandosi e diviene necessità con l’estensione dell’area di analizzabilità al pianeta delle psicosi, delle tossico-dipendenze, delle perversioni, il cui trattamento in termini psicoanalitici richiede il cimento, estremamente complesso e dibattuto, con il preverbale, l’extraverbale, ma anche con l’estrema difficoltà a permettere, in queste situazioni, la costituzione dell’area transferale. Anche se non bisogna trascurare che la trasformazione dei criteri di analizzabilità dipende oltre che dalla differente tipologia dei pazienti rispetto a prima (come sono cambiati i nostri pazienti, si chiedeva Eugenio Gaddini già nel 1984) e dai progressi delle teorie psicoanalitiche, anche da molti fattori la cui valutazione esula dalle competenze specifiche del nostro campo (lo spirito del tempo, potremmo dire).
Con l’allargamento dell’area d’intervento psicoanalitico alle psicosi dobbiamo convenire che il costrutto dell’impossibilità della costituzione di un transfert in questi soggetti mostra le prime crepe: se la patologia di cui sono affetti riguarda gravi alterazioni delle prime relazioni oggettuali, con la massiccia costituzione difensiva di un diniego dell’oggetto, si pensa, sulla base delle molte pur se contraddittorie esperienze accumulate, che sia possibile fornire le condizioni di supporto necessarie allo sviluppo di una corrente transferale attraverso la creazione di un setting adeguato, in grado di accogliere e al tempo stesso contrastare il lavoro del negativo che ostacola l’analisi.
Interessante a questo proposito la differenza che Green pone tra transfert sull’oggetto, che fa riferimento a dimensioni che non possono essere “contenute dal discorso”, e transfert sulla parola (Green, 2002).
La funzione interpretativa, si dice, fondata sulla verbalizzazione è destinata al fallimento, per il fatto che non può nemmeno giungere a sfiorare la zona muta simbiotica e indifferenziata del disperato e desertico universo psicotico.
Raggiungere il mondo affettivo degli psicotici è molto complicato anche perché richiede l’oltrepassamento del muro di gomma difensivo contro la minaccia costituita dal contatto relazionale, che è anche la ragione per cui il livello interpretativo viene assolutamente ignorato.
La teoria – e Freud per primo ce ne metteva in guardia - rischia di costruire modelli comprensivi e interpretativi, derivanti dalla seduzione della compiutezza formalizzata; ma soltanto la continua e reciproca dialettizzazione con la prassi terapeutica, attraverso inevitabili incertezze, esitazioni, perfino provvisorie incongruenze e contraddizioni, può permettere un genuino e affidabile avanzamento di quelle conoscenze che sono al tempo stesso effettive competenze.
Dagli iniziali timidi tentativi, appena accennati, di contattare le prime relazioni madre-bambino la ricerca analitica, e con essa di pari passo la tecnica, tenta faticosamente di risalire sempre più indietro nell’illusione di poter intercettare l’arcano della simbiosi e il mitico trauma originario e infine raggiungere l’ambita meta della sua decodificazione. Siamo nell’ambito del prepulsionale.
Per molti oggi, meno ambiziosamente, ma forse più realisticamente, la meta, pur ardua, da raggiungere riguarda ancora essenzialmente l’area del pulsionale: non più intesa come sforzo d’imbrigliamento, che l’esperienza ha dimostrato fallimentare (è il caso delle situazioni perverse, tanto per portare un esempio paradigmatico), ma piuttosto in quanto tentativo di comprensione del fatidico passaggio dal pulsionale allo psichico, mirato alla ricerca di nuove strade terapeutiche: il fine è l’individuazione di possibili percorsi fondati, in evidente contrasto con tentativi precedenti d’imbrigliamento, sulla disinibizione della spinta inconscia, bloccata in un’immobilità mortifera.
Se la pulsione non è del tutto cieca rispetto all’oggetto, e non si frappongono ostacoli alla possibilità di effettuarne la ricerca per quel che riguarda i bisogni e i desideri fondamentali, ivi inclusi quelli sessuali intesi in senso più lato, la vita affettiva segue il suo corso, con i suoi tempi e le sue modalità.
Se invece si strutturano nodi inibitori che ostacolano le spinte pulsionali nei loro liberi percorsi, si avviano modalità patogene che necessitano d’interventi volti al disincastro inibitorio, più che all’imbrigliamento. L’accostamento all’area del pulsionale in termini analitici significa anche mettere in campo in primo piano il versante della pulsione relativa al somatico: la centralità del corpo, non più solo in senso simbolico come nelle isterie.
Il corpo dell’anoressica, della bulimica, di coloro che lo incidono, lo riempiono di tatuaggi fino a sconvolgerne la morfologia non è più il corpo della malattia psicosomatica, in cui prevale l’utilizzazione metaforica del corpo biologico; in cui, secondo Dejours, più che di scelta d’organo, si tratta di scelta della funzione (Dejours, 2001): qui si tratta del corpo consapevolmente attentato, ferito, usato dimostrativamente per uno scopo relazionale, dove spesso è l’odio che prevale; a tal punto che la persona lo distrugge pur di sfidare, attaccare, stordire, distruggere l’altro. Il corpo nella sua realtà somatica, quel corpo pulsionale le cui spinte (fame, sessualità, ricerca del piacere...) questo tipo di persone mirano a dominare onnipotentisticamente.
L’analista diventa ben presto preda, assoggettato e chiuso in questo teorema pregiudiziale; la sua arma principale, l’uso del livello interpretativo, viene spuntata. Il vissuto d’impotenza rischia di ridurre la possibilità d’intervento. Ma è proprio da qui che si può ripartire, accettando lo scoramento dell’impotenza e tentando di accostare la dimensione del vuoto terribile che si cerca di negare o dissimulare o coprire attraverso la costituzione apparente di un falso pieno.
E’ controproducente, per il lavoro analitico, tentare di smontare il falso pieno, -frequentemente infarcito di recriminazioni, lamentele, proteste contro tutto e tutti- o di contrastarlo o di ignorarlo. Solo accogliendolo semplicemente (e non è certo agevole) è possibile facilitare una via d’accesso al vuoto, che consenta di snidare dall’apparenza del corpo proposto dal paziente ulteriori ‘messe in forma’ di altri corpi schermati, e purtuttavia attivi, nella comunicazione della sofferenza, del dolore, del disagio.
Corpi apparenti che non sempre corrispondono a un sentimento di appartenenza, ma che anzi spesso fungono da segnali di uno scollamento dal normale senso di riconoscimento del proprio corpo da parte del soggetto, come dicevo in una discussione di poco tempo fa sul libro a cura di Paolo Cotrufo Corpo e Psicoanalisi (Cotrufo, 2008). Intercorrenze che possono verificarsi quando il vissuto di una presenza troppo ingombrante del corpo può, in certi stati patologici, divenire talmente insostenibile da sfociare in un rifiuto totale (l’insostenibile pesantezza del corpo). Ma che, malgrado ciò, anche nelle condizioni estreme, evidenziano che l’espressione attraverso il corpo ha comunque carattere di comunicazione di eventi psichici non altrimenti rappresentabili.

B I B L I O G R A F I A

André, J. (2010) “Passione, odio e sessualità”, Riv. Psicoanal., 2, 351.
Balestriere, L. (2003) Freud e la questione delle origini, Milano, Angeli.
Bodei, R. (2006) Piramidi di tempo. Bologna, Il Mulino, 142.
Cotrufo, P. ed. (2008) Corpo e Psicoanalisi, Roma, Borla.
Dejours, C. (2001) Le corps, d'abord. Corps érotique, corps biologique et sens moral, Payot, Paris.
Eagle, M. N. (1984) La psicoanalisi contemporanea, Bari, Laterza, 1988.
Fédida, P. (1992) Crisi e controtransfert, Roma, Borla, 1997.
Gaddini, E. (1984) “Se e come sono cambiati i nostri pazienti fino ai nostri giorni”, Riv. Psicoanal., 4,560.
Green, A. (2002) Idee per una psicoanalisi contemporanea, Milano, Cortina, 2004, 59.
Kristeva, J. (1993) Le nuove malattie dell'anima, Roma, Borla, 1998.
Pozzi, O., Thanopulos S. (ed.) (2005) Metapsicologia oggi, Bari-Roma, La Biblioteca.
Ramaioli, I., Cosenza, D., Bossola, P.E. (2003) Jacques Lacan e la clinica contemporanea, Milano, F. Angeli.
Viderman, S. (1970) La Construction de l’espace analytique, Paris, Denoël.
Widlöcher D. (1996) Le nuove carte della psicoanalisi, Roma, Borla, 2004.


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