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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Sergio Benvenuto e Cristiana Cimino
Conversazione con Mario Perniola


Sergio Benvenuto: Come è nato il tuo interesse per la psicoanalisi?

Mario Perniola: La psicoanalisi è entrata nella mia vita molto prima che nel mio pensiero filosofico ed estetico, grazie a due libri, trovati nella biblioteca di mio padre, che hanno segnato la mia adolescenza. Il primo era La psicoanalisi di Enzo Bonaventura, pubblicato da Mondadori nel 1938: aveva una copertina rigida rossa e faceva parte di una collezione di libri scientifici. Il secondo è la prima edizione italiana de L’interpretazione dei sogni di Freud, pubblicata dalle edizioni Astrolabio nel 1952. Successivamente mi sono chiesto come mai in un periodo di leggi razziali Mondadori pubblicasse il libro di Bonaventura, che proprio quell’anno emigrò e morì a Gerusalemme nel 1952. Mio padre, che aveva una formazione scientifica, si interessava moltissimo della psicoanalisi ed ebbe anche scambi epistolari con Emilio Servadio sull’interpretazione dei sogni.

Certo è che questi due libri, che lessi tra i 12 e i 14 anni, mi colpirono in modo molto profondo ed hanno avuto nella mia formazione un’importanza pari solo all’Iliade. Dal libro di Bonaventura ho tratto quell’assetto mentale focalizzato sulla sessualità e sulla psicopatologia che ha segnato tutta la mia vita; dal secondo un’estrema attenzione al mondo onirico che mi ha portato rapidamente ad interessarmi al Surrealismo e che costituisce la mia principale fonte d’ispirazione. Sono perciò rimasto molto sorpreso quando in tempi recenti ho conosciuto persone per le quali la sessualità non aveva importanza e ancora più sorpreso quando ho recentemente saputo che esiste addirittura una specie di associazione la quale riunisce quanti si definiscono “asessuali” con lo scopo di ottenere un riconoscimento sociale. Invece, per quanto riguarda il surrealismo, il mio disincanto è stato molto precoce e risale alla fondazione del “Gruppo 63”. Che nascesse un’avanguardia che non si poneva come erede sia pure indiretta del Surrealismo, è qualcosa che mi scandalizzò molto. Dopo molti anni, finalmente ho letto che Roger Bastide non vedeva l’ora di andare a dormire per riprendere il sogno interrotto col risveglio mattutino. Anche io vorrei fare come Bastide, ma purtroppo sono distratto dal lavoro filosofico ed estetico.

S. Benvenuto: “Ecco, quali aspetti del pensiero psicoanalitico hanno particolarmente influenzato il tuo lavoro filosofico?”

M. Perniola: La psicoanalisi rappresenta un punto di riferimento costante del mio lavoro. Tuttavia ci sono stati due periodi in cui l’ho studiata in modo più sistematico. Il primo negli anni Settanta, focalizzato su Freud e la sua scuola; il secondo negli anni Novanta, focalizzato su Lacan.

Il punto di partenza teorico è la questione degli opposti e del loro rapporto. Qui avviene la scelta decisiva tra un pensiero della loro conciliazione e un pensiero del loro conflitto. Se si sta sulla prima strada, ci si pone nella tradizione neoplatonica e si sta dalla parte di Jung. Per molte ragioni, sono sempre stato estraneo a questo filone, che ha avuto una così grande influenza sul pensiero italiano attuale. Sono stato estraneo, innanzitutto per la mia formazione filosofica: i miei maestri all’università, Abbagnano e Pareyson, si ponevano risolutamente contro un pensiero che armonizzasse gli opposti. Tutta la Storia della filosofia del primo è una polemica contro il neoplatonismo e la sua eredità spiritualistica otto-novecentesca. Quanto al secondo, è stato il corifeo di un pensiero tragico che porta il conflitto persino all’interno di Dio.

In secondo luogo, negli anni Sessanta e Settanta la società occidentale è pervasa da una febbre conflittuale che sollecita una nuova interpretazione teorica: per me risulta evidente che né la contraddizione (la dialettica hegeliana e marxiana) né la polarità (Kierkegaard e Nietzsche) sono in grado di fornire strumenti concettuali adeguati a comprendere la radicalità dei conflitti in atto. Io mi metto su un'altra strada, differente anche da quella di Eco (ritorno ad Aristotele) e da quella di Vattimo (visione ironico-nichilistica della polarità) e scopro che Freud ha creato un apparato concettuale vastissimo fondato su un tipo dissimmetrico di opposizione, in cui uno dei due termini (l’inconscio) è per definizione sotterraneo e raggiungibile solo indirettamente attraverso le formazioni di compromesso. Un pensiero che rimane in superficie è destinato all’ingenuità, cioè ad essere vittima di strumentalizzazione ideologica e spettacolare.

Da ciò derivano alcune conseguenze che ho sviluppato nella seconda metà degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, tra cui la prima è l’aggancio con la nozione di differenza, che deve essere intesa in una accezione molto più forte della semplice diversità o dalla distinzione dialettica. Questa nozione, che viene dalla teologia protestante (abisso tra Dio e l’uomo), è stata trasportata da Heidegger nell’ontologia filosofica (differenza dell’essere nei confronti dell’ente). Successivamente è passata nella filosofia francese, che intanto aveva recepito l’enorme portata teorica di Freud, innestandosi su problematiche letterarie che risalivano a Mallarmé (la differenza del linguaggio letterario rispetto a quello comune). Anche in Italia esisteva una tradizione che pensava la differenza: ma questa era riferita non a Dio né alla letteratura, ma alla storia. Di qui proviene la mia attenzione alle tre dimensioni dell’esperienza umana in cui la differenza si manifesta storicamente: la morte (la finitezza), la sessualità (non due ma infiniti sessi) e il mondo (la riuscita, l’effettualità).

La mondanizzazione della differenza, che in Italia ha radici lontane (Machiavelli, Guicciardini, Loyola), fa apparire la nozione stessa di inconscio come un presupposto cripto-metafisico di cui si può fare anche a meno, o meglio, come qualcosa che deve essere portato a galla, nel linguaggio per esempio, oppure nei riti, nelle cerimonie, negli abiti, nelle forme, in tutto ciò che è esteriore. Questo avviene appunto con Lacan, che nei primi anni Novanta mi introduce in un apparato concettuale più adatto di quello di Freud a comprendere modi di essere psicopatologici individuali e collettivi molto più gravi di quelli che avevo conosciuto fino ad allora. L’influenza di Lacan diventa così un elemento essenziale della mia produzione teorica, specie nei libri Il sex appeal dell’inorganico, L’arte e la sua ombra e Contro la comunicazione.

I punti chiave del mio interesse teorico alla psicoanalisi mi sembrano siano stati due: dapprima l’inconscio come opposizione dissimmetrica e base di tutte le strategie per sopravvivere nella società tendenziosa dei media di massa (Freud), poi l’extimité come esteriorità senza interiorità, base di tutte le strategie per sopravvivere nella società digitale di Internet (Lacan). In due parole si potrebbe dire: prima Barocco, poi Manierismo.

SB: Come Lacan e altri interpreti della psicoanalisi – che gli anglo-americani chiamano ‘post-strutturalisti’ –, tu vedi la psicoanalisi in chiave non intimista ma, come dici tu, nell’ottica di ‘esteriorità senza interiorità’. Mi chiedo se questa diffidenza per l’intimità – e per tutta la sua panoplia sentimentalista, emotivista, affettivocentrica, mentalista – non sia l’eredità specifica della fenomenologia. Sartre disse giustamente di Husserl: ‘ci ha liberato dalla vita interiore’. E la soggettività per la fenomenologia consiste proprio nell’’andare verso le cose stesse’. Non a caso gli autori che, a tuo dire, ti hanno influenzato – Abbagnano, Pareyson, Heidegger, Lacan – provengono tutti dalla fenomenologia. Ora, chi come noi frequenta gli analisti, soprattutto italiani, ha l’impressione opposta: per gli analisti, a parte qualche felice eccezione, la psicoanalisi sembra essere una sorta di psicologia intimista, di ontogenetica psicologica dell’interiorità. Non a caso vanno per la maggiore nozioni come “la mente” e “il sé”, che derivano peraltro dal mind e dal self anglo-americani. Mi chiedo allora: perché – a parte i lacaniani – la lettura filosofica della psicoanalisi, di cui tu sei un notevole esponente, risulta così divergente dall’immagine che ne hanno gli analisti praticanti? Non ci sono due psicoanalisi, una per i filosofi e l’altra per gli analisti?

M.P. È difficile paragonare una teoria con una pratica. Mi chiedo se la pratica dei filosofi, la consulenza filosofica, sia meno soggettivistica della pratica della maggior parte degli psicoanalisti, quando va aldilà del dispensare consigli di buonsenso. Nella tradizione gesuitica c’è una figura che ha un’attitudine per così dire fenomenologica, cioè di sospensione e distacco rispetto alla soggettività: è il direttore degli esercizi che, a differenza del direttore spirituale, non deve insegnare nulla, né dare alcun consiglio. Su questo argomento Ignazio è categorico: “Chi dà gli esercizi non deve spingere chi li riceve a povertà né a promessa più che ai loro contrari, né a uno stato o modo di vivere piuttosto che a un altro” (ES, 15). Il direttore “non propenda, né si inclini verso l'una o l'altra parte; ma, stia nel mezzo, come una bilancia”. Il direttore degli esercizi non è un confessore: il suo rapporto non è con i pensieri e i problemi dell'esercitante, con l'identità concettuale o morale di questi, ma solo con le sue consolazioni e desolazioni. Egli funge da catalizzatore in una ricerca di cui ignora completamente la soluzione, in un processo di cui non conosce affatto l'esito: egli non può dare risposte. Questa funzione del direttore degli esercizi è ripetutamente affermata nei Dírettorii in cui è definito “indegno strumento di Dio”: egli deve diffidare di sé e restare indifferente affinché la volontà di Dio si compia senza la sua intromissione. Mi chiedo se la pratica degli psicoanalisti lacaniani sia simile a questa.

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, sono riuscito a superare da solo le crisi in cui sono caduto, spostando la mia energia d’investimento dal Self (inteso come organizzazione narcisistica della psiche) a qualcosa di esterno.

SB: Il tuo riferimento agli esercizi spirituali a proposito della pratica analitica è significativo. Come sai, il cliché che corre in Italia è che la psicoanalisi è la versione laica della confessione cattolica. Ovviamente tu non dici questo, eppure comunque la paragoni agli esercizi spirituali. Ma allora, in che cosa consiste – a tuo parere – la differenza tra la pratica analitica e gli esercizi spirituali cristiani; o, prima ancora, l’esame di coscienza degli stoici?

M.P. Gli Esercizi spirituali per Loyola sono un metodo per scegliere e per decidere su questioni importanti, per esempio per trovare la strada da seguire nella vita. Quindi non hanno niente a che fare con una confessione, con una direzione spirituale né con un ritiro fatto solo di preghiere. In quanto metodo, potevano essere fatti anche da un non credente, purché riuscisse entro una settimana a raggiungere uno stato di indifferenza nei confronti del proprio avvenire e a stare sospeso come una bilancia pronto a pendere con uguale distacco nei confronti di qualsiasi cosa gli riservi il futuro. Questo è il senso originario degli Esercizi, che tuttavia si è notevolmente affievolito nei gesuiti appartenenti alle generazioni successive a quella di Loyola, sicché già alla fine del Cinquecento molti non capiscono più il loro carattere essenziale di metodo. Ma finché è esistita l’Antica Compagnia, che è stata soppressa nel 1773, qualcosa di questo metodo rimaneva.

Certamente l’origine di questo metodo va cercato negli antichi Scettici e Stoici, che hanno inventato la parola epoché, sospensione. Nozione che è stata ricuperata da Husserl, dalla fenomenologia ed opposta al cogito cartesiano. Sicché accanto alla corrente soggettivistica, esiste in Occidente un’altra grande corrente che pone l’accento sul “farsi nessuno”, sulla spersonalizzazione, sul vedersi con un occhio estraneo. Freud, facendo dell’animo umano un campo di battaglia tra pulsioni opposte e impersonali, appartiene a questa seconda corrente. Io finora ho trovato la mia sopravvivenza in questo cammino, perché essa mi ha garantito una maggiore familiarità con i tre grandi enigmi con cui mi sono imbattuto: la malattia e la morte, la sessualità e il mondo. Tra qualche giorno finalmente comprerò la terra per il mio sepolcro: così potrò trasportare i resti della mia prima moglie (cosa che aspetto da 19 anni), fare un posto per me e per qualche altra persona che mi è vicina. Infatti, per varie vicende sono stato escluso dalle due tombe più grandi che pure mi appartengono (una delle quali non ho ancora mai visto). Qualche anno fa mi hanno detto che stava per crollare, ma era una notizia falsa e tendenziosa.

Cristiana Cimino: Nella misura in cui gli antichi esercizi spirituali, nella forma degli stessi dialoghi platonici, prevedono un itinerario dello spirito verso il divino, una emancipazione dai sensi e dalle catene del corpo, essi si avvicinano alla pratica psicoanalitica, nel senso che essa, effettivamente, ha progressivamente intrapreso un percorso di mentalizzazione e ‘spiritualizzazione’. Tuttavia, questo percorso di distanziamento da una sua originaria matrice corporea, biologica, pulsionale, mi pare abbia pure segnato un suo addomesticamento. Forse bisognerebbe iniziare a pensare, anche in ambito psicoanalitico, ad un percorso a ritroso, già in atto in altri ambiti: penso ad esempio a Giorgio Agamben e al suo libro L’Aperto, nel quale contesta la rottura moderna (heideggeriana) tra animalità e umanità. Tu cosa ne pensi?

M.P.: Il discorso sull’essere umano segue tre percorsi, a seconda che lo si confronti col divino, con l’animalità o con le cose. Il primo percorso è quello spiritualistico (massimamente diffuso nella filosofia francese e italiana dell’Ottocento): nonostante il nome, gli “Esercizi spirituali” non hanno niente che fare con questo percorso, perché insegnano a scegliere e condursi nel mondo (a rigore bisognerebbe chiamarli “Esercizi mondani”). Nel secondo percorso si diramano due strade: quella che sottolinea la differenza tra umanità e animalità (per esempio, l’antropologia filosofica di Gehlen) e quella che sottolinea la prossimità in nome della “vita nuda”, cioè di una vita intesa non come bios (condotta umana della vita nel senso etico), ma come zoé (vita intesa nella sua crudezza naturalistica, che accomuna vegetali, animali ed esseri umani). Questa seconda strada è quella del naturalismo italiano, che è stata espressa molto bene da Pirandello, quando in polemica con il neo-idealismo ha opposto appunto la “vita nuda” alla “vita vestita” della cultura e della storia. Il naturalismo pirandelliano (le cui origini affondano in un modo di essere italiano che ha radici nei secoli precedenti) è rimasto sotterraneo nella cultura filosofica italiana del Novecento, ma è riemerso negli anni Sessanta con Giorgio Colli, Cesarano, Carla Lonzi, Sgalambro, Gargani e infine Agamben, che si limita ad invertire la formula pirandelliana in “nuda vita” e ad darle un’enfasi politico-rivoluzionaria che era già presente in Cesarano.

Il mio lavoro non ha niente che fare né con lo spiritualismo, né col naturalismo, perché è focalizzato sul confronto tra il modo di essere umano e quello delle cose. Questo è per me la vera sfida dinanzi a cui oggi ci troviamo e che si manifesta in tanti ambiti dell’esperienza individuale, sociale e culturale: dall’ingegneria genetica alle sensologie di massa, dalle tossicomanie alle tecnologie virtuali, dalle allergie alle psicosi, dall’architettura decostruttiva all’arte postumana, dalle malattie del sistema immunitario alle dipendenze, dallo sport agonistico ad alcuni generi dell’industria culturale come l’horror, la fantascienza, il rock.

C. Cimino: Nel tuo ultimo libro Contro la comunicazione, affermi che l’intento della società della comunicazione è quello di rimuovere l’intera realtà, anzi, il principio di realtà stesso. La conseguenza che ne deriverebbe sarebbe pertanto una patologia dell’ordine della psicosi. A proposito di quella che chiami “subcultura della performance”, sottolinei il tentativo di mantenere uno stato di eccitazione che garantisca, appunto, una sorta di inesauribile prestazione. E questo attraverso il consumo, ad esempio, di alcool e di droghe, ma in definitiva di qualsiasi oggetto in grado di alimentare una condizione di dipendenza. Mi chiedo se, alla luce della posizione privilegiata che secondo te gli oggetti, intesi come cose, sempre più assumono per gli esseri umani, ancora più della psicosi non sia la perversione la “patologia” maggiormente rappresentativa della contemporaneità. Penso alla perversione come ad una modalità di relazione reificante e dipendente da oggetti feticcio, che tenta di escludere la temporalità e di favorire l’annullamento di differenze e conflitti. A questo proposito ho in mente quello che tu dici rispetto alla società della comunicazione: che questa vedrebbe un simile tentativo di annullamento come sua prerogativa.

M.P.: Le perversioni sono qualcosa di grande, per le quali non c’è quasi più posto nella vita contemporanea. Probabilmente anche nel passato erano qualcosa di raro, ma occupavano un posto abbastanza rilevante nell’immaginazione delle persone colte ed eccitabili. Oggi l’industria culturale e il consumismo le hanno estremamente banalizzate e trivializzate: sono state risucchiate dalla pornografia, dall’industria del sesso, dalla moda, dalla pubblicità, dalle nuove povertà e schiavitù. Sicché la meschinità, la pitoccheria e la sciatteria, che ci circondano da ogni lato, le hanno trasformate in un altro tipo di patologie più modeste, ma anche più opache e difficili da gestire, come le dipendenze e le allergie. Qualche piccola favilla si accende ancora qua e là per subito spegnersi; le nostre riviste (il JEP, Agalma…) e i nostri libri sono come messaggi messi in bottiglie e gettati nel mare. L’essenziale è che arrivino all’oceano e non rimangano nel porticciolo davanti a casa: in questo modo il numero delle probabilità che siano raccolti da qualcuno è all’incirca lo stesso di prima.

Quanto alla reificazione e al feticismo, bisogna avere una forte consapevolezza della dignità dell’essere umano e della sua grandezza per percepirle e praticarle come perversioni: se questa coscienza manca, non si può arrivare allo splendido e luccicante statuto di cosa. Ci si sente nel migliore dei casi come un capitale umano; ma direi che anche questo è qualcosa di poco praticabile, perché da un lato è troppo faticoso e dall’altro suscita troppo odio. La maggior parte non è nemmeno una merce vivente, perché c’è troppa offerta, ma il consumatore di qualcosa che non vale nulla. Probabilmente esiste un certo parallelismo tra il declino della psicoanalisi e il declino della mentalità economica.

S.B.: Tu dici che le perversioni oggi sono banalizzate e trivializzate. Eppure la pedofilia, oggi, non lo è affatto. I pedofili sono sempre esistiti, ma nel passato in fondo erano alquanto tollerati. Non così oggi. Negli Stati Uniti vige di fatto la condanna a morte dei pedofili: nelle prigioni americane di solito vengono uccisi dagli altri carcerati. Inoltre la suscettibilità è tale, che basta ricordare cose ovvie – che, per esempio, esiste anche una sessualità infantile... – per essere subito accusati di essere pro-pedofili, anche da parte di psicologi e psicoanalisti. Se scrivi un saggio clinico sulla pedofilia ma non lanci anatemi morali altisonanti contro i pedofili, allora non ti pubblicano. Il caso della pedofilia sembra insomma andare nel senso contrario di quel che tu dici.

M.P.: Mi sembra che sotto il nome generico di “pedofilia” si confondano due fenomeni molto differenti: l’amore per gli adolescenti e la violenza sessuale sui bambini. Il primo fenomeno, come hai giustamente osservato, ha una storia millenaria che risale alla pederastia greca: non vedo perché debba essere collocato tra la perversioni. Tuttavia a causa dello sfascio dell’autorità delle famiglie, dell’immaturità dei ragazzi, del consumismo giovanile, della democratizzazione della pornografia, del venir meno della censura e del turismo sessuale, è diventata una questione che riguarda lo statuto del corpo di chi ha meno di 18 anni: si tratta di un problema interessante e complesso che presenta aspetti economici, educativi, morali, sociali e giuridici. Altra cosa è la violenza sui bambini, che è una questione criminale, ed ha poco a che fare con le perversioni, perché si esercita non solo sui bambini che certo sono i più indifesi: ma qui la domanda verte sulla psicopatologia dell’aggressività e del crimine.

S.B.: Vorrei tornare a temi più filosofici. Sei d'accordo nell'inscrivere il tuo interesse per la psicoanalisi nella tradizione che chiamerei della Moderna Trinità? Ovvero: Marx, Nietzsche, Freud? Quando citai questa moderna trinità in una conversazione che ebbi con Jean-François Lyotard, per la RAI nel 1994, quasi si offese.... quest'evocazione della Trinità o Trimurti gli dette fastidio. In effetti, tutto un filone di pensiero, detto oggi post-moderno, si rifà proprio a questi tre pensatori - e qualcuno vi aggiunge Heidegger o Wittgenstein. Il trio che Ricoeur qualificò di "pensiero del sospetto". Ad esempio, non si contano i saggi che mettono in relazione la teoria marxiana del feticismo della merce con la teoria freudiana del feticismo come perversione, ecc. Tu stesso sei stato amico e allievo di Guy Debord, che certo era un marxista DOC. Insomma, anche tu leghi strettamente Freud a Marx e a Nietzsche? E se si, in quale modo si opera questa, come chiamarla?, triangolazione?

M.P.: Anch’io penso che i padri fondatori della intelligibilità contemporanea siano proprio quei cinque che hai nominato, perché attribuiscono a ciò che è silenzioso ed occulto una potenza che non appartiene né al regno del puro spirito, né alla retorica del mondo? in altre parole, rifiutano sia la via monastica, ineffettuale e contemplativa, sia quella politica, ideologica e spettacolare. La fiducia che la razionalità possa trionfare nel mondo, come su un palcoscenico il cui sipario è spalancato, permea l’idealismo e il positivismo e i loro epigoni novecenteschi: ma questa fiducia non è altro che ingenuità. I padri fondatori dell’intelligibilità contemporanea danno per scontato che il pensiero, la razionalità, la morale sono stati in vario modo completamente estromessi dalla scena del mondo e che il loro posto è stato preso dall’ideologia, dalla falsa coscienza, dalla retorica, dalla volontà di potenza, dallo spettacolo, dalla nuova ignoranza; ma invece di richiudersi in un modo di essere contemplativo e rinunciatario, rivolgono una sfida di proporzioni inaudite, contrapponendo qualcosa di silenzioso e di occulto e di sotterraneo che si pone come il vero motore della realtà. Questa è la lotta di classe per Marx, l’inattuale per Nietzsche, l’inconscio per Freud, l’uso linguistico per Wittgenstein, l’abbandono alle cose per Heidegger. Insomma danno per scontata la destituzione politico-sociale della ragione (e quindi anche la possibilità che essa possa esercitare in Occidente una vera influenza etico-pedagogica). Mai come oggi nel mondo della comunicazione globalizzata la loro eredità è preziosa e insostituibile, e naturalmente si rivolge ai quei pochi che riescono a non farsi istupidire dal gran chiasso in cui tutti siamo avvolti. Questa eredità insegna che non bisogna lasciarsi intimorire dalla prepotenza e dalla presunzione dei potenti di turno. Il peggior pericolo viene tuttavia dall’ingenuità, da quel candore idiota, di cui le vittime maggiori sono proprio le ragazze e i ragazzi di oggi. Il massimo risultato che si possa ottenere è fare capire questo: ciò che più importa è costretto ad essere inapparente e silenzioso, ma non per questo rinunciatario e impotente.

S.B.: Una certa deformazione professionale da analista mi porta a focalizzarmi, con pignoleria, su un lapsus della tua risposta: hai dato alla prima frase della tua risposta una forma interrogativa, ma credo che tu volessi dargli una forma affermativa. O sbaglio? Se è un lapsus, allora – Freud dixit – deve manifestare proprio una verità, che tu chiami ‘inapparente e silenziosa’, del tuo pensiero. E forse non solo del tuo, ma di chiunque si rifaccia alla Moderna Trinità. E mi chiedo se questa verità non sia proprio la seguente: che quel che dici in forma affermativa o apodittica su Marx, Nietzsche, Freud, Heidegger, Wittgenstein, non vada preso invece come una domanda. Come un dubbio. Non è tempo di sospettare, finalmente, del “pensiero del sospetto” come lo chiamava Ricoeur? Mi chiedo anzi se non sia proprio questa la svolta del nuovo secolo (ammesso che ce ne sarà una): prima la Trimurti, più Heidegger e Wittgentsein, erano Verità apodittica, oggi forse vanno decostruiti anche loro. Insomma, sei proprio sicuro che possiamo continuare ad essere marxiani, o nietzscheani, o freudiani, ecc., come potevamo – e dovevamo - esserlo venti o trent’anni fa? Non dobbiamo finalmente porci ormai, su questi nostri padri, delle domande?

M.P.: Più che un lapsus, lo considero proprio un errore di battuta, dato che ho scritto con un computer nuovo che ha una tastiera differente da quello precedente. Per venire alla sostanza, io non ho dubbi sul ruolo fondante di questi cinque filosofi, che continueranno ad essere letti e studiati anche dalle generazioni future. Invece mi interrogo sulla strategia intellettuale, sull’opera e ancora più sul destino umano dei pensatori francesi che hanno costituito la cosiddetta French Theory. Ho l’impressione che non si possa seguire più la loro strada, specie quando hanno preteso di mettersi in concorrenza con i mass media.

S.B.: Questo tuo ridimensionamento degli autori francesi detti “post-strutturalisti” mi sorprende un po’ (anche se sono d’accordo con te, alcuni bisognerebbe decisamente ridimensionarli). Perché appunto, come dicevo sopra, sei stato molto legato a Debord (a proposito, la sua posizione non era ostile alla psicoanalisi?). Sei stato amico di Derrida negli anni 60, e spesso hai invitato a Roma autori francesi noti, come Jean Baudrillard e Bruno Latour. Insomma, sei noto proprio per il tuo legame, non solo biografico, con la cultura parigina. Quali autori della French theory andrebbero, secondo te, particolarmente criticati? E per quali ragioni?

M.P.: Non solo io, ma in generale i filosofi italiani hanno imparato moltissimo dalla French Theory: abbiamo imparato un nuovo stile di filosofare, più libero da preoccupazioni accademiche e più vicino alla saggistica letteraria. Lo sviluppo di questo stile presuppone tuttavia una società colta e un giornalismo che non si limiti a recensire i libri degli amici, cioè presuppone una vita culturale nazionale nella quale gli autori e le opere siano sottoposti ad una mobilitazione concettuale e non solo esposti in modo spettacolare e pubblicitario; presuppone anche la capacità di una politica editoriale, che non si limiti a sfornare manuali e testi generalmente malfatti per l'università e che sia in grado di promuovere le opere di rilievo sul mercato internazionale. Sono queste condizioni ad esser venute meno. Debord costituisce un caso a parte, anche perché non era un tipico francese, ma piuttosto un napoletano a Parigi. Freud non faceva parte degli autori importanti della sua formazione; inoltre l’influenza del suo pensiero non è un rimbalzo del successo statunitense, ma ha seguito altre strade legate all’internazionalismo dell’avanguardia storica, del marxismo e dell’anarchismo. Questa trama di relazioni sotterranea non è stata dipendente dai media, ma piuttosto, dopo i primi anni Novanta, connessa con la rete di Internet. Sotto questo aspetto, il suo modo di porsi nei confronti del mondo culturale mondiale mi sembra oggi più praticabile di quello che si appoggia sui mass media, perché più diretto, non ristretto nei confini delle nazioni e basato sulla collaborazione di coloro che, indipendentemente dal ruolo istituzionale e professionale, possiedono energia intellettuale.

C.C.: Come sai, un nutrito filone di psicoanalisi contemporanea ha del tutto ridimensionato il ruolo dell’inconscio freudiano e quindi l’importanza e il potere terapeutico della conoscenza di sé. Si parla piuttosto di nuovi sistemi di significato, di diverse prospettive che inaugurino uno stile di vita migliore, addirittura di “persuasività narrativa”. Tutto questo sembra modificare di molto il rapporto con quella che per la psicoanalisi freudiana è sempre stata la ricerca di una qualche forma di verità. Tu, da filosofo, che ne pensi?

M.P.: Che cos’è l’inconscio da un punto di vista filosofico? È un’opposizione asimmetrica, in cui i due termini non stanno sullo stesso piano: si tratta del tipo di opposizione più radicale pensata dal pensiero occidentale, che si aggiunge ai quattro tipi di opposizione pensati da Aristotele (correlazione, contrarietà, presenza-assenza, contraddizione); è una invenzione teorica di enorme rilevanza che si può applicare non solo alla vita psichica, ma alla descrizione di qualsiasi fenomeno anche collettivo, sociale, testuale… Chi nega l’inconscio? coloro che vogliono dare un’immagine conciliata, armonica e quindi ideologica dell’esperienza e della società (per esempio, neo-junghiani, New Age ecc.). Mi sembra infine significativo che perfino nelle neuroscienze si prospetti la necessità di pensare l’inconscio, come mostra il libro di Lionel Naccache, Le Nouvel Inconscient: Freud, Christophe Colomb des neurosciences, Paris, Odile Jacob, 2006.

S.B.: Un’idea grave..... Potresti essere più preciso su questa opposizione? E potresti dare qualche esempio, preso dalla sfera sociale o testuale?

M.P: Il sentire del Novecento si è mosso in una direzione opposta alla conciliazione estetica, verso l’esperienza di un conflitto più grande della contraddizione dialettica, verso l’esplorazione dell’opposizione tra termini che non sono simmetricamente polari l’uno rispetto all’altro. Tutta questa grande vicenda filosofica, che non esito a considerare come la più originale e la più importante del Novecento, sta sotto la nozione di differenza, intesa come non-identità, come una dissomiglianza più grande del concetto logico di diversità e di quello dialettico di distinzione. In altri termini, l’ingresso nell’esperienza della differenza segna l’abbandono sia della logica dell’identità aristotelica, sia della dialettica hegeliana. Nessuna meraviglia perciò che i pensatori della differenza (Heidegger, Freud, Wittgenstein e Benjamin) siano anche estranei all’estetica in senso stretto. La loro estraneità nei confronti della tradizione estetica moderna tuttavia non deriva affatto da un’attenzione esclusiva su problemi puramente teoretici, da un disinteresse nei confronti del sentire; anzi è vero proprio il contrario: è dallo studio del sentire che essi sono portati a mettere da parte tanto Kant quanto Hegel.

Sul piano testuale, l’inconscio freudiano si è incontrato con il non-pensato (ungedacht) heideggeriano dando luogo alle pratiche decostruttive. Il mio lavoro si è invece focalizzato sull’inconscio delle culture e uno degli aspetti essenziali del progetto che sottende alla rivista “Ágalma”, da me diretta, è appunto lo studio di ciò che le singole culture rimuovono, in altre parole del loro inconscio. Si tratta perciò di un progetto che si inserisce nel quadro dei Cultural Studies in modo assai speciale. Vorrei addurre alcuni esempi di questo

metodo di indagine, che ha dei punti di riferimento importanti proprio nella psicoanalisi. Per esempio, per quanto riguarda la cultura giapponese, lo psicoanalista Doi Takeo ha inventato la nozione di amae. Per il Brasile, lo psicoanalista Jorge Forbes ha sostenuto che l’immagine dell’uomo cordiale, teorizzata da Sérgio Buarque de Holanda, nasconde la paura del brasiliano di confrontarsi col desiderio. Sull’Italia, Alessandro Fontana scrisse anni fa un importante saggio sull’inconscio italiano. Per quanto mi riguarda, una parte cospicua del mio lavoro verte intorno alla nozione di rituale, la quale costituirebbe una chiave interpretativa fondamentale del mondo romano antico, il quale presenta sorprendenti affinità col cosiddetto confucianesimo, come ho rilevato nella introduzione espressamente scritta per l’edizione cinese del mio libro Ritual Thinking (Beijing, The Commercial Press, 2006).

S.B.: Mi colpisce quando metti Benjamin tra i pensatori del Novecento estranei all’estetica. Si direbbe piuttosto che i testi estetici di Benjamin – a cominciare dal saggio “L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica” – abbiano avuto un influsso decisivo sul pensiero e anche sulla prassi estetica del secolo. Forse allora per ‘estraneità all’estetica’ intendi qualcosa di diverso da quel che comunemente si intende con questa espressione.

M.P.: Walter Benjamin ha posto al centro della sua riflessione tre argomenti che l’estetica tradizionale (quella di derivazione kantiana o hegeliana) aveva trascurato se non rimosso: la morte, la cosa, la merce e la sessualità. L’originalità di Benjamin consiste non tanto nell’averne fatto i cardini della sua riflessione, quanto nell’averli posti in relazione tra loro, conferendo una dimensione teorica ad una esperienza alternativa rispetto al vitalismo che, traendo spunto da una sua osservazione sulla moda, si può definire con l’espressione “il sex appeal dell’inorganico”. Il nucleo teorico di tale esperienza è costituito da una mescolanza tra la dimensione umana e quella “cosale”, per cui da un lato la sensibilità umana si reifica, dall’altro le cose sembrano dotate di una loro sensibilità. Non si tratta di un tipo di esperienza assolutamente nuovo, ma in Benjamin esso viene applicato a una grande molteplicità di situazioni e costituisce una chiave di lettura estremamente feconda del ventesimo secolo. L’inorganico non è soltanto il minerale, ma anche il cadaverico, il mummificato, il tecnologico, il chimico, il mercificato, e il feticcio: esso così si smaterializza, diventa alcunché di astratto e di incorporeo, senza perciò trasformarsi in qualcosa di immaginario o di irreale; anzi dietro tutte queste configurazioni dell’inorganico opera il paradigma di ciò che è massimamente reale ed effettuale, cioè del denaro.

Nella suo saggio più noto, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin esamina il passaggio dall’opera d’arte tradizionale, caratterizzata da una identità unica e irripetibile, alle forme moderne di espressione artistica che, come la fotografia e il cinema, dissolvono l’hic et nunc dell’opera in una molteplicità di copie prive di un originale. Tale fenomeno è descritto da Benjamin come una perdita di “aura” e di valore cultuale: il loro posto è preso dal valore espositivo, cioè da un’accentuazione della dimensione spettacolare dell’opera che finisce col mettere in ombra la sua specificità estetica. Questi mutamenti si accompagnano a una profonda trasformazione della percezione e del sentire: la macchina fotografica e la cinepresa colgono immagini che sfuggono all’occhio naturale, il quale si trova costretto a identificarsi col dispositivo tecnologico. La visione della cinepresa - osserva Benjamin - è simile a quella dell’inconscio: coglie tantissime cose che in precedenza restavano inavvertite. Nasce così un sentire artificiale che muta la percezione della vicinanza e della lontananza non meno che la stessa nozione di realtà, la quale da un lato diventa illusionistica, dall’altro ipernaturalistica. Mentre l’attore fornisce nel teatro una prestazione unitaria, nel cinema è costretto a una pluralità di riprese che esteriorizzano la sua performance. Tutto diventa plurale e replicato, ma si tratta di una ripetizione differente, che all’interno di un genere comune crea infinite varianti. Benjamin sottolinea il potenziale rivoluzionario di queste trasformazioni percettive e sensitive.


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