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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Un commento

Sergio Benvenuto


L’opera di George Lakoff appartiene ad una tradizione illustre, connessa al progetto specifico di quelle che un tempo si chiamavano scienze sociali e psicologia, o psicologia sociale, e che oggi si chiamano scienze cognitive. I momenti più significativi di queste scienze, per un secolo e mezzo, sono stati segnati da quella che chiamerei la “critica scientifica dell’oggettività”. Simmel già diceva che la nostra immagine del mondo non proviene dai fatti osservabili, ma da ‘ipotesi generali’ che abbiamo prima di osservare. Queste ‘ipotesi generali’ che plasmano la nostra esperienza hanno preso nomi e caratteri diversi a seconda degli autori. Simmel le chiamava ‘a priori’; Bartlett parlava piuttosto di ‘schemes’; Köhler parlava di Gestalt; Holton usava il termine ‘theme’; Kuhn ha promosso il termine ‘paradigma’. Lakoff riprende da altri il termine ‘frames’. Possiamo dire comunque che il progetto più caratteristico delle scienze cognitive sia stato di porre una questione fondamentale di cui la filosofia occidentale si è occupata negli ultimi secoli: mostrare quanto la ragione umana sia non-del-tutto-razionale. Insomma, mostrare come gli esseri umani – anche quelli più raziocinanti - soggettivino il mondo della loro esperienza; come essi tendano irresistibilmente a dare forma, senso, ordine, direzione ai dati dell’esperienza, in modo da confermare la loro visione del mondo (leggi: in modo da confermare i propri pregiudizi). Lakoff non parla di soggettivazione ma di embodiment, che ha un senso molto simile: la nostra Ragione non è oggettiva perché si basa su vissuti corporei. Possiamo dire che la grande sfida di quelle che oggi si chiamano scienze cognitive è stata di sfatare il pregiudizio secondo cui conosciamo il mondo direttamente senza pregiudizi.

In un certo senso il meglio delle scienze cognitive – e Lakoff con esse - dice quel che Nietzsche aveva detto in altro modo: “non esistono fatti, solo interpretazioni”. E’ questo il senso filosofico della frase di Lakoff citata da Di Pietro e Lucci, “it is a general finding about frames that if a strongly held frame does not fit the facts, the facts will be ignored and the frame will be kept” (“si constata generalmente questo: che se un frame a cui teniamo fortemente non si adatta ai fatti, allora ignoreremo i fatti e ci terremo il frame”). Oppure quando Lakoff dice, per esempio, “non esiste una comunicazione che sia neutrale”; appunto, fatti e interpretazioni sono inscindibili. Qualcuno dice che questa conclusione è un po’ la scoperta dell’acqua calda, ma, come vedremo, non si valuta la portata di una conclusione del genere, ovvero la vertigine concettuale che essa produce.

Di solito non traduciamo in italiano il termine frame. In effetti, non è semplice tradurlo. Esso significa da una parte ossatura, telaio, struttura; dall’altra semplicemente cornice. D’altra parte frame in inglese può avere un significato emotivo forte, come in “to be in an happy frame”, essere di buon umore. Esso ha il senso ambiguo di una struttura interna da una parte, ma anche di un quadro o cornice dall’altra: oscilla tra un senso intrinseco ed uno estrinseco. Il frame è un qualcosa che sta attorno a x ma che, proprio per questo, dà forma a questo x. Mi chiedo se non sia proprio questa ambiguità del concetto ad averne assicurato il successo nelle scienze cognitive.

Certamente Lakoff – come già Nietzsche e altri – ha ragione nel ricordare che la mente umana funziona non secondo la logica matematica, ma sulla base di credenze empatiche, di narrazioni mitiche, di frames morali, ecc. Per maggior chiarezza, chiamerò questa seconda ragione, che Lakoff chiama “Ragione reale”, “Ragione interpretante”; e chiamerò quel che lui chiama Ragione Illuminista proprio “Ragione cognitiva”.

Ma allora sorge inevitabile la domanda filosofica: Se le scienze cognitive giungono alla conclusione che la mente non risponde alla Ragione Cognitiva e segue di fatto la Ragione interpretante, allora le scienze cognitive sfuggono alla descrizione della mente umana come universalmente interpretante? In effetti, se si dimostra scientificamente che “le menti umane credono di ragionare oggettivamente, in realtà sono condizionate da frames emotivi”, questa conclusione è a sua volta condizionata da frames emotivi?

Questo era un problema di cui, a suo modo, si era occupato già Platone, quando nel Teeteto contrapponeva alle teorie relativiste di Protagora le obiezioni di Socrate: dire “tutto è soggettivo” non è fare appunto un’affermazione squisitamente oggettiva?

In effetti, tutte le scienze della mente – le si chiamino scienze cognitive o in altro modo – hanno un problema che le altre scienze non hanno: esse sono auto-referenziali. Quando la chimica parla di acqua, ad esempio, non parla del chimico che si occupa dell’acqua (anche se, in verità, il cervello che usa il chimico è in gran parte costituito da acqua…) Quando il pensiero umano prende se stesso come oggetto, punta a includere il pensiero conoscente – se stesso - nel pensiero conosciuto. Il meta-pensiero non può non includersi nel pensiero-oggetto; ma ogni pensiero razionale si basa proprio sulla divisione netta tra meta-pensiero e pensiero-oggetto. La frase

“’Lakoff insegna a Berkeley’ è una frase italiana”

è meta-linguistica perché parla della frase “Lakoff insegna a Berkeley”, la quale frase non dice affatto che è una frase italiana, ma parla solo di Lakoff… Ora però sappiamo bene dalla logica matematica – paradosso di Russell, teorema di indecidibilità di Gödel, ecc. – che ogni discorso auto-referenziale porta a paradossi logici. Ricordo questo non certo per criticare le scienze cognitive, ma per ricordare lo sfondo paradossale entro cui si muovono.

Nel caso di Lakoff, direi: se tutti pensano in termini di Frames, Prototipi, Metafore e narratives culturali, quali sono i Frames, Prototipi, Metafore e narratives culturali di chi fa scienza cognitiva e giunge appunto alla conclusione che tutti pensano in termini di Frames, Prototipi, Metafore e narratives culturali? A questa domanda impertinente di solito si risponde in due modi.

In uno si risponde eccettuando il pensiero scientifico – e in particolare la propria teoria – dalla descrizione generale: “quasi-tutti pensano secondo la Ragione Interpretante, tranne i pochi che fanno scienza”. Questa esclusione del pensiero scientifico dal pensiero che si descrive è però di fatto una auto-confutazione: la verità di una teoria deve essere universale, altrimenti la teoria è falsificata. Certo possiamo sempre modificare la teoria relativizzandola: “non-tutto il pensiero umano è interpretante, in certi casi – quando ad esempio si fa scienza o matematica – è cognitivo”. Questa idea, secondo cui solo pochi e solo min certe occasioni sono pienamente cognitivi, ovvero razionali, esprime una certa arroganza degli intellettuali: ci sarebbe un pensiero comune, di massa, e poi c’è un’élite che invece è capace di pensare oggettivamente. E’ un’idea che chiamerei ecclesiastica della scienza, dove gli scienziati cognitivi sarebbero degli extra-uomini o extra-pensanti, capaci di praticare una forma di pensiero a cui la massa non ha accesso, o ha poco accesso.

L’altro modo di rispondere alla domanda filosofica è accettare quel che oggi si chiama relativismo: “la teoria secondo cui più che i fatti contano le interpretazioni è essa stessa un’interpretazione per la quale i fatti contano poco”. Si rinuncia insomma all’oggettività scientifica. Ma Lakoff, da scienziato cognitivo qual è, non può accettare questa risposta, ovviamente.

Resta però un problema di fondo per ogni approccio razionale alla ragione umana: da un punto di vista logico, questa inclusione del proprio pensiero nei limiti indicati nel pensiero-oggetto porta a paradossi e antinomie. E’ come dire: “ogni pensiero ha un limite. Ma questo pensiero che ogni pensiero ha un limite ha a sua volta un limite?” Come, secondo Russell, non c’è risposta alla domanda “l’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi, contiene se stesso?”

Lakoff non si pone direttamente la questione dell’auto-referenzialità. Ma questo evitamento ha una conseguenza: in lui spesso si nota un’incertezza, uno shifting sottile tra “come il pensare è” e “come secondo me si dovrebbe pensare”. I tedeschi direbbero: slitta spesso tra Sein e Sollen, tra Essere e Dover essere. Ad esempio, da una parte dice che il pensiero interpretante – come propongo di chiamarlo io – si basa sull’empatia e cita pure i neuroni-specchio scoperti da Rizzolatti e collaboratori. Dopo poi, quando afferma che i sistemi morali sono irriducibilmente diversi, dice che la sua morale – quella liberal – si basa sull’empatia, che per lui significa curarsi degli altri. Ma d’altro canto dice che la propaganda conservatrice fa più breccia di quella liberal proprio perché è più “empatica”… Lakoff sembra oscillare concettualmente: da una parte dice “il pensiero reale è interpretante, perché si fonda sull’empatia”, dall’altra dice “il buon pensiero interpretante è quello che si fonda sull’empatia”, scambiando i posti tra l’universale e il particolare. L’universale è la struttura di ogni pensiero, il particolare è un certo pensiero che fa propria quella struttura.

Questa oscillazione gli permette di evitare di confrontarsi con i paradossi dell’auto-referenzialità. Lo si vede anche in Moral Politics1, libro in cui cerca di determinare due paradigmi politici fondamentali: da una parte quello conservative americano, dall’altra quello liberal americano. Secondo lui – e credo che abbia del tutto ragione – alla base delle opzioni politiche della sinistra e della destra ci sarebbero due diversi frames morali che attingono a modelli familiari diversi. Per lui i conservatori attingono al modello del Padre Severo, mentre i liberals attingono al modello del Genitore Accudente. Questa conclusione è molto simile ad una tesi dello psicoanalista Franco Fornari, il quale negli anni 70 diceva che il capitalismo era paterno, e il socialismo era materno (in effetti, il Nurturing Parent di Lakoff ha tutti i caratteri stereotipi della buona mamma). La sinistra applica alla politica l’ideale della mamma abbastanza buona, la destra applica alla politica l’ideale di un padre duro che spinge i figli a cavarsela da soli. La tesi di Lakoff è bene argomentata e convincente; ma poi, nella parte finale del libro, Lakoff cerca di persuaderci che il modello liberal è superiore a quello conservatore portandoci una serie di dati pedagogico-psicologici, questi però poco convincenti. Nessuno ha mai dimostrato che una società fatta da liberals è oggettivamente migliore (per chi?) di una società fatta da soli conservatives. Anzi, studi recenti tendono a dimostrare che persone che godono della fede religiosa e fanno prevalere valori familiari risultano più soddisfatti e si dicono pià felici di persone che non credono nella religione e hanno valori piuttosto cosmopolitici. E’ come se Lakoff slittasse da un piano oggettivo (Ragione cognitiva) ad un piano morale (Ragione Interpretante) e viceversa. Da una parte dice che i sistemi morali sono irriducibilmente diversi, dall’altra dice che un sistema morale (il proprio) è migliore degli altri, e lo si può dimostrare; ma così prospetta una fine della diversità dei sistemi morali in nome della Ragione, finendo, di fatto, con l’auto-confutarsi.

Non si tratta qui tanto di obiezioni a Lakoff, ma di vedere i limiti dell’approccio cognitivo in generale. Paradossalmente, quando le scienze cognitive propongono un modello poco convincente e convenzionale di mente umana – come pura Ragione cognitiva, o illuminista come dice Lakoff – sono inattaccabili: è poco credibile che la mente umana sia come il software di un computer, eppure questa immagine è logicamente coerente. Appena le scienze cognitive invece integrano l’irrazionale, mostrando i limiti della Ragione cognitiva, enunciano ipso facto i propri stessi limiti. E’ come se le scienze cognitive fossero sottoposte ad una sorta di principio di indeterminazione (come quello di Heisenberg in fisica): o scelgono per la verità, o scelgono per la coerenza. Ma entrambe non sono possibili.

Le scienze cognitive possono fare un ottimo lavoro, ma esse devono anche rendersi conto dei propri limiti, segnati dai paradossi innescati dall’auto-referenzialità. In altre parole: il pensiero umano non può descrivere totalmente se stesso, esso deve necessariamente parlare a partire da qualcosa che sfugge a se stesso, pena i paradossi. Dico questo non certo per sostenere che il pensiero non è veramente oggetto di scienza, che c’è un’anima trascendente, o cose del genere. Credo che la buona scienza, però, sia tanto forte da poter delineare con chiarezza i propri limiti. Come la matematica e la fisica già da tempo hanno fatto. Questo forse farebbe uscire le scienze cognitive dalla loro adolescenza.

1 Moral Politics. How Liberals and Conservatives Think, University of Chicago Press, Chicago, 1996.




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