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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Departures. Dell’impossibilità dell’elaborazione della morte biologica

Marino de Crescente


Il film “Departures” (Dipartite) del giapponese Yojiro Takita può essere annoverato come “cinema d’autore”, ma è stato premiato con un Oscar nel 2009 come miglior film straniero. I contenuti scottanti del film - principalmente la relazione della Morte con la Vita – hanno reso difficile al film trovare una distribuzione (il film è uscito nelle sale italiane solo un anno più tardi). Questa relazione tra Morte e Vita, soprattutto a causa dell’immediatezza delle immagini che caratterizzano il mezzo cinematografico, è solitamente rimossa nella cultura popolare occidentale, o confinata nel cinema d’autore appunto, destinato ad esser visto da un’elite intellettuale in grado di digerire contenuti ostici. Tuttavia il film ha vinto un Oscar, e ha trovato una distribuzione seppure con difficoltà, perché è riuscito a trovare la forma comunicativa e il tatto per parlare di un contenuto indigesto, la morte, parlandone obliquamente attraverso un discorso sulla vita. Forse non a caso il regista è giapponese, ovvero parte di una cultura che per tradizione è particolarmente versata nel mettere in relazione vita e morte. Senza voler generalizzare troppo, abbiamo l’impressione che, mentre nella cultura occidentale l’heideggeriano “essere per la morte” è confinato in alcune nicchie filosofiche, in molte culture orientali la morte invece è “senso comune”, quotidianità.

Daigo, violoncellista da poco disoccupato, è costretto dalle circostanze a tornare nel suo paesino d’origine alla ricerca di un nuovo lavoro che gli consenta di portare avanti il suo progetto familiare, mantenere una moglie e magari dei figli. Ma a causa di un malinteso si trova alle prese con un lavoro “scomodo”: diventa un tanato-esteta, ovvero chi ricompone il corpo dei defunti alla presenza dei familiari, restituendo alla salma, prima della cremazione, un’apparenza di vita; così i parenti possono serbare un ricordo accettabile del defunto come persona ancora in vita. Il nuovo lavoro ha come conseguenza prima l’emarginazione e poi l’allontanamento della moglie. A questo dramma attuale si intreccia la storia biografica del protagonista: questi, in tenera età, era stato abbandonato dal padre, e non lo aveva quasi più rivisto. Alla fine del film, lo rincontrerà, ma morto da poco: allora sarà proprio lui, con le sue mani, a curare minuziosamente la ricomposizione del corpo prima della cremazione, un’impresa che ha il senso di una riconciliazione finale con il genitore.

La vicenda si riferisce quindi - sia dal punto di vista psicologico del protagonista, sia dal punto di vista della comunità a cui appartiene - alla elaborazione del lutto per una perdita reale. Occorre esaminare gli elementi costitutivi del film per capire il perché del suo successo, pur trattando un tema così “rimosso”, sempre più “negato” dalla cultura occidentale, la quale anela ad una sorta di vita eterna a cui sembrano tendere non solo la religione e la medicina, ma anche la chirurgia estetica e financo la politica.

In Departures l’insopportabile è dato dal corpo morto, da una morte oggettivata per l’appunto in un corpo deteriorato, livido, in via di decomposizione. Al tanato-esteta è affidato il compito di tener viva l’illusione, anche se solo per pochi minuti, che il corpo morto sia ancora vivo, non deteriorato, che non essendo cambiato nulla del caro estinto questi non sia estinto.

Anche se la cerimonia sembra svolgere l’apparente funzione di elaborare il lutto, di fatto essa indica invece la non-elaborabilità del lutto, la sua negazione. A Daigo si chiede di fatto una “reversibilità” dalla morte alla vita, anche se solo per pochi minuti. E infatti in tutti i cerimoniali che vediamo nel film, durante le operazioni di ricomposizione i familiari non piangono, alcuni addirittura ridono come per negare la morte, mentre le lacrime sgorgheranno solo quando il corpo sarà cremato, quando l’operazione “igienica” della cremazione, dopo il rituale, escluderà ogni speranza di far tornare vivo l’estinto.

Anche nella cultura giapponese - in cui la morte sembra essere più presente nella vita di quanto non lo sia nella cultura occidentale - la morte concreta è comunque non-elaborabile proprio per la sua effettività biologica. Ogni cultura trova la sua propria modalità di elaborazione psicologica della perdita, e tutti i rituali che ogni cultura crea sembrano servire a distogliere dalla impensabilità della morte concreta. Qualsiasi religione non trova in fondo la sua ragion d’essere nel produrre modelli di elaborazione psicologica di ciò che per sua natura è impensabile, inelaborabile, la morte?

La rappresentazione della vicenda personale di Daigo è come una lente di ingrandimento che rimanda alla vita sociale, ma la dimensione psicologica unica ed individuale dà a quest’ultima una maggiore complessità. Forse il maggior pregio del film è aver parlato di un tema universale riuscendo però anche a declinarlo in una dimensione psicologica unica e irripetibile. Daigo, avendo accettato l’oneroso compito e guadagnandosi stima per la sua bravura, si riconcilia con la comunità a cui appartiene e con se stesso. Ci si chiede come Daigo diventi un bravo tanato-esteta. Possiamo pensare che la sua vocazione derivi da un processo controfobico di elaborazione della morte del padre che lo aveva abbandonato (intendo sua morte immaginaria: lo avrebbe ucciso mille volte dentro se stesso, dati i sentimenti di rabbia e ostilità contro di lui) e che questo processo psicologico sfoci nella ricomposizione concreta, finale del corpo del padre morto; ma questa ipotesi è insufficiente. La realtà è che egli si emancipa effettivamente dal padre proprio rinunciando al suo mandato: “diventare un eccellente violoncellista”. Eppure diventa un vero artista, un tanato-esteta. Questo film, frutto di una sapiente sceneggiatura, può essere accostato ad altre opere di avanguardia che hanno esplorato la morte. Si pensa al fotografo Andreas Serrano, per quanto ormai alquanto superato, famoso per le foto scattate all’interno dei pronto soccorsi delle metropoli americane: cercando il fermo immagine del trapasso, si è fermato al “momento di morire“. Ma ancor più si pensa all’artista inglese Damien Hirst, famoso per i suoi animali morti, sezionati e tenuti in vasche di formalina. Il Manifesto poetico di Hirst recita: The Physical Impossibility of Death In the Mind of Someone Living (L'impossibilità fisica della morte nella mente di uno che vive). Ma non credo che tutte queste opere rappresentino nel fondo delle elaborazioni artistiche utili solo al tentativo di tenere in vita, tramite l’illusione dell’arte, ciò che è morto. Non si tratta qui di fatto di una ulteriore negazione della morte.

Ma se portiamo l’analisi ad un ulteriore livello, possiamo pensare alla morte stessa dell’Arte. Alla luce delle esigenze sociali di esorcizzare la morte biologica, diviene comprensibile quello che ad alcuni appare un incomprensibile successo artistico.


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