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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Introduzione alla giornata di studio del 26 novembre 2011
"Il soggetto contemporaneo e la sua follia"

Associazione Lusso, Roma Cristiana Cimino


Ancora una volta, oggi, ci occuperemo di una spinosa questione: se e come è cambiata la clinica.

Certamente sono cambiate alcune forme del sintomo e oggi lo vedremo; questo ci autorizza ancora a pensare che il sintomo parli per dire la verità più profonda e intima del soggetto, come è stato sin dagli albori della invenzione freudiana? Con l’isteria, con il sintomo come metafora, abbiamo un corpo che parla di traumi, seduzioni, fantasmi, che sta lì al posto di qualche altra cosa che è rimossa. Qual è il confine tra un sintomo che si presenta come un discorso, con il valore di metafora significante e un sintomo che con un apparente corto circuito aggira il registro simbolico e si presenta, ed esempio, come acting out, oggi così diffuso, oppure si scrive direttamente sul reale del corpo (penso non solo gli acting psicosomatici, ma a fenomeni vistosi come quello dei self cutters) e altri esempi si potrebbero fare. Quali divaricazioni e quali convergenze tra un sintomo che parla e che va “solo” decodificato e un sintomo che poco sembra prestarsi ad essere riportato ad un senso e ad una verità profonda e rimossa ma semplicemente sta lì, si presenta in tutta la sua drammaticità insistente e ripetitiva?

Freud si era accorto presto e suo malgrado (ne è testimonianza una famosa lettera a Pfister in cui definisce il transfert “una vera e propria croce”) che ciò che andava curato non poteva essere solo ricordato ma andava ripetuto nel transfert. Ci troviamo attualmente, in fondo, di fronte ad una estremizzazione di questo meccanismo o si tratta di altro? La clinica classica del sintomo costruita sul modello della nevrosi, così come è stata pensata da Freud e come da lui l’abbiamo avuta in eredità, come formazione di compromesso, come conflitto e divisione soggettiva è diventata archeologia? Oppure è cambiato il nostro modo di guardarla, di guardare al sintomo?

I nostri pazienti sono ancora in grado di formulare una domanda di cura nella forma in cui gli analisti sono abituati a pensarla, ossia in cui è implicita la possibilità di stabilire un transfert, domanda che spinge il soggetto a volerne sapere di più su se stesso, o il vacillare dell’ordine simbolico di cui tanto si parla compromette la formulazione di una domanda che nasce proprio grazie ad esso? Se è vero che è sempre più esile l’effetto di quella operazione simbolica capace di portare i pazienti a formulare la domanda di cura ma anche, dal lato dell’analista, di incidere sull’assetto profondo dei soggetti attraverso il linguaggio e dunque attraverso le nostre interpretazioni, o meglio, costruzioni, allora in cosa consiste adesso la cura? Come ci misuriamo con l’insistenza e la pervasività di alcuni sintomi quando assumono quel carattere “demoniaco” che invade tutte le sfere della esistenza e che porta, da una parte, a formulare sempre più di frequente di diagnosi di “disturbo di personalità”, dall’altra all’utilizzo di categorie diagnostiche che suonano come sentenze senza repliche (è un borderline, è un tossico, e via dicendo).

La psicoanalisi è ancora una cura attraverso la parola, una “talking cure” (secondo la geniale formulazione di Anna O, la paziente di Breuer) o cos’altro?

Se, come viene detto in continuazione, il simbolico è debole, se sono indeboliti quelli che Kaës ha chiamato “garanti metapsichici” e che in altri linguaggi chiameremmo metafora paterna, grande Altro, articolazione edipica, tutto ciò che fa parte della struttura, insomma, allora questo incide - e se si, come - sul modo secondo il quale il soggetto si aggiusta rispetto al trauma e al desiderio? E la struttura e gli elementi che la compongono possono essere ancora pensati in termini assoluti, dati una volta per tutte, in termini filosofici si direbbe trascendentali, oppure in termini più parziali, parcellari, sempre da ripensare e reinventare nella contingenza?

Oggi vedremo alcune delle nuove forme che prende il sintomo nell’epoca in cui i limiti vacillano, le famiglie sono “disordinate” (prendo in prestito il termine da Derrida), i padri declinano (l’annosa questione evocata da Lacan già nel 1938). Forme eterogenee, contaminate, poco prevedibili di un’epoca altrettanto proteiforme, liquida per usare un aggettivo più che abusato. Affronteremo il tema del passaggio tra le generazioni. Freud amava molto questa citazione tratta da Goethe: “Ciò che hai ereditato dai padri riconquistalo se vuoi possederlo davvero”. Come è pensabile questo passaggio adesso, chi sono ora i padri?

Epoca strana, questa, in cui ci si pongono anche questioni capitali in una forma che fino a poco tempo fa era impensabile, e parlo non solo della questione del femminile, posta in un modo che non sia quello dominato dai fantasmi maschili sulle donne che anche il femminismo storico -con il dovuto rispetto- ha sposato nella forma della rivendicazione della “parità”, dell’”uguaglianza”, ma posta dalla parte del femminile, e per questo abbiamo un debito enorme con Lacan. Epoca in cui ci si pongono questioni al limite, di confine, appunto, come quella dell’animalità, quella dei nuovi e differenti generi sessuali, dei transessuali e anche dei trans gender. Per non parlare della questione dei così detti clandestini, e in generale degli immigrati, che ci costringe a interrogarci sul nostro rapporto con l’altro estraneo, sul nostro modo di considerare l’amicizia e la fratellanza e le sue insidie


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