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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Lucciole, testimoni del desiderio

Cristiana Cimino



I

Nonostante il fastidio, autentico o dovuto da parte di chi si occupa di cose dell’intelletto per la manipolazione e la violenza onnivora dei media, mi sono recentemente trovata ad interessarmi della vicenda di Avetrana.

In questo paesino della provincia pugliese, la quindicenne Sarah Scazzi è stata strangolata all’interno di un garage di proprietà dello zio. Il suo corpo è stato ritrovato in un pozzo su indicazione dello stesso zio che si è autoaccusato del delitto nonché di una violenza sessuale che si sarebbe consumata dopo la morte della ragazza. Per l’omicidio sono indagati sia lo zio che la figlia ventiduenne, cugina di Sarah, che si presenta come grande amica e “sorella maggiore” della ragazzina.

Si è parlato di molestie sessuali da parte dello zio precedenti all’omicidio, di rivalità tra Sarah e la cugina che ha con il padre un rapporto privilegiato da fidanzata-moglie, di rivalità perché forse Sarah e la cugina sono innamorate dello stesso ragazzo e forse il ragazzo in questione ha un penchant per la graziosa Sarah e non per l’altra ragazza.

Il visetto infantile e sorridente di Sarah che incessantemente compare sugli schermi italiani da qualche mese ha cominciato a incuriosirmi -nonostante questo termine mi appaia osceno nello stesso momento in cui lo scrivo- in un preciso momento. Esso ha coinciso con l’idea, certo fallibile, che l’espressione di apertura al mondo, di costante meraviglia, l’esporsi della ragazza con naturalezza ed evidente piacere all’obiettivo –sempre pronto a riprenderla- senza schermirsi, senza finti pudori o tentennamenti, parlassero di desiderio. Sarah era innamorata di un ragazzo e non lo nascondeva, anzi, lo gridava al mondo, lo scriveva sui muri - è riferita a questo l’immagine apparsa in tv che ho di lei - amava ballare, si esibiva senza reticenze appena ne aveva l’occasione. Eppure, ad essere del tutto sinceri, quel suo sguardo diretto che non cede a quello dell’obiettivo ma che non è di sfida, anzi, è dolce, aperto, pronto a cogliere ciò che il mondo gli offre, quella disinvoltura placida che si espone senza esitazioni, suscitano una punta di irritazione. Dov’è l’imbarazzo, vero o simulato, dov’è una punta di riluttanza, dov’è la sufficiente condiscendenza che dice “se proprio me lo chiedi te lo lascio fare, lo faccio per te”? Non ce n’è traccia. Sarah desiderava e non ne faceva mistero, anzi, senza ritrosie di desiderio parlava con tutto il suo essere.

II

Più di un secolo fa, Freud ha individuato i meccanismi che governano la formazione dei sogni, mostrando come essi siano guidati dalla volontà inconscia di realizzare un desiderio infantile, antico, l’unico provvisto della forza propulsiva necessaria perché il sogno abbia luogo.

Il modello dell’essere umano inteso come coscienza da cui promana una volontà necessaria e sufficiente a muoversi a proprio piacimento in un mondo di cui è il centro, è irrimediabilmente incrinato. Un’altra assai più scandalosa verità cerca faticosamente diritto di cittadinanza, ed essa afferma che ciò che appare come sapere evidente e fino a quel momento indiscusso alla nostra coscienza è ben poca cosa. Tutti gli esseri umani sono portatori di un sapere che non sanno di sapere e su cui non hanno giurisdizione; è esso che fondamentalmente li guida, parlando non attraverso l’intenzione cosciente ma, al contrario, attraverso ciò che sfugge al controllo della coscienza, attraverso i suoi strappi: gli atti mancati, i sintomi, i sogni, le battute di spirito. Ciò che è inconscio cerca con tutti i mezzi di aggirare gli ostacoli e di arrivare alla coscienza: chi non parla con le parole parla con la punta delle dita (Freud 1901).

Questo nuovo luogo psichico e i suoi contenuti, lungi dall’essere quel magma confuso e informe che ancora oggi il pensare comune - e non solo- vorrebbe, ha il suo linguaggio e le sue leggi di funzionamento, e un grande motore: il principio di piacere. L’essere umano per Freud è essenzialmente un corpo desiderante che cerca la soddisfazione per le vie più bizzarre, persino laddove le strategie per ottenerla sembrano governate da leggi che vanno “al di là” del piacere (Freud 1920). A questo proposito Freud ci offre la sua tesi più scandalosa, più indigesta, non a caso la più controversa di tutta la sua costruzione teorica, profondamente malintesa e progressivamente scotomizzata dalla psicoanalisi istituzionale. Eros e Thanatos non rispondono a leggi diverse, anzi, confluiscono in modo inquietante in un’unica istanza che cerca il soddisfacimento, sia nell’oggetto a cui mira, sia nel percorso per raggiungerlo. Comunque, si gode. Dopo avere appreso che non siamo padroni in casa nostra, è ulteriormente imbarazzante e oltraggioso per l’essere umano scoprire che il piacere si annida proprio dove uno sguardo ingenuo coglie infelicità, umiliazione, accanimento del destino.

Con il concetto di pulsione di morte Freud introduce un nuovo elemento di perturbazione che ancora spariglia i conti del costrutto psicoanalitico, che a tutti i costi si vorrebbero far tornare. Dopo l’introduzione della seconda topica, infatti, la Ego Psychology, -e poi i suoi epigoni- evidentemente non rassegnata a contrarre il morbo di cui Freud si era fatto portatore si concentra su quell’Io libero da conflitti che consentirebbe l’alleanza terapeutica e sull’Io impegnato nelle difese che nel transfert, dunque, resiste alla cura. Dell’Io colluso con il sintomo che attraverso il sintomo gode a sua volta si perdono le tracce, come pure dell’indicazione freudiana che una lettura avveduta della seconda topica permette di cogliere: andare lì dove l’Io deve andare in corso di cura perché nel suo ambito qualsiasi movimento abbia luogo, ossia all’Es, luogo abitato da quel formidabile motore psichico che è il desiderio.

La tentazione di sbarazzarsi di questo intruso, di questo ospite scomodo e sempre non invitato, contagia rapidamente anche la psicoanalisi europea con qualche eccezione ed alcune particolarità. Lacan, certamente l’eccezione più illustre, nel suo annunciato ritorno a Freud, si interrogherà fino alla fine del suo insegnamento e della sua vita su desiderio, amore, godimento, tutti concetti contigui e dissimili. E se l’amore è l’illusione platonica di fare Uno con l’amato, il godimento come puro godimento d’organo testimonia dell’impossibilità di realizzare l’unione tra l’amante e l’amato che non si troveranno mai nell’amore (Lacan 1972-1973). Il desiderio, invece, strutturalmente legato alla mancanza, sposta il suo oggetto metonimicamente sempre in là ed è destinato, per sostenersi, a restare costantemente beante, insoddisfatto. La sua potenza eccentrica porta il soggetto del’inconscio fuori di sé, verso quell’Altro che ci precede e ci dà senso. Uno degli -innumerevoli- meriti di Lacan è infatti quello di avere esplicitato e sistematizzato ciò che era già presente nel pensiero freudiano, anche se perlopiù -surrettiziamente- ignorato. Si è guardato a Freud come al pensatore di una “one body psychology”, a fronte di una inaugurata pratica della relazione e/o dell’intersoggettività. Critica ingenua se non capziosa, posta da una prospettiva psicologistica che per l’ennesima volta tenta di ricondurre ai propri criteri il pensiero freudiano, fraintendendolo radicalmente. Notoriamente, infatti, la teoria della libido prevede che la forza centrifuga della pulsione alla ricerca di soddisfacimento porti il soggetto fuori di sé, verso l’oggetto che può procurarlo. Freud stesso mette in guardia da una sopravvalutazione dell’oggetto in quanto tale (Freud 1905), quello che conta è effettivamente la struttura logica, eccentrica, del movimento pulsionale e i suoi percorsi. La ricerca del piacere porta fuori di sé verso la sua soddisfazione. In Lacan la centralità dell’Altro diventa esplicita e radicale: è a lui, su cui cade sempre l’ombra di quell’ ”Altro primo e insostituibile” (Freud 1896) che è rivolto ogni appello e ogni istanza desiderante.

La potenza eccentrica del desiderio con le sue sovversioni lascia progressivamente il posto a una “pratica dei bisogni” che reifica la domanda d’amore posta dall’essere umano, ridotta così al rango di necessità naturale come la fame e la sete. La ricerca del piacere con le sue strade e i suoi obbiettivi disorientanti diventa il lusso, il rinunciabile, l’in più che nella stanza d’analisi viene sacrificato a ciò che “veramente conta” e che deve essere soddisfatto, puramente e semplicemente. Nasce e si diffonde una sorta di fuorviante politica della sopravvivenza che mette al posto d’onore i presunti bisogni di base nella loro apparente ineludibilità, in accordo con un certo pragmatismo anticulturale. I pazienti diventano infanti da nutrire, accudire e rieducare, se non da far nascere una seconda volta nel claustrum della stanza d’analisi.

Il fondatore della Self Psychology Heinz Kohut fa dell’empatia uno strumento scientifico di lavoro in psicoanalisi. Reduci da un malinteso ed assai poco freudiano utilizzo della così detta neutralità che li ha spesso resi grotteschi, gli analisti adesso fanno dell’empatia lo strumento onnipresente e onnicomprensivo senza vederne le insidie e probabilmente tradendo gli stessi intendimenti kohutiani. L’interrogarsi per anni su ciò che non è previsto dai protocolli riservati alla stanza d’analisi - uno per tutti: il gesto di Winnicott che tende un fazzoletto alla sua paziente che piange - e sulla sua eventuale liceità, avrebbe reso molto dopo solenne ed epocale l’introduzione della pratica della self-disclosure.

L’empatia diventa, dunque, una variante povera di quello sguardo fenomenologico sul mondo che ha la pretesa di cogliere gli eventi nella loro “immediatezza” che non prevede scarti e faglie tra soggetti, e che tradisce radicalmente la prospettiva freudiana della psicoanalisi come “arte in via di levare” (Freud 1904) e del lavoro “da chimico” dello psicoanalista (Freud 1918). Il fantasma del contatto “immediato” che porterebbe ad una altrettanto immediata comprensione alimenta così l’identificazione immaginaria con l’analista.

Freud, in un testo del 1918 (Freud 1918b) si poneva il problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia e dell’estensione della psicoanalisi alle classi sociali meno abbienti, prevedendo con una certa ottimistica sicurezza l’avvento di un giorno in cui sarebbe stato necessario progettare una “psicoterapia per il popolo”. Ma ciò a cui veramente tiene Freud è enunciare le due coordinate che fanno la differenza della psicoanalisi rispetto alle altre pratiche psicoterapiche: la privazione, ossia l’astinenza, e la discrezione. Con questo secondo termine, semplice e mirabilmente esplicativo, Freud si riferisce a quella attività analitica che ha lo scopo di scoraggiare il paziente dall’identificarsi con il medico e allo stesso tempo salvaguardare quest’ultimo dalla tentazione di fornire l’indicazione, il consiglio, di presumere cosa è meglio per il paziente, in sostanza di esercitare quel potere che evidentemente gli conferisce la disparità del dispositivo analitico. L’esercizio di una neutralità ritualizzata e quello dell’empatia, ambedue situati agli antipodi dell’indicazione freudiana, sono due facce di una medaglia che favorisce non la dissimmetria richiesta alla procedura psicoanalitica per funzionare, ma quella che prevede le insidie della soggezione e del potere non sorvegliato. Ambedue, in ultima analisi, ostacolano il dispiegarsi nell’ambito del transfert delle dinamiche pulsionali, e sollecitano riserve di ordine etico.

L’altro versante sul quale gli psicoanalisti tentano l’addomesticamento della propria pratica è quello dell’alleanza terapeutica con la parte sana dell’Io e dell’adeguamento alla realtà, o meglio, della sostituzione del principio del piacere con quello di realtà dimenticando che quest’ultimo ha del primo gli stessi intendimenti e gli stessi scopi. Semplicemente segue strade più contorte e più ingannevoli.

Questa operazione di epurazione ha come esito lo strutturarsi progressivo di una pratica moralizzante e sessuofobica non sostenuta, peraltro, da sufficiente forza teorica. La psicoanalisi ripulita della sua rivoluzionaria virulenza opta per un assai più rassicurante modello medico di intervento che la esilia dai contesti del pensare filosofico e dalla cultura in generale, ed in definitiva dalle sue radici. La potenza originaria della creatura freudiana è annacquata e resa inoffensiva, l’intruso finalmente blandito e addomesticato. Ma sarà proprio così?

III

All’alba del 2 novembre 1975, il corpo martoriato di Pier Paolo Pasolini viene ritrovato su una spiaggia dell’Idroscalo, un borghetto del litorale romano fatto di baracche e case abusive. La morte del poeta è ancora un mistero: forse è stato ucciso da uno di quei ragazzi di vita con cui amava accompagnarsi, forse no, forse da più d’uno di loro, forse è un delitto politico. Politico nel senso di avere una specifica motivazione politica, ad es. la stesura dell’ultimo, scomodo romanzo che resterà incompiuto, Petrolio. Che si tratti di un delitto politico nel senso ampio del termine, invece, di dubbi non ce ne sono (Betti, 1977).

A pochi mesi prima della morte - febbraio 1975 - risale uno scritto di Pasolini che sarebbe diventato famoso come “L’articolo delle lucciole” :

“Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).

Nei primi anni sessanta, a causa dell’inquinamento dell’aria, e, soprattutto in campagna, a causa dell’inquinamento dell’acqua (gli azzurri fiumi o e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c’erano più. (Sono ora un ricordo abbastanza straziante del passato…)

Quel “qualcosa” che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque “scomparsa delle lucciole”…. “ (Pasolini 1975).

L’avvento della violenta omologazione dovuta all’industrializzazione distrugge, secondo Pasolini, l’unicità delle diverse culture e dei singoli individui, e coincide con la scomparsa delle lucciole.

La luce gentile e incerta delle lucciole con il suo piccolo raggio di illuminazione si estingue, dunque, inghiottita da quella accecante dei riflettori, che inonda un mondo proteso a uniformare l’unicità del singolo.

Le lucciole sono dunque la metafora di un’umanità in pericolo - o già estinta?- ancora capace di praticare la differenza di cui è portatrice e di amare di quell’amore che per Pasolini è l’unico strumento da contrapporre a un potere che rende tutti uguali e che per lui è, essenzialmente, amore sessuale, amore di corpi sessuati. Corpi che il desiderio salva dalla caduta nel mucchio dei corpi da collezione del consumo sessuale, rendendoli unici. Proprio quel corpo e non un altro, proprio quel soggetto e non un altro è esposto al desiderio e al reale dell’incontro.

Scrive Jean-Paul Curnier:

“… l’arte come il pensiero sono affari di piacere, di una forma particolare, specifica di piacere, e le opere ne sono insieme lo strumento, la testimonianza e il modo di trasmissione. Questo, per Pasolini, vale per la politica in quanto tale; come parlare altrimenti che sensualmente di una sensualità scomparsa dal mondo? come parlare di sesso se non in modo “sessuale”? come parlare altrimenti che poeticamente di una poesia che è scomparsa dagli atti e dalle cose?” (Curnier 2005, mia trad.)

In questa prospettiva squisitamente politica, qualsiasi linguaggio per essere efficace deve diventare atto - d’amore, poetico, analitico- che attinge la sua forza di azione proprio dall’essere isomorfo a ciò di cui parla e dalla passione che lo sostiene. La sessualità e l’amore sono rappresentati “sensualmente” nei film di Pasolini, per dirla con Curnier, che sono fatti della loro stessa materia.

“Perciò io vorrei soltanto vivere pur essendo poeta/perché la vita si esprime anche solo con sé stessa./Vorrei esprimermi con gli esempi./Gettare il mio corpo nella lotta./Ma se le azioni della vita sono espressive/anche l’espressione è azione. […] E in quanto poeta sarò poeta di cose./Le azioni della vita saranno solo comunicate/e saranno esse la loro poesia/perché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale. (Pasolini 1966)

L’apertura desiderante all’altro è l’unica che abbia qualche possibilità di esitare in un atto d’amore e con esso praticare l’uscita dalla perversione dell’ endogamia a cui sempre riporta la moltitudine e il sesso da consumo: questa l’etica del desiderio

Pasolini ha profondamente, crudelmente (Scalia 1977) desiderato non solo nel senso più immediato del termine, senza fare mistero della propria diversità, ha desiderato mantenere alta una tensione etica in un mondo in cui l’etica si disfaceva, ha desiderato continuare ad indignarsi e non cedere alle tentazioni dell’abitudine e dell’adeguamento.

Recentemente George Didi-Hubermann (2009) nel riprendere lo scritto pasoliniano ricusa la scomparsa delle lucciole e del loro tenue bagliore -opponendosi solo in questo a Pasolini – e ipotizza la pratica di una attiva “politica della sopravvivenza” individuandone alcuni protagonisti, –tra cui, oltre evidentemente a Pasolini, Benjamin, Agamben, Roche- alcuni esseri-lucciola che non si arrendono alla “macchina totalitaria”, rifiutando di accordarle “così rapidamente una vittoria definitiva e senza riserve….Il mondo è davvero così asservito come lo hanno sognato - come lo progettano, lo programmano o vogliono imporcelo - i nostri attuali consiglieri fraudolenti?” si chiede Didi-Hubermann. E prosegue:

“Postulare una cosa del genere significa, appunto, dar credito a ciò che la loro macchina vuol farci credere. Significa vedere solo il buio fitto o la luce dei riflettori. Significa agire da sconfitti: ossia essere convinti che la macchina svolga il suo compito senza sosta né resistenza. Significa vedere solo il tutto. Non vedere dunque lo spazio –magari interstiziale, intermittente, nomade, collocato in maniera improbabile- delle aperture (corsivo mio), dei possibili, dei bagliori, dei malgrado tutto”( ibid).

Per Didi-Hubermann più che un augurio la sopravvivenza delle lucciole è una constatazione e un intendimento quanto mai inattuale eppure attualissimo, che percorre come un fiume carsico, che appare e scompare, la nostra contemporaneità.

Il desiderio è l’apertura che porta fuori di sé e che non si sostanzia in un qualsivoglia possesso. Ma che, invece, suscita come in un contagio ulteriore desiderio altrettanto impalpabile, esile, unico, intermittente come la luce delle lucciole, che nell’impossibilità di essere sostenuto nella sua - angosciosa - assenza di fondamento deve essere addomesticato, neutralizzato, violentemente messo a tacere nella peggiore delle ipotesi. Il desiderio non è - semplicemente - un’istanza “vitale” e “gioiosa”, ma viaggia indissolubilmente legato all’angoscia che segnala in modo inequivocabile proprio che quel soggetto è in contatto con il proprio desiderio (Lacan 1960-1961), che lo strappa a sé stesso e lo rende unico.

In Pasolini il medesimo impegno delle opere, percorse dalla stessa passione che egli non si dà pena di occultare, anzi, che nutre per i suoi ragazzi di vita, è scritto sulla sua carne fino alle estreme conseguenze, è il suo stesso corpo a essere “gettato nella lotta.

Subito dopo quel 2 novembre un illustre personaggio politico italiano, uno di quei “fascisti di seconda generazione” di cui Pasolini parlava nell’articolo delle lucciole e non solo, osservò: “Se l’è cercata”. In un senso certo molto diverso da quello che presumibilmente il signore in questione intendeva, mai affermazione fu più vera. Pasolini non si è risparmiato, anzi, nell’ambito di quell’ “impegno” a cui aderiva completamente, ha fatto di sé stesso la propria opera, l’estrema testimonianza. Ostinatamente, caparbiamente confrontato con sé stesso e con ciò che per lui contava davvero e che lo faceva umano.

Anche la ragazzina di Avetrana ha esposto sé stessa e il suo branco a ciò che per esso è veramente minaccioso, non conveniente (Lacan 1960-1961b): la forza, certo nel suo caso meno consapevole, meno altisonante del suo desiderio di lucciola, di cui adesso la luce accecante dei riflettori ha inghiottito la piccola luce.

Non occorre pensare alla dialettica paranoicale della rivalità o all’invidia dell’altrui godimento per rintracciare una causa abbastanza potente affinché un atto estremo come quello consumato ad Avetrana si compia. Il movimento che nasce dal vuoto della mancanza una volta pagato il tributo, la libbra di carne dovuta alla castrazione, è sufficiente. L’evanescenza del desiderio - la sua atopia, l’apertura che ci ruba a noi stessi e ci costringe all’Altro in un incontro che non si sostanzia, nonostante le pastoie e gli appesantimenti da branco del bisogno e di ciò che è utile, economico - testimonia ancora della tenue luce delle lucciole, altrettanto evanescente, altrettanto imprevedibile, che necessita del buio per essere vista.

Bibliografia

Betti, L. (1977) a cura, Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano.

Curnier, J.P. (2005) “La disparition des luccioles”, Lignes 18, octobre 2005, pp. 63-80.

Didi-Hubermann, G. (2009) Survivance des lucioles, Paris, Minuit.

Freud S.:

- (1887-1904) Lettere a Fliess, Torino, Bollati Boringhieri.

- (1901) Frammento di un’analisi di isteria, OSF 4, Torino, Bollati Boringhieri.

- (1904) Psicoterapia, OSF 4, Torino, Bollati Boringhieri.

- (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale, OSF 4, Torino, Bollati Boringhieri

- (1918) Vie della terapia psicoanalitica, OSF 9, Torino, Bollati Boringhieri.

- (1920) Al di là del principio del piacere, OSF 9, Torino, Bollati Boringhieri.

Lacan, J.:

- (1960/1961) Il seminario. Libro VIII. Il transfert, Torino, Einaudi, 2008.

- (1972-1973) Il seminario. Libro XX. Ancora, Torino, Einaudi.

Pasolini, P.P.:

- (1966) “Poeta delle ceneri”, in Bestemmia. Tutte le poesie, Garzanti, Milano, 1993

- (1975) “L’articolo delle lucciole”, in Scritti corsari, Milano, Garzanti.

Scalia, G. (1977) “La crudeltà in Pasolini”, in Betti (1977).


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