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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Lo sguardo sul Reale. La poetica politica di Marco Bechis 1

Cristiana Cimino



Quello di Marco Bechis è un cinema politico nel senso che intendeva Godard, quando diceva che bisogna fare film politici e non film sulla politica. In un film politico, fatto in modo politico, conta l’operazione formale, la sovversione del linguaggio, il come qualcosa viene detto e non il cosa viene detto. E non che Bechis affronti nei suoi film temi poco politici.

In Garage Olimpo (1999) Bechis ci fa entrare nell’orrore di una Buenos Aires sotterranea, nella quale durante gli anni della dittatura militare (1976-1983) decine di migliaia di giovani (30.000 per l’esattezza) vengono brutalizzati in luoghi della morte clandestini (il Garage Olimpo è uno di questi) e poi letteralmente fatti scomparire. Sopra, all’aperto, spira un’aria di inquietante normalità in cui opera la pagliacciata della repressione legale del terrorismo e in cui si possono persino giocare i mondiali di calcio (1978) senza che nessuno sappia, o meglio, obietti nulla. In Hijos (2002) è affrontato il tema dei figli dei desaparecidos rubati alle madri (eliminate subito dopo il parto, generalmente nei vuelos, i voli della morte organizzati diligentemente dai militari e benedetti dai preti) appena nati e regalati o venduti a coppie del regime, gli stessi assassini insomma, come fossero un qualsiasi oggetto. I figli di una intera generazione desaparecida da annientare, non facendoli sparire ma fingendo che fossero materia inerte da plasmare, impossessandosi delle loro menti (e dei loro corpi) e della loro identità. In Birdwatchers La terra degli uomini rossi (2008) Bechis ci mostra da vicino -da dentro- il dramma degli indios Guaranì del Mato Grosso do Sul, costretti a vivere in fazzoletti di terra sempre più striminziti e a lavorare quasi come schiavi per annoiati e violenti fazendeiros (i birdwatchers). In una atmosfera rarefatta e opprimente di disperazione, capita con una certa regolarità che un indio venga ritrovato suicida.

In Alambrado (1991) lo straniero, l’altro radicalmente estraneo, nonostante il recinto (l’alambrado) reale e simbolico costruito per escluderlo, rompe irrimediabilmente e drammaticamente un equilibrio chiuso, endogamico.

Temi più che politici, dunque, addirittura roventi, al punto tale che rischiano di far scivolare in secondo piano il linguaggio utilizzato per dirli.

Scabri, nudi al limite della possibilità di sostenerli, il linguaggio e la poetica di Bechis vanno diretti al Reale. Reale come impossibile che qui diventa, invece, tragicamente possibile, come verità che esiste ma che non si vorrebbe mai sapere, perché non assimilabile o inscrivibile in un codice riconosciuto, ed in cui sia operativa una Legge che non sia all’insegna della sopraffazione e dell’assoluta arbitrarietà dell’Altro.

In Garage Olimpo, da un lato le inquadrature pulite, quasi geometriche, dall’altro l’uso della macchina a mano con le inquadrature “sporche” e a ridosso, l’assenza di luce aggiunta, il loro puntare con insistenza sui dettagli, lavorano insieme, più che alla costruzione di un climax emozionale, al mantenimento costante di un’angoscia dura, cruda, per la quale non è previsto alcun momento di sollievo o di pacificazione. Un rivolo d’acqua che scorre lungo un marciapiede allude appena ma eloquentemente a ciò che accade “sotto”, ad un universo cloacale in cui i prigionieri vengono trattati come rifiuti, resti da eliminare e di cui godere da parte di quelli che rifiuti lo sono davvero. L’insistenza, sorvegliatissima e mai compiaciuta, dell’obiettivo sui corpi, anzi, essenzialmente su un corpo, quello della prigioniera Maria, riesce a dare la misura del dramma che si sta compiendo, che è individuale e collettivo insieme. Proprio perchè il regista ci mostra quel singolo corpo, proprio quello e non un altro, ci mette in contatto con il reale della tragedia che si consuma e ci priva della possibilità di guardare e non vedere veramente, come è accaduto in altri film su temi simili. Perchè un corpo perso nella moltitudine di corpi di un luogo di tortura o di una fossa comune è certo un’immagine spaventosa, ma privato di una individualità, di una unicità, ci lascia ancora scampo. Qui, invece, l’immagine di quell’unico corpo esposto nel reale della sua nuda vita uccidibile si impone alla nostra vista e lo fa diventare, nostro malgrado, anche un po’ nostro. Ci costringe a guardare e a vedere. Scelta radicale che l’autore rinnova ad ogni film, quella di occuparsi di storie uniche, individuali, a fronte dell’opzione, spesso pacificante e preferita da altri autori, di fare film corali, collettivi.

In Hijos l’unicità è quella di Rosa, che cerca il fratello gemello, rubato come lei alla nascita alla legittima madre, la quale subito dopo viene eliminata in un volo della morte. Rosa indossa durante tutto il film un cappottino rosso che ne ricorda un altro, quello della bambina del ghetto di Varsavia in Shindler’s list, di cui Spielberg ci fa seguire per un po’ le vicende, fino a farcela ritrovare, morta, su un carretto insieme ad altri corpi, con ancora indosso il suo cappottino rosso. Certamente è quello il momento più poetico e più alto del film di Spielberg, che per il resto, nonostante le buone intenzioni e la buona confezione, si perde in un esito di consolatoria commozione.

Folgorante è l’uscita di Rosa dalla metropolitana milanese, da “sotto”, a ricordare l’oscenità che si è consumata nei luoghi della morte sotterranei (e nel sottosuolo delle cattive coscienze) che hanno inghiottito i suoi genitori e migliaia di altri. L’arrivo di Rosa è accompagnato dalla stessa musica che ritroveremo nella scena finale dell’escrache2, il segno della piaga aperta e del desiderio di giustizia. Poche inquadrature che “rompono” la scena ed aprono al versante reale della realtà.

Ancora in Hijos l’unicità è quella di Javier, che per sport “salta” con il paracadute ma sempre un po’ troppo basso, come a sfiorare il trauma originario di cui il suo essere sa senza sapere, e che subito dopo l’incontro con Rosa non riesce a saltare perché “ha avuto paura”. Questa piccola, minuscola frase è la cifra dell’incontro con quella verità che Javier non potrà (e non vorrà) evitare. Verità, Reale che fa vacillare una pseudoidentità inconsapevolmente costruita sulla menzogna e sulla violenza e che apre alla possibilità di una vera soggettivazione. “Tu non sai chi sei”, dice Rosa a un certo punto a Javier, affermazione che è un appello disperato ed efficace che trova la sua risposta nell’ultima scena del film, in cui Javier ha perduto la sua aria smarrita e infantile per acquistarne un’altra più grave e più adulta, e appare accanto a Rosa durante un escrache. L’uomo, il soggetto Javier ha scelto ed è nato di nuovo. Non ha abdicato all’universo che ha tentato di inghiottirlo, in cui la Legge è sostituita da una pseudolegge immaginaria mossa solo dall’arbitrio e dalla violenza illimitata dell’Altro. Universo nell’ambito del quale circola un perverso godimento dove non esiste alterità ma solo tentativi di impossessamento e di reificazione dell’altro.

L’altro unico corpo è quello di Eva in Alambrado, che nella sua costante esposizione di corpo offerto e di corpo inerme, raccoglie e incarna tutto l’estremo, il sublime della situazione.

In modo magistrale, forse proprio perchè apparentemente privo di intenzione se non nella grande padronanza del linguaggio che utilizza -quello cinematografico-, Bechis ci mostra una dimensione dove il tentativo di abolire il limite e di rendere tutto uguale è padrone. Che il figlio sia nato da te o da me è lo stesso, me lo prendo. Che sia un figlio o un orologio (l’agghiacciante collezione di orologi rubati ai desaparecidos nella stanza dell’aguzzino di Maria) o una casa (la casa sottratta alla madre di Maria come ingannevole riscatto) è lo stesso. Porterà un nome che non è il suo, sarà mostruosamente trasportato in una storia posticcia, esiliato dalle sue origini di amore e anche di morte. Maria, ad un certo punto abbigliata con un vestito pescato nel mucchio di quelli sottratti alle vittime (mucchio che fa pensare ad altri mucchi di abiti, di occhiali, di scarpe..) per essere portata fuori dal suo aguzzino, allude metonimicamente ed assai efficacemente al tentativo di rendere anche lei oggetto, uno qualsiasi nel mucchio.

In Hijos lo stesso rapporto che lega la coppia di genitori abusivi a Javier sembra animata verso di lui più che da veri sentimenti amorosi, da istanze di impossessamento che non prevedono un vero riconoscimento dell’altro. Come in un modello mal riuscito di famiglia, la madre, incapace di autolimitarsi, è in cerca di un contatto intimo con il figlio dalle valenze incestuose. Il padre non riesce a mimetizzare del tutto, nella rude affettuosità di un maschile tanto fallico quanto poco virile, l’odio verso il figlio rubato. Quando, per una manciata di secondi, il dialogo del padre/assassino con Javier si fa incalzante fino a diventare un vero e proprio interrogatorio, un cortocircuito della memoria - agghiacciante per lo spettatore - rende il passato ancora presente, e lascia entrare in scena il Reale inassimilabile e vivo della tragedia. Il figlio rubato è un oggetto di possesso e insieme un perturbante corpo estraneo.

Nessun cedimento, dunque, alla facile tentazione di trovare consolazione nella famiglia e nella coppia, qualsiasi essa sia, nemmeno quando il padre in un momento di apparente ritrovata tranquillità, che precede appena la conclusione del film, dice a Javier: ”anche per noi è stato difficile”. In Garage Olimpo, anche se Maria per un momento sembra sensibile alla corte del suo aguzzino Felix, essi non sono, nemmeno per un momento, coppia. Tanto meno scabrosa e sintomatica come quella di Il portiere di notte di Liliana Cavani nell’ambito della quale Thanatos è al lavoro, riunendo gli inconcepibili amanti e spingendoli a tornare sul luogo del delitto fino alle estreme conseguenze.

Niente del genere nei film di Bechis, che nel dire la tragedia non cedono a una qualsiasi confortante realtà, anche mostruosa, e mantengono una apertura al Reale, che sia esso la morte oppure la verità. O, come in Birdwatchers e in modo diverso in Alambrado, la presenza straniera dell’altro, che è dopotutto il Reale per eccellenza.

In Alambrado la cifra del Reale è nella materia: nella terra delle distese sconfinate della Patagonia, nel legno di cui è fatto l’alambrado, nei corpi di animali e di umani. Soprattutto è nel corpo esposto di Eva, sensuale e commovente.

In Garage Olimpo il vestito nero pescato nel mucchio da Maria è veramente appartenuto a una giovane desaparecida mai più ricomparsa. All’elemento reale, che testimonia di un’assenza ancora una volta unica, viene consegnata la funzione di agire sullo spettatore con la necessaria mediazione, senza la quale esso risulterebbe osceno: questo solo dettaglio è sufficiente a dare la misura etica dell’operazione che guida tutto il film.

Bechis costruisce un linguaggio narrativo fatto di immagini memorabili, suoni (il fischio del vento pressoché costante in Alambrado), pochissime parole, lontanissimo da qualsiasi prospettiva intimista. Nella poetica di Bechis il linguaggio diventa un atto che non spiega sé stesso mentre si compie, ma semplicemente parla, dice. Esso produce effetti sullo spettatore facendo, agendo ciò che vuole comunicare, effetti che arrivano in una forma integra, non depotenziata da mediazioni superflue. Lo sguardo di Bechis sul Reale non cede ad alcuna spettacolarizzazione dell’orrore o dell’eccessivo, semplicemente accade e apre un varco. Contravvenendo a quanto afferma Žižek circa la necessità di spettacolarizzare il Reale per poterlo sopportare, qui la finzione è limitata alla quota necessaria ad ottenere un effetto che non sia di documentario, e che è assai più potente di ogni possibile eccesso. Parafrasando Barthes, potremmo parlare di grado zero della finzione.

Pur dicendo l’estremo, Bechis non cede all’estremo, non se ne compiace, forse per questo motivo quello che ci mostra è così difficile da sostenere, perchè non c’è alcun godimento di cui fruire immediatamente. Il cinema di Bechis lascia una traccia ma non ci seduce, non ammicca alla ricerca di facili effetti di identificazione - immaginaria - con ciò che si guarda. In questo senso il suo linguaggio appare lontanissimo, direi opposto, a quello a cui Hollywood ci ha abituati anche nei suoi prodotti più riusciti, in cui l’eccesso è mostrato in una forma che cattura, che attrae senza mettere distanza tra l’occhio che guarda e ciò che viene mostrato, talvolta con risultati di pura pornografia.

Certo, nei film di Bechis ci troviamo in un punto estremo, necessariamente molto vicino a ciò che non si deve vedere, a ciò che Lacan ha chiamato la Cosa. Tuttavia Bechis riesce a compiere un’operazione che è non solo politica ma anche etica: costruire un linguaggio che pur mostrando l’eccesso e il godimento che necessariamente vi risiede, non ne viene contaminato e spezza, nell’apertura al Reale, la catena della ripetizione.

Note:

1 Marco Bechis, regista, sceneggiatore, produttore cinematografico, è nato a Santiago del Cile, ha vissuto a Buenos Aires, New York, Parigi, Milano, Roma. E’un sopravvissuto alla dittatura militare argentina (1976-1983).

I suoi film: Alambrado (1991), Garage Olimpo (1999), Hijos (2002), Birdwatchers, La Terra degli Uomini Rossi (2008).

2 L’escrache è un metodo di denuncia nato nell’ambito dell’associazione H.I.J.O.S. (l’ associazione costituita dai figli dei desaparecidos della dittatura militare argentina 1976-1983). Quando viene individuato un criminale responsabile delle violazioni dei diritti umani durante la dittatura, che in genere vive tranquillo grazie alle leggi di amnistia (Punto Final, Obediencia Debida), la sua presenza viene segnalata pubblicamente dai manifestanti allo scopo di ottenerne l’emarginazione da parte degli abitanti del quartiere. L’escrache sostituisce la giustizia che non c’è stata.


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