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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
Su Jacques Derrida
Conversazione di Sergio Benvenuto con Jean-Luc Nancy



Novembre 2004

* Sergio Benvenuto - Lei è stato allievo ed amico di Jacques Derrida. Quale tratto della sua personalità l'ha maggiormente impressionato?

Jean-Luc Nancy - Jacques Derrida mi è sempre apparso come un blocco inscindibile di pensiero e personalità. Non ho mai nemmeno tentato di distinguere, in lui, l'uomo dall'opera. Viveva integralmente il suo pensiero e pensava integralmente la sua vita. Questo non vuol dire che egli fosse conforme o adeguato alle proprie idee (come vorrebbe uno schema banale, secondo cui una teoria si "applicherebbe" ortonomicamente alla pratica), ma piuttosto che la sua vita, la sua personalità, i suoi rapporti con gli altri e con se stesso erano portati, tenuti e tesi dalla stessa inquietudine, dalla stessa cura (per riprendere questo termine di Heidegger di cui Derrida stesso si è ben poco servito). Quale cura? Quella che coglie il pensiero, o l'anima - come preferite dire - quando si è attraversati da uno scuotersi di tutte le sicurezze, di tutte le certezze. Questa scossa era sia la sua che quella di un tempo - ovvero il tempo di una "fine della filosofia", nel senso che Heidegger ha dato a questa espressione: come fine delle "visioni del mondo" e inizio di un "compito del pensiero" talmente inedito che il compito stesso si angoscia di se stesso. La mia amicizia con lui si è svolta in - e direi: grazie a - questa inquietudine. Derrida non aveva paura di nulla ed era inquieto di tutto. Potrei persino dire: tutto lo faceva ammattire, toccava la pazzia provando sempre di nuovo l'infinita fragilità di tutte le sicurezze della nostra tradizione (cultura, sapere, pensiero).

* Benvenuto - Quale dimensione dell'opera di Derrida è stata più importante per lei?

Nancy - Lui mi ha permesso di capire quale sia stata la svolta irreversibile, nel pensiero, dopo Heidegger, Wittgenstein, Bataille e Freud. Me l'ha permesso perché ha aperto l'intervallo inscritto nel cuore della "presenza a sé". Lo ha chiamato différance - differimento, differire - inscrivendo un'a che suona come un barbarismo nel bel mezzo della parola francese différence, differenza. Différance: scartamento irriducibile del presente, della presenza, del sé - del "soggetto". Scrittura nel cuore della voce. "Cuore" che non è quindi l'intimità raccolta su di sé, "dimora" che non è il focolare dell'intimità familiare. Nei miei anni di formazione, Sartre ancora proponeva la dialettica dell'in-sé e del per-sé, quindi dietro di lui funzionava sempre una macchina hegeliana, che le imprecazioni nietzscheane non toccavano ancora a fondo (per me come per molti altri a quell'epoca). Poi, d'un tratto, si è aperta non più una motricità riduttiva o conciliatrice, ma una instabilità che offriva una possibilità completamente nuova - e un rischio! - all'avventura del pensare: ovvero, non chiudere il senso, non soddisfare delle finalità, fossero queste anche supreme o ultime. D'un tratto, per me un pensiero si è messo all'opera nel secolo, nel mondo, nel concreto e nel vivo - precisamente nel 1962: fine della guerra d'Algeria, inizio di una storia del tutto diversa, persino di un dopo-storia... D'un tratto la filosofia aveva trovato, per me, l'attualità del suo movimento, del suo atto e del suo gesto.

* Lei dice "attualità": una parola che non può passare liscia. Si pensa ad esempio ad "attualità" nel senso di Aristotele, come energheia, come passaggio all'atto di una potenzialità. Ma si pensa anche ad attualità come essere nel presente, essere in voga, essere in risonanza con il proprio tempo. In quale di questi due sensi - o in entrambi i sensi? - l'opera di Derrida è stata per lei attuale?

Grazie di avermi ricordato questi due sensi: posso dire che erano implicitamente congiunti nella mia risposta. Innanzitutto il secondo senso: risonanza del e col proprio tempo. Leggendo Derrida nel 1964, questa risonanza si manifestava per me in un modo del tutto inedito. Per risponderle meglio, apro l'esemplare che possiedo de L'origine della geometria e, tra i passaggi che avevo sottolineato, scelgo queste parole: "rendendo irriducibile l'unità polemica dell'apparire e dello scomparire". In questa "irriducibilità" riconosco qualcosa che, all'epoca, risuonava in me. Mai prima di allora ero stato così colpito, per lo meno non in maniera tanto netta e "frappée"(1). E questa era un'attualità di pensiero: si trattava di entrare in questa "unità polemica", cosa che del resto era anche già un modo di scivolar fuori da una certa fenomenologia. Un modo anche di spostarsi lontano da una certa positività della storia, della coscienza, della vita, ecc. E quel "polemica" (oggi mi sembra strana la scelta di questo termine, ma bisognerebbe rileggere il testo) spostava o sventava il "dialettico".
E poi, il secondo senso di "attuale": era un atto del pensiero, il marchio, il tono, il conio [frappe] dell'atto effettivo, di un pensiero all'opera, là davanti a me, perché sapevo che questo pensiero era esattamente contemporaneo eppure sfasato in rapporto al commento che esso pretendeva essere (e che era il registro degli altri pensatori contemporanei che allora conoscevo).

* Possiamo descrivere un'evoluzione del pensiero di Derrida nel corso della sua vita?

C'è stata evoluzione, certo, come accade a ciascuno, per fortuna. E' stato sempre più sollecitato da motivi legati all'istituzione, all'etica e alla politica. Questo perché si vedeva sempre interpellato, dall'esterno, in queste direzioni: in effetti molti non avevano capito che le poste - diciamo metafisiche - del pensiero della "différance" e della "grammatologia" si situavano a monte delle determinazioni morali e politiche, che non ha molto senso volerne "tirare" una morale o una politica: infatti, una simile "deduzione" [dalla filosofia alla morale e alla politica] o "applicazione" deriva da un modo di pensare fiducioso nella sicurezza o assicurazione di princìpi dati da qualche parte e suscettibili di essere quindi "applicati". Ha voluto mostrare che non rinunciava affatto alla responsabilità o a quel che prima di lui si chiamava "impegno". Ma in quel che ha fatto nel senso di questo movimento è rimasto profondamente fedele a se stesso, perché non ha mai cessato di scavare il difetto di sicurezza o assicurazione di tutte le certezze umaniste, proprio quando poteva sembrare che le confortasse. Per esempio, si è fatto il difensore filosofico più insistente dell'abolizione della pena di morte, ma lo ha fatto mantenendo sempre - anzi martellando - l'affermazione che non esiste fino ad oggi alcuna argomentazione filosofica conclusiva e indiscutibile che giustifichi questa abolizione, e che di conseguenza il principio di questa abolizione (se mai di principio si tratta) esige una postura di pensiero del tutto diversa da quella classica.

* Comunque, le battaglie politiche di Derrida - contro la pena di morte di cui lei parlava ora, per l'Africa del Sud, per i sans-papiers (immigrati clandestini), ecc. - non hanno avuto poste radicali o estremiste: in fondo, erano delle cause politicamente corrette, si potrebbe dire con malignità, da benpensante. Quale persona seria oggi in Europa è veramente a favore della pena di morte o contro l'emigrazione nei nostri paesi? Se si mettono a confronto le sue partecipazioni a quelle spesso ben più scandalose e "sbagliate" di un Sartre, per esempio, ci si rende conto della differenza. E' solo un caso? Oppure, nel fondo, Derrida era politicamente ed eticamente un liberale moderato, un umanista?

La sua domanda, facendo riferimento a Sartre, contiene la risposta. La mia generazione ha deplorato molto gli "sbagli" di Sartre (anche se io sono sempre stato portato all'indulgenza nei suoi confronti, certo più di altri). Sartre aveva cristallizzato due fenomeni connessi: l'"engagement", impegno, dell'"intellettuale" e l'insistenza feroce su una linea "rivoluzionaria". Ora, ambedue sono apparse minacciate dallo smantellamento del corpus di credenze o convinzioni marxiste o marxoidi, o marxo-anarchiche se si preferisce. Questo non è un viraggio verso la moderazione, ma uno spostamento di paradigma (per dirla come Kuhn) o di episteme (per dirla come Foucault). Ed entrambi i lessici che ho usato or ora rispondevano anch'essi ad uno spostamento del nostro rapporto alla storia, all'idea di progresso, ai "grandi racconti" (Lyotard). Derrida, in questo processo, ha avuto due comportamenti congiunti: da una parte, il comportamento di un uomo di sinistra che in effetti non si riconosceva in una proposta rivoluzionaria (se non come proiettata in una dimensione fuori di un accesso visibile), d'altro canto quello di un pensatore che sapeva o almeno intuiva che l'essenza stessa del "politico" doveva essere rimessa in cantiere, necessariamente, dal momento che erano in gioco una tale mutazione epocale e una tale decostruzione della metafisica (quindi necessariamente anche della politica!). D'altro canto, dopo un po' ha dovuto fronteggiare gli attacchi (soprattutto in America) dei delusi dal suo ritegno politico, e che allora erano lontani dal sospettarne i considerando. Ha mostrato che era pronto ad impegnarsi politicamente - ed è vero, i suoi impegni non sono stati estremisti, ma quali impegni più estremi potremmo citare oggi? Quanto a me, non vedo alcuno che mi paia meritare una seria attenzione. Negli ultimi due anni, si dichiarava persino favorevole ai no-global, in un modo meno "politicamente corretto" di quanto ci si potesse aspettare. D'altro canto - ed è la cosa più importante a mio parere - i suoi impegni hanno dato un'altra dimensione alle "cause" che ha sostenuto. Nel caso di Mandela, ha innestato una riflessione sul "perdono" che ha aperto per primo, e nel caso della pena di morte ha portato avanti una riflessione sulle argomentazioni filosofiche - ancora da costruire - che la condannano. Per riassumere: certo si può sempre scegliere di essere più a sinistra di uno come lui - ma dove, esattamente?... Io personalmente non lo vedo. Invece possiamo interrogare sia l'idea del "politico" che quella dell'"impegno". E se non lo ha fatto, se non ha avuto il tempo di tematizzarle, comunque ha aperto delle piste difficili da ignorare. Ora, interrogare l'idea stessa di politica è fino ad ora la cosa meno "corretta" che si possa fare!
L'arci-corretto è chiedere all'intellettuale di firmare delle petizioni. Invece, nella Francia di oggi, quel che non è affatto corretto è rompere una specie di consenso diffuso che proibisce di criticare la politica di Sharon (eccetto all'estrema sinistra): è quel che Derrida faceva negli ultimi tempi.

* Qualcuno ha detto che la decostruzione di Derrida in fondo è un'auto-decostruzione. Egli analizza - e smonta - soprattutto i suoi maestri: da Condillac a Marx, da Freud a Lacan, da Heidegger a Lévi-Strauss a Paul de Man. Potremmo allora leggere almeno una parte dell'opera di Derrida come un'autocritica? Ovvero, come una critica della sua propria cultura di origine, appartenente alla sua storia? Non ha insomma decostruito il mondo culturale e morale in cui egli abitava?

Certo, una "decostruzione" è sempre autodecostruttiva. Ma non nel senso in cui la sua domanda pare intenderlo. Lei parla dei "suoi maestri", della "sua cultura", come se fossero cose personali, particolari e regionali. Ma si tratta semplicemente di cose che i motivi della "decostruzione" hanno introdotto sin dal "martello" di Nietzsche, dall'"Abbau" di Husserl e dalla "Destruktion" di Heidegger (o, in modo più lontano, sin dalla "critica" di Feuerbach e Marx, e anche sin dalla contestazione bergsoniana della tradizione cartesiana e kantiana): si tratta cioè di una tradizione intera - sedicente "occidentale" - che trova necessario entrare in rapporto con le proprie origini, fondamenti o princìpi, per provarne il carattere - nemmeno più "insufficiente" o "erroneo" - ma piuttosto il carattere "troppo sufficiente", troppo autosufficiente e autonormativo. Una "decostruzione" è una costruzione che si interroga su se stessa, che si rimette in gioco, che si dà gioco. Non è Derrida a praticare un'"autocritica" (termine legato tuttora ad un'odiosa pratica totalitaria, o ad una curiosa illusione di autosufficienza...), è l'Occidente a disoccidentalizzarsi, a delocalizzarsi e mondializzarsi - a disseminarsi.

* Benché Derrida fosse un uomo di sinistra, non si può dire comunque che la sua sia una filosofia "di sinistra". Eppure è stato ammirato soprattutto da una parte dell'intellighentja di sinistra. Possiamo arrivare a formulare in modo preciso questa affinità tra il pensiero di Derrida e la sinistra? O essa risulta da un malinteso?

Ma oggi che cosa vuol dire "di sinistra"? Se deponiamo tutti i modelli di definizione di una storia, di un'organizzazione sociale e governativa o anche oltre-lo-stato assieme alle "ideologie" (come si dice oggi, ma si tratta delle filosofie) che li sottendono, allora della "sinistra" restano solo due cose: 1) un'esigenza incondizionata di giustizia - 2) una disposizione ad accogliere l'evento di una sollevazione, della rivolta di coloro che soffrono per l'ingiustizia. E' facile ritrovare in Derrida questi termini e questa disposizione: non entrerò nei dettagli. La sua filosofia - ma ne ha veramente egli una? E in qual senso?... - non è "di sinistra" nel senso in cui avrebbe continuato a portare uno o l'altro dei presupposti della visione "sinistra" del mondo (storia, progresso, uomo produttore del proprio valore, ecc.). Perché tutti questi presupposti sono messi in questione dall'autodecostruzione dell'Occidente. Invece, egli è stato di più e meglio che "essere di sinistra" in maniera conforme e politicamente corretta: ponendo l'interrogativo sui suddetti presupposti in quanto tali, rimettendo in gioco quel che vogliono dire sia "politica" che "morale", sia "eguaglianza" che "giustizia"; o, come ha fatto in Spettri di Marx, cercando di aprire in Marx stesso una differenza (e differanza) tra le certezze umaniste e una dimensione del tutto diversa (che chiamava "messianica" in un senso molto elaborato - ma per me l'uso di questo termine restava insufficiente, e per lui anche, me lo ha detto lui). Ci sono uomini di sinistra, non c'è una "filosofia di sinistra", soprattutto non quando vien posto il problema di uscire dalla philosophie-Weltanshauung [filosofia-visione-del-mondo]! Per esempio, non è perché Deleuze era più apertamente pro-palestinese che il suo pensiero fosse più "di sinistra" di quello di Derrida: ognuno aveva posture diverse, certo, ma nel fondo non del tutto incompatibili a questo riguardo, ben lungi da questo!

* Derrida e il giudaismo. Possiamo dire che quello di Derrida è un pensiero della diaspora?

Si, certamente. Ma qui, ancora una volta, di che cosa si parla? Di una particolarità di derrida-ebreo-algerino, oppure di altra cosa? Si parla del giudaismo come indice dell'irruzione di un impensato, di un rimosso, di un precluso [forclos] all'interno del pensiero occidentale (e in essa anche del "pensiero ebraico")? Allora è altro. Si parla della "giudeità" come di un segno di discordia e di deiscenza - di divisione e di legame, di differanza - dell'Occidente con se stesso. Su questa via, Maimonide, Spinoza, Hegel, Kierkegaard, Heidegger segretamente, Rosenzweig, Benjamin, Levinas, questi almeno avranno preceduto, accompagnato e portato Derrida. Con lui, la differenza consiste nel fatto che egli appartiene ad un tempo - quello del lutto continuo della Shoah, della spiegazione continua attorno alla Shoah, poi il tempo di Israele in conflitto col mondo arabo - nel quale l'"Ebreo" (con le virgolette che metteva Lyotard) diventa un segno manifesto, conflittuale e problematico, enigmatico anche - e questo tanto più che egli non pensa in rapporto con quel che viene considerato "pensiero ebraico" (a differenza di Levinas, Derrida non legge il Talmud, e anche pochissimo la Torah). Potremmo dire che tra Levinas e Derrida si è giocata una deiscenza o una distensione interna dell'essere-ebreo - e questo, appunto, nella misura in cui questo "essere-ebreo" che non costituisce né può costituire un "essere" sostanziale, un'identità identificata, apre se stesso in seno all'identità occidentale il battito di una differenza - con e senza "a".

* Che significato possiamo dare alla sua insistenza, nell'ultima parte della sua vita, sul tema del sacrificio animale? Possiamo leggere in questa insistenza uno slittamento ad un tempo etico e filosofico in rapporto ai suoi debutti "post-strutturalisti"?: e cioè, la metafisica occidentale avrebbe rimosso e sacrificato non solo e non tanto la scrittura, ma piuttosto l'animale che è in noi. Possiamo dire che l'animale sacrificato assume nel Derrida più tardo lo stesso valore della scrittura, di cui aveva denunciato la scotomizzazione nelle sue prime opere?

Non sono la persona giusta per rispondere a questa domanda, dato che non conosco neppure tutti i testi in cui egli ne parla, e soprattutto ignoro i seminari, inediti, nei quali so che ha sviluppato molto questo pensiero dell'animale. Credo comunque che lei abbia ragione: c'è una corrispondenza tra l'animale e la scrittura, ed è manifesta là dove Derrida (verso la fine del suo testo in "L'animale autobiografico", edito da Galilée, il collettivo del congresso eponimo) parla di una "traccia di sé" dell'animale. Traccia, scrittura, movimento di un andare-verso che si conclude senza concludersi, che non ha alcuna "stazione" finale e che tuttavia "va", non proprio "da nessuna parte" (questa è solo una traduzione approssimativa dell'Holzweg(2) di Heidegger), ma da una qualche parte non situata, non localizzata, non installata né configurata. Questo è il "sé" che l'animale attesterebbe in modo particolare: sprovvisto della possibilità di disilludersi sull'identità data ad un "io", come il linguaggio ci induce a farlo per l'uomo. Animale e scrittura, dunque, due versioni di un essere al mondo o di un far mondo che sfuggono all'appropriazione di un senso finale. Dico "mondo" in quanto la riflessione di Derrida parte da un interrogarsi sospettoso sulle categorie di Heidegger, che considerava l'animale "povero di mondo" mentre l'uomo sarebbe "formatore di mondo". "Mondo" è allora implicato come dar forma, configurare, statura e statuto - non è un mondo aperto, indeterminato, in espansione... Occorre dire anche che nemmeno questo interesse per l'animale è particolare a Derrida: lo condivide Deleuze, e in ambedue questo interesse segna la necessità di spostare, mettere in gioco o sospendere l'umanismo. Questa è la grande e profonda esigenza del nostro tempo - a condizione che si sappia comprenderla non come un "superomismo" e nemmeno come una ri-teologizzazione.

* In che senso possiamo dire che Derrida è anti-spiritualista? E qual è il senso della sua decostruzione di quel che in Heidegger resta di "spirituale" e quindi di umanistico?

Penso che De l'Esprit ("Dello Spirito") fornisca le risposte necessarie, molto meglio di quanto non saprei fare io stesso! Questo ci riporterebbe all'animale e alla lettera, ambedue opposti tradizionalmente allo "spirito". Direi rapidamente: lo spirito vale per l'immateriale presenza a sé, per l'autopenetrazione e l'autoespressione (esalazione, emanazione, combustione, soffio e fiamme) senza resto, senza esteriorità, senza intervallo. E tuttavia non lo chiamerei "anti-spiritualista", perché, direi, lo spirito in quanto soffio, pneuma, è anche quel che fa muovere, che mobilita e scarta, quel che solleva e trasporta... e che allo stesso tempo è il non-fenomenale del fenomeno stesso. La voce, dunque, per tornare al suo titolo fondatore in qualche modo. Ora, Derrida non ha mai rimosso la voce sotto la scrittura: ha solo voluto mostrare che la voce si scrive, che la scrittura è dunque anche il tracciato del soffio, e che il soffio, per finire, è la cancellazione della traccia, ma tale che in questa cancellazione la traccia continua infinitamente a svolgere il suo ruolo, quello di non finire, appunto. Dunque è molto complicato, e penso anche che la parola "spirito" designi così un posto vuoto, uno di quei posti vuoti come quello della parola "soggetto", ma anche della parola "materia", o anche della parola "senso" (Derrida era stupito che usassi questo termine). Queste parole sono fuori uso, sono gravide di enormi malintesi. Ma i loro posti vuoti formulano domande, o piuttosto attese. Non ha mai cessato di regolarsi su queste attese, certamente.

* Quelli che detestano il pensiero post-moderno in generale, e quello di Derrida in particolare, lo accusano invece di essere uno spiritualista: avrebbe dimenticato la razionalità scientifica e avrebbe perduto contatto con "la terra". Come possiamo allora delineare l'atteggiamento di Derrida di fronte alla "terra"?

Ma la terra in lui è dappertutto! E' terra natale e terra perduta, terra di un ritorno impossibile. Terra da cui comunque non si evade verso nessun cielo, ma che allo stesso tempo non ha nulla della buona e vecchia terra solida, spessa e nutritiva. Una terra non materna, ma comunque terrestre. Certo non la "terra" di un certo Heidegger, ma una terra che, indubbiamente, potremmo discernere attraverso Khora per esempio... Sono stupefatto che si possa porre una domanda simile...

* In verità non è una domanda: è un giudizio. E' il modo in cui Derrida viene giudicato da gran parte dell'intellighentja occidentale che non ne condivide la prospettiva. Per esempio Richard Rorty, che pur l'ha letto, pensa che il pensiero di Derrida sia un romanticismo linguistico - il suo problema sarebbe quale vocabolario usare, non se quali enunciati di un vocabolario siano veri e quali no.

Non so quel che Rorty intenda esattamente per "romanticismo linguistico" - benché possa immaginarlo, e del resto anch'io posso criticare un certo modo di affidarsi al verbo piuttosto che al concetto. Ma il concetto non manca mai in Derrida, basta leggerlo da vicino... Anche qui, come per la politica, il dibattito è intrappolato da certe previe accezioni dei termini e da pre-giudizi... Ma non voglio cancellare le posizioni e non nego che ci sia materia da dibattere, certo! Dirò solo che le cose cominciano sul serio quando non si pregiudica una specie di normatività filosofica, di philosophical correctness...
In ogni caso, nulla in Derrida odora di romanticismo etereo o "angelico" - aanche se c'è il "soffio" di cui le parlavo. Non so se si possa trovare, nei suoi testi, una riflessione sulla terra, ma non capisco quando si pretende che "ha dimenticato la razionalità scientifica e la terra". E questo per due ragioni: 1) la razionalità scientifica non è affatto dimenticata né malmenata da Derrida, come accade con ogni filosofo serio, ma essa è di un altro ordine rispetto alla ragione filosofica, questo è chiaro da Kant in poi! 2) perché la razionalità scientifica e la terra sarebbero legate? La prima si occupa dell'universo, del cosmo, del pianeta, degli ecosistemi, dei meccanismi, dei chimismi e dei biologismi, ma la terra è ben altra cosa!

* Un'altra tipica accusa contro Derrida è di essere un pensiero nichilista, dunque senza speranza storica, storicista radicale, relativista, ecc. Si può pensare a Derrida come a un nichilista? Per esempio, che rapporto c'è tra il suo pensiero e quello di Gianni Vattimo, ad esempio, che sventola con orgoglio una bandiera nichilista?

Rieccoci col "nichilismo"! Ma chi ha mai capito questo termine senza aver letto Nietzsche? E che cosa dice Nietzsche? Dice che il nichilismo è il prodotto della "morte di Dio", cioè la scomparsa dei "mondi-di-dietro" e delle credenze in un principio situato aldilà. Ma così Nietzsche non fa altro che portare alla luce in maniera più decisa quel che Kant aveva iniziato, anzi, che tutta la storia della filosofia ha iniziato: e cioè che non esiste alcun aldilà, che non esiste alcun principio dato o posto da qualche parte come una causa, un'origine, una sostanza (salvo nel senso di Spinoza...). Il nichilismo apre la verità della metafisica a se stessa. Ne consegue, secondo Nietzsche, che l'uscita dal nichilismo si opera all'interno del nichilismo. In altre parole: non si riempie il "nihil", ma lo si prova, lo si pratica e lo si pensa. Se "nichilista" vuol dire disillusione, cinismo o malinconia, allora Derrida certo non lo è! (benché l'uomo fosse piuttosto malinconico, ma di quella grande malinconia che sa ridere e sorridere). Se "nichilismo" vuol dire "constatazione del crollo delle rappresentazioni di Principi, Origini, Valori e Sensi, e pensiero risoluto a prendere atto di questa constatazione", allora è un'altra cosa. Non è davvero serio maneggiare questo termine, "nichilismo", senza precauzioni... E' prima di tutto un rifiuto di far filosofia.

* Contrariamente ai suddetti critici, altri dicono che Derrida invece si inscrive nella grande tradizione trascendentalista della filosofia: quella di Kant, Husserl e Heidegger. Condivide lei questa opinione?

Se per "trascendentalismo" intendiamo l'atteggiamento che 1) prende atto del fatto che l'"essere supremo" oppure l'ens qua ens non è un ente e in questo senso non è oppure non è nulla (questa presa d'atto inizia con Kant e si dispiega con Heidegger) - e 2) l'interrogarsi sulle condizioni di possibilità di un pensiero della verità, del senso, della manifestazione, dell'esistenza, della moralità e della bellezza in queste condizioni - ebbene, allora certo Derrida vi appartiene. Questo equivale a dire molto semplicemente che non è uno scettico, né un empirista, né un dogmatico. (Ma bisogna allora riservarsi l'esame di una "empiria trascendentale" le cui radici sarebbero in Kierkegaard tanto quanto in Husserl.) Questo vuol dire semplicemente: la filosofia in quanto pensiero, estranea quindi sia al sapere della scienza che alla credenza religiosa. Ma si dibatte su come classificare Derrida perché lui non si lascia identificare né dal lato di un sapere scientifico o pragmatico (utilitarista), né dal lato di una mistica. Ma è appunto "altrove" rispetto a questi due lati che la filosofia si situa, altrove sempre!!!

* Lei ha dichiarato al giornale "Liberazione" che per Derrida, come per Spinoza, "la verità si manifesta da sé". E che "La verità si impone - e nessuno può evitarla né preferirgli altro. Ma ancora non bisogna confondere la verità verificabile e la verità inverificabile, la verità che, precisamente, si impone prima e aldilà di ogni verifica". Credo che questo sia il punto fondamentale che separa il pensiero di Derrida (e il suo, Nancy) dal pensiero analitico o anglo-americano nel suo insieme: quest'ultimo pensa che la credenza in una verità che si imponga per forza propria sia ingenua e dogmatica, perché appunto gli esseri umani non sono mai in accordo sulla verità. (Per esempio, gran parte del popolo americano - ma per altri popoli occidentali va anche peggio - è convinta che l'uomo non sia il prodotto dell'evoluzione secondo la teoria di Darwin, ma che sia stato creato da Dio secondo la Bibbia: questa è per loro la verità.) Ogni giorno incontriamo, ad ogni angolo di strada, persone che alla verità preferiscono altre cose. Allora, se non è vero che la verità si impone da sé, questa credenza che una verità si imponga non è che una specificità etnica? Ovvero, una credenza della tribù dei filosofi francesi e dei loro estimatori?

L'obiezione è radicale ed essenziale - perché, come lei dice, questo punto è fondamentale. Se qualcuno crede che un dio abbia creato il mondo, questo in linea di dirittto è nell'ordine del verificabile, e si affanna a far passare il suo inverificabile per del verificabile di ordine superiore (rivelazione, libri sacri...): non dirà certo che questa verità si manifesta da sé! Anche chi pensa che l'uomo è il prodotto di un'evoluzione sa che resta inverificabile questa "produzione": che vuol dire il fatto che l'uomo è "venuto da"? Insomma, verificabile e inverificabile sono sempre legati tra di loro come comparse o duettisti. Il loro legame e il loro dibattito del resto sono sempre importantissimi e devono essere condotti senza sosta. E' l'ordine, quindi, della verità come adequatio rei et intellectus, ordine in diritto infinito perché la res è continuamente riformata e rimodellata dall'intellectus, che le ingiunge di rispondergli. Ma dov'è la verità su questo sapere stesso, o, se preferisce, la verità della disposizione verificante dell'uomo (se preferisce, della sua curiosità e ingegnosità, della sua appropriazione del mondo)? Come sarebbe verificabile? Essa è qualcosa che si impone e si manifesta da sé come un desiderio, come un amore, o come un sentimento del bello o del sublime. Kant ha detto (nell'Introduzione alla Critica del Giudizio) che era necessario un desiderio, oggi dimenticato, per far nascere la conoscenza...

* ...Ma già in Aristotele: pantes ànthropoi tou eidénai orégontai phùsei (Metafisica A 980 a), "tutti gli uomini per natura desiderano sapere".

Si, grazie. E proprio Aristotele dà subito dopo come prima prova il piacere prodotto dalla sensazione. La cosa notevole qui è che per Kant il desiderio-piacere del sapere è per noi "dimenticato": il sapere è freddo per lui, e il piacere esige una disciplina diversa, quella del "giudizio riflessivo", che va fino al dispiacere nel sublime. Questo accenna a quella che potremmo chiamare la storia affettiva e sensuale della verità...

Riprendo il filo. Alla verità che precede la verifica, e che non procede da essa, non si accede attraverso lo stesso tipo di conoscenza. Spinoza chiama quest'altro genere "terzo", e gli dà delle condizioni, che non sono prima di tutto cognitive ma passionali ed etiche, nel senso che fa proprio questo termine. Ovvero: nella caverna di Platone, che cosa spinge un prigioniero ad uscire? che cosa, o chi, lo stacca dalla caverna? Platone non lo dice.... Questo è il punto. Non si tratta di un inverificabile che si impone con la forza (con il terrore o con la stupidità), si tratta di una "imposizione" che libera colui a cui essa si impone. Possiamo allora dire che l'essenza di questa verità è la libertà (penso ad Heidegger), poi possiamo impegnarci più avanti per pensare questa libertà... ma mi fermo qui. Vorrei solo far sentire quanto queste questioni siano serissime e gravissime, ben più del gioco del verificabile e dell'inverificabile, certo anch'esso un gioco serio, ma bardato di garanzie. La "verità vera" è sempre senza-garanzie, senza-assicurazione. Ancora una volta è come l'amore - forse è l'amore stesso. L'amore del mondo, degli uomini, di sé, l'amore pour rien [per nulla - in cambio di nulla].

* Lei converrà che, nella tradizione filosofica, due sensi di "verità" si sono confrontati - del resto le due nozioni derivano dall'uso del termine "verità" nel linguaggio comune. Uno è quello dell'adequatio rei et intellectus che lei ha appena evocato: una proposizione è vera quando descrive adeguatamente la cosa. L'altro senso (che risale a Nietzsche? oppure lo troviamo prima di lui?) è piuttosto quello che lei assume, mi pare: la verità come caduta di una maschera, un disvelamento - direi che è piuttosto l'appello alla verità come autenticità. Mi pare che lei dia a questa nozione di verità una connotazione soggettiva, direi anzi affettiva: lei parla di desiderio, di amore, di curiosità, di sentimento del bello e del sublime, di libertà soggettiva. In questa ottica la verità primaria non sarebbe più "penso dunque sono" ma piuttosto "desidero (o amo) dunque sono": il soggetto che desidera cercare la verità sarebbe il vero soggetto trascendentale. Bene. Ma immagino anche l'obiezione di un filosofo di un'altra tribù a tutto questo: "perché chiamare verità questa disposizione trascendentale di ciascun soggetto? E perché pensare che si impone da sé?" In effetti, la psicoanalisi mostra che il vero desiderio non è evidente, che non è una verità che si imponga a ciascuno: al contrario, bisogna ricostruirlo, farlo emergere poco a poco, e si può sempre metterne in dubbio l'autenticità (la verità). La verità soggettiva, se si crede a Freud (e a Nietzsche), non si auto-imporrebbe né sarebbe obbligante più di quanto non sia la verità oggettiva.

Non si tratta affatto di soggettività. Si tratta di questo: affinché un soggetto possa riconoscere del "vero" per lui, e così, affinché un corpo di sapere possa fornire le procedure di verifica di una adequatio, occorre innanzi tutto che l'idea stessa di "verità" sia data, in una donazione trascendentale ma non individualmente soggettiva - è piuttosto il trascendentale di un soggetto-in-generale. Ora "vero" vuol dire: ciò a cui non si può rifiutare l'assenso. "Vero" ha dunque nella sua etimologia l'idea di "credere": ma è appunto il "credere" come non-soggettivo: non il "ri-tenere-vero" [tenir-pour-vrai] dell'illusione della credulità, ma l'"essere-tenuto-dal-vero" [être-tenu-par-le-vrai] dell'evidenza, della dimostrazione o della rivelazione. Queste tre forme sono qui equivalenti: sono tre possibilità dell'idea stessa di "verità". Non parliamo di soggettività e nemmeno di oggettività, qui, parliamo di quel che organizza questo a priori oppure questa "archi-disposizione" di ogni pensiero di ogni senso. (Lacan con il suo "Io, la verità, parlo..."(3) mette in scena proprio questa archi-disposizione!) Certo non è soggettivo né oggettivo, poiché questa coppia di concetti presuppone la verità determinata come rapporto di un soggetto ad un oggetto... Non è nulla, oppure è "nulla" in un senso da pensare. Quando Nietzsche, da lei citato, dice che "abbiamo l'arte per non essere inghiottiti dalla verità", afferma, semplicemente e assolutamente, la verità! Se ho parlato di affetto e di intensità, non è affatto nel registro soggettivo: è su questo registro archi-trascendentale dove la verità precede ogni senso, ogni significazione, aprendo invece l'ordine significante ("io parlo") - ma come è e come agisce questa apertura? come un buco che spaventa e inghiotte? come un cazzotto? come un'esplosione? come un "colpo di fulmine" amoroso? In tutti i casi, la verità agisce, non informa (comunque non informa soltanto). La verità è prassica più che poietica. Essa trasforma il suo soggetto (il suo agente o paziente...). La verità verificabile non fa nulla: è essa stessa fatta, costruita.
Comunque, sono colpito da come questa domanda, come molte altre, sia rivolta più alla filosofia in quanto tale che a Derrida in particolare...

* Ma certo. L'importanza di Derrida non consiste forse nel fatto che egli si lasci porre delle domande che si vorrebbero porre alla filosofia in quanto tale?

Si, e questo non vuol dire che egli si prenda, né che dovremmo prenderlo, per "la filosofia" in persona! Non sia mai. Lui stesso accorda una grande importanza alla diversità delle filosofie come diversità dei toni, degli stili, dei modi di "aprire" la via del senso (proseguo qui quel che stavo dicendo prima). Sapeva benissimo che quella era la "sua voce", il suo "idioma" (un tema che lui coltivava) - ma che questa stessa verità degli idiomi o delle voci appartiene... alla verità!

E' per questa ragione che il mezzo migliore - e il più fedele - di prendere in conto il contributo di Derrida è che ognuno cerchi, facendo del proprio meglio, la propria voce, il proprio tono...

* Come possiamo riassumere quel che avvicina Derrida a Lacan e quel che li allontana l'uno dall'altro?

Non saprei. Sono lontano da Lacan, non me ne occupo veramente (anche se ho scritto alcuni libri su di lui). Lacan è molto vicino a Derrida in virtù di una provenienza comune (Hegel, Heidegger, Bataille, Kojève, ecc.). Solo che Lacan si è dedicato a costruire un apparato (una "scatola di strumenti", come piace dire ai lacaniani) che malgrado tutto è governato in ultima istanza dalla necessità della cura e dell'istituzione analitiche. Certo Lacan ha parlato in modi diversi da quelli soliti della "guarigione" o della "normalizzazione dell'io", cosa certo apprezzabile, ma il suo resta comunque un dispositivo tecnico. Per questa ragione, i concetti lacaniani sono spesso maneggiati senza alcuna flessibilità, non si aprono su rielaborazioni possibili. Forse qui e là qualche lacaniano fa il contrario, voglio crederlo, ma non lo si vede granché. Inoltre, si trova in Lacan una categorizzazione della filosofia che non lascia adito al "pensiero" in quanto apertura e rischio o possibilità di un'alterità o di un'alterazione ben diverse dal rapporto all'"Altro", come dice Lacan. Ma mi fermo qui, perché non so quel che Derrida avrebbe potuto rispondere ad una domanda simile - benché forse quel che avrebbe detto non sarebbe stato molto lontano da quel che ho appena detto.

Traduzione dal francese di Gianmaria Senia

Note:

1) Frappé: colpito, sorpreso; ma anche robusto, di buona fattura; e " tocco, ammattito".

2) Questo testo di Heidegger è stato tradotto in italiano come Sentieri Interrotti [Nota del Traduttore].

3) Cfr. J. Lacan, "La cosa freudiana", Scritti, Einaudi, Torino 1973 [Nota del Traduttore].
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