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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
JURASSIC PARK.
La psicoanalisi, un sintomo da superare?
Sergio Benvenuto


Suppongo che siamo qui riuniti per testimoniare del fatto che la psicoanalisi è attuale. Perché questo è un modo di dire che è viva. E la sentiamo viva perché pratichiamo come analisti, o perché siamo pazienti o analizzanti, oppure semplicemente perché la psicoanalisi ci piace, facciamo il tifo per essa. La consideriamo attuale perché ci crediamo? Ma cosa significa, appunto, crederci? E soprattutto, cosa vogliamo dire quando diciamo che essa è o deve essere attuale?

1.
Ora, si dà il caso che per molti vero merito culturale sia essere invece inattuali. L’anno scorso, ad un convegno commemorativo di Elvio Fachinelli – scomparso nel 1989 – un oratore riscosse molto successo affermando che l’interesse di Fachinelli oggi era di essere un pensatore inattuale. Indubbiamente, dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche del 1876 in poi, una parte della nostra cultura innalza non ciò che è attuale nel senso di dominante, prevalente, largamente condiviso, incontestato – se non semplicemente alla moda – ma al contrario ciò che si propone come inattuale. Il titolo della raccolta di Nietzsche era Unzeitgemäße Betrachtungen, e Unzeitgemäße significa “fuori tempo”, „intempestive“. Occorre notare però che le Considerazioni Fuori Tempo di Nietzsche da quando furono pubblicate divennero presto attualissime. Molti pensatori e scrittori moderni che hanno dominato la loro epoca si volevano paradossalmente inattuali nel senso di „non adatti all’epoca presente“. Sfrenata dialettica del kairos, del momento giusto: che per essere davvero attuali, tempestivi, nel nostro tempo, occorre metterci in una posizione inattuale, contro-corrente, intempestiva.
Vantarsi di essere inattuali rientra allora nella gioia di essere dalla parte storica perdente? E’ il compiacimento snob di dire – come un personaggio di un racconto di Borges – “un vero signore si batte solo per le cause perse”? Non proprio. Credo che una certa fiera rivendicazione della propria inattualità sia ironica: diamo per scontato che la Storia proceda proprio premiando ciò che risulta inattuale. Hegel usava il termine Aufhebung, che significava ad un tempo cancellare, annullare, elevare, superare conservando. La Storia opera una Aufhebung dell’inattualità in attualità, nel senso che eleva, cancella e conserva la prima nella seconda. La Storia è insomma ironica, come Hegel illustrava nella dialettica del servo e del padrone: in apparenza il padrone domina, ma col tempo, di fatto, è il servo a prendere il potere, grazie alla scienza e alla tecnologia. Analogamente, ciò che appariva del tutto inattuale può diventare, nel tempo, attualità dominante.
La nostra cultura in generale – e quindi anche quella psicoanalitica – sembra però dilaniata da una contraddizione che il richiamo all’ironia dialettica non risolve. Da una parte, come abbiamo detto, il vanto di essere “inattuali”. Dall’altra, la perentoria prescrizione di Rimbaud: “il faut être absolument modernes”, “bisogna essere assolutamente moderni”. C’è in molti di noi un’ipostasi hegeliana, un assunto storicista radicale, grazie a cui siamo persuasi che il presente è sempre nella verità, o comunque più nella verità che non il passato. Che il presente e il futuro abbiano un privilegio gnoseologico sul passato. Da una parte il godimento di essere inattuali, in una sdegnosa predicazione nel deserto; dall’altra la convinzione che occorre essere all’avanguardia, prima di e davanti a tutti gli altri, che occorre anticipare il futuro vivendo intensamente nel presente.
Ma il termine “attualità” può significare anche una cosa alquanto diversa. Esso deriva dal latino actualitas, che traduceva il greco energheia. Questo termine, cruciale in Aristotele, era l’”essere in atto”, essere attuale in quanto opposto a dynamis, essere in potenza, essere potenziale o, come diremmo oggi, virtuale. Per Aristotele, e per gli Antichi in generale, l’essere pieno era essere actualis, ovvero esistere in atto. Il moderno inglese actually eredita direttamente questo senso antico: significa infatti “di fatto, realmente”, l’ente in quanto ente venuto alla rpesenza. Credo che anche qui, a Napoli, dovremmo tener conto di questa doppia faccia del termine “attualità”: da una parte come essere contemporaneo nel tempo, dall’altra come essere esistente e non solamente potenziale.

2.
Come tutti quelli che godono nel praticare e pensare la psicoanalisi, mi piace discettare di questioni teoriche e cliniche connesse alla dottrina psicoanalitica. Eppure sentirei di indulgere ad un diversivo, di parlare del sesso degli angeli mentre il Turco assedia Costantinopoli, se invece non vi parlassi qui, nei termini più franchi e forse fastidiosi, di quella che tutti chiamano crisi della psicoanalisi. Crisi della psicoanalisi significa sua in-attualità? Ora, questa crisi o inattualità si vede solo in parte in Italia, e ancor meno in altri paesi dove la psicoanalisi va ancora forte come la Francia o l’America Latina. Questa crisi si dispiega in tutta la sua attuale potenza – se mi si permette questo ossimoro – negli Stati Uniti.
Molto spesso gli analisti americani, anche quando sono famosi, ti dicono “mi sento un dinosauro”. La scelta del termine “dinosauro” la dice lunga. Essere analista, negli USA, non è essere membro di una specie in via di sparizione, come il panda, ma essere membro di una specie scomparsa. “Mi sento un dinosauro” non significa solo “sono inattuale”, significa “sono scomparso da tempo”. Quando si parla con gli americani di media cultura, tutti ti dicono “ormai da tempo i disturbi psichici non si curano più con la psicoanalisi, ma con gli psicofarmaci o le terapie cognitive”. I più anziani ricordano che a New York negli anni 50 e 60 gran parte degli amici e parenti erano in analisi, oggi quasi più nessuno.
(Mi si conceda un inciso un po’ maligno. Da qualche anno certa psicoanalisi americana di oggi va forte in Italia, in un paese che invece era stato sempre molto ricettivo soprattutto alle psicoanalisi britannica e francese, e che aveva esibito sempre un certo disprezzo per “la psicoanalisi yankee”. Non è un paradosso che diventino oggi alla moda in Italia americani appartenenti ad una cultura psicoanalitica scomparsa? Come accade che tanti analisti italiani oggi sono sedotti dai dinosauri, piuttosto che dalla pecorella Dolly, quella clonata? Ecco una domanda a cui occorrerebbe dare una risposta psico-sociologica non banale.)
Alcuni diranno: che la psicoanalisi sia scomparsa o quasi in America non ci fa né caldo né freddo. Chi è visceralmente anti-americano – tanti lo sono in Italia – se ne rallegrerà anzi, e dirà “Ben gli sta agli analisti americani! Questo mostra che eravamo noi europei sulla strada giusta. Loro sono estinti, e noi viviamo.” Innanzitutto va detto che quel che è stato chiamato “psicoanalisi americana” (Kris, Hartmann, Löwenstein, Reik, Horney, Kohut, Kernberg, ecc.) è di fatto una psicoanalisi trapiantata da ebrei austro-tedeschi in USA: la Mitteleuropa ha colonizzato l’America, non viceversa. Quella che si chiama crisi della psicoanalisi americana di fatto è crisi della psicoanalisi ‘prima maniera’, per dir così, austro-tedesca; crisi quindi più che mai di una disciplina europea trapiantata in America.
Comunque sia, gli Stati Uniti non sono una società avulsa dalla nostra, non sono un paese marginale con le sue idiosincrasie. Storicamente, la prima società dove la psicoanalisi ha avuto un successo di massa è stata proprio l’America. Per decenni New York e qualche altra metropoli americana sono state le città con più analisti e più pazienti, prima che – qualche decennio fa – non subentrasse il declino. In psicoanalisi, come in tante altre cose, l’America ci precede. Noi europei, per lo più, seguiamo a ruota. Ho vissuto in America parecchi anni fa, e posso ben dire che tante cose di uso comune in America sono diventate di uso comune qui da noi solo molti anni dopo. Ad esempio, quando andai a New York nel 1989 era già cosa comune la raccolta differenziata dei rifiuti, che solo da poco tempo si sperimenta, e solo in certe zone, a Roma… L’America ci precede in tante cose. Ci precede anche nella dinosaurizazione della psicoanalisi?
E’ vero anche che l’America ha anche una grande capacità di adottare e digerire tante cose provenienti da altri continenti: così è stato per la psicoanalisi (importata da ebrei mitteleuropei), come per il caffè espresso, i vitigni europei, il post-strutturalismo francese, la cucina cinese, il pensiero di Žižek, la moda italiana, ecc. E in effetti, mentre gli analisti si sentono dei dinosauri, straripano nei campus americani autori europei od europeizzanti che mettono Freud e la psicoanalisi in posizione eminente. C’è una cultura alternativa americana – academic, cioè universitaria – che ha adottato l’interpretazione di Freud da parte di Lacan, Habermas, Derrida, Badiou, ecc. Assistiamo in America ad una scissione – che trovo supremo sintomo di malessere – tra una pratica clinica analitica sempre più marginale da una parte, e un fiorire accademico di pensiero politico ed estetico ispirato alla psicoanalisi dall’altra. Insomma, la psicoanalisi non si insegna più da tempo nelle facoltà di psichiatria e di psicologia, ma nelle facoltà di storia, letterature comparate, arte e cinema, antropologia culturale, Women’s Studies, Studi Froci (Queer Studies), ecc. In America, la psicoanalisi è stata spazzata via dall’area medico-scientifica, ed è stata trapiantata nei campi estetico-umanistici.
Ma mi chiedo: questa situazione attuale della psicoanalisi in America non è anche la nostra potenziale? Ciò che è attuale ora in USA non sarà fra un po’ attuale anche da noi?

3.
Se si dice che la psicoanalisi non è attuale, è perché la si assimila ad una pratica medica. In effetti, non è pensabile oggi una medicina seria che non si basi sul sapere biologico e su protocolli rigorosi di controllo dell’efficacia. Non lo so voi, ma io cerco di farmi curare da medici scientificamente aggiornati. Evidentemente la psicoanalisi non è comparabile alla medicina moderna; alcuni la pensano come una medicina alternativa, come l’omeopatia, l’ayurvedica, l’agopuntura, la fitoterapia (e in effetti sono colpito da quanti analisti di mia conoscenza siano accaniti sostenitori di certe medicine alternative, spesso anche delle meno credibili). Già Freud la paragonò piuttosto alla pedagogia e all’attività politica, quando scrisse che tre sono i mestieri impossibili: governare, educare, psicoanalizzare. Il paradosso è che queste pratiche “impossibili” sono anche necessarie, non se ne può fare a meno. Impossibili proprio perché non possono fondarsi nel sapere scientifico, eppure sono pratiche necessarie, inevitabili – in effetti, tutti ci educhiamo gli uni con gli altri, qualcuno deve pur governare. E oggi in fondo anche gli analisti sono necessari: quando non ce li si può permettere, si ricorre a qualche loro Ersatz, ad un loro surrogato o sostituto, spesso anche emerito – cognitivisti, psicologi relazionali, fenomenologi intersoggettivisti, terapeuti familiari, ecc. Le università occidentali ogni anno sfornano psicologi come salsicce, segno che c’è domanda di psicoanalisi come di una necessità – anche se solo pochissime di queste salsicce diventeranno psicoanalitiche, dato che la psicoanalisi costa (e non solo in termini economici).
E’ strano che non si dica, ad esempio “ma Nelson Mandela è stato scientifico?”, “ma Putin domina la Russia perché è scientifico?” oppure “ma la scuola di Barbiana di don Milani era scientifica?”, “ma la scuola di Montessori è scientifica?” Domande del genere ci sorprenderebbero. E questo vale persino per la medicina, quando essa si confronta con scelte etico-politiche fondamentali. In effetti, quando Franco Basaglia lanciò il programma dell’eliminazione degli ospedali psichiatrici, alcuni obiettarono “questa proposta è scientifica?” Molti a lui favorevoli pensavano che Basaglia proponesse l’eliminazione dei manicomi perché aveva trovato una nuova tecnica di cura delle psicosi che rendeva inutili le lungodegenze! Basaglia ci teneva a ripetere invece che la sua battaglia anti-istituzionale non era affatto “scientifica”: era etica e politica. Eppure stranamente viene presa molto sul serio la contestazione: “ma Freud non operava scientificamente”.
E’ evidente che un politico dovrebbe conoscere l’economia e la sociologia per capirci qualcosa del paese che pretende di guidare; è bene che un pedagogista conosca la psicologia infantile e la sociologia della propria epoca; è bene che un analista conosca le scienze contigue alla sua pratica (psicologia, psichiatria, linguistica, filosofia, neuroscienze, ecc.). Ma l’attività dell’analista – come quella del politico o dell’educatore – non può essere ridotta ad un’applicazione tecnologica di una teoria scientifica; per l’analista la scienza è necessaria, ma non sufficiente. Per aver cura degli esseri umani – politicamente, pedagogicamente, psicoanaliticamente – non bastano saperi specifici: occorre un progetto etico di fondo. Ed è essenziale che questo progetto etico passi agli altri - concittadini, educandi o analizzanti che siano.
Il passaggio di questo progetto etico avviene in psicoanalisi attraverso il transfert. Questo non si riduce al rapporto di fiducia che deve esserci tra il paziente e il suo terapeuta. Transfert è il processo attraverso cui l’analizzante fa suo il progetto e il desiderio dell’analista, quello di analizzare.
Questa specificità etica distingue la psicoanalisi dalla maggior parte delle altre psicoterapie che si offrono oggi sul mercato in competizione con essa. Non è qui in gioco la differenza tra una visione scientifica dell’uomo rispetto ad un’altra. Condivido l’opinione di alcuni – ad esempio di Derrida – i quali dicono che si potrebbe buttare a mare tranquillamente tutta la metapsicologia di Freud e di tutti gli altri analisti dopo di lui: dopo questa eliminazione, la psicoanalisi potrebbe restare comunque freudiana, ovvero psicoanalisi. Chi critica questa o quella tesi di Freud e si proclama perciò anti-freudiano, scambia spesso il marginale con l’essenziale nella psicoanalisi. Questa, prima di essere un insieme di ipotesi esplicative sul funzionamento mentale, è un progetto etico di soggettività. Questo progetto è l’essenziale.
Un esempio apparentemente banale: uno venne in consultazione perché spesso perdeva il treno che, ogni mattina, lo portava al lavoro. Ovvero il soggetto portava un sintomo, qualcosa di sé che egli non accettava; qualcosa di ego-distonico. Mentre in medicina il sintomo è segno o traccia di un processo morboso sottostante, in psicoanalisi il sintomo è piuttosto segno o traccia di un desiderio o godimento ‘altro’, inconscio disse Freud. Desiderio e godimento, libido e piacere, vengono detti da una sola parola tedesca: die Lust.
Ora, la risposta tipica delle psicoterapie non analitiche, sulla base del principio “il cliente ha sempre ragione”, consisterà per lo più nel cercare di eliminare questo sintomo, interpretato come ad un tempo patologia e indice di una patologia. Si cercheranno dei marchingegni che permetteranno al nostro paziente di non perdere più il treno, e talvolta ci si riesce. Così queste psicoterapie ricorrono spesso a prescrizioni precise per allargare il controllo del soggetto su se stesso. (E’ significativo che le psicoterapie non-analitiche abbiano bisogno sempre di un sintomo preciso, circoscrivibile, per operare; si dichiarano impotenti di fronte a tutte le altre forme di malessere che chiamano “problemi esistenziali”, roba insomma per analisti… Ma nella pratica analitica a dir poco il 90% dei casi sono “problemi esistenziali”.)
Un analista di qualsiasi scuola opererà diversamente: non fornirà al paziente delle prescrizioni per eliminare al più presto il sintomo, ma inviterà l’analizzante a quel che gli antichi greci chiamavano parresìa: parlare liberamente (associazione libera), parlar franco. La psicoanalisi è una pratica non medica né scientifica che ha fiducia nella parresia, nel free speech, purché questo libero parlare sia controllato e canalizzato dal desiderio dell’analista. E difatti nel caso specifico emerse, ad un certo punto, che il Nostro, pur in apparenza soddisfatto del suo lavoro, nel fondo lo detestava. Perché era il lavoro che voleva fargli fare il padre, mentre lui sognava qualcosa di molto diverso. Ovvero, dietro la domanda manifesta – “non voglio più perdere il treno” – emergono altri desideri, latenti appunto, difficilmente confessabili anche a se stessi. L’analista innesca un processo che prima o poi porta il soggetto a problematizzare ciò che vuole e quindi all’incertezza su quel che egli è. Lo psicoanalista scommette sul fatto che ogni soggetto in sofferenza è teatro di Volontà divergenti, è diviso. L’etica dell’analista consiste – a differenza di quella di altri psicoterapisti - non nel suturare questa divisione, ma nel metterla in luce. L’analisi, insomma, punta all’essere del soggetto, non al suo comportamento e nemmeno ai suoi meccanismi mentali.
Certo questa scelta etica di fondo della psicoanalisi – considerare il sintomo la traccia di una volontà inconscia – ha prodotto un alone teorico, che ha dato vita a diverse teorie. Molte altre oltre a quella di Freud. C’è qualcosa in comune tra di esse? Lo psicoanalista lacaniano Serge Cottet (1996) ha parlato di ogni analizzante come di un “soggetto-supposto-desiderio”, ovvero, si funziona da analisti se si suppone che ogni soggetto desideri, soprattutto in maniera inconscia. La psicoanalisi si basa su una scommessa ontica: che die Lust – il desiderio-godimento inconscio - è parte del reale, anche se non si tocca e non si vede. La psicoanalisi assume che ogni soggetto è realmente, actually, scisso tra volontà ed istanze diverse. L’etica che ispira la pratica analitica si basa su questo assunto di fondo: l’inconscio esiste. Credere nella psicoanalisi significa credere nell’attualità dell’inconscio, ovvero nella non-trasparenza di die Lust. E’ quel che distingue la psicoanalisi dall’ermeneutica, anche dalle psicoanalisi di tipo ermeneutico, in quanto riducono l’inconscio a potenziale: è quel che noi possiamo interpretare a partire da quel che il paziente ci dice. Se l’analista non crede più all’attualità dell’inconscio, slitta o verso le psicoterapie cognitiviste, o verso le relazioni intersoggettive più o meno empatiche. Ma appunto, si può operare da analista senza credere in uno specifico alone teorico della propria pratica?

4.
Perciò il computo dell’efficacia comparativa delle varie psicoterapie – a cui si dedica uno stuolo di ricercatori da decenni, come Luborsky, Kächele, Thomä, ecc. – è problematico e rischia spesso di fraintendere quel che certe psicoterapie veramente fanno. Dopo un anno, un terapeuta cognitivista potrà vantare il risultato che il paziente di cui sopra non perde più il treno, mentre lo stesso paziente che va dall’analista… il treno smette di prenderlo del tutto perché ha capito che il suo lavoro lo spegneva. Qual è stata più efficace, la tecnica cognitivista o quella psicoanalitica? Le due etiche – del cognitivista e dell’analista – sono eterogenee, quindi anche le loro tecniche non sono tra loro commensurabili. Molti preferiranno la guarigione puntuale dal sintomo perché è più semplice, non si va “a monte”. Molti vogliono solo che l’ascensore su cui devono salire funzioni bene, anche se è l’ascensore che li porta verso il patibolo.
Ora però – dirà qualcuno - il cliente dell’analista, proprio perché ad un certo punto mette in questione il suo dover andare ogni mattina a quel lavoro, rischia di mettersi in un mare di guai. Comincerà a chiedersi se davvero non ha sbagliato tutto nelle sue scelte, se la sua vita – magari non solo lavorativa, anche con la moglie, gli amici, ecc. – non sia stata falsificata da desideri non propri, non eigen, non autentici. Quel lavoro gli diventa sempre più pesante, si porrà il problema di cercarne un altro, di mettere insomma in crisi equilibri inautentici ma confortevoli. La psicoanalisi rimescola le carte, non c’è da stupirsi quindi che essa venga percepita da molti come una minaccia. Essa genera squilibri che saranno per il soggetto creativi quanto si vuole, ma che turbano la routine. La psicoanalisi non è quindi solo un trattamento del malessere nel mondo moderno: ne è anche espressione e nutrimento. E’ quel che aveva percepito un eminente avversario della psicoanalisi, Karl Kraus (1972), quando nella Vienna di Freud scriveva che la psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di essere la terapia. Questa malattia è diventare insoddisfatti di quel che si è diventati.
Di solito si accusa l’analisi di essere lunga e inefficace. E se si temesse invece la sua efficacia? il fatto che essa metta in atto, di fatto, un potenziale decostruttivo dei soggetti? Dato che la psicoanalisi non tappa i buchi, è allora una mina vagante, sottile e non appariscente, la sua attualità non consiste nella sua pericolosa potenzialità?
Umberto Eco raccontò che una volta fu invitato ad un convegno di politici e imprenditori francesi. Ci si aspettava da lui, in quanto studioso, suggerimenti per risolvere i problemi sociali spinosi che erano emersi dal convegno. E lui disse più o meno questo: “Risolvere i problemi è compito di voi imprenditori e politici. La nostra funzione di filosofi è di creare problemi.” Con le dovute differenze, mi pare che l’analista si attribuisca una funzione simile: il paziente viene denunciando un suo problema, e l’analista lo spinge a mettersi di fronte… a problemi più radicali. E difatti parecchi ex-analizzanti dicono più o meno: “Certamente l’analisi per me è stata cruciale, mi ha cambiato la vita; anche se spesso non so se l’ha cambiata per il meglio”. La psicoanalisi makes trouble mostrando al soggetto che egli non sa bene chi egli sia e che tutto può essere rimesso in discussione.
Lacan ripeteva spesso che la psicoanalisi è un sintomo. Era il suo modo di riprendere la frase suddetta di Kraus. Ora, di un sintomo, per fortuna, ogni tanto si guarisce; e Lacan stesso sembrava auspicare, stranamente, questa guarigione. Evidentemente Lacan sottolineava la qualità storica, quindi transeunte – insomma attuale - della pratica analitica: può darsi che la nostra epoca guarisca dalla psicoanalisi, che ne stia guarendo già. Come sta guarendo da molte altre cose che sono nate o hanno prosperato assieme alla psicoanalisi. Questa, non dimentichiamolo, è nata e fiorita in un secolo ruggente, il Novecento, “il secolo breve”. Questo secolo è stato attraversato da radicali rivoluzioni. Non solo dalla grande rivoluzione tecnologica che ancor oggi prosegue, ma dalle rivoluzioni liberali, nazionaliste (fasciste) e comuniste. E dalle rivoluzioni culturali, dalle avanguardie più o meno distruttive dal dadaismo alla pop art, dalle rivoluzioni filosofiche che hanno preteso di superare un assetto di pensiero millenario. Conclusasi questa grande stagione delle rivoluzioni, è possibile che anche la rivoluzione psicoanalitica si chiuda, che essa cessi di essere attuale. Sembra che oggi l’egemonia spirituale stia passando alle scienze e alle religioni. Scienze e religioni oggi sembrano spesso contrapporsi in modo violento, ma di fatto hanno trovato una par condicio per dividersi il dominio sulla mente umana – Popper & Pope. E’ quel che emerge dall’inserto culturale domenicale de “Il Sole -24 ore”, ad esempio, epitome perfetta di questa Santa Alleanza di scienza e religione. Perché sia la religione che la scienza oggi hanno cessato di essere rivoluzionarie (un tempo lo furono).
Scienza e religione sono due rivali della psicoanalisi, perché la prima ha un rapporto migliore della psicoanalisi col reale e la seconda soddisfa molto di più il wishful thinking, pacifica e rasserena più dell’analisi. La psicoanalisi rischia allora di ridursi a una scienza di serie B e a una credenza religiosa di serie B.
Ma la psicoanalisi è bersaglio di attacchi soprattutto perché non si apprezza più l’etica che l’ha affermata per un secolo: la messa in questione di quel che si desidera e di quel che si è. Oggi si rigetta l’esortazione di Nietzsche “diventa quel che tu sei” e piuttosto, più praticamente, si prescrive “cerca di essere quel che sei diventato”, ovvero “adattati a quel che il mondo è, e cerca di trarne i maggiori vantaggi per te stesso”, dando per scontato chi sia “me stesso”: un’impresa edonista. Oggi prevale l’etica utilitarista, che si contrappone all’etica dell’autenticità di Nietzsche e Freud, che è un’etica dell’autenticità, ovvero del mettere in atto, attualizzare, la verità del proprio desiderio.
Il Novecento fu affascinato proprio dal potenziale critico della psicoanalisi, la quale solo di rado è stata considerata una terapia come tante altre. Il gesto di Freud per certi versi riprendeva il gesto costitutivo di Socrate, che a suo tempo tanto turbò la civiltà allora più ricca e fiorente. Socrate, in effetti, passava il tempo a destrutturare i suoi malcapitati interlocutori: costoro erano molto fieri del loro sapere o saper-fare, e Socrate li metteva in crisi mostrando loro che in realtà non sapevano nulla, e che facevano le cose senza nemmeno sapere quel che stessero facendo. Anche la psicoanalisi ha turbato più generazioni mostrando agli analizzanti che, di fatto, quel che chiedevano non era affatto quel che veramente desideravano, che essi insomma non sapevano chi fossero. Socrate è stato ucciso dalla Città, e non è da escludere che la Città di oggi faccia morire lentamente la psicoanalisi. La nostra epoca potrebbe liberarsi da questo sintomo.

5.
Qualcuno giustamente dirà: dire che la psicoanalisi crea più problemi di quanti non ne risolva – dire che essa è provocatoriamente inattuale – non è un’immagine idealizzata di essa?
Un paio di mesi fa, ad un congresso internazionale a Maastricht, portai una relazione nella quale cercavo di concettualizzare la differenza tra la psicoanalisi ispirata all’Ego Psychology da una parte, e quella ispirata a Lacan e ad altre scuole europee dall’altra. Sostenevo che l’ideale della scuola lacaniana era dionisiaco: il fine non è rafforzare l’Io contro l’inconscio perché operi al meglio nella realtà, ma al contrario, portare l’Io verso l’inconscio, adeguarlo ad esso. Come nel caso sopra citato, non si tratta di adattare il soggetto facendolo arrivare in tempo al suo lavoro, ma di fargli accettare i suoi desideri più profondi, anche se scomodi. A questo proposito, avevo evocato il film di Pasolini Teorema: qui tutti i personaggi del film, toccati dalla grazia di un rapporto sessuale con una figura forse divina, fanno scelte esorbitanti, fuori dalle norme, insomma dionisiache.
Con mia sorpresa, furono proprio degli analisti lacaniani a contestare la mia analisi. “Le analisi non portano mai a esiti come quelli dei personaggi di Pasolini”, dissero. Fecero notare che, molto modestamente, gli analizzanti a fine analisi si possono suddividere in tre tipi:
(1) soggetti che finiscono l’analisi altrettanto insoddisfatti di quando l’avevano iniziata;
(2) soggetti che superano il sintomo e si sentono aggiustati alla realtà, ma senza trionfalismi;
(3) soggetti che parlano dell’analisi come di una delle esperienze fondamentali della loro esistenza e ne sono entusiasti.
Credo che, dal punto di vista delle risposte individuali dei pazienti, qualunque analista possa confermare che gli esiti sono più o meno questi. Di fatto però questi analisti lacaniani dicevano, senza dirlo, questo: che, a parte forse qualche raro caso, anche i loro pazienti o analizzanti in fondo “si adattano” alla realtà. Questi analisti dicevano in fondo che la teoria di Lacan è ideologia, che il suo motto famoso – “non bisogna mai cedere sul proprio desiderio” – di fatto, nell’attualità della pratica analitica, si risolve in ben poca cosa. Allora, gli analisti lacaniani predicano male e razzolano bene? O, da un altro punto di vista, predicano bene e razzolano male?
E’ vero, gli analizzanti che vengono fuori da analisi dei tipi più diversi non si distinguono molto, alla fine, gli uni dagli altri. Sarebbe assurdo pensare che da un analista ego-psychologist escano in serie dei business men di Wall Street, mentre dai lacaniani escano soprattutto scrittori d’avanguardia o militanti marx-leninisti. Per lo più, alla fine dell’analisi un soggetto o si sposa, o fa un figlio, o trova un buon lavoro senza farsi licenziare, o compra casa, o tutte queste cose assieme. Alla fine, il soggetto analizzato confluisce nella generale mediocrità, quella di tutti noi. Altro che effetti dionisiaci pasoliniani! Francamente, non credo che in cento anni la psicoanalisi – di ogni scuola - abbia prodotto falangi di rivoluzionari. Mi chiedo anzi: se uno come Che Guevara fosse venuto in analisi, sarebbe davvero andato in Bolivia a farsi ammazzare in una guerriglia? So di dire cose spiacevoli per le orecchie freudo-marxiste – ce ne saranno anche qui di queste orecchie – ma è la realtà. In un’ottica sociologica, potremmo mostrare che la psicoanalisi, senza volerlo, ha rafforzato i legami sociali e quindi di fatto ha puntellato l’ordine sociale esistente in Occidente, ci piaccia questo o meno. L’alone rivoluzionario che molti vogliono vedere nella psicoanalisi allora è solo un artefatto retorico?
Allora, quel potenziale di critica della psicoanalisi era solo una vernice per una pratica, quella analitica, nel fondo alquanto limitata e, tutto sommato, molto moderata? Ma allora, se è così, perché tanti attacchi, oggi, contro di essa?
Credo che gli attacchi piovano non per l’attualità (in senso aristotelico) della psicoanalisi, ma per la sua potenzialità. Questa potenzialità si basa sull’idea di fondo che esista una verità del desiderio, e che quindi valga la pena che un essere umano vada alla ricerca del suo vero desiderio. Da Socrate a Freud, si dipana una lunga tradizione ‘sovversiva’: detto in soldoni, la pretesa di voler vivere secondo la verità, secondo la propria verità. L’inattualità della psicoanalisi è quindi un potenziale che, attualizzato o meno, resta comunque qualcosa di scomodo, di sintomatico, di impertinente, in una società che ha fatto propria l’etica utilitarista del controllo tecnologico sul mondo e sulle menti, sulla propria mente inclusa. In effetti, le varie forme di psicoterapia cognitiva puntano su un ideale specificamente ossessivo, quello del controllo su di sé (perciò queste terapie ottengono i migliori risultati proprio con gli ossessivi?); laddove la psicoanalisi è sulla falsariga isterica, ovvero tende ad esprimere al massimo una sorta di iper-desiderio che mai si soddisfa.
Ho detto prima che gli analisti americani si sentono dei dinosauri. Ma forse dovrebbero pensare di andare a Jurassic Park come nel film omonimo di Spielberg. In questa pellicola, come si ricorderà, si fanno rinascere oggi dei dinosauri in un parco ad hoc – cosa che però non andrà liscia, la presenza dei dinosauri porterà un certo caos. Il dinosauro psicoanalitico insomma potrebbe attualizzarsi, producendo un po’ di caos. Non solo nel senso di essere ancora nel nostro tempo qualcosa di vivente, ma anche nel senso di rendere attuale – mi si permetta questo ossimoro aristotelico – una certa potenzialità.

Cottet, S. (1996) Freud et le désir du psychanalyste, Seuil, Paris.

Derrida, J. & Roudinesco, E. (2001) De quoi demain… Dialogue, Flammarion, Paris.

Freud, S.:
- (1925) „Prefazione a ‚Gioventù traviata‘ di August Aichorn“, GW, 15; OSF, 10.
- (1937) “Analisi terminabile e interminabile”, GW, 16; OSF, 11.

Kraus, K. (1972) Detti e contraddetti, Adelphi, Milano.

DIBATTITO.

Caro Sergio,

il tuo articolo per Napoli provoca a riflettere. E ciò, se da un lato è il maggior riconoscimento si possa fargli, dall'altro può essere chiamato a giustificare il carattere in parte critico delle riflessioni che provoca - come dire "non è colpa mia".

Il tuo scritto plana verso la definizione del senso e dell'orientamento della pratica clinica partendo da un vertice filosofico. Da tale vertice va dunque commentato; e così facendo mi sembra di scorgervi due punti critici.

Il primo riguarda il suo cardine, e cioè la separazione tra metapsicologia freudiana e progetto etico della psicoanalisi. Questa separazione infatti ti è necessaria per sostenere che l'inattualità della psicoanalisi fa capo alla sua natura "rivoluzionaria". Se fossi venuto al convegno forse ti avrei semplicemente chiesto se davvero credi che tale separazione sia possibile; e comunque di darle un fondamento maggiore del fugace richiamo all'autorità di Derrida. Qui però aggiungo che, essendo tu anche filosofo, sai bene che non è possibile. Sai bene che ogni etica implica o presuppone un'antropologia; e sai anche che nella metapsicologia, in cui Freud dà forma alla sua antropologia, non v'è nulla di rivoluzionario, altrimenti non avresti avuto bisogno di separare da essa l'etica della psicoanalisi per  sostenere che la sua inattualità fa capo alla sua natura rivoluzionaria.

Il secondo punto critico risiede nel fatto che nel tuo scritto quell'etica, pur toltasi dalle spalle il peso dell'antropologia, corre per una via che la porta a far coincidere la rivoluzione con il dionisiaco (la peste?); e tale coincidenza, anche questo tu sai bene, è la precondizione concettuale e storica delle antropologie volte a impedire ogni rivoluzione, quella di Freud inclusa.

In ragione di questi due punti critici, il tuo scritto evoca in me l'immagine di un labirinto; e di te che, nell'atto stesso di entrarvi, chiudi, con l'uno, la porta di accesso; e, subito prima di uscirne, con l'altro, quella di uscita.

Scorgo poi un terzo punto critico. Consiste in una non sufficiente definizione del concetto di inattuale; perché con "inattuale" significhi due cose opposte: ciò che non c'è più (i dinosauri) e ciò che c'è in potenza, ciò che è morto e scomparso e ciò che è nato e deve svilupparsi. Se è vero che questo terzo punto critico ti dà libertà di movimento all'interno del labirinto, è pur vero che tale libertà può costituire un serio ostacolo alla volontà di uscirne.

Certo che non me ne vorrai, ti invio un caro saluto.
Antonello Armando

 

Caro Antonello,

La tua impressione che io mi chiuda in un Labirinto, di cui chiudo entrata e uscita,francamente mi sorprende, dato che invece io ho sempre fatto mio un ideale di apertura. Condivido l’idea di Fachinelli “una psicoanalisi delle domande, non delle risposte”. Le risposte chiudono, le domande aprono.
Forse hai avuto questa impressione di labirinto perché non hai visto che il mio scritto era costituito più da una serie di domande che di risposte. Perciò vi hai trovato delle contraddizioni. Ma le domande possono, anzi devono, esprimere delle contraddizioni.
Alla frase di Fachinelli, oggi spesso citata, fa eco quella di Woody Allen, “Forse le risposte di Freud sono state sbagliate, ma le sue domande erano ottime”. Questo non significa che la psicoanalisi non debba né possa dare risposte, evidentemente ne dà, e ne ha date tante nel corso di un secolo. Anche tu, credo, hai dato le tue. Non si contano le teorie psicoanalitiche. Quel che Fachinelli o Allen intendono dire, secondo me, è che le risposte vanno apprezzate non in quanto tali, così come sono snocciolate nei manuali, ma in relazione al tipo di domande che Freud si poneva. E’ la perspicuità della domanda quel che occorre cogliere dietro risposte metapsicologiche che lasciano il tempo che trovano.
Questo vale anche per la filosofia. Se uno evoca certe risposte filosofiche fondamentali, esse sembrano delle banalità. Come “l’essere è, il non essere non è” (Parmenide), oppure “penso dunque sono” (Descartes), oppure “la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa” (Husserl). Sembrano La Palisse. Eppure furono delle rivoluzioni culturali perché esse rappresentarono il punto di svolta di una serie di argomentazioni che ri-situavano tutto il campo del pensiero. E’ il tipo di problemi che emergono grazie ad una risposta quel che conta, non la risposta stessa.
Si prenda la tesi di Freud “ogni sogno dà un desiderio come immaginariamente soddisfatto”: ma non è quello che si è sempre saputo? In sé, è una banalità. Ma questa banalità assume tutt’altro rilievo in relazione al modello di soggettività su cui Freud si interroga, e che potrebbe riassumersi in questa domanda: “Come fa la mente umana a soddisfarsi anche quando sembra mettercela tutta per produrre qualcosa di spiacevole? Come può la lettera di un testo significare di più ed altro da quello che manifesta?”
1.
Credo che alla base della tua insoddisfazione nei confronti del mio scritto ci sia la tua storia personale, ovvero la tua denuncia pluridecennale del pensiero freudiano come anti-rivoluzionario. Forse per questo ti hanno impressionato le mie frasi sul carattere “rivoluzionario” della psicoanalisi. Ma qui emerge una differenza credo cruciale tra noi: NON CREDO NELLA RIVOLUZIONE. Vi ho creduto da giovane, da molto tempo non vi credo più. Certe rivoluzioni mi piacciono, altre no, ma non sono un credente nella Rivoluzione. Quindi, il mio riferimento alla Rivoluzione non ha un carattere dirimente.
Probabilmente non mi sono espresso bene. Quando ho detto che la teoria di Freud era parte di un secolo rivoluzionario, non lo intendevo solo in senso politico. Sono stato SEMPRE contrario ad ogni forma di freudo-marxismo, che mi sembra un doppio fraintendimento, sia di Freud che di Marx. Per questa ragione, ad esempio, trovo inaccettabile la filosofia di Žižek (anche se egli coglie alcuni punti interessanti). Ho detto che la teoria-pratica della psicoanalisi va colta all’interno di un’epoca rivoluzionaria, il che è molto diverso. E rivoluzionaria in molti campi. Questo è un dato storico, non una mia ipotesi sulla teoria di Freud. E’ un fatto poi che molti autori che furono considerati ‘rivoluzionari’ nei loro rispettivi campi – ad esempio i surrealisti, Thomas Mann, Georges Bataille, Herbert Marcuse, Luis Buñuel, Louis Althusser, Jacques Derrida, ecc. – si siano ispirati a Freud o lo abbiano frequentato. Per ‘rivoluzionario’ intendo un cambiamento alquanto radicale, una messa in questione dell’assetto precedente. Teorie e pratiche che oggi non sono affatto rivoluzionarie – ad esempio, il cristianesimo, l’arte gotica, la scienza di Galilei, il cogito di Cartesio, Darwin, ecc. – in una certa epoca furono dottrine rivoluzionarie. Anche i fascisti parlavano di “rivoluzione fascista”. “Rivoluzionario” per me è un concetto relativo, storico, non assoluto: non c’è un criterio eterno di Rivoluzione, e nessuna teoria o pratica è per me intrinsecamente rivoluzionaria. Quindi nemmeno quella di Freud. Ho detto che la sua dottrina va vista in un secolo rivoluzionario così come diciamo che la teoria copernicana va vista nel quadro di un secolo dominato dalle guerre di religione, o l’opera di Marivaux in un secolo dominato dall’Illuminismo.
2.
Credo di non aver detto che faccio coincidere la Rivoluzione con il dionisiaco. Dico solo che di Freud sono possibili due interpretazioni, una “adattativa” in sintonia con un certo neo-darwinismo (di cui l’Ego Psychology si è fatta corifea), l’altra “dionisiaca” (portata avanti da Lacan, ma anche da altri – ad esempio da Groddeck, Reich, Deleuze, ecc.) Per dionisiaco intendo, in senso lato, un’etica non volta al controllo (razionale, egoico, adattativo, integrativo, coesivo) delle pulsioni, della Carne come si diceva un tempo, ma – grosso modo – volta all’espressione il più possibile autentica, libera, della Carne. Rispetto all’ideale etico-antropologico di un efficace controllo dei desideri, offrire un ideale di autenticità del desiderio, che Lacan ha espresso nell’aforisma “ci si sente colpevoli quando si cede sul proprio desiderio”. Personalmente non mi schiero, prendo solo atto del fatto che la comunità psicoanalitica è divisa al proprio interno tra queste due impostazioni polari. Ognuno poi farà le sue scelte in sintonia con le proprie inclinazioni, ovvero, con i propri modi specifici di godere.
Mi pare che tu dica “il dionisismo non è rivoluzionario”. Possibilissimo. Ma di QUALE rivoluzione stai parlando? Per me, ad esempio, una certa estrema sinistra di oggi è conservatrice, non rivoluzionaria, perché vorrebbe restaurare un’epoca che non ci sarà più.

3.
Divisione tra etica e metapsicologia. E’ possibile questa divisione tra pratica e teoria, in psicoanalisi come in altri campi? Ad esempio, è possibile per un militante socialista e comunista NON essere marxista, né leninista, né gramsciano, ecc.? Mi dici: da filosofo DEVI rispondere di NO. Forse, ma tutti sappiamo che IN PRATICA la separazione – se non totale, almeno parziale o tendenziale – è non solo possibile, ma accade ogni giorno.
Restiamo all’esempio politico, più eloquente di quello psicoanalitico. Milioni di esseri umani per un paio di secoli hanno creduto nel socialismo, si sono battuti per esso, molti ne sono anche morti, e mi chiedo: QUANTE di queste persone hanno letto Marx? O ne hanno solo capito il pensiero? Ognuno forse aveva un’infarinatura diversa di marxismo, ma certo non erano militanti perché conoscevano a menadito l’economia politica o la filosofia hegeliana. Quando parlo con persone di sinistra, colte o analfabete che siano, gratta gratta esce sempre questo come primum movens: “Io sarò sempre dalla parte dei più deboli!” Ahimé, non è facile, di volta in volta, sapere chi siano veramente i più deboli – difatti spesso i marxisti si sono divisi perché non erano d’accordo su chi fosse “il più debole”. Ma quel che mi sembra la DECISIONE essenziale che porta alla sinistra non sono le meta-teorie di Marx o di Gramsci: è l’etica di orientare la propria vita sulla base del criterio “essere dalla parte dei più deboli” e sognare una società in cui non ci siano “più deboli”, in cui tutti siano forti…
Certamente ogni scelta etico-politica poi genera un alone cognitivo: ipotesi, teorie, visioni del mondo, dipartimenti universitari, ecc. Ma tutto questo castello ‘scientifico’ ha un fondamento ad un tempo fragile e solidissimo: una certa etica, che è sempre in relazione ad un certo modo di godere.
Wittgenstein diceva qualcosa di molto simile, quando si chiedeva ad esempio in che cosa consistesse veramente la credenza nel Giudizio Finale da parte di un cristiano. La conclusione era: “Credere nel Giudizio Finale significa impostare la propria vita COME SE ci fosse questo giudizio… Credere è un certo modo di vivere, non una serie di proposizioni più o meno vere.”
Si prenda la classica ‘credenza’ della sinistra “gli uomini nascono tutti eguali, poi la società li rende diseguali”. Personalmente non ci credo affatto, dato che l’eguaglianza è una valutazione soggettiva, non è un dato naturale! Ma fino a che punto dobbiamo prenderla per una teoria antropologica? Essa ha la forma di una teoria oggettiva, di fatto però essa significa “è ingiusto che gli esseri umani non siano socialmente eguali! Che alcuni siano poveri e altri ricchi! Mi batterò quindi perché ci sia più eguaglianza”.

Certamente ogni pratica rimanda ad una visione del mondo, è una scommessa sulla verità dell’essere, ma questa scommessa non si riduce a teoria specifica: c’è come una sorta di tropismo fondamentale etico-conoscitivo che può dar luogo a teorie (metapsicologie) molto diverse, spesso anche tra loro contraddittorie.
E difatti, anche in psicoanalisi, non c’è solo la metapsicologia di Freud, ma ce ne sono anche altre, come è ben noto. Ho cercato di mostrare che il paradigma fondamentale di Freud consiste in DIE LUST come verità dell’essere umano, ovvero Freud basa il suo sistema sull’assunto che “l’Homo sapiens è una bestia pensante desiderante e godente”. Bion, per esempio, basa tutto su un altro assunto, di tipo digestivo e metabolico: come elaborare (digerire) il caos informale in forme mentalmente utilizzabili. Eppure entrambe sono psicoanalisi. Il loro minimo comun denominatore va quindi cercato altrove che nei loro paradigmi teorici.

4.
Mi accusi di non definire in modo coerente il concetto di “inattuale”. In realtà, non volevo definirlo affatto. In generale (sulla scia di Wittgenstein) diffido delle definizioni: con queste si crede di chiudere dei concetti che invece, per essenza, sono aperti. Provo a ridire in modo sintetico quel che ho cercato di dire:
Oggi quasi tutti considerano la psicoanalisi INATTUALE – alcuni per dolersene, altri per vantarsene. Ma l’inattualità può avere una doppia faccia: ciò che oggi appare morto da tempo, potrebbe tornare vivo nel futuro. O ciò che appare morto, di fatto è vivissimo. Da qui il mio riferimento a Jurassic Park. Cambiando prospettiva, allora, l’inattuale può risultare come veramente attuale. E ciò che risulta oggi attuale, risulterà essere il perpetuarsi di qualcosa di morto. Non dico che E’ o SARA’ così, dico solo che POTREBBE ESSERE. Non faccio il profeta, cerco di leggere il futuro o il possibile dentro i magmi e i rigurgiti di quello che chiamerei l’intestino culturale della nostra epoca. Alludo quindi ad una dialettica dell’attuale-inattuale, e la dialettica, come tu ben sai, gioca sempre con le contraddizioni.

Grazie per le tue osservazioni, che mi hanno permesso di chiarire un po’ meglio il mio punto di vista.
Sergio




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