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“Sull’impossibile formazione degli analisti”
Conversazione di S. Benvenuto con E. Fachinelli

LETTERE


12 Maggio 2009

Gentile collega

Ho letto l'intervista di cui in oggetto e non puoi immaginare quanto ti sono grata per l'opportunità che mi hai dato di leggerla, permettendomi di capire, dopo tanti anni, per quali ragioni non ho avuto la possibilità di entrare a far parte della Spi. Non intendo tediare con la mia sofferta vicenda personale che mi è capitata quando non è stata accolta la mia candidatura alla didattica SPI.
Ero disposta a qualsiasi sacrificio sotto il profilo economico pur di intraprendere la professione psicoanalitica, perché mi piaceva e ci credevo, come tutt'ora, ma presentarmi con la maschera no!

Penso che le cose sarebbero andate diversamente se mi fossi presentata, agli analisti che mi hanno "Giudicato", meno autentica e meno ribelle e forse un po’ meno sfidante di quel che sono, invece ho mostrato con convinzione il mio vero volto e quindi non sono stata ammessa alla Spi. Avrei potuto riprovarci, come mi ha detto una didatta alla quale mi ero rivolta per fare comunque una mia seconda analisi, ma non condividevo questa strada!

Che peccato!, perché ora avrei potuto condividere in pieno l'intervista ad Elvio Fachinelli.

Non mi resta che ringraziarti ancora e congratularmi del coraggio di Fachinelli e del tuo, che hai pensato di divulgare le sue idee.
Daniela Teresi
Psicologa penitenziaria e psicoterapeuta.
Roma



12 maggio 2009

Non voglio consolare la collega, che mi sembra non abbia bisogno di consolazioni. Voglio solo ricordarle che le cose di cui narra avvengono in tutte le istituzioni, che si ritengono depositarie della vera ortodossia. Sono fenomeni strutturalmente connessi alla funzione dell'ortodossia, che passa sopra la testa dei singoli. La stessa cosa ho sperimentato io all'Ecole lacanienne de Paris. Sono stato l'unico italiano che nel 1977 ha affrontato la gravosa esperienza della “passe”, il rito di passaggio che Lacan imponeva ai giovani analisti perché dicessero come erano diventati tali a due testimoni, i “passeurs”, che a loro volta riferivano a un jury per l'accoglimento. Io non fui accolto. Sul momento fu l'occasione per una grave depressione. Oggi è il monito sempre vivo e attuale a non cadere in nessuna ortodossia e a praticare un'analisi veramente laica.
Antonello Sciacchitano



12 Maggio 2009

Intanto vorrei fare una premessa nel dire che il pensiero di Elvio Fachinelli, in generale, è un pensiero ancora tutto da capire e da scoprire, talmente contemporaneo da essere "inattuale", come direbbe forse Giorgio Agamben, che individua nell'essere, appunto, inattuale, una solo apparentemente paradossale coordinata della contemporaneità.
Ho letto la prima volta l'intervista di Benvenuto a Fachinelli alla sua uscita, quando ancora non avevo fatto domanda di didattica alla SPI, domanda che feci alcuni anni dopo e che fu accolta. Ora sono un membro SPI, in modo molto "disinvolto" (qualcuno dice troppo).
Credo che quello che mi ha salvato da un'idealizzazione paralizzante di questa istituzione e delle istituzioni in generale (si pensi alle "bocche chiuse" degli allievi SPI di cui parla Fachinelli) siano state due cose convergenti, nate una dall'altra. La prima, fondamentale, è che – prima di chiedere la didattica SPI - io avevo già fatto una lunga analisi, quella che ho sempre considerato la mia vera analisi. Incidentalmente dirò che il mio primo analista aveva una formazione lacaniana e (naturalmente) non apparteneva alla SPI. Fachinelli aveva ragione, non facciamo finta che la didattica sia una "vera" analisi, con tutte le pesantissime implicazioni di cui è caricata. Per me è stata solo un obbligo istituzionale di cui liberarmi presto. Eppure queste cose le aveva già dette Anna Freud negli anni '40. Una volta, alla SPI, ho sentito dire da parte di qualcuno che l'unico che avrebbe davvero potuto giudicare se un allievo fosse pronto per iniziare i seminari didattici (le selezioni sono infinite...) era l'analista didatta stesso. Dio ci scampi...
La seconda cosa, da me elaborata nel corso dell'analisi, di quella vera, è che nessuna istituzione avrebbe potuto veramente formarmi o legittimarmi se non lo avessi fatto io, prima o poi. Era quindi sempre in agguato il rischio di essere allievo/a a vita, altro monito più o meno esplicitato da Fachinelli. Molti fanno questa fine di eterni allievi. Io, per non rischiare di farla, ho accorciato i tempi di associatura fino all'osso. Certo, anche questo può essere sospetto, può costituire l'altra faccia di uno spinoso rapporto con il potere e l'istituzione. Residui di transfert? Può darsi.
Grazie per l'attenzione.

Lettera Firmata
Analista SPI


Milano, 29 Giugno 2009

Caro Sergio Benvenuto

Hai fatto benissimo a riproporre, “Per il Ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989)”, questa “intervista alla quale teneva in modo particolare”. Senza alcun dubbio, essa è un capitolo fondamentale della sua biografia e del suo lavoro. Ciò che egli dice nell’intervista si colloca dopo il 1985, dopo il densissimo breve testo “Sulla spiaggia” (pubblicato proprio nella Rivista di cui eri redattore, “Lettera Internazionale”, 6, 1985), e prima di “La mente estatica” del 1989, che parte proprio da tale testo.

L’intervista del 1987 è un passaggio fondamentale del suo percorso di vita e di ricerca, e una brillante (puntuale e vivacissima) testimonianza del suo spirito:
“Ho fatto un'analisi con Cesare Musatti che probabilmente, con i criteri attuali, sarebbe giudicata un'analisi «selvaggia» - come del resto le analisi fatte dalle prime generazioni di psicoanalisti. Eppure secondo me è stata una buona analisi: ho ricevuto sorprese, e questo per me è fondamentale in ogni analisi. Ho imparato e mi sono anche divertito. (…) . Si era nel periodo in cui la Spi non aveva assolutamente la posizione centrale che ha attualmente: era il centro di se stessa, non il centro della vasta nebulosa psicoterapeutica che si è formata negli ultimi anni. La società somigliava più alle prime baracchette freudiane che alla fortezza burocratica che è diventata in seguito”.

Il suo lavoro dentro-fuori la tradizione psicoanalitica è, fin dall’inizio, libera e ‘giocosa’. In buona compagnia di se stesso, di Freud, di Musatti, di Lacan (e di molti altri e di molte altre), egli ha vissuto e camminato nel mondo ponendo domande alla sfinge, non dando “risposte”!!! La sua originalità, la sua creatività, e la sua lezione (psicoanalitica, antropologica, e filosofica - tutta ancora da capire!!!) sta in un inedito e originario “sàpere aude”, nel sapere accogliere le “sorprese”, nell’“accogliere: femminile” (già in “Sulla spiaggia” e, poi, in “La mente estatica”). E’ una indicazione carica di teoria, ancora tutta da declinare e che annuncia (con Kant e, dopo Freud e Lacan) una “seconda rivoluzione copernicana” (Th. W. Adorno).

Ho visto Fachinelli (ci conoscemmo nel 1972, poco dopo l’uscita del primo numero della rivista “L’erba voglio”) tre o quattro volte nel maggio del 1989. In uno di questi incontri, mentre a Roma si stava svolgendo il Congresso Internazionale della SPI, parlando delle grandi acquisizioni e indicazioni del suo lavoro (gli avevo dato da leggere un mio breve saggio), gli dissi: “Fachinelli For President”. Il suo sorriso, saggio e luminoso, fu, ed era già e di nuovo, di chi sta in una baracchetta, sulla spiaggia, dinanzi al mare…. sorpreso! E, anche, compiaciuto e consapevole di aver “dato il senso al lavoro di tutta una vita”. Con Giuditta e “Per Giuditta” (a Lei è dedicata “La mente estatica”), egli era sceso all’inferno e aveva tagliato la testa di Oloferne, e ne era fiero. Felicemente fiero - a tutti i livelli …

Federico La Sala


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