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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi

Exit. Fine analisi

Sergio Benvenuto




1.
Uno dei temi spinosi discussi tra psicoanalisti è quando e se un’analisi debba finire. Non si tratta di una questione puramente tecnica. Per un filone analitico importante, non c’è fine dell’analisi. L’analisi con un analista può finire – la fine è contingente - ma prosegue per il resto della vita come auto-analisi. Il fine dell’analisi è che non finisca mai, perché la soggettivazione è infinita. (“Soggettivazione” è un termine di calco psicoanalitico francese; altre scuole usano altri termini, ad esempio “esprimere il vero Sé”.) Per chi diventa analista, la propria analisi prosegue sine die con i propri analizzanti. E’ una visione “non messianica” dell’analisi, perché non punta ad alcun “compimento”.
Per un altro filone, invece, c’è una fine dell’analisi, un voltar pagina nell’esistenza. Ma a sua volta questa fine è interpretata diversamente a seconda dei vari FINI, nel senso di scopi.
Molti lacaniani, ad esempio, pensano che la vera analisi finisca quando l’analizzante (non paziente) diventa a sua volta analista. Un’analisi veramente ‘finita’ produce un analista infinito, nel senso che solo la morte contingente mette fine all’analisi dell’analista. E’ evidente qui il rischio di auto-referenzialità: l’analisi diventa un loop in cui riproduce solo se stessa. Rischia di confermare quel che dice un accanito persecutore della psicoanalisi come Frederic Crews: “L’analisi non guarisce nessuno, è come il vampirismo. Un freudiano produce a sua volta un freudiano…” La psicoanalisi diventerebbe un’auto-produzione che si auto-consuma. Come quegli analisti didatti che hanno come unici analizzanti analisti in formazione: la loro attività consiste unicamente nel riprodurre analisti. Essi non incontrano mai ciò che è fuori dalla “bolla” analitica.
Nella storia della psicoanalisi i fini dell’analisi si distribuiscono essenzialmente secondo due poli, che chiamerei uno della RICONVERSIONE, l’altro della CONVERSIONE. Secondo l’impostazione tipica dell’Ego Psychology germano-americana, il fine è una “riconversione” adattativa: l’Io deve cercare di esprimere le proprie pulsioni adattandole al contesto sociale in cui vive. E’ come quando diciamo che una zona agricola, ad esempio, si riconverte ad attività industriali. Per altri invece l’analisi è una “conversione” soggettiva, è messianica (1). Ovvero, l’analisi punta ad una METANOIA, come diceva l’apostolo Paolo, ad una conversione soggettiva. Allora, il fine e la fine dell’analisi sono una conversione (messianica) o una semplice riconversione (adattativa)?
Ad un certo punto, è un fatto, la maggior parte delle analisi finiscono. Intuitivamente la fine di un’analisi è comprensibile, ci si dice tautologicamente “questo analizzante ha superato la fase della propria vita in cui aveva bisogno dell’analisi”. E’ come quando si è stati felicemente sposati per anni e poi si divorzia, ma senza rancore e restando amici: quell’amore è passato, si volta pagina. L’analisi ha dato molto, ma altre esigenze subentrano al posto del desiderio di analizzarsi. La questione che pongo quindi non è meramente pratica – in pratica, ognuno se la sbroglia secondo i propri criteri a naso – ma teorica: ovvero, come capire teoricamente quel che si fa in pratica.

2.
Qui mi limiterò ad un commento di parte del saggio di Freud “Analisi terminabile e interminabile” (Freud 1938), a cui seguirà un commento di un altro passo di Freud. Scelgo testi di Freud non perché io pensi che Freud sia la Sacra Scrittura nella quale trovare tutte le risposte. Ho sempre avuto un approccio decisamente laico con Freud, intendo un approccio non fideistico ma skeptico, nel senso etimologico del termine. Skepsis per i greci antichi non era esser scettici ma significava ricerca, indagine senza limiti precostituiti, senza coagulazione finale in un sistema di dogmi o di risposte garantite. Una lettura decostruttiva, insomma. Se preferisco un’analisi o decostruzione del testo di Freud piuttosto che di altri analisti eminenti è perché di solito Freud è più perspicuo e più profondo nel porre certe questioni.
“Analisi terminabile e interminabile” è stato scritto all’inizio del 1937, solo due anni prima della sua morte. E’ quindi uno dei testi finali di Freud. Non sfugge il fatto che in questo saggio alla fine della propria vita Freud si occupi proprio della fine dell’analisi. D’altro canto, ponendosi la questione della fine temporale dell’analisi, Freud non può fare a meno di porsi il problema del fine dell’analisi stessa. In tedesco LA fine (Ende, Schluss) si dice in modo del tutto diverso da IL fine (Zweck, Ziel, Absicht). Eppure, in moltissime lingue, fine come termine temporale e fine come scopo si dicono allo stesso modo, come in greco (thelos) o in inglese (end) – talvolta cambiando solo il genere, come in francese.
Di questo testo finale di Freud, la parte più famosa è la parte finale, il paragrafo 8. La fortuna di questa parte finale di un testo quasi-finale di Freud sulla fine dell’analisi è connessa al fatto che qui Freud sembra enunciare a chiare lettere un LIMITE del potere dell’analisi, per cui questo scritto viene letto come una nota finale pessimista sulla pratica analitica. Da qui un certo imbarazzo degli analisti.
Freud evoca alla fine due temi che gli sembrano essenziali, e che hanno a che fare con la differenza dei sessi:

I due temi che si corrispondono a vicenda sono, per la donna, l’invidia del pene (l’aspirazione positiva al possesso di un genitale maschile), e, per l’uomo, la resistenza [Sträuben] contro la propria impostazione passiva o femminea nei riguardi di un altro uomo.(2)

In sostanza, riprendendo le tesi del discepolo ribelle Alfred Adler, Freud giunge alla conclusione che in ambedue i sessi si produce un “rifiuto della femminilità” (Ablehnung der Weiblichkeit). L’efficacia di ogni analisi ha per i due sessi, come limite in qualche modo assoluto, il rifiuto della femminilità. Anche se Freud precisa che “l’uomo si ribella non alla passività in generale, ma solo alla passività nel rapporto con l’uomo”. Molti uomini preferiscono farsi dominare da una donna che da un altro uomo.
Ma anche se non si cede alla correttezza politica, e quindi non si rigetta questa tesi di Freud in nome dell’eguale dignità dei sessi, è difficile accettare l’idea che sia l’uomo che la donna nevrotici rifiutino qualcosa di femminile in loro. Del resto, secondo Freud, questa accettazione della femminilità sembra essere invece la soluzione più saggia per entrambi i sessi. Per Freud la donna dovrebbe accettare il fatto di non avere un pene, mentre ogni maschio dovrebbe accettare il fatto di non essere un Fallo dominatore, accettare di “assoggettarsi ad un altro più potente di lui”. Anche se Freud non lo dice esplicitamente, egli sembra pensare che ogni uomo dovrebbe rassegnarsi a farsi ‘fottere’ da qualche uomo potente. E’ interessante che questo venga detto da uno come Freud che, nel corso della sua vita, si è di rado assoggettato a qualcun altro. (Ma ci si chiede: l’adesione di tanti uomini a dittatori, tiranni senza scrupoli e megalomani, a demagoghi che si pongono come Padri dell’Orda primitiva, non mostra al contrario che tantissima gente, uomini soprattutto, non aspetti altro che ‘farsi fottere’ da figure dispotiche? Noi italiani ne sappiamo più di altri di questo bisogno – anche maschile – di sottomettersi ad un uomo super-fallico. L’impulso a farsi dominare da un altro uomo non è meno forte e profondo del rifiuto di farsi dominare.) E Freud scrive:

In nessun altro momento del lavoro analitico abbiamo una sensazione così dolorosa e opprimente della vanità dei nostri ripetuti sforzi, mai nutriamo così forte il sospetto di “predicare al vento” [Fischpredigten; letteralmente: predicare ai pesci] come quando cerchiamo di indurre le donne a rinunciare al loro desiderio del pene appellandoci al fatto che è un desiderio irrealizzabile, e come quando ci proponiamo di persuadere gli uomini che un’impostazione passiva nei riguardi di un altro uomo non sempre significa la castrazione e in molti rapporti umani della vita è anzi indispensabile.(3)

Evidentemente qui Freud riconosce un limite intrinseco alla terapia analitica, che egli mette sul conto della resistenza. Da una parte l’analista si sforza di rendere accettabile al soggetto qualcosa di inevitabile. D’altra parte, molti uomini si rifiutano di guarire perché in questo modo dovrebbero riconoscere la potenza dell’analista, essergli obbligati [zu Dank verpflichtet sein]. Ma la riconoscenza è proprio quella parte passiva, femminile, che molti uomini rigettano (la Klein parlerà di incapacità di esser grati). Da notare che Freud dice “l’uomo non vuole sottomettersi a un sostituto paterno…” (ibid.): sembra voler insinuare che in fondo qualsiasi paziente nevrotico (e solo i pazienti?) per certi versi rifiuta la guarigione. E così con le donne. Certe depressioni femminili durante l’analisi, per il convincimento disperato di non poter mai essere guarite, sarebbero il loro modo di riconoscere che non potranno mai avere quell’organo maschile per cui erano venute in analisi, anche se senza saperlo.
Emerge qui, insomma, una dimensione contraddittoria (dialettica?) della dinamica analitica. Ovvero, SI VIENE IN ANALISI CHIEDENDO, IN ULTIMA ISTANZA, QUALCOSA DI IMPOSSIBILE. Si viene per chiedere qualcosa o che non potrà essere dato o che in fondo non si vuole, e l’analisi procede finché il soggetto non riceve quel che chiede. L’analisi è possibile sullo sfondo di un fine impossibile.

3.
Ma - fa notare Freud - se entrambi i sessi rifiutano la femminilità, in ciascun sesso “ciò che soggiace alla rimozione è l’elemento del sesso opposto”. In effetti, ciascun sesso cerca di rimuovere gli elementi del sesso opposto per essere un esemplare socialmente accettabile del proprio sesso. Ma qui Freud non contraddice quel che egli ha appena detto, che ogni sesso cerca di eliminare non i tratti dell’altro sesso, ma la femminilità? Nell’uomo le cose sembrano più semplici: lui elimina la propria femminilità anche perché teme la castrazione che questa femminilizzazione comporta; in lui non ci sarebbe contraddizione tra CIÒ CHE SI DEVE e CIÒ CHE VUOLE eliminare. Ma nelle donne? Come possono eliminare l’elemento opposto, la maschilità, e allo stesso tempo la femminilità? Ci troviamo insomma di fronte ad un vero paradosso: ogni donna cercherebbe di eliminare la propria profonda femminilità mettendo in sordina la propria maschilità!
In effetti, nota Freud, la donna cerca di eliminare, da adulta, i propri elementi maschili, eppure non tutta la sua mascolinità risulta rimossa. E questa mascolinità non rimossa, non negata, aggiunge Freud, va a costituire ciò che consideriamo tipica femminilità di una donna: l’amore per un uomo, e il desiderio di avere un bambino. Nell’uomo amato lei trova quel pene che non avrà mai di suo, e nel suo bambino sente di possedere qualcosa come un pene. Per Freud, questi due desideri così femminili – che più femminili non si può - sono i resti di una mascolinità a cui la donna non ha veramente rinunciato. E’ questo il paradosso dell’esser donna secondo Freud: che quella che consideriamo VERA FEMMINILITÀ è ciò che essa conserva della propria mascolinità! Come dire che una vera donna non è mai veramente femminile…
Ci si chiede perché Freud descriva i destini dei due sessi in modi così asimmetrici. Perché non vedere nell’amore che un uomo sente per una donna, e nel desiderio che un uomo può avere di essere padre, i segni di una femminilità non del tutto rimossa? Per dirla come Jung, l’uomo non cerca così la propria “anima”, distinta da “animus”? Perché insomma per Freud sia la donna che l’uomo risultano “mascolini” nella loro vita sessuale normale, sia quando l’uomo fa l’uomo, sia quando la donna fa la donna e la madre? Cosa fa pensare a Freud che esista questo primato della mascolinità (della fallicità o dell’attività?) sia nell’uomo che nella donna?
E’ questa asimmetria che spingerà Lacan a porre il fallo come significante privilegiato: sia l’uomo che la donna si orientano sessualmente in relazione al fallo. Lacan parlerà di un “godimento fallico” comune sia all’uomo che alla donna (e non si riferisce al piacere clitorideo). Lacan approfondirà il paradosso freudiano dicendo che quel che è specificamente femminile è piuttosto il “godimento dell’Altro”, un godimento “mistico”; ovvero, la sessualità femminile non sarebbe veramente sessuale (4) …

4.
E Freud conclude di fatto il suo saggio scrivendo:
Abbiamo spesso l’impressione che con il desiderio del pene e con la protesta virile, dopo aver attraversato tutte le stratificazioni psicologiche, siamo giunti alla roccia formata [gewachsenen Fels], e quindi al termine della nostra attività.

Che cosa è quel che Freud chiama “gewachsenen Fels”, tradotto dalla Standard Edition come bedrock? Ma bedrock è qualcosa di statico, mentre gewachsen significa propriamente cresciuto, come una pianta, qualcosa che ha corporatura, che ha assunto una figura. Per un germanofono, accostare gewachsen e Fels è sorprendente, perché il primo termine evoca il mondo organico, qualcosa di biologico, mentre la roccia è inorganica. Insomma, Freud qui allude ad un processo formativo: questa roccia non è là sin dall’inizio, ma si forma col tempo, si consolida, si costituisce perché è una “roccia biologica”.
Si trova questa roccia solo in certi pazienti? Oppure, andando sempre più a fondo, è quel che troviamo, prima o poi, in qualsiasi paziente? Freud ci lascia aperte entrambe le possibilità di lettura. Ma l’ambiguità di Freud è ancora più radicale.
Questa roccia cresciuta, biologica, è ciò a cui l’attività analitica giunge. Ma vi giunge in che senso? Nel senso che vi trova una sorta di ostacolo, di barriera, oltre cui l’analisi non può più andare? O nel senso che l’esser giunti a questo Fels, a questa roccia, è proprio il fine ultimo dell’analisi? E soprattutto, in che cosa consiste questa roccia biologica?
Sembrerebbe che la roccia consista appunto nel rifiuto della femminilità nei due sessi. Freud precisa anche che “per il campo psichico, quello biologico svolge veramente la funzione di una roccia cresciuta sottostante” (6). Allora, il rifiuto della femminilità è uno zoccolo biologico? Lo si può capire nel caso della donna, dato che non avrà mai un pene – ma il desiderio di averlo è biologico? Possiamo chiamare biologico un desiderio di qualcosa di anatomico? D’altro canto, Freud ne parla come di qualcosa di cresciuto o formato, come di qualcosa direi di storico. Lo slittamento di senso in Freud è sorprendente.
In effetti, come due richieste impossibili, in fondo ‘romantiche’ – per la donna avere il pene, per l’uomo non essere ‘sodomizzato’ da un altro uomo – possono avere a che fare col biologico? Non è piuttosto una roccia immaginaria? Forse egli evoca qui das Biologische riprendendo una vecchia sua classificazione, quando diceva che la polarità “attività-passività” di ogni pulsione è la polarità BIOLOGICA (mentre la polarità “Io-mondo esterno” è REALE, e quella “piacere-dispiacere” è ECONOMICA) (7). Evidentemente per lui la differenza tra maschio e femmina rinvia ad una roccia “biologica” nella misura in cui essa corrisponde proprio alla polarità attivo-passivo. Ma non ho mai capito perché Freud abbia chiamato biologica questa polarità od opposizione.
Forse qui Freud parla di roccia biologica nel senso che in fondo ogni nevrotico (ogni nevrotico? o alcuni soggetti particolarmente tosti e duri come rocce?) è polarizzato da una richiesta impossibile. In fondo Freud vede ogni nevrotico come un seguace del maggio 68, “soyez réalistes: demandez l’impossible”. Si può analizzare quanto si vuole, prima o poi si giunge a questa richiesta assurda, impossibile, anti-biologica direi piuttosto. La mia impressione è che qui Freud con “biologico” voglia dire in realtà NON INTERPRETABILE; qualcosa di “reale”.
Questa roccia formata, questo reale, è ciò a cui il lavoro analitico - la richiesta dell’impossibile - giunge, e che quindi lo fa cessare (l’interrompe?). Ma vi giunge in che senso?
Ovviamente possiamo contestare quanto vogliamo le conclusioni di Freud – in questo saggio. Applicando il famoso “principio di carità” – proposto in filosofia da Davidson e Quine - potremmo leggere i suoi riferimenti sessuali crudi (“voglio il pene”, “non accetto che un altro uomo mi inc…”) in modo più sfumato. Da tempo si cerca di leggere il sessualismo di Freud in chiave metaforica. Potremmo pensare che il rifiuto della femminilità vada letto come “rifiuto della soggettività”, rifiuto di essere SOGGETTI, assoggettati, ad un Ordine che ci domina. Potremmo vedere la femminilità, che per Freud tutti rifiuteremmo, come una generica subordinazione all’altro.
E’ importante notare comunque che il fondatore della psicoanalisi giunge alla fine del suo articolo – e alla fine della sua vita – a dire che l’analisi finisce non perché tutto quel che è importante è stato analizzato. Ma perché l’analisi giunge ad un punto di non-analizzabilità, di non-interpretabilità, che è ad un tempo sia il suo fine che la sua fine. Il suo fine perché il senso dell’interpretazione va verso il “biologico” nel senso di non-interpretabile, verso l’opacità del corpo sessuato, della vita e della morte. Ma questo fine che frustra il fine benefico e bonario dell’analisi (guarire un nevrotico attraverso interpretazioni e ricostruzioni) è ciò che determina anche la sua fine. Oltre non si può andare. La fine dell’analisi è insomma sempre – sembra dire Freud – un’interruzione; non perché essa non sia giunta alla mitica “normalità psichica completa”, ma perché il suo fine ultimo non è stato raggiunto! E questo fine non è stato raggiunto perché era un fine impossibile: chiedere la Luna, come la chiedeva il Caligola di Albert Camus nella tragedia “Caligula”. E’ proprio perché non si raggiunge il fine che l’analisi finisce; ma in questo fallimento brilla proprio il suo possibile successo. Perché se ogni essere umano tende a qualcosa che non potrà avere mai, capire finalmente che non potrà mai averlo potrebbe essere proprio ciò che alla fine avrà. Ci si rassegna al possibile, o si chiederà apertamente l’impossibile, ma senza il camuffamento nevrotico che spaccia l’impossibile per possibile. Per Freud la fine dell’analisi sembra quindi essere un’interruzione di un percorso che proprio interrompendosi raggiunge il suo bersaglio. Ricorda i paradossi zen nell’arte del tiro all’arco.
Allora, sembrerebbe che ogni malessere nevrotico in fin dei conti, per Freud, si riduca proprio a ciò su cui l’analisi si interrompe: la nevrosi si riassumerebbe tutta in UN RIFIUTO DELLA FEMMINILITÀ. Per Freud la femminilità – come assenza del fallo, castrazione – è proprio ciò che uomo e donna fuggono come la peste. L’uomo facendo l’uomo, e la donna facendo la donna. Intendendo per femminilità non tanto il non avere un pene, ma il rassegnarsi ad essere soggetti, assoggettati agli altri, l’essere passivi.
Come è noto, Freud è stato criticato nel corso del secolo da molti, e in particolare dalle femministe, proprio per la sua visione non “corretta” della femminilità, per i suoi pregiudizi maschilisti, ecc. Tanto inchiostro è scorso per criticare, ad esempio, la sua idea masculo-centrica dell’orgasmo vaginale femminile come più maturo di quello clitorideo, la sua immagine della donna come maschio castrato, ecc. Eppure stranamente ben pochi hanno fatto caso a quel che Freud, alla fine della sua vita e della sua opera, esprime in modo quasi esplicito: che tutto il malessere oggi deriva proprio da un rigetto costitutivo, epocale, forse storicamente determinato, della femminilità. Questo mi ricorda quel che scrive Claude Lévi-Strauss alla fine del suo libro autobiografico Tristi tropici: che, secondo lui, il passaggio dalle società dette primitive o selvagge, a quelle sviluppate e storiche, equivale ad una perdita della femminilità (Lévi-Strauss 1955). Le nostre società hanno bandito il femminile.
Secondo Freud, uomini e donne soffrono, al fondo del loro essere, nel non volere o non potere essere femminili. Nel non potere essere ACCOGLIENTI della potenza dell’altro. Direbbe Lacan: nel non riuscire a far proprio il godimento dell’Altro.
Come se questo esser femminili che ci costa tanto, oggi, fosse un rifiuto di rassegnarsi ad amare, dato che amare è sempre una forma di accoglienza dell’altro, ma anche di soggezione all’altro. Optando per un amore attivo, maschile, conquistatore, l’umanità si scontrerebbe con una “roccia storica” pagando il duro prezzo dell’Unbehagen, del malessere, dell’insoddisfazione, della nevrosi.

5.
Se nel testo che abbiamo commentato Freud si occupa soprattutto de LA fine (Ende), in altri testi sembra occuparsi soprattutto de IL fine (Ziel) dell’analisi. A cosa deve tendere insomma l’analisi?
Preciso: parlo qui del fine ideale dell’analisi, non di quello che essa di fatto produce. Da decenni alcuni – come Luborsky, Kächele, Thomä – studiano empiricamente i risultati delle analisi e delle altre cure “psic”; ricerca difficilissima, ma inevitabile. Molti, abbarbicati ad un vecchio spiritualismo umanistico, deplorano queste ricerche empiriche, “americanate” dicono, forse sulla base del timore che esse forniscano risultati devastanti sull’efficacia dell’analisi (timore peraltro non confermato). Personalmente trovo che ogni anatema lanciato contro le ricerche empiriche – e su tutti i procedimenti secondo protocolli scientifici – sia oscurantista e nel fondo reazionaria: mi ricorda sempre i teologi della Vita di Galileo di Brecht. Galileo chiede ai teologi di guardare attraverso il telescopio, e loro invece non guardano, preferiscono una confutazione puramente logica delle tesi di Galileo… Nella contesa tra i cardinali Bellarmino e i Galileo della psicoanalisi, parteggio e parteggerò sempre per i Galileo. Questo per dire che ricerche serie sugli effetti reali dell’analisi – nella misura in cui sono rilevabili – vanno assolutamente condotte. La mia impressione è che i risultati concreti, qualunque questi siano, non varino enormemente a seconda del tipo di analisi. Le grandi differenze tra scuole sembrano più teoriche che nei risultati pratici. Ad esempio, da quel che ho potuto constatare, di fatto molte analisi lacaniane sono più adattative di quelle degli Ego psychologists. Molto spesso gli analisti predicano male, e razzolano bene. Lascio quindi in sospeso la questione di COME REALMENTE FINISCA un’analisi: mi concentro su quel che diverse scuole considerano IL LORO FINE ANALITICO.

Ora, come è noto, Freud disse che il fine dell’analisi era

Wo Es war, soll Ich werden (Freud 1932) (8)

Ci si è azzuffati spesso su come tradurre questa frase. Fu molto sbeffeggiata la prima traduzione ufficiale francese, che recitava “Le moi doit déloger le ça”, “L’Io deve sloggiare l’Id”. La Standard Edition la traduce con “Where id was, there ego shall be”. Ma la traduzione inglese, qui come altrove, usa termini latini colti – id, ego – mentre Freud usa termini semplicissimi del linguaggio corrente come Ich, Io, ed Es, che tradurrei con Quello.
Es quindi Quello, in inglese “It”. Quanto al verbo sollen, esso indica dovere in senso morale: potremmo renderlo quindi con dover volere. Werden è un verbo ambiguo, significa sia diventare che subentrare.
Allora, una traduzione possibile è:
(1) “Dove Quello era, là Io devo subentrare”.
Un’altra è:
(2) “Dove Quello era, là Io devo addivenire”
La differenza tra le due traduzioni segna la differenza tra due concezioni etiche diverse della psicoanalisi. In effetti, sono possibili due freudismi polari a seconda che si interpreti il dovere di Io come SUBENTRARE AL POSTO DELL’INCONSCIO, oppure come ENTRARE NELLO SPAZIO DELL’INCONSCIO. Il primo senso è stato preso soprattutto dall’Ego psychology e dalle psicoanalisi che intendono integrarsi alla psicologia positiva; il secondo invece ha assunto forme che chiamerei dionisiache (la variante lacaniana è la più nota, ma ce ne sono altre).
Si può infatti interpretare la suddetta frase di Freud o nel senso
(1) che l’Io debba sloggiare l’inconscio, Es, impoverirlo, oppure nel senso
(2) che l’Io debba raggiungere uno status inconscio, che gran parte dell’Io debba passare dalla parte dell’inconscio pur restando Io.
Secondo la prima lettura, occorre puntare ad una presa di coscienza, ovvero ad un maggior controllo sulle proprie pulsioni o spinte. Secondo la seconda lettura, occorre invece assumere i propri desideri profondi. Lacan propone questa seconda interpretazione: per lui la soggettività deve riconoscere il proprio inconscio, deve diventare essa stessa in qualche modo inconscia; occorre “non cedere sul proprio desiderio”. In Italia questa seconda lettura, che chiamo qui dionisiaca e che altri chiamerebbero romantica, è stata fatta propria da Elvio Fachinelli, influenzato peraltro da Lacan, di cui fu amico.
Non sta a me dire se la corretta lettura di Freud sia la prima o la seconda. Credo che Freud stesso oscilli fra queste due accezioni. E forse è proprio in questa oscillazione che la psicoanalisi esprime una sua essenziale ambiguità.
In effetti Es, Quello, non è qualcosa di completamente estraneo ad Io, è piuttosto la stessa origine, causa e senso di Io. Es è una paradossale soggettività pre-soggettiva, è “Lust-Ich”, Io-desiderio/piacere. Es, le spinte, sono l’essenza dell’Io: ma questa ESSENZA del soggetto ha bisogno di essere riconosciuta e assimilata dal soggetto stesso, proprio per cessare di essere ALTERITÀ per esso. Occorre che la soggettività si soggettivizzi, che la soggettività “naturale” (Lust-Ich), in contrasto col “Real-Ich” (io-reale), venga riconosciuta soggettività tout court. L’analisi sarebbe insomma una dis-alienazione in cui Io mi riapproprio di ciò che avevo alienato, anche se questa alienazione è in ogni caso il movimento originario e irreversibile della mia soggettività.
Freud disegna una dialettica vertiginosa tra soggettività e pulsioni. Per Freud la soggettività è una istanza la cui essenza si nega continuamente in qualcosa che la aliena, che pone però a ciascuno di noi il compito di ritrovare “sé stesso”.
In questo modo, “Wo Es war, soll Ich werden”, reinterpretato (e rovesciato) in senso dionisiaco, non è quindi prosciugare il mare dell’inconscio, dell’Altro, ma al contrario abbandonarsi all’Altro, tuffarcisi dentro, abitarlo, accettando consapevolmente il mistero delle passioni che ci animano. Non un progetto di saggezza, ma di partecipazione emozionata al mondo.

Questa interpretazione dionisiaca del fine dell’analisi divenne molto popolare negli anni 60 e 70, grazie anche al clima politico e culturale dell’epoca. Non a caso in quel periodo si affermò, e non solo in Francia, l’insegnamento di Lacan. Un film di quegli anni riscosse un enorme successo, soprattutto tra noi che, a Parigi, seguivamo Lacan e le correnti psicoanalitiche francesi: “Teorema” di Pier Paolo Pasolini, uscito nel 1968.
”Teorema”è la storia di una famiglia milanese fine anni 60 molto “perbene”, soddisfatta, ricca. Il capofamiglia è un facoltoso imprenditore industriale. La sua bella moglie è donna di classe esentata dal lavoro; il figlio maschio e la figlia femmina sono ancora giovani; the last but not the least, la cameriera di casa. D’un tratto, giunge come loro ospite un bellissimo giovane la cui identità e nome non vengono precisati. Lo spettatore lo interpreterà come un dio; ma perché non il Diavolo? Figura divina/demonica non per quello che dice – parla ben poco – ma per la sua bellezza. E difatti, tutti e cinque i membri della casa si innamorano di lui, e il dio se li porta a letto, uno per uno. Poi, ad un certo punto, se ne va da quella famiglia, per sempre.
La reazione di ciascuno dei cinque è catastrofica, nel senso specifico del termine greco katastrophé, letteralmente “volger giù”, e che significava rovesciamento, riuscita; katastrophé era la conclusione di una tragedia, che consisteva appunto in un rovesciamento delle condizioni dei protagonisti. Ogni personaggio non può restare quello che era e viene SPINTO GIÙ verso una hybris, verso un modo di essere rovesciato aldilà di ogni temperanza. Il capofamiglia regala la fabbrica ai suoi operai e nel bel mezzo della stazione centrale di Milano si spoglia completamente dei propri vestiti. Sua moglie si fa sbattere da qualsiasi ragazzo che lei incontra per strada, femmina a disposizione di tutti. La figlia sprofonda in uno stato catatonico, e quindi in una clinica psichiatrica. Il figlio diventa pittore, e si avventura in forme sempre più astratte e incomprensibili nel tentativo disperato di “rappresentaLo”. La domestica torna al suo paese, e in mezzo ai suoi compaesani pratica un’ascesi bizzarra che ne fa una santona locale, artefice di miracoli.
Da notare che gli slittamenti verso questi modi di essere eccessivi, al di fuori di ogni regolatezza, non sono tutti sociodistonici né tutti sociosintonici. La risposta di ciascuno al contatto – rappresentato come sessuale – con qualcosa di divino porta ad eccessi che nulla hanno a che vedere con gli standard e le valutazioni del benessere sociale. E’ secondario insomma che “la gente” ammiri o meno quel che diventa ciascuno toccato dall’Altro – con la A maiuscola. Evidentemente la divinità o diabolicità non viene per adattare meglio i soggetti al loro contesto sociale, porta non la pace ma la spada.
E’ un film datato, troppo legato all’atmosfera di quegli anni? Certamente sentimmo, all’epoca, che quel film rappresentava, a suo modo, qualcosa che cercavamo di dire e di fare. E quello che cercavamo di dire e di fare portava ad un’interpretazione dionisiaca del fine dell’analisi, intesa quindi non come ottimizzazione delle capacità di controllo delle proprie pulsioni, ma come una sorta di con-venire all’inconscio, di venire assieme all’inconscio. Il contatto col divino di quel film ci appariva la figura perspicua del contatto con quello che Lacan, riprendendo il das Ding di Freud, aveva chiamato La Cosa.
Questo progetto etico-estetico non è comunque così vecchio come il riferimento a Pasolini potrebbe far pensare. Occorre volgersi alla sociologia e storia della cultura. Si dà il caso che alla nostra epoca l’ideale adattativo, l’idea che la mente razionale debba controllare le pulsioni, sia stato fatto proprio dalle psicoterapie cognitive, oggi sempre più diffuse: oggi il cognitivismo, applicato alla psicoterapia, riesce a realizzare con un pubblico più largo, e in modo più efficace e rapido, l’ideale che altre correnti psicoanalitiche, a cominciare dall’Ego Psychology, avevano fatto proprio. Alla psicoanalisi quindi resta l’altra faccia, l’altro progetto, l’altro tropismo etico: quello dionisiaco. Storicamente, paradossalmente, il successo delle terapie cognitive lavora quindi a favore delle correnti dionisiache e romantiche in psicoanalisi. Queste mantengono viva un’esigenza di fedeltà al proprio inconscio che una società sempre più improntata al controllo tecnologico della vita, di se stessi e della propria mente, rimuove o rigetta verso i margini.
Ma, aldilà di queste essenziali differenze etiche e culturali, l’analisi produce qualcosa di così diverso dalle psicoterapie cognitive o altre? Che relazione c’è tra i fini ideali che le scuole analitiche proclamano, e ciò che di fatto determina la fine di un’analisi? Qual fine di fatto un’analisi disegna, finendo?

NOTE.

(1) Sul senso di ‘messianico’, rimando al libro di Agamben [2000].
(2) OSF, 11, p. 533; GW, 16, p. 97. La traduzione della SE traduce Sträuben con “struggle”, ma è piuttosto “resistenza”.
(3) OSF, 11, p. 534; GW, 16, p. 98.
(4) In particolare nel “Seminario XX. Ancora” (Einaudi, Torino 1977). Molti dicono che il gusto del paradosso e della concettualizzazione vertiginosa di Lacan contrasta con la linearità cristallina di Freud. Come abbiamo appena visto, Freud di fatto è non meno lambiccato, raffiniert, di Lacan.
(5) OSF, 11, p. 535; GW, 16, p. 99.
(6) OSF, 11, p. 535; GW, 16, p. 99.
(7) “Pulsioni e loro destini”, OSF, 8, p. 35; GW, 10, p. 232.
(8) GW, 15, p. 87; SE, 22, p. 80; OSF, 11, p. 190.

BIBLIOGRAFIA
Agamben, G. (2000) “Il tempo che resta”, Bollati Boringhieri, Torino.
Freud, S. (1932) “Introduzione alla psicoanalisi. Nuove serie di lezioni”, OSF, 11, pp. 121-284; GW, 15, pp. 3-195.
Freud, S. (1938) “Analisi terminabili e interminabile”, OSF, 11, pp. 499-535, GW, 16, pp. 59-99.
Lévi-Strauss, C. (1955) “Tristi tropici”, Il Saggiatore, 1965.


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