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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi
AVATARS DELL’ALTERITA’

Sergio Benvenuto


Gli effetti del video 3D non hanno impedito che mi annoiassi profondamente guardando Avatar di J. Cameron. Perché avevo l’impressione di vedere un film già visto: stavo assistendo ad un remake in chiave fantascientifica di Dances with wolves di K. Costner (1990) e di altri film western politicamente corretti, prodotti da Hollywood a partire dagli anni 60 in poi. Gli studi di Vladimir Propp sulla fiaba e di Claude Lévi-Strauss sui miti mostrano che tante fiabe sono in fondo una stessa fiaba, tanti miti sono lo stesso mito. Spesso più film sono, essenzialmente, lo stesso film; le immagini cambiano, ma la struttura narrativa – e la morale - è la stessa.
Non ho mai amato la critica morale – sia essa pia, marxista, francofortese o liberal-democratica. La critica cioè che mette pagelle a film o romanzi in funzione della loro correttezza politica o morale od estetica, dando per scontata la funzione edificante o militante dell’arte. Queste critiche sono forme di censura, anche se disarmata. L’arte che conta e che resta è quella che suscita in tanti spettatori emozioni incancellabili, un’arrapatura casta ma imbarazzante, “qualcosa che cambia la vita”. Qui cercherò di dire perché certi film non ti cambiano una virgola della vita.

1. Sposarsi con l’Altro

In Avatar i Na’vi, smilzi abitanti dalla pelle azzurra striata del pianeta Pandora, sono un avatar – reincarnazione - dei pellirossa dei western dagli anni 60 in poi. Ad ogni americano Na’vi richiama Navaho, la popolazione amerindia più numerosa. Nella scelta dei nomi gli sceneggiatori del film non si sono sprecati, nemmeno con l’occhiolino al pubblico più colto mettendo nome Pandora a quel pianeta ispirato un po’ a Magritte un po’ a Disneyland: Pandora, la prima donna, portò al mondo tutti i mali, mentre qui sono gli umani a portare a Pandora il vaso con tutti i mali. L’espediente dell’apostrofo in Na’vi evoca una scrittura strana, esotica, nella quale ci si può imbattere in crociera.
Il temine avatar viene dal sanscrito avatara, che significa disceso. Per l’induismo, di tanto in tanto Vishnu si incarna (discende) in corpi fisici per riportare la giustizia nel mondo (anche Gesù, in un’ottica induista, sarebbe un avatar di Dio Padre). Nell’internet English avatar ha il senso di immagine presa in prestito da un operatore.
Avatar e i western suddetti sono parte di un’Epopea hollywoodiana che chiamerei del Maschio Transfuga Etnico. La trama è sempre la stessa. Il protagonista è un uomo (mai una donna!) dai tratti fisiognomici anglosassoni che, casualmente, finisce in mezzo a quelli che per la Left sono i Buoni Selvaggi.
Ma la comunione dei Buoni Selvaggi con la natura è seriamente minacciata da maschi anglosassoni imperialisti e tecnologici, interessati solo allo sfruttamento delle risorse materiali. Anglosassoni perché, siano essi cittadini USA o semplicemente terrestri, hanno i caratteri fisici del maschio WASP (mai il cattivo potrebbe avere le fattezze di un nero o di un asiatico giallo, ad esempio). Queste facce anglosassoni incarnano l’Uomo Tecnologico, mentre la simpatia filosofica di tanti americani – educati nel segno di Rousseau e di Thoreau – va ai Buoni Selvaggi. Questi ultimi possono assumere vari avatar, possono essere eschimesi negli igloo, irakeni shiiti, afghani Pashtun, melanesiani non ancora corrotti dall’industria turistica, extra-terrestri, borgatari, ecc.
Il Transfuga Etnico poco a poco si converte alla cultura del Buon Selvaggio, tradisce il proprio paese – gli USA nella versione western, la specie umana in quella fantascientifica (per tanti americani, del resto, le due proprietà tendono a confondersi). Come fece Ezra Pound durante la Seconda Guerra: si schierò con l’Italia fascista – gli italiani gli sembravano una variante ariana e storicamente autorevole dei Buoni Selvaggi? - rischiando così, alla fine della guerra, la pena capitale per Alto Tradimento.
Di solito però il Transfuga non si limita a cambiare civiltà o specie biologica: diventa il Salvatore dei Buoni Selvaggi. Loro Leader o Duce, li conduce vittoriosi nella battaglia per sottrarsi all’egemonia dell’Uomo Tecnologico. Questa evoluzione da transfuga a Principe dei Buoni Selvaggi si annoda ovviamente ad una storia d’amore da vecchia fiaba: il Transfuga sarà amato e sposato dalla principessa dei Selvaggi. Accasarsi con una donna del luogo e convertirsi alla religione del luogo, sono i due atti capitali di integrazione in una società altra. E’ come nei bestseller ottocenteschi di Pierre Loti: qui il protagonista – un ufficiale di marina francese – viveva una volta in Turchia, una volta a Tahiti, un’altra volta in Giappone, un’altra in Senegal. In ciascuno di questi soggiorni, per prima cosa Loti si sposava con una donna del luogo. Tutti i romanzi esotici di Loti si potrebbero chiamare “I matrimoni di Pierre Loti”. Anche il filone di film che stiamo esaminando potrebbe chiamarsi Come Trovarsi Moglie dall’Altro.
In effetti, il fatto stesso di desiderare di appartenere ad un’altra cultura è esperienza intrisa di erotismo come, d’altro canto, è proprio il fatto di essere culturalmente o fisicamente molto diversa che dà alla donna “selvaggia” il suo speciale sex appeal. Scrive Tzvetan Todorov (a proposito di Loti) “Il visitatore ama il paese straniero come l’uomo ama la donna, e all’inverso. Allora, esotismo ed erotismo coincidono: la donna è esotica, il paese straniero è erotico. … La differenza tra i paesi coincide con la differenza tra i sessi …. E’ un rapporto sdoppiato, dell’uomo con la donna e dell’occidentale con il paese straniero.” In fondo, ogni esperienza erotica intensa è una fuga dalla propria appartenenza, insomma, la sessualità ha una dimensione esotica: nell’amore sessuato, l’intimità dell’altro (che mi è estranea per definizione) viene violata perché io soggetto la condivido. Nell’amore mi estraneo nell’altro, mi metto “fuori di me” nella misura in cui vengo accettato “dentro l’Altro”. Alcune persone mi confessano che, quando pensano di andare per un po’ a stare in culture lontane, avvertono un brivido molto simile a quello dell’eccitazione erotica.
Avatar, rispetto a Balla coi lupi, segni un passo in avanti verso le unioni inter-razziali. Nel film di Costner il Transfuga-Salvatore sposa un’indiana, ma, guarda caso, questa indiana è una donna anglosassone che sin dalla primissima infanzia era stata allevata dai Sioux: l’eroina indiana è bionda e alta, potrebbe essere la ragazza della villetta di fronte in un suburb bianco di una metropoli US. La barriera gametica tra le razze è rispettata. Invece Avatar ha il coraggio narrativo di congiungere sessualmente un umano con una Na’vi. L’unione sessuale tra individui di specie diverse incoraggerà i matrimoni misti.

2. Progredire verso l’Origine

In Avatar il Transfuga, un giovane anglosassone paralitico, si chiama Sully e si incarna/appare come un leggerissimo e acrobatico Na’vi. Il nome Sully ricorda sullen, una persona arcigna, litigiosa, cupa, insomma un tipico essere umano; e to sully, macchiare, insudiciare. Il suo nome umano è una denuncia dell’umanità.
I Na’vi sono rappresentati fisicamente in modo abilmente contraddittorio. Nel fondo sono esseri umani, “nostri simili”, e quel tanto di deformazione operata dal computer accentua il loro fascino. Questi titani zebrati sono alti tre metri e snelli, insomma, incarnano l’ideale corporeo dell’occidentale medio. Le differenze dei Na’vi rispetto all’homo sapiens li sospingono in due direzioni: verso il polo angelico e verso il polo bestiale. Come angeli, hanno la pelle blu: nella cultura occidentale, il blu evoca il cielo e il mare, il non terrestre. Il blu è il colore dello Spirito; se un pittore usa molto il blu, puoi scommettere che ha conati spiritualisti. Inoltre le donne Na’vi, pur simili a top models, non hanno seno, anche se portano un superfluo reggiseno. I Na’vi sono pesantemente connotati come individui leggeri, aerei – non viscidi, non carnali, non sensuali, non rossicci né grossolani. D’altra parte sono succintamente vestiti, hanno una coda che li animalizza, con cui però operano una sorta di connessione tecno-ecologica con gli altri esseri del pianeta; la coda è anche cavo da computer. Le striature della pelle li avvicinano alle zebre, animali particolarmente eleganti e mobili. Ma nel rousseauismo hollywoodiano angeli e bestie non si oppongono, anzi si identificano: le bestie sono angeliche, mentre gli angeli sono bestialmente adattati all’habitat. La Città dove i Na’vi vivono infatti è un albero immenso alto trecento metri: così la vecchia e fastidiosa opposizione tra Natura e Cultura viene risucchiata in un’armonia che fonde urbanità e forestalità. I Na’vi sono angeliche bestie, soddisfano lo sguardo con cui una parte della cultura occidentale ha guardato ai primitivi a partire da Montaigne – i suoi cannibali erano già animali nobili.
Così il cinema immaginariamente realizza il nostro sogno di essere pellirossa – in effetti, diventare selvaggi è delizioso, ma alla condizione imprescindibile di essere il loro Capo. I Buoni Selvaggi aspettano un transfuga anglosassone per essere salvati dalla minaccia anglosassone. Il marxismo hollywoodiano non è meno imperialista del conservatorismo americano, anzi, direi che lo è in modo più radicale. La tradizione conservatrice americana è centripeta, tende ad isolarsi dalle altre culture del mondo e ad isolare le singole culture all’interno degli Stati Uniti; mentre i democrats, i liberals, hanno un inflessibile progetto cosmopolitico di bonifica americanizzante del mondo. Le maggiori guerre in cui gli USA si sono impegnati da circa due secoli sono state volute da presidenti liberals o democrats: la civil war (1860-1865), la Prima e Seconda Guerra mondiale, la guerra di Corea, quella del Vietnam. Ma l’americano che, via guerra e film, vuol portare i valori che considera universali – freedom, democrazia, prosperità, uguaglianza tra uomini e donne, eguali opportunità, multietnicità, raccolta differenziata dei rifiuti – è di solito un liberal. Lo si vede bene in Avatar: il capo dei Tecnologici non si preoccupa affatto di convertire i Na’vi ai valori americani, ma solo di toglierli di mezzo per sfruttare le risorse del suolo; al contrario il transfuga-salvatore si impegna in una guerra di valori. Certo, in Avatar il Transfuga difende valori e forma di vita del Buon Selvaggio. E qui si consuma un disconoscimento essenziale: nel registro immaginario del film appare che il transfuga abbandona i valori tecnologici anglosassoni e si converte ai valori ecologici e communitarian del Selvaggio. Ma la costruzione ideale è inversa: i Selvaggi incarnano l’identità (immaginaria) anglosassone profonda, per cui il passaggio nel campo dell’Altro significa di fatto un ritorno al campo più Proprio, a ciò che viene immaginato come profondamente proprio della cultura anglo-americana. Secondo il mito di fondo acquattato nel cuore di ogni americano, in origine eravamo buoni selvaggi (anche il marxismo non è pensabile senza questa premessa rousseauiana). Ciò che narrativamente si articola come una conversione post-moderna, ermeneuticamente invece è un ritorno ad una condizione originaria, ad una arché. Perché il pellirossa – anche nella variante fantascientifica di Avatar – è l’arché, principio e inizio, sia dell’americanità che dell’umanità. Nell’Antichità si distigueva l’arché – principio, origine, comando – dal Messiah, dal Salvatore, dal compimento millenario nel futuro. Ora, il messianismo ecologista di questi film si risolve nel Ritorno all’Arché, ovvero in una comunione considerata originaria, primitiva, con la Natura. Al fondo del tunnel della Storia c’è il Ritorno all’origine – la Storia è un incubo circolare. Non si tratta di un Ritorno al Futuro – come dice la pubblicità del film – ma di un Progredire fino alle Origini. Alla fine della Storia, si torna all’Origine.
In tutti questi film il Transfuga salva i Buoni Selvaggi da un attacco preciso, violento, da parte dell’Uomo Tecnologico; ma quel che i film suggeriscono è il rifiuto, che appare implicito, della integrazione del Selvaggio nella società dominata dagli anglosassoni. Sully, Lìder màximo dei pellirossa màximo dei pellirossa, non propone ai Na’vi buoni rapporti con i terrestri adottando un ideale da Riserva indiana dove vivere pacificamente bevendo alcool, guardando la televisione, ingrassando e magari aprendo un casinò (alcune Riserve indiane oggi approfittano del privilegio di poter aprire casinò e bische in stati dove è proibito). L’integrazione si risolve, quasi sempre, nella distruzione della cultura primitiva e nello sciogliersi degli individui ex-selvaggi nella società tecnologica, anche se spesso da marginali. Questi film, invece, implicano un ideale auto-segregazionista.
Ma il segregazionismo è tipico di certa destra conservatrice, la quale proclama proprio di voler tutelare la diversità tra le culture impedendo il melting pot. Molti teorici dell’apartheid si ponevano come corifei e custodi delle culture nere, denunciavano “l’entropia” prodotta dalla mescolanza tra razze e valori, esaltavano specificità e dignità delle singole culture autoctone. Per cui, sul piano politico, l’idealità liberal si trova stretta sempre in una morsa da cui ne esce malconcia: da una parte rivendica la differenza originaria del Buon Selvaggio, ma allora di fatto avalla una strategia segregazionista; d’altra parte si fa paladina dei diritti degli (ex)Selvaggi nella società dominante e predica l’accesso dei primi ai beni della seconda, ma allora di fatto partecipa alla disgregazione della cultura selvaggia e alla proletarizzazione dei loro individui. Qualsiasi cosa faccia, la sinistra sbaglia. Perciò si consola col cinema americano.

3. District 9

Una descrizione dell’Altro meno caramellosa sembra proposta dal film District 9 di Neill Blomkamp. Qui gli extra-terrestri, finiti in Sud Africa, sono umanoidi fisicamente alquanto repellenti, il loro volto pieno di tentacolini li fa assomigliare a polipi, gli umani li chiamano Prawns, Scampi (nome anche, nella realtà, di un grosso insetto tipico dei suburbi di Johannesburg). Benché gli Scampi parlino inglese, la loro natura animale è confermata dal fatto che, sulla terra, amano mangiare cibo in scatola per cani e gatti. Ovviamente, nessuna femmina di Scampo viene indicata, nel film, come possibile amante o moglie di un anglosassone o di un afrikaner.
Provenienti dal cielo, questi “crostacei” sono anche angeli. Sono arrivati in Sud Africa con una grossa astronave vetero-tecnologica, che puzza di ferraglia come certe macchine farraginose inventate da Jean Tinguely. Finiscono tutti in apartheid in un ghetto di Johannesburg (Discrict 6 era un ghetto nero al tempo dell’apartheid). Anche loro sono un avatar dell’Altro in chiave fantascienza, ma non come figure immaginarie di un sogno hawaiano, bensì come metafora delle masse di neri che affollano i suburbi degradati di tante metropoli.
Abbiamo anche qui un Transfuga anglosassone, ma non per una scelta di conversione: per una mutazione del tutto accidentale, un burocrate perde poco a poco le sue forme umane per diventare anche lui, a tappe, uno Scampo. Sfidando i rigori di Susan Sontag (Against Interpretation), possiamo leggere la sua storia come allegoria della proletarizzazione di un funzionario bianco, che finirà in una township degradata. A differenza di Avatar, dove il transfuga sully passa dalla grigia realtà tecnologica ad un mondo di sogno, qui il transfuga passa dal benessere tecnologico all’iperreale miseria sotto-proletaria. Apologo morale: “Non trattare male i poveri e i derelitti, perché anche tu potresti diventare, un giorno, povero e derelitto!”

4. Wall-E e i Piedi Gonfi

Mi sono annoiato meno durante un film di cartoni animati, Wall-E della Pixar Animation Studios. Qui l’incontro avviene con l’alterità più vicina e allo stesso tempo più lontana dall’umanità: la macchina. La macchina infatti è un prodotto dei progetti umani, ma la sua non-soggettività la proietta alla massima distanza dal post-cartesiano “soffro, dunque sono”.
Il protagonista è una macchina “proletaria”, Wall-E. E’ un robot nel senso etimologico del termine, in ceco lavoratore: lo sterminato lavoro di Wall-E, unico abitante della Terra, consiste nello stoccare senza posa l’ammasso di detriti e spazzature che hanno invaso il pianeta, ridotto a waste land. La terra intera è una Ghost Bidonville vetero-industriale.
Gli esseri umani - da secoli fuggiti dal pianeta avvelenato - vivono in un’asettica astronave a grande distanza dalla terra-pattumiera. Gli umani sono ormai tutti abulici ciccioni che passano il loro tempo su sdraio a rotelle a metà strada tra i triclini romani e le carrozzelle degli storpi, non fanno altro che mangiare e chiacchierare; hanno perso l’uso delle gambe, si spostano sulle sdraio mobili, serviti da una miriade di robot luccicanti. Mentre la macchina lavoratrice ha i piedi per terra, è proprio il caso di dirlo, gli esseri umani scioperati sono tutti “edipici” nel senso etimologico del termine, edipos (piede gonfio), insomma non usano mai i piedi.
Gli umani infingardi mandano di tanto in tanto una sonda sulla terra per vedere a che punto sta il pianeta. Quando il single Wall-E incontra una di queste sonde prodotto della tecnologia più avanzata, pare innamorarsene. In effetti la sonda, dalle fattezze e ritrosie squisitamente femminili, si chiama Eve, Eva o Vigilia. Il buffo e patetico Wall-E, Adamo all’inverso, ricorda Buster Keaton - difatti non ride. Il suo incontro con Eva nella sua povera capanna da favela ricalca le scene famose di The Gold Rush di Chaplin, quando il cercatore d’oro sogna di accogliere nella sua stamberga la bella della colonia. In effetti, possiamo commuoverci per il destino di macchine quando le loro connotazioni sessuali ci rendono possibile l’empatia (bisogna ricordarglielo a Vittorio Gallese). Lui ed Eva insieme andranno sull’astronave degli umani per convincerli che la terra non è più invivibile come un tempo, che quindi potrebbero farvi ritorno. Lieto fine obbligatorio: le macchine buone (perché ci sono anche macchine cattive, che vorrebbero restare nell’astronave) convinceranno gli umani rammolliti a ritornare nel loro luogo di origine, recuperando quindi – nel contatto con la madre-terra – l’uso di gambe e piedi. Indubbiamente è più facile identificarci alle macchine simpatiche e sveglie che agli umani poltroni e fatui.
Wall-Adam e Eve riusciranno a sovvertire l’apatica routine della vita astrale trovando come alleati alcune macchine rotte, sfuggite da una officina per riparazioni – l’equivalente dell’ospedale psichiatrico per le macchine, insomma. Una variante fantascientifica di Qualcuno volò sul nido del cuculo.
Il messaggio messianico è chiaro: la Salvezza per l’umanità è tornare ad avere “i piedi per Terra”. Ma paradossalmente i transfughi Salvatori sono proprie le macchine costruite dagli umani per servirsene, purché queste macchine siano un po’ disfunzionali, sgangherate o difettose.

5. Amare le macchine

Questa riabilitazione emancipatoria delle macchine certo è in linea con l’incessante campagna missionaria in cui gran parte del cinema hollywoodiano – e della cultura americana in genere – si è impegnata da decenni: esaltare tutti gli handicappati, fisici mentali o sociali. Questo è il messaggio insistente, allettante dell’entertainment americano: mostrare che ogni inferiorità è relativa, che essa da altri punti di vista può essere vista come un vantaggio o addirittura come una superiorità. E’ il messaggio morale lanciato da quasi tutti i libri, così fortunati, di Oliver Sachs. Così il cinema americano ci propone come eroi a cui identificarci malati mentali, spastici, sordomuti, affetti da sindrome di Down, poveri del terzo mondo, omosessuali, extra-terrestri, transessuali, carcerati, obesi, vecchi, ciechi – persino i morti. Alcuni film famosi, come The Sixth Sense e The Others, ci fanno vedere le cose dal punto di vista di morti che non sanno di essere tali, ma a cui ci identifichiamo - anche i morti dovrebbero godere di diritti civili. La massima alterità rispetto a noi – l’esser morto – è per noi appropriabile, per noi appropriata, possiamo identificarci ai morti. Facendo delle condizioni anche più raccapriccianti un grande Show da vendere ovunque, la carità diviene divertimento di massa.

Ma la riabilitazione dell’altro inferiore-a-me è solo una parte dell’alterità che la cultura americana – cinema in testa – vuole assimilare, integrare: nell’insieme, occorre riappropriarsi dell’altro diverso-da-me. Mi chiedo se il grande successo della cultura popolare US nel mondo dipenda solo dalla professionalità dei suoi artefici, o non dipenda anche dal messaggio etico-politico che essa invia continuamente (e che contrasta con lo scetticismo blasé della cultura europea): il messaggio universalista grazie a cui ogni alterità va riappropriata. Che insomma, l’Altro non è mai veramente alieno, è sempre qualcuno che potrei essere o sarò. Il cinema americano è una formidabile macchina edificante, come lo furono, a suo tempo, l’arte cristiana del Medioevo o il realismo socialista dei paesi comunisti. La missione educativa è una totale riappropriazione dell’Altro come diverso-da-me. Insomma, predica l’annullamento finale dell’alterità dell’Altro.
Questa riappropriazione del diverso-da-me da qualche anno ha toccato un limite: riconoscere anche la macchina come “mio simile”. Già Spielberg aveva tentato questa audace scalata etico-cognitiva con AI (Artificial Intleligence), ma con scarso successo. Wall-E ci riesce meglio. Credo che in futuro vedremo sempre più film e leggeremo sempre più romanzi in cui dovremo identificarci alle macchine e odiare gli esseri umani, soprattutto anglosassoni.
Questa umanizzazione della macchina è favorita certo da una mutazione culturale: dal prestigio crescente delle neuroscienze, delle scienze cognitive, dell’AI e della simulazione su computer. Ci si convince sempre più che l’essere umano va pensato nei termini già proposti nel Settecento da La Mettrie: come macchina. Dobbiamo considerarci tutti macchine di Turing, e che tutto ciò che ammiriamo come angelico negli umani – a cominciare dalle persone che amiamo di più – è effetto di meccanismi. Occorre educarci all’idea che la nostra supposta libertà è il modo in cui si implementano dei meccanismi. Il cinema più potente del mondo prende così due piccioni con una fava: da una parte estende la riappropriazione dell’Altro fino ai più schiavi tra gli schiavi, le macchine (non si tratta più di emancipare gli schiavi dal loro essere usati come macchine, ma di emancipare le macchine dal loro essere usate come schiavi), dall’altra ci abitua alla verità che noi stessi siamo macchine, anche se alquanto complesse e difettose. Gli sforzi per renderci le macchine amabili – quanto o più degli esseri umani – obbediscono quindi al progetto fondamentale di rendere noi stessi, umani, amabili anche in quanto macchine, anzi, proprio in quanto macchine.
Ma persino quando l’imperialismo morale americano si tende fino all’estremo limite – promuovere la dignità della macchina –, una certa noia trapela. La noia è il segnale affettivo che non ti si dà nulla di reale – il reale appassiona o sconvolge o terrorizza, ma non annoia. In altre parole, questa colonizzazione riappropriante dell’Altro manca la vera alterità dell’Altro.
Esistono dunque due poli di ciò che di solito vien chiamato Altro. Uno è l’Altro appunto come Buon Selvaggio, di fatto il nostro Ideale: ciò che arcaicamente, come arché, eravamo, ed è ciò che dovremmo essere e probabilmente in un giorno radioso ri-saremo. E’ un Altro che in realtà non ha mai cessato di essere la nostra proprietà più originaria, ciò che propriamente siamo, e di cui occorrerà riappropriarci. L’altro polo, invece, è quel che Derrida (2001, p. 90-1) aveva chiamato “ciò che viene”, l’arrivance. E’ l’incalcolabile, l’imprevedibile, l’indecidibile, l’evento, qualcosa di assolutamente impensabile e inaccettabile che ci obbliga a mettere in questione tutto ciò che consideravamo umano o non, buono o cattivo, possibile o impossibile. “’Quel che viene’ eccede un determinismo ma eccede anche i calcoli e le strategie della mia padronanza, della mia sovranità o autonomia”. E’ il non-pre-visto da ogni convinzione e Weltanshauung, e che proprio per questo “ci cambia la vita”. Mi pare che tutta l’elegia rousseauiana e liberal della riappropriazione dell’Altro - di cui il cinema si fa megafono - sia uno sforzo per liberarci dall’orrore per questo Altro “che viene”.
L’alterità che scuote emerge invece quando un essere umano o non umano manifesta qualcosa di assolutamente inaccettabile. Certo, si tratta di individui o eventi inaccettabili per me, ma questa inaccettabilità per me – chiunque sia questo me – è l’esperienza privilegiata di contatto con l’Altro reale. E’ il fatto che qualcosa non solo di inaspettato, ma in fondo di impensabile, arrivi o accada. Il senso dell’ospitalità è messo a dura prova non quando arriva un ospite inatteso, ma quando l’ospite è tutt’altra cosa da quel che ci si attendeva come ospitabile. Allora l’Altro è veramente l’arrivance che vorremmo eliminare dalla faccia della terra, è la patologia assoluta, il mostruoso, tutto ciò contro cui abbiamo passato la vita, e anche più della vita, a batterci. O all’inverso, l’Altro è la Rivoluzione impensabile, inattesa. L’Altro filosoficamente e politicamente interessante non sono i malinconici Na’vi che abitano un pianeta da favola, i patetici extra-terrestri di District 9 con la voce da trombone, e nemmeno le macchine proletarie ispirate ai classici del cinema muto: è la presenza indigesta, e spesso prevalente e vincente, dell’orrore. Solo di rado il cinema americano osa metterci a contatto con il vero orrore, quello che gli esseri umani non mancano, direi ogni giorno, di darcene occasione. L’orrore della banalità del Male, lo shock di una differenza indigeribile.

Benvenuto, S. (2008) “Il fantasma del relativismo”, MondOperaio, marzo aprile 2008, pp. 62-73. “Unter Kannibalen. Menschenfresser bei Montaigne”, Lettre International, 69, Sommer 2005, pp. 64-69.

Derrida, J. (2001) De quoi demain… Dialogue avec E. Roudinesco (Paris: Flammarion)

Sontag, S. (1994) Against interpretation (London: Vintage)




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