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I.S.A.P. - Istituto di Studi Avanzati in Psicoanalisi

Dirigere una rivista senz’anima
Saggio didattico per: 17, Instituto de Estudios Criticos (Ciudad del Mexico)

Sergio Benvenuto



Quando nel 1995, il gruppo di amici e colleghi di cui faccio parte pubblicò il primo numero di Journal of European Psychoanalysis. Philosophy Humanities Psychotherapies, ci facevamo poche illusioni: una rivista del genere non aveva spazi commerciali, in nessun paese. Non certo per mancanza di collaboratori e autori di altissimo livello. In 25 numeri, fino ad oggi, abbiamo pubblicato testi di personalità di richiamo internazionale, come G. Agamben, N. Braunstein, C. Castoriadis, J. Cremerius, J. Derrida, F. Dolto, R. Girard, H. Kächele, O. Kernberg, J. Kristeva, J. Laplanche, S. Leclaire, J.-F. Lyotard, R. Major, I. Matte Blanco, J.-L. Nancy, M. Perniola, P. Roazen, R. Rorty, E. Roudinesco, J. Searle, F. Varela, G. Vattimo, J.-P. Vernant, P. L. Wachtel, Y. H. Yerushalmi, S. Žižek, etc. L’eccellenza della rivista ci è ovunque riconosciuta. Ma è un’ingenuità credere che sia solo la qualità dei collaboratori e degli scritti a fare il successo di una rivista.

1.
Una rivista, almeno in Occidente, può avere molti abbonati e quindi essere prospera essenzialmente in due casi:
(1) Rivista corporativa: quando è espressione ufficiale di un’istituzione, di una associazione o di una corporazione.
(2) Rivista militante: quando viene assunta come riferimento di identificazione intellettuale precisa da parte di un gruppo specifico – e sufficientemente ampio - di persone.
Rivista corporativa. Se, per esempio, la Società Messicana Odontoiatri decide di pubblicare un periodico per dentisti, gran parte degli iscritti alla Società degli odontoiatri si abbonerà alla rivista. Non importerà molto la qualità scientifica e grafica della rivista: essere abbonati alla “propria” rivista sarà un atto dovuto di lealtà, come pagare la quota annuale alla Società. Questo vale anche per le riviste psicoanalitiche, di solito espressione di qualche istituzione. Ovviamente la rivista può essere comprata anche da persone esterne – alcuni numeri speciali possono interessare un pubblico extra moenia – comunque questa rivista avrà la vita assicurata.
Sin dall’inizio, JEP si è esclusa questa possibilità. Essa nasceva con un programma temerario: non essere l’espressione di nessuna associazione o scuola o tendenza psicoanalitica in particolare. Inoltre, si voleva sin dall’inizio una rivista interdisciplinare, rivolta insomma a persone che frequentano le intersezioni tra psicoanalisi, filosofia, arte, letteratura, saggistica, storia… Ben poche biblioteche di dipartimento universitario sarebbero state spinte ad abbonarsi ad una rivista che sfugge alle divisioni e suddivisioni accademiche!
Ma JEP ha voluto rinunciare anche alla possibilità di essere una rivista militante. La sfida era di affermare JEP unicamente sulla base della qualità dei paper pubblicati. Una pretesa risibile, perché non c’è nulla di più relativo del concetto di “qualità” di uno scritto. Torneremo su questo punto.

2.
Innanzitutto JEP voleva sfuggire al format che oggi definisce una “buona rivista di psicoanalisi”. Questo format del paper good enough è di fatto ripreso da quella che una volta si chiamava psicologia e che oggi si chiama scienze cognitive, e consiste nello scrivere qualsiasi articolo seguendo questo modulo:
- Presentare in breve e per sommi capi la tesi che verrà esposta nell’articolo.
- Quindi fare una rapida rassegna delle tesi psicoanalitiche più importanti su questo argomento citando (in ordine per lo più cronologico) un certo numero di autori: si comincia quasi immancabilmente con S. Freud, e poi, venendo rapidamente verso l’oggi, si dedicano poche righe a ciascuna delle tesi più recenti degli analisti (di solito anglo-americani) più affermati nell’IPA (questa processione storica sottintende un giudizio preciso sull’evoluzione della psicoanalisi: cominciata in ambiente austro-tedesco, e poi via via, sempre più, affermatasi come una disciplina squisitamente anglo-americana).
- Quindi si passa a tratteggiare la propria tesi presunta originale.
- Seguono poche paginette che presentano uno, o più spesso, due casi clinici, abbozzati in forma succinta: “vignette cliniche”, episodi più o meno salienti che darebbero consistenza alla tesi precedentemente sostenuta.
- Nella conclusione si riassume la tesi che il paper nel suo insieme vuole sostenere.
Questo format, uguale per quasi tutti i papers, mi ricorda quello di certi fortunati serials televisivi americani, come Colombo: ogni episodio segue una formula rigida, è in fondo sempre lo stesso film, anche se ripetuto con personaggi diversi e variazioni secondarie. In certi serials, ogni puntata doveva finire con una bella risata generale del gruppo; ecc. Gli articoli delle riviste psicoanalitiche prestigiose sono come serials: un solo Iper-paper che si ripete secondo le variazioni più eterogenee, ma che resta sempre la stessa cosa. Eppure i grandi maestri riconosciuti della psicoanalisi – S. Freud, A. Freud, M. Klein, W.R. Bion, ecc. – non seguivano affatto questo modulo. Non nego che, di tanto in tanto, venga pubblicato qualche articolo eccellente secondo questo format, comunque JEP ha voluto evitare questo criterio di conformità.
Questo format del saggio standard nasce dal desiderio di dare alla psicoanalisi una rispettabilità scientifica: siccome nessuno crede più che la psicoanalisi sia una scienza “seria”, perché non segue i protocolli oggi indispensabili affinché una ricerca sia riconosciuta scientifica, allora si ricorre alla forma della pubblicistica scientifica. Come se la forma potesse sostituire la carenza della sostanza (scientifica). Ma JEP non ha alcuna pretesa di scimmiottare le scienze. Ha solo quella di introdurre idee nuove.

3.
JEP non si vuole solo una rivista che mescola le scuole e le tradizioni: mescola anche autori di aree linguistiche e culturali diverse. Abbiamo avuto collaboratori e co-owners, oltre che italiani, inglesi, francesi, austriaci, svedesi, ungheresi, russi, statunitensi, messicani, brasiliani, argentini. Bisogna quindi fare i conti anche con le specificità “etniche”. Ogni area culturale ha la sua Stimmung, i suoi pregiudizi, i suoi partis pris; e l’inevitabile etnocentrismo fa pensare a ciascuno che il suo modo di fare una rivista – e la psicoanalisi - è quello giusto.
Ad esempio, in alcune culture si rigetta come obbrobrioso l’editing di un paper, che i redattori propongano tagli e modifiche. Per certi autori – che appartengono di solito a culture latine – si tratta di mera censura. Questi autori vedono ogni scritto come l’espressione squisita del “genio” individuale, che non tollera il minimo aggiustamento. Essi non pensano a una rivista come a un’opera collettiva, in cui il contributo dell’uno va aggiustato a quello degli altri, come accade quando si gira un film, ad esempio. La poesia lirica, non un prodotto industriale come il cinema, resta il modello di produzione creativa per molti intellettuali.
Ad esempio, bisogna tener conto del fatto che i latino-americani sono tendenzialmente ostili a tutto ciò che di culturale viene dagli Stati Uniti: per loro la cultura dei gringos è solo economia, business e hard sciences, mentre la vera cultura - umanistica, filosofica, politica, artistica, psicoanalitica - è europea, ovvero ispanica, francese, britannica, germanica, e latino-americana. E’ talvolta difficile far capire loro che invece, in molti paesi europei, si pensa l’inverso: che il fulcro mondiale della cultura – anche filosofica, storica, filologica, politica, psicoanalitica, ecc. – sia anglo-americana. Questi presupposti inversi creano una certa confusione delle lingue tra europei e latino-americani.
Quanto ai francesi, molti di loro continuano a pensare che Parigi e la lingua francese esprimano quel che c’è di culturalmente più alto al mondo. Molto spesso, ci mandano un loro saggio in francese, e quando lo si accetta e si chiede loro di tradurlo in inglese – dato che la lingua di JEP è l’inglese – si rifiutano o addirittura si offendono. Pensano che tradurre il loro testo in inglese sia onere del Journal, non il proprio. Per costoro, è come se uno scrittore di lingua inglese dovesse pagare la traduzione in bulgaro o in lituano di un suo scritto.
Molte persone di vari paesi pensano che valga la pena pubblicare solo in riviste del JCR, ovvero con un forte impact factor. Se JEP non è rivista ISI (riconosciuta dall’Institute for Scientific Information), allora non vale la pena pubblicarvi.
Con gli italiani al di sopra dei 45 anni c’è un problema diffuso: se conoscono una lingua straniera, è piuttosto il francese, non l’inglese. L’italiano colto che ignora l’inglese tende a vantarsene anche pubblicamente (perché l’inglese è “lingua delle masse”). L’Italia è un paese che ha una posizione eminente in vari campi – moda, design, cucina, scuole materne, alcuni sport (calcio, Formula1), produce buona letteratura e importanti filosofi – ma, ahimé, non in psicoanalisi. Il problema degli intellettuali (anche analisti) italiani è che di solito fanno riferimento culturale a tre essenziali aree linguistiche: l’anglo-americana, la francese e la germanica. Si tratta di tre filoni che difficilmente comunicano tra loro: alcuni italiani leggono quasi solo autori anglo-americani, altri solo francesi, altri essenzialmente di lingua tedesca. Oggi c’è forse una confluenza tra il filone “francese” e quello “tedesco”. Insomma, la cultura italiana non è unificata: tende a dipendere da “capitali” straniere, e ciascuno guarda solo alla propria Capitale.
Inoltre, l’Italia è uno di quei paesi che non ha ancora assimilato il politicamente (e sessualmente) corretto. Ad esempio, in molti paesi è impensabile che un numero intero di rivista, o qualsiasi altra iniziativa scientifica o culturale, non includa qualche signora; nel mondo anglo-americano, anzi, la norma è che a qualsiasi cosa partecipino metà donne e metà uomini. Invece in Italia anche riviste dirette da donne possono pubblicare un numero di soli uomini! E quando si fa notare loro che questo non si fa, si irritano: “non invitiamo sulla base del sesso, ma della qualità” rispondono indignati. Ma non sanno che questo non è ammissibile nei circoli buoni.
E la lista delle specificità etnocentriche potrebbe continuare a lungo.

4.
Ma come valutare la qualità delle idee nuove? La qualità di un testo viene valutata all’interno della disciplina o della scuola specifica in cui quel testo rientra. Un paper di chimica può essere considerato ottimo, passabile o pessimo solo all’interno di una comunità di chimici specializzati in una determinata area. In altre parole, il criterio del “buon paper” dipende dalla comunità scientifica di riferimento. Allora: esiste una comunità psicoanalitica di riferimento?
La mia risposta è NO. Così come in fondo non esiste una comunità filosofica di riferimento: prova ne sia che filosofi appartenenti a filoni diversi – ad esempio, filosofia analitica, decostruzionismo, filosofia della scienza, teologia, ecc. – si ignorano reciprocamente. Di solito non vanno agli stessi congressi, non pubblicano nelle stesse riviste, nemmeno più nelle stesse case editrici, ecc. I filosofi si riconoscono come colleghi, ma non come membri di un’unica comunità.
La psicoanalisi – più della filosofia - è da tempo divisa in alcuni grandi filoni (anche se talvolta assistiamo a rimescolamenti delle carte), che molto spesso si ignorano a vicenda. Ciò che è “un ottimo articolo” in un filone, è irrilevante nell’altro, e viceversa. Abbiamo l’Ego Psychology (forte soprattutto negli USA e in Germania), la Self Psychology (nata in USA), il kleinismo e la cosiddetta object-relations theory (di origine britannica), il lacanismo e la psicoanalisi “decostruzionista” ispirata a Derrida (di origine francese, ma diffusa nel mondo latino-americano), le psicoanalisi culturaliste (che si rifanno alla Horney, Sullivan, Fromm), il filone “narratologico” e “relazionale” (Stolorow, Mitchell, Renik, ecc.), le gruppo-analisi (Foulkes, Kaës, Napolitani). Ai confini della psicoanalisi, possiamo aggiungere scuole importanti come la psicologia analitica junghiana, i metodi che si ispirano a W. Reich, la Daseinsanalyse binswangeriana, gli approcci sistemico-relazionali (molto diffusi in Italia), ecc. Oltre queste, che chiamerei Grandi Scuole, abbiamo un numero enorme di scuole o indirizzi, a impianto locale o geograficamente trasversali, che combinano alcuni di questi filoni, In Italia, abbiamo tantissime combinazioni, le si potrebbe persino dedurre a tavolino secondo una combinatoria: abbiamo scuole bioniane-kohutiane-sullivaniane, frommiane-reichiane-sistemicorelazionali, lacaniane-basagliane-culturaliste, junghiane-fenomenologiche-complessiste, ecc. ecc. E in altri paesi la combinatoria è anche più variegata e fantasiosa. Insomma, molto semplicemente, non esiste una comunità psicoanalitica vera e propria. Se non in senso molto lato, come tra artisti, musicisti o scrittori.
Possiamo parlare di una comunità scientifica quando essa pratica quella che T.S. Kuhn (1962; 1977) chiamò scienza normale. Per Kuhn, ogni scienza può attraversare una fase straordinaria, in cui si compiono grandi rivoluzioni al proprio interno. In fisica, la nascita della meccanica classica con Galileo contro la fisica aristotelica e quella dell’impetus, segnò una fase di scienza straordinaria: si trattava di ridefinire completamente il paradigma attraverso cui pensare il mondo materiale, e su questo allora “i fisici” erano profondamente divisi. Altre fasi straordinarie si produssero con l’irruzione della teoria della relatività di Einstein e l’elaborazione della meccanica quantistica. Per Kuhn però una scienza, per progredire, non può essere una serie ininterrotta di rivoluzioni: per periodi più o meno lunghi dobbiamo avere la “scienza normale”, e quindi una comunità scientifica consolidata. All’interno della scienza normale ci possono essere divergenze, alcune teorie possono rivaleggiare, ma nel fondo tutti gli scienziati riconosciuti dalla comunità – oggi, quelli che pubblicano nelle riviste ISI, con forte impact factor - condividono alcuni presupposti di base, l’ABC della disciplina, insomma, hanno un paradigma comune. I giovani scienziati si formano non sui testi originari degli artefici delle grandi teorie affermate, ma su manuali – aggiornati ogni 5-10 anni – che trasmettono quel che, in ogni disciplina, bisogna prendere per vero e garantito. Nelle scienze, contrariamente a quel che si pensa, non ci deve essere molto spirito critico.
Quanto alla psicoanalisi, il progetto di un paradigma comune – quello freudiano – è venuto ben presto meno: abbiamo avuto presto varianti junghiane, adleriane, e poi reichiane, ferencziane, kleiniane, culturaliste, ecc. La psicoanalisi non è mai diventata veramente una scienza normale, quindi, non è mai stata scienza. Gli epistemologi dicono che essa di fatto svolge una funzione non scientifica, tutt’al più euristica. Essa vive sempre in uno stato straordinario: le varie scuole non solo, cioè, dissentono su alcuni punti più o meno importanti, ma addirittura su quel che si deve considerare realmente psicoanalisi oppure no. C’è allora la forte tentazione di considerare i colleghi delle altre scuole degli pseudo-psicanalisti che fanno qualcosa d’altro che la psicoanalisi, se non dei cialtroni. Quante volte ho sentito amici analisti dire, quando si parla di scuole del tutto diverse, “ma quella è psicoanalisi?!”

5.
Allora, che senso aveva imperniare una rivista su “saggi di qualità”? Come giudicare della qualità di un paper al di fuori di una comunità intellettuale e scientifica con un paradigma condiviso? Che senso ha pubblicare nello stesso numero più autori noti, stimati nel loro specifico ambito, quando magari costoro si disprezzano reciprocamente e sono del tutto disinteressati a quel che fanno gli altri pubblicati nello stesso numero?
La risposta è imbarazzante: JEP ha fatto una scelta drasticamente aristocratica. Il richiamo all’aristocrazia – ovvero ai migliori, ?ριστοι - ha un odore di passatismo anacronistico, in un’epoca di egemonia degli ideali democratici. Ovvero, JEP non adotta i criteri di una singola scuola, ma quello dell’eccellenza individuale. In effetti, dire che la psicoanalisi è una disciplina “straordinaria” equivale a dire che essa è “sull’orlo del Caos” – i fisici direbbero che essa è “lontana dall’equilibrio”. Essa è oggi un gran crogiuolo da cui può venire il meglio o il peggio, il suo rilancio storico o la sua morte. Anziché quindi rinchiudersi nella logica delle scuole, noi proprietari – co-owners – di JEP ci siamo scelti non sulla base della fedeltà ad una teoria o ad un filone, ma sulla base della stima personale. Un criterio di affinità elettive alla Goethe.

Questo non implica affatto che aborriamo le scuole! Le scuole sono indispensabili. Esistono ottime scuole – come Harvard, Stanford, Oxford – che formano le classi dirigenti in ogni campo, ed è bene che sia così. Come sono inevitabili le scuole di mezza tacca, insomma per i poveri (economici e intellettuali), che formeranno la massa dei “lavoratori di concetto”. Che piaccia o meno, le scuole si situano secondo una gerarchia di prestigio e qualità. Anche in psicoanalisi ci vogliono scuole – benché non tutte possono essere ottime. Probabilmente scuole e gruppi psicoanalitici non sfuggono alla terribile legge di Pareto, ovvero dell’”80-20”.
Contro questa stratificazione, il modello ideale di ogni scuola democratica fu stabilito negli anni 60 da un prete rivoluzionario italiano, don Lorenzo Milani. La sua Scuola di Barbiana è divenuta celebre in tutto il mondo. Il principio era che, in una classe, si va avanti solo quando l’ultimo della classe ha finalmente appreso quel che c’è da imparare. I più bravi sono chiamati a darsi da fare per aiutare gli ultimissimi ad accedere al sapere. Questo non deve far pensare affatto che la scuola elementare di montanari che don Milani dirigeva fosse per questo di basso livello, anzi.
Ora, sin dall’inizio JEP, non volendosi un organo o uno strumento di scuola, ha scelto una logica diversa: non di scuola ma, direi, di dopo-scuola.
La nostra idea era piuttosto fare qualcosa come i festival d’arte importanti, tipo la Biennale di Venezia o di Kassel, o le mostre ai Centri Guggenheim – oppure, per il cinema, i festival di Cannes, Venezia, Berlino. Ambire ad essere una rivista che si riserva di pubblicare il meglio. Ma ci risiamo: che cosa significa, in arte come in psicoanalisi, “il meglio”?
Ammettiamo tutti che “esporre il meglio” non implichi sposare una singola linea artistica – il prestigio dei festival di Venezia, Kassel o le mostre dei Guggenheim deriva proprio dal fatto che non si fanno paladini di una singola corrente artistica, ma cercano – certo, secondo scelte che saranno sempre contestabili – di dare un’immagine alquanto completa di quel che si fa “di importante” in arte nel mondo, oggi. Ma qual è il criterio dell’”importanza”? Non è ogni indirizzo critico o artistico matrice e giudice dei criteri stessi per cui un artista è giudicato importante?
Eppure tutti sentiamo che certi festival o musei sono i migliori: che essi davvero finiscono con l’esibire se non tutto quel che c’è di meglio nell’arte, comunque una buona parte. E perché questo non sarebbe possibile anche in psicoanalisi? Perché i giudizi sulle psicoanalisi e le psicoterapie restano invece irreparabilmente “relativisti”, cioè “di scuola”?
Sarebbe velleitario voler stabilire dei criteri oggettivi, universali di “buona qualità” in arte come in psicoanalisi. Eppure, quasi tutti riconosciamo ad alcuni conoscitori d’arte, ad esempio, un’indubbia capacità nel valutare le opere. Anche in psicoanalisi e psichiatria: molto spesso sentiamo qualcuno apprezzare un collega di una scuola del tutto diversa. Che cosa ci porta a pensare che il collega X, malgrado la divergenza teorica di fondo con noi, è bravo? Perché possediamo una tabella statistica sui suoi successi terapeutici? Nessuno dispone di queste tabelle sui colleghi. E del resto, anche i criteri di “successo terapeutico” variano da scuola a scuola (quel che per una scuola è una formidabile guarigione, per un’altra invece può essere un flop). Alcune scuole, anzi, non adottano il criterio del successo terapeutico come metro di valutazione di un’analisi – preferiscono parlare di “maggiore autenticità”, di “capacità creativa”, di “soggettivazione”, di “maturazione”, ecc. Ma allora, che cosa ci strappa l’elogio nei confronti di colleghi da cui dissentiamo? O al contrario, dire di qualche altro “è membro della mia stessa associazione, ma non vale nulla!” Quale criterio pratico – e tacito – di valutazione viene di fatto adottato che si sovrappone al criterio formale, che viene così (in parte) smentito?
Sentiamo che certi critici o storici dell’arte – anche se non condividiamo certi loro giudizi – colgono qualcosa nelle opere che altri non riescono a cogliere. Gli altri restano al livello esplicito, ovvio, dell’opera: lo stile, l’iconografia, le tecniche. Ma sentiamo che il vero intenditore legge in filigrana qualcosa che di solito è difficile verbalizzare, e che riguarda l’unicità del quadro o della scultura, del palazzo o del film. Egli ha contatto con quel qualcosa che ci commuove, che emerge aldilà dell’ovvietà delle maniere e dei linguaggi, che si impone ai nostri occhi o alla nostra vita come una presenza che conta.
C’è un criterio empirico per cui riconosciamo che qualcuno è “competente”: quando sa distinguere ciò che il profano non riesce a distinguere. Il vero esperto è chi sa cogliere più differenze. Se qualcuno dice “tutte le canzoni arabe mi sembrano eguali”, possiamo esser certi che costui non capisce nulla della musica araba. Capire si manifesta come forza discriminativa. Un buon intenditore di vini sa distinguere due vini che a un palato poco educato appaiono identici.
In psicoanalisi è forse la stessa cosa: il vero insight clinico consiste nel cogliere la radicale differenza che ogni caso rappresenta rispetto a qualsiasi altro. Il cattivo analista tratta tutti i soggetti allo stesso modo, ritrova sempre gli stessi meccanismi, usa sempre le stesse parole, un paziente sembra eguale all’altro, nulla si staglia come saliente, irripetibile... Potremmo dire che una buona clinica è quella che non fa rientrare il particolare nel generale, ma al contrario, parte magari dal generale per far emergere il particolare nella sua singolarità, ovvero nella sua differenza rispetto a tutto il resto.
In fondo, i soggetti che cercano una psicoanalisi piuttosto che una terapia cognitiva o farmacologica, sono persone alla ricerca di uno straccio di reale. Non si accontentano di star meglio o di adattarsi felicemente alla realtà, ma vogliono sapere. Che cosa? Mi verrebbe da dire: la differenza che essi sono ma che non possono pensare.
Questo criterio – la capacità di distinguere, fino a cogliere l’assoluta differenza della singola opera, del singolo individuo – è quindi applicabile anche alla psicoanalisi. Criterio di valutazione di contributi individuali, non di scuola, appunto. Perché, come voleva don Milani, la scuola, se è democratica, tende a livellare: cerca di accorciare la distanza tra i migliori e i peggiori (magari cercando però di portare verso l’alto la media della scuola). Le valutazioni individuali valorizzano invece esclusivamente contributi idiosincratici, squisitamente singolari. Al limite inclassificabili, marginali, nomadici.

6.
Mi rendo conto quanto sia difficile – forse disperato – il progetto di fondare una rivista e un gruppo di clinica al di fuori dei linguaggio delle scuole, quando nella psicoanalisi di fatto esistono quasi solo scuole tra loro più o meno separate. Qualche amico mi dice, malignamente, che voglio evadere dalle scuole perché i miei due genitori erano insegnanti. Sin da bambino, sono stato impregnato di scuola.
Comunque JEP, proprio perché non è espressione di una scuola, deve continuamente confrontarsi con le scuole. E non tutte sono dello stesso tipo.
Possiamo distinguere almeno tre tipi di scuole, sulla scia della tripartizione dei tipi di potere distinti da Max Weber (1919).
Esistono scuole essenzialmente burocratiche: in esse vige una certa libertà teorica, non tutti la pensano allo stesso modo, purché tutti siano ligi alle forme legali. Non vieni espulso perché inventi una nuova teoria, ma se non fai sedute di 45 minuti o dici che “analizzi” un paziente che vedi una sola volta a settimana (mi pare che nell’IPA prevalga questo tipo di potere).
Esistono poi scuole essenzialmente tradizionaliste: l’importante è fare come si faceva prima e si è sempre fatto, i più anziani sono di solito i depositari della “buona maniera”. Ho l’impressione che allievi e seguaci di Anna Freud, ad esempio, appartenessero a questo tipo.
Esistono infine scuole essenzialmente carismatiche: esse sono incentrate attorno ad una figura di Maestro indiscusso che ha il karisma. A differenza delle scuole burocratiche, in queste non è permessa alcuna deviazione teorica, bisogna pensare e parlare proprio come il Maestro; in compenso c’è una certa indulgenza verso tecniche e setting diversi. L’Ecole Freudienne fondata da Lacan – fino a quando non fu sciolta – era certamente questo tipo di scuola.
Ci si potrebbe chiedere a qual tipo di scuola appartenga il 17, Instituto de Estudios Criticos. Rientra o no nella tripartizione weberiana? O riesce ad essere una sintesi o combinazione dei tre tipi?
Tra i co-owners e collaboratori di JEP abbiamo avuto nel corso degli anni persone provenienti da scuole psicoanalitiche dei tre tipi. Quindi, anche personalità “carismatiche” che hanno dedicato la vita a formare allievi devoti. Un dettaglio però, nel corso degli anni, mi ha colpito: a parte qualche rarissima eccezione, mai nessuno di questi maestri ha proposto di pubblicare su JEP un testo di un proprio allievo! Eppure tutti i co-owners di JEP sanno cosa dovrebbero fare: proporre alla rivista testi eccellenti inediti in inglese. Quasi sempre, un “maestro” propone per la pubblicazione unicamente propri testi, tutt’al più il testo di un amico o di qualcuno che ammira, ma di un campo diverso: mai di un suo diretto allievo.
E’ questo un segno del fatto che, sotto sotto, un maestro non apprezza veramente i propri allievi? Non perché non siano bravi, ma proprio perché sono allievi? Forse il maestro li ama, ma non del tipo d’amore che implica ammirazione. E il dramma degli allievi consiste, così spesso, nel sentirsi sottilmente disprezzati dal loro maestro, al cui insegnamento magari hanno dedicato la vita. C’è qualcosa di straziante nel rapporto maestro-allievi, di cui forse Ionesco ci ha dato la rappresentazione grottesca ed estrema nella commedia La lezione (Ionesco 1951): non è ogni maestro in prospettiva un assassino del proprio allievo? Per questo, forse, molti degli allievi migliori ad un certo punto abbandonano il loro maestro e aprono scuola per conto loro. E’ questo il paradosso di ogni scuola carismatica (a cominciare da quella fondata da Freud): che il maestro si sente presto tradito proprio dagli studenti che apprezza di più, e si deve consolare con i seguaci fedeli che però è incline a sottovalutare proprio perché gli sono fedeli.
Ogni scuola ha un alone tragico perché in qualche modo ruota attorno al buco della morte. Anche se, a seconda dei tipi di scuola e di istituzione, ciò che si vuole preservare dalla morte è qualcosa di diverso: o l’anima del gruppo (potere tradizionale) o il corpo del gruppo (potere burocratico) o il padre o madre del gruppo (potere carismatico).
In una scuola a struttura tradizionalista, la morte storica viene evitata grazie alla riproduzione continua di qualcosa di identico. Passano gli anni, i secoli, il corpus resta tale e quale, eterno, come il Libro Sacro per gli ebrei. Nella scuola a struttura burocratica, le idee e le tecniche invece cambiano, si accetta il mutamento evolutivo: quel che non deve morire è l’istituzione con le sue norme e dispositivi. In questo tipo di funzionamento si ammette che le anime possano morire e nascere, mentre il corpo deve restare eternamente eguale. Queste istituzioni, come nelle nevrosi ossessive, sono catalizzate dalla forma, bisogna seguire il modulo.
In una scuola a funzionamento carismatico, il maestro spera così di diventare immortale. Non diversamente dall’impulso che ci spinge a fare figli, si dirà. Eppure, patologie familiari a parte, prima o poi ogni genitore si rende conto quanto poco i propri figli e nipoti gli assicureranno la sopravvivenza: accetta il fatto che, soprattutto nella nostra società “liquida”, i figli prendano la loro strada. Ma la scuola su base carismatica è molto più vischiosa delle famiglie: il maestro si serve degli allievi per perpetuarsi, insomma, esige che gli allievi rendano immortale – nel modo più possibile incorrotto – qualcosa di sé (suo pensiero, sua parola, sua tecnica). I discepoli-figli allora non sono fini ma mezzi: il maestro si attacca a loro come all’ultima spiaggia, disperata, della sua problematica immortalità.
Ma allora, se le scuole e le loro riviste sono strategie diverse per difendersi dalla morte, che cosa volevamo fare in fondo – inconsapevolmente - con JEP? Volevamo trovare un modo di accettare la morte? Riuscire a pensare, come Seneca, che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo?

7.
L’obiettivo era comunque quello di interrogare la psicoanalisi aldilà delle scuole e dei filoni. Ovvero, partendo dalla possibilità della sua morte: la psicoanalisi potrebbe finire (Lacan disse che “la psicoanalisi è un sintomo”: come ogni sintomo, potrebbe anche svanire.) Ora, prendere atto dello stato straordinario (nel senso di Kuhn) – e quindi incerto - della psicoanalisi porta a riflettere su quello che è essenziale di essa, l’hard core che attraversa tutte o quasi le varianti e le declinazioni. Di fatto, JEP prospetta una psicoanalisi minimalista. Ovvero, che cosa resta di specificità psicoanalitica una volta messe tra parentesi tutte le teorie, i metalinguaggi, le regole stilistiche, le antropologie di sfondo, i diversi tipi di setting e di tecniche? C’è un minimo a partire da cui si possa dire, di una psicoterapia, “è psicoanalisi”?
Da vari anni abbiamo messo su un gruppo di discussione clinica che si riunisce a Roma una volta al mese – mosso da aspirazioni simili a quelle di JEP, anche se indipendente da JEP. Sin dall’inizio, questo gruppo è stato formato da praticanti che appartengono agli indirizzi “psico” più diversi: abbiamo analisti IPA, lacaniani, junghiani, culturalisti, kleiniani, self-psychologists, persino cognitivisti. Volevamo ricreare la Torre di Babele. L’unica condizione di partecipazione è che ciascuno porti, per almeno un’intera seduta (due ore), un caso preso dalla propria pratica professionale o istituzionale.
All’inizio, molti erano scettici: come si fa a parlare di un caso clinico senza condividere una teoria di fondo?
E invece, nel corso di anni, il gruppo si è consolidato. Nessuno ha rinnegato la propria scuola di appartenenza o di origine, eppure ciascuno trova che la discussione su ciascun caso è ricca, approfondita, utile, rivelatrice. Ovviamente ciascuno ha imparato a fare epoché – come diceva Husserl – del proprio linguaggio specifico, dato che questa moneta, nel nostro gruppo, non ha corso. Il richiamo autoritario alla teoria autorevole non funziona, dato che ciascuno riconosce autorità teoriche diverse. Eppure ci si intende. Si intendono più chiaramente anche le proprie divergenze, quando queste emergono. Si capisce che ci si divide non su certe parole, su gusci vuoti, ma su scelte etiche precise.
Accade così che, su molti casi in discussione, due colleghi provenienti da una stessa scuola o filone teorico si trovino in completo disaccordo, e magari ognuno dei due si trovi in accordo con le valutazioni di uno appartenente a un indirizzo del tutto diverso. Quando si affronta la clinica senza paraocchi, le carte delle scuole si mescolano.
E’ accaduto questo perché alcuni membri più influenti e seduttivi hanno finito col trascinare il resto del gruppo verso una posizione comune? In effetti, come in ogni gruppo, abbiamo ovviamente membri più autorevoli di altri, ma questi appartengono a loro volta a indirizzi diversi: eppure, invece di configgere tra loro, spesso paiono convergere.
Cosa può significare questo esito singolare?
Sarebbe ingenuo credere che, mettendo tra parentesi le teorie, anche le più affermate, e concentrandoci sulla specificità irriducibile di ogni storia di vita, di ogni unica sofferenza, ritroviamo una verità concreta, evidente, che parla da sé, aldilà di tutte le sovrastrutture teoriche. Un’idea del genere farebbe ridere qualsiasi epistemologo e filosofo contemporaneo.
Eppure, anche tra analisti smaliziati sento spesso dire frasi del genere “Freud è stato grande perché ha saputo ascoltare veramente i suoi pazienti, mentre prima di lui si partiva da teorie!” Visione naïve, ma quanto diffusa tra gli analisti! In realtà non esiste ascolto privo di presupposti e pre-giudizi – questa possibilità di sguardo o ascolto senza pregiudizi è un pregiudizio illuminista ed empirista che il pensiero moderno (da Gadamer a Popper) ha fatto letteralmente a pezzi. In realtà Freud è riuscito ad ascoltare in modo nuovo i suoi pazienti proprio perché è partito da presupposti teorici – direi metafisici - molto forti, che peraltro aveva già perfettamente descritto nell’Entwurf (Abbozzo di una psicologia scientifica) sin dal 1895 (Freud 1895); un modello che nel fondo ha sempre seguito. Quanto a sensibilità nei confronti di soggetti disturbati, autori come Kraepelin o Binswanger non sono stati da meno di lui, sapevano ascoltare bene anche loro, ma udivano altre cose perché cercavano altre cose. Il genio di Freud non è consistito nel guardare con occhio fresco, spregiudicato, vergine, quei fenomeni che prima erano stati visti attraverso pesanti filtri concettuali, ma nell’aver saputo applicare creativamente, in modo originale e convincente – e attraverso una straordinaria qualità di scrittura - una sua metafisica di fondo alla concretezza del suo rapporto con i pazienti.
Nessun pensatore serio oggi crede che la verità o la realtà delle cose si affermi di fronte ad uno sguardo puro, senza pregiudizi, sgombro di idee! E in qualsiasi disciplina. Spesso viene citata la massima di Kant (1781): «I pensieri, senza contenuto, sono vuoti; le intuizioni, senza concetti, sono cieche». Bella la parafrasi di Goodman (1976, p. 8): “L’occhio innocente è cieco e la mente vergine vuota”. Insomma, non esiste sguardo puramente obiettivo, pronto a recepire la verità velata dalle nostre teorie. D’altro canto, il pensiero, scisso dall’occhio che subisce, vaneggia.
Il rischio di molta pubblicistica psicoanalitica è di cadere in uno dei due poli che Kant voleva fuggire: o dei reportage clinici ciechi, o delle teorizzazioni vuote. Certi analisti ci raccontano la vita del paziente e un po’ della storia dell’analisi senza che si riesca a veder oltre la fattualità greve degli eventi: questi autori sembrano credere che il racconto dei fatti abbia un significato trasparente e quindi ineffabile, e che l’autore non abbia alcun bisogno di elaborarlo. Altri, al contrario, scavalcando del tutto la propria esperienza, e vantando un’illusoria autarchia teorica, arzigogolano una serie di filosofemi vuoti – direi degli psicoanalitemi - in quanto non vengono fatti interagire con la pratica, ma scodellati in forma apodittica, come auto-evidenti. Certo non è facile far sì che la trascendentalità della teoria impregni in modo convincente un’Erlebnis clinica complessa o caotica. Bisogna convenire che non tutti riescono in questa impregnazione.
Insomma, i soli fatti non possono suggerire da soli la teoria per spiegarli o interpretarli. Ma le teorie, se in qualche modo non sono gettate nel confronto con le esperienze vissute, appassiscono.

8.
Kuhn parlava del lampadario che oscilla, come quello che, secondo la leggenda, avrebbe impressionato Galileo nel Duomo di Pisa. Per una persona colta fino al 500 questa oscillazione, in accordo con la fisica aristotelica, era assimilata alla caduta di una pietra: il filo impedisce al solido di tornare al suo luogo proprio, la Terra. Dopo Galileo, il lampadario oscillante è un pendolo. Il “fatto” è lo stesso, ma il “senso” che esso ha nei due sistemi scientifici è del tutto diverso. Si parla di theory-laden facts: i fatti [facts] che consideriamo tali sono fatti (participio passato di fare [made]) da una teoria che li descrive come fatti [facts], e che li presenta come tali in accordo con la teoria, oppure in disaccordo con essa. Noi guardiamo il mondo dei fatti attraverso la griglia invisibile ma perentoria del nostro sapere, che è sempre storicamente situato. Anche se pensassimo – contro Kant – che l’intuizione (percezione) è semplice recezione passiva, non appena passiamo alla descrizione linguistica e alla spiegazione scientifica, allora dobbiamo partire da teorie, che per lo più derivano da mitologie, metafisiche, sogni, ecc.
Non c’è alcuna speranza, allora, di vedere le cose veramente? Di ascoltare veramente quel che la donna, l’uomo o il bambino che soffrono ci dicono? Non avremo mai un contatto diretto, pieno, originario – certo - con la soggettività altrui? Potremo solo spostarci da una teoria all’altra, da un paradigma all’altro, in una migrazione continua tra idee che, di volta in volta, ci daranno un’immagine diversa, e incommensurabile rispetto ad un’altra, della realtà? Dovremo rassegnarci al fatto che i nostri saperi daranno sempre un vestito al mondo reale, e quindi anche alla reale sofferenza degli esseri umani, e che non potremo mai vedere la nuda verità degli umani?
Eppure… un lampadario comunque oscilla. Fatto enigmatico se mettiamo tra parentesi qualsiasi teoria fisica: esso resta saliente, nella sua ritrovata contingenza. Era il programma (velleitario?) di Husserl: mettere tra parentesi (quindi non rifiutare o confutare) teorie e saperi che abbiamo sui lampadari che oscillano in modo da concentrarsi su quel che per lui era l’essenziale: sul nostro rapporto intenzionale, teso direi, all’evento stesso.
Ma questa epoché può andare oltre la pura descrizione fenomenologica? Psichiatri come Binswanger, Minkowski, Tellenbach, Straus, Boss cercarono di leggere le malattie mentali applicando la riduzione fenomenologica, con risultati francamente non sconvolgenti. Del resto, nel nostro gruppo romano abbiamo anche binswangeriani: anch’essi devono mettere tra parentesi il loro sapere, la Daseinsanalyse. Devono mettere tra parentesi la loro messa tra parentesi. La fenomenologia non può essere l’ultima risposta – soprattutto perché è, pur sempre, una risposta.

9.
Spostiamoci dai lampadari della scienza alle montagne dell’arte. Prendiamo la montagna Sainte-Victoire, vicino Aix-en-Provence, più volte dipinta da Paul Cézanne. Cézanne sembra volerci dare qualcosa di essenziale, di “puramente reale”, della montagna, mettendo da parte tutte le tradizioni pittoriche precedenti, i modi di scuola, i clichés “pittorici” per ‘rappresentare una bella montagna’, ecc. Sembra volerci dare una realtà prima di ogni sguardo e interpretazione umane, una sorta di natura primigenia, pre-percettiva. Come scriveva Merleau-Ponty (1948, p. 28): "Cézanne rivela la base di natura disumana su cui l'uomo si colloca. Ecco perché i suoi personaggi sono strani e come visti da un essere di un'altra specie (...) Il paesaggio è senza vento, l'acqua del lago di Annecy senza movimento, gli oggetti gelati esitanti come all'origine della terra. E' un mondo senza familiarità, in cui non ci si trova bene, che vieta ogni effusione umana.”
Ma voler rappresentare questo stato primordiale del mondo non è un’ennesima illusione?
Anni fa intervistai Richard Rorty (1998). Lo portai sul tema dell’arte, evocai Cézanne, e gli chiesi se non era stato essenziale per questi cogliere qualcosa di reale. Rispose:
No, penso che per Cézanne fosse importante dipingere i quadri che dipingeva, non la questione del reale, ammesso che egli la formulasse a se stesso nella forma ‘questo è il modo in cui le cose realmente appaiono!’ […] Non penso che egli avesse bisogno di preoccuparsi se le cose apparivano in quel modo a lui, o se realmente esse apparissero in quel modo.
La reazione di Rorty fu quella tipica del pensatore moderno.
Indubbiamente egli aveva ragione sul piano storiografico. Immaginiamo che un pittore di ogni generazione, Cézanne incluso, abbia dipinto la Montagne Sainte-Victoire negli ultimi secoli. Avremmo potuto vedere come, nel corso del tempo, i modi di rappresentare la stessa montagna provenzale erano via via cambiati, in linea con i gusti, le mode, le tecniche, le passioni di ogni epoca. La variante Cézanne sarebbe apparsa una tra le altre, appartenente alla fase post-impressionista e pre-cubista della pittura francese. Una maniera vale l’altra, ovvero, tutte interpretano un dato reale, quella montagna, secondo lo Zeitgeist epocale. Come nelle spiegazioni naturali: ogni epoca ha la sua fisica e la sua biologia. E come ogni decennio ha la sua psico-qualcosa alla moda.
Ma vedremmo le cose diversamente se invece ci interrogassimo sul perché ogni epoca sceglie un certo modo di rappresentare, aldilà delle tecniche pittoriche allora disponibili: questa passerella di stili ci apparirebbe in altra luce. Ogni modo artistico ci potrebbe apparire come una scommessa metafisica sul mondo visibile. Ad esempio, come ignorare che Cézanne puntava a dipingere una sorta di sostanza fondamentale della montagna aldilà dei modi antropologici di interpretarla? Il pragmatista riderà come Rorty: “come è possibile interpretare qualcosa pretendendo che questo non sia interpretazione?” Citando Nietzsche, dirà “Non esistono fatti, solo interpretazioni!” Una pittura che voglia darci le cose stesse, e non la nostra immagine di esse, è pur sempre un’immagine delle cose. E’ quel che si chiama oggi nichilismo ermeneutico. Applicato questo al nostro bislacco gruppo clinico: uno sguardo sulla sofferenza mentale che voglia escludere ogni teoria previa nel migliore dei casi finirà col costituire a sua volta un’altra teoria.
Stranamente l’ermeneutica coincide con l’empirismo scientifico. Anche quest’ultimo non vede altro che teorie: per esso nessun fatto, nessuna esperienza, ha senso al di fuori delle ipotesi – o delle controversie – teoriche che gli danno senso. La scienza è empiricamente super-selettiva: solo alcuni fatti, e solo a certe condizioni, sono rilevanti per il discorso scientifico.
Al polo opposto, in estetica è l’esperienza a condizionare le eventuali elaborazioni teoriche: la teoria è secondaria, posteriore, prima viene quel che ciascuno di noi ha provato, brutalmente, una volta esposto all’opera. Nella scienza sono le teorie a guidare la danza degli eventi rilevanti, in arte sono gli eventi che guidano i girotondi effimeri delle teorie.
E la psicoanalisi? Occupa essa uno spazio – forse inesteso – tra scienza ed arte, tra polarità teorica e originarietà indicibile dell’esperienza?
Prima di rispondere a questa domanda, occorre precisare che il punto non è sapere se Cézanne sia riuscito a rivelarci l’essenza visiva delle cose: l’importante è capire che lui a questo tendeva. E questa tensione ci impressiona. Forse, potremmo giungere alla conclusione che ogni epoca artistica, dietro l’interpretazione immaginaria che offre delle cose, punta sempre, segretamente, a qualcosa aldilà delle immagini. Che quel che ci turba dell’arte è il fatto che attraverso le immagini essa ci apra la dimensione di un reale che ci sfugge, di qualcosa di non presente perché non c’è più o non c’è ancora. In arte, siamo folgorati da un lampo di reale: quando realizziamo una sorta di fragilità, di insicurezza delle forme.
Guardando i quadri di Cézanne, non potremmo mai credere che la Sainte-Victoire sia una montagna immaginaria: lo stile di Cézanne ci richiama ad un reale che certo non garantisce il quadro, ma pare come tirarlo verso di sé. La realtà rappresentata o evocata dalla pittura figurativa orienta la pittura stessa così come la nostra morte, anticipata grazie al linguaggio, orienta la nostra vita. La vita può trovare un senso grazie al cono d’ombra che la morte – rendendo la vita globalmente insensata - proietta su di essa; analogamente come la pittura – come qualsiasi arte - trova tutto il suo senso oltre l’orizzonte insensato del reale.
Certo, possiamo preferire uno stile pittorico all’altro – alcuni possono odiare lo stile Cézanne e trovare più interessante la stessa montagna rappresentata da un paesaggista fiammingo del Seicento. Perché no? Eppure, l’arte non è solo una passerella di modi e stili tra i quali possiamo esprimere una preferenza: ci sono alcuni capolavori indiscussi in ogni epoca. Che cosa li rende così folgoranti? Che cosa fa sì che distinguiamo tra un bravo imitatore di Cézanne e il meglio di Cézanne?
Forse la qualità artistica ha a che fare con una scintilla metafisica, che l’arte stessa raggiunge solo di rado. E per scintilla metafisica intendo il fatto che l’arte non è solo modo di rappresentare – anche se è sempre anche modo di rappresentare – ma tentativo, talvolta disperato, di metterci a contatto con un reale. Con qualcosa che ci inquieta, che strappandoci dal rassicurante previsto magari non ci fa dormire la notte. Rorty, da filosofo pragmatista, vedeva solo “la maniera Cézanne”. Ma ignorava il progetto metafisico di Cézanne, che, come ogni pretesa metafisica, è sempre prospettica, non è mai attuale, è sempre inattuale, ad un tempo assolutamente momentanea e assolutamente progettuale.

10.
Ma allora, sia JEP che il nostro gruppo clinico partono da una ricerca metafisica? E cosa potrebbe mai voler dire questo? Che senso ha dire che l’“anima” della nostra ricerca è una psicoanalisi che punti al reale?
Alcuni amici ci hanno detto francamente: “la vostra rivista è senz’anima!” Intendono dire che essa non si fa portavoce di un’impostazione – psicoanalitica, filosofica, letteraria – precisa. Altri dicono invece che JEP piace loro proprio perché ha un’anima segreta, non esibita, che solo il lettore attento e acuto riesce a cogliere.
Certamente il nostro progetto era di non fare una rivista con una sola anima: mettendo a confronto anime diverse, far emergere non una meta-anima che subordinerebbe le singole anime dei collaboratori, ma qualcosa di terrificante.
Forse mi spiego meglio raccontando un aneddoto, che risale alla mia infanzia. A sette-otto anni ero già appassionato di storia, ed ero particolarmente attratto da una Storia d’Inghilterra che mio padre teneva nella sua libreria. Erano due volumi rilegati in un austero blu scuro, con un elegante segnalibro di stoffa rossa. Mi impressionò particolarmente il primo capitolo, che parlava della storia geologica delle isole britanniche: in alcune cartine, si vedeva come in altre ere la Gran Bretagna fosse attaccata al continente, non era un’isola ma un’escrescenza europea. Altre cartine mostravano come le forme, per me già così familiari, dei continenti e dei mari fossero del tutto diverse allora, che le terre emerse avessero tutt’altro aspetto. Dopo un po’ l’attrazione per queste cartine si tramutò in un senso di Unheimliche – di orrore per qualcosa di poco familiare, sinistro (“perturbante” lo si chiama in italiano). Cominciai ad avere paura di quelle forme non-abituali, e non volli più aprire quel volume. Talvolta lanciavo occhiate ansiose al libro blu per essere sicuro che se ne stesse buono sullo scaffale, incastrato tra altri libri che lo tenessero chiuso.
Cosa pensare oggi di quella passeggera fobia infantile? Che cosa trasformò l’attrazione per quelle immagini di forme “altre” in una crisi d’angoscia? La ricostruzione psicoanalitica pare obbligata. L’isola britannica era mia madre e il continente era mio padre, entità separate; ma forse sapevo – perché fino a sette anni avevo dormito nella stessa stanza dei miei genitori – che talvolta (nel buio se non nel passato) essi si potevano congiungere, che “l’isola” veniva agganciata al “continente”. Spiegazione indubbiamente seducente, anche se assolutamente indimostrabile (quasi nulla della psicoanalisi è dimostrato, e forse il più è indimostrabile). Ma l’evocazione della “scena primaria” può essere messa in connessione con qualcosa che la deborda.
I bambini sono particolarmente impressionati da quegli stati in cui gli adulti cessano di essere “i soliti”, quando cioè sono visibilmente agitati da passioni – godimenti o sofferenze - che li mettono “fuori di sé”: questo accade certo nel coito e nell’ira. Gli esseri umani, insomma, talvolta cambiano forma, non sono più gli stessi, perdono il contorno familiare, e rivelano forme esaltate e minacciose del tutto impreviste. Noi adulti siamo (alquanto) abituati a questa possibilità di dis-formità degli umani, per i bambini – così assetati di Heim, di stabilità e sicurezza – questa possibilità è unheimlich, spaesante, panica. Ma la vocazione che porta alcuni alla psicoanalisi – aldilà delle forme di scuola che essa assumerà – non è originata dall’attrazione-orrore per questo cambiamento di forma, dal volere vedere forme altre (antiche, sorpassate, soggiacenti) dietro le forme domestiche e rassicuranti della vita quotidiana? Non è la psicoanalisi una paleontologia dell’essere singolo, un voler vedere la traccia di forme arcaiche e inquietanti, attraverso la filigrana dei discorsi e delle abitudini d’ogni giorno?
Ora, questa attrazione-orrore per la dis-formità può essere applicata alla psicoanalisi stessa. In fondo le scuole analitiche, anche le migliori, le più sofisticate, tendono a ridare una forma rassicurante, solita, riconoscibile, al magma del soggetto umano. Troppo spesso basta che un analista apra la bocca, e già si può dire sicuramente a quale filone appartiene, su quali testi si è formato, che tipo di analista ha avuto… Che noia! La geografia è bella, ma quella attuale è sempre identica – la deriva dei continenti è troppo lenta.
Con JEP la scommessa era quindi di ripetere emozioni– certo inquietanti – simili a quelle che avevo provato da piccolo: la scoperta squilibrante di altre forme possibili (passate o future) da vedere. Insomma, non identificare la cosa con la sua forma. Proprio perché una cosa può avere forme diverse, “la cosa” non si riduce alle sue forme. Anche se ila cosa deve avere sempre una certa forma per apparire. Il quid di questa cosa ci sfugge, da qui il sospetto nichilistico che non esista, che si tratti solo di forme storiche, che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Non identificare la cosa-inconscio – o “la cosa” su cui si arrovella l’inconscio – con le forme che la psicoanalisi gli ha dato per imbrigliarla e renderla gestibile.

Benvenuto, S. (1984) La strategia freudiana. Napoli: Liguori.
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Kant, I. (1781) Kritik der reinen Vernunft, A51/B75. Critica della ragion pura, a cura di Costantino Esposito, con testo a fronte. Milano: Bompiani, 2004.
Kuhn, T.S. (1962) The Structure of Scientific Revolutions. Chicago: University of Chicago Press.
Kuhn, T.S. (1977) The Essential Tension: Selected Studies in Scientific Tradition and Change. Chicago and London: University of Chicago Press.

Merleau-Ponty, M. (1948) “Le doute de Cézanne” in Sens et non-sens. Paris: Gallimard, 1996.

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Scuola di Barbiana (1969) Lettera a una professoressa. Firenze: Libreria Editrice Fiorentina. Eng.tr. Letter to a Teacher, translated by Nora Rossi and Tom Cole. Harmondsworth, Middlesex: Penguin, 1972.

Weber, M. (1919) Politik als Beruf. Tr.it. La politica come professione. Milano: Mondadori, 2006. Eng. Tr. Politics as a Vocation, http://www.ne.jp/asahi/moriyuki/abukuma/weber/lecture/politics_vocation.html.


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