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In memoria di Fulvio Marone
psichiatra, psicoanalista, formatore







Il 14 Maggio 2013 è improvvisamente mancato, a Napoli, il Dottor Fulvio Marone, nato nel 1953. Molto noto a Napoli e nella regione come psichiatra nel servizio pubblico, esercitava come psicoanalista di indirizzo lacaniano, aveva creato e dirigeva da molti anni la Scuola di Formazione in Psicoterapia ICLES a Napoli.

Fulvio Marone ha collaborato al nostro Journal (allora JEP) scrivendo in inglese un saggio clinico in un numero monografico dedicato a Lacan, “Lacan Today I” che risale al 1995. E’ leggibile a http://www.psychomedia.it/jep/number2/marone.htm.

Creiamo qui un Forum aperto a chiunque voglia scrivere ricordi o commenti o testimonianze sul nostro collaboratore e amico; anche in forma di foto o video.

I contributi vanno mandati a: Sergio Benvenuto <eu.jou.psy@gmail.com>


Per FULVIO MARONE

Una testimonianza

Alcuni dicevano di Fulvio che era una persona fredda. Ma io, che gli sono stato amico per oltre 25 anni, so che quella sua apparente severità era la maschera pudica di una fondamentale, schiva dolcezza.

Ed è soprattutto della sua dolcezza – ancor più che dei suoi meriti scientifici e civili – ciò di cui vorrei parlare qui.

Ti coglie sempre un senso di vergogna, come se commettessi un abuso, quando – come in questo caso – elogi un amico morto più giovane di te e migliore di te.

Migliore di me e di tanti perché Fulvio era una di quelle persone che hanno il dono di coniugare tre qualità che non si implicano volentieri. L’intellettuale dotto e acuto. Il medico che non cessa di confrontarsi con la miseria. La dolcezza amicale della persona. Quanti riescono ad essere, compiutamente, queste tre cose assieme? Fulvio, da lacaniano, avrebbe detto che era un nodo borromeo. Non facile da intrecciare.

Fulvio era tra i pochi interlocutori intellettuali con i quali, per me, valesse la pena confrontarmi.

Magro di corpo, la sua mente bulimica divorava e digeriva filosofia, psichiatria, storia del cinema, matematica, psicoanalisi. Persino il calcio. Egli si muoveva a suo agio tra i geroglifici di Heidegger e Lacan, e quasi ogni giorno anche tra esseri a cui tocca soffrire ad un tempo il degrado proprio e del mondo circostante. La sera con me poteva disquisire di filosofia, la mattina usciva presto, dopo una tazza di caffè kimbo, per andare a Scampia, in quei paesi oltre il Garigliano, là dove Cristo si è fermato. Si trovava à sa place sia nel Parnaso che nell’Inferno. Sia a Saint-Germain-dès-Près che alle Vele di Scampia. Cosmopolitico e napoletano verace.

Si formò con Sergio Piro, amico di cui abbiamo pianto la scomparsa da non molto. Si diceva di Piro che era il “Basaglia del Sud”, ma, a differenza di alcuni “basagliani del Nord”, per dir così, non concepiva la missione riformatrice nella psichiatria come una forma di assistentato sociale denso, senza fessure. I folli lo interessavano veramente, e non solo per “sistemarli”. Uomo di ampi orizzonti culturali, da sempre era magnetizzato da una passione, direi viscerale, per il linguaggio e la linguistica. E mi sono sempre chiesto se questo posto d’eccellenza dato da Piro al linguaggio – il suo libro più noto è “Il linguaggio schizofrenico” – non sia stato cruciale, per Fulvio, nell’avviarlo alla laica devozione per Lacan. Ma certamente di Piro e di Psichiatria Democratica Fulvio ha sempre conservato la volontà di prendersi cura dei dannati della terra.

Si è detto di lui: “un raffinato lacaniano che non è mai venuto meno all’impegno civile”. Ma l’espressione “impegno civile” mi sembra una qualifica da Curriculum Vitae, che nasconde qualcosa di molto più caldo: una sua certa compassionevole solerzia per la fragilità umana. Non si è mai vantato di “fare miracoli”, né come analista né come psichiatra. Riferendosi ai suoi tanti pazienti, mi diceva: “La struttura di ogni persona rimane sempre la stessa, anche dopo la cura. Comunque, non se ne vanno via, alla fine, così come sono entrati in questo studio”. Era una litote, perché quella differenza, in realtà enorme, gli bastava. Non pretendeva di “salvare il mondo”, voleva stare veramente nel mondo per aiutarlo.

Non credo che Fulvio avrebbe apprezzato – da laico disincantato qual era – un paragone tra lui e madre Teresa di Calcutta. Mi colpì però, tempo fa, uno scambio della monaca albanese con non ricordo più quale riformatore occidentale. Questi le diceva: “Ma perché spendere tutte le energie, ogni giorno, a curare singoli miserevoli? Non sarebbe meglio proporre riforme politiche ed economiche, agire sui potenti che decidono, per migliorare le condizioni dei diseredati?” Madre Teresa rispose più o meno: “Il mio compito è quello di occuparmi di Tizio e di Caio, giorno dopo giorno. Non ho tempo per pensare a grandi Riforme.” Non credo che Fulvio abbia mai elaborato grandi progetti riformatori, sulla carta. In questo, mi sembrava più vicino a madre Teresa che a Basaglia. Solo che per madre Teresa, come lei diceva, “in ogni povero vedo il volto del Cristo”. Fulvio, nei suoi pazienti del Frullone o di Scampia, vedeva solo il volto del povero.

Non a caso il film che adorava era The silence of lambs, “Il silenzio degli agnelli”, su cui scrisse anche un articolo. Gli agnelli sono le vittime tacite della violenza. Credo che la sua passione per la psicoanalisi fosse anche un modo per dar voce, la voce giusta, agli agnelli.

La dolcezza non cancella la durezza dell’onestà intellettuale. Anni fa accettò con piacere di presentare un mio libro – sulle Perversioni – a Napoli, all’Istituto per gli Studi Filosofici. Pur essendo noi amici da decenni, non esitò a criticare la tesi di fondo del mio libro, con argomenti e stoccate brillanti. Dopo dovette pentirsene un po’; difatti, mesi dopo, presentandomi al suo corso per psicoterapeuti a Napoli, tenne a dire pubblicamente: “Ho criticato il libro di Sergio, ma davo per scontato, sullo sfondo, che fosse un ottimo libro.” Io però non gli avevo tenuto affatto rancore per aver fatto quello che solo di rado si fa: presentare un libro non per adulare l’autore ma per sfidarlo a una discussione critica con lui. Non me la presi perché apprezzai il fatto che Fulvio avesse detto quel che pensava del libro dell’amico. Un libro che non aderiva completamente ai concetti lacaniani a cui lui aderiva. Aveva fatto quel che anche io avrei fatto per lui: rinunciando al plat empoisonné della lusinga, far dono all’amico della ciotola povera e scabra della sincerità.

La dolcezza dell’amico, dicevo. Fulvio è stato una delle persone maschili più dolci da me conosciute. Dissentivamo su molte cose, ma non era possibile litigare con lui. Eventi oltre e fuori di noi ci avevano separato, ahimè, negli ultimissimi anni, ma non abbiamo mai litigato.

Da giovane, Fulvio sembrava una ragazza. Mi sono sempre chiesto se non fosse un suo cruccio. Col tempo perse quella femminile levigatezza, assunse forme virili, spigolose, ascetiche. Lavorando in un mondo anche violento, imparò a essere deciso, non bisognava lasciarsi sopraffare. Ma ai miei occhi restava sempre una sua aura che svelava un certo lato femmineo del suo cuore. Aveva sempre un angolo chiaroscuro di bonomia affettuosa, un’estraneità alla violenza fallica. Era forte di agudeza e indulgente con chi soffriva.

Mi impressionava il suo stile di vita sobrio, quasi monasteriale: mangiava quanto bastava, non indulgeva nella lascivia della gola o del lusso. Viveva in una casa che aveva l’aspetto terso, pulito, parco di chi non ha bisogno di esibire le proprie qualità. Un solo “vizio”: la passione per la tecnologia Apple più avanzata.

Un giorno, discutendo non ricordo più di che, mi raccontò uno strano apologo. Mi parlò di tre “sapienti”: Melantone; un esperto di chiavi; e la donna più pettegola del quartiere. Melantone, mi ricordò, era considerato alla sua epoca l’uomo più dotto del mondo. Il maggior esperto di chiavi sa distinguere ogni tipo di chiavi, un enciclopedista dell’arte di aprire serrature. E poi la donna che sa tutto degli affari, degli amori, dei crucci, delle grandezze e miserie delle persone del quartiere, perché questo è il suo ‘mestiere’. Alla fine mi chiese retoricamente: “Chi dei tre è il più sapiente?”

Perché – mi chiedo – dopo tanti anni ricordo ancora quello stranissimo accostamento? Era una parabola a fini di relativismo e nichilismo? Credo che egli volesse prendere una distanza ironica da una ‘passione’ che avevamo in comune: una certa hybris del voler sapere se non tutto, tutto quello che ci appare importante. L’aspirare a incarnare asintoticamente una sorta di Wikipedia. Voleva auto-relativizzare quel nostro – suo e mio – smodato bisogno di con-prendere, di prendere-tutto-con-me, di controllare con la mente, dalle nostre poltrone, la caotica deriva del mondo.

Anni fa mi invitò a passare il Capodanno con lui a Napoli, all’ospedale psichiatrico Frullone. Era di guardia la notte di S. Silvestro. Non potevo accettare perché avevo già preso l’impegno di cenare a mezzanotte da un amico. Andai però lo stesso quella sera al Frullone con la mia compagna. Allora non ero mai stato al Frullone, e vidi quel che mi aspettavo: un tetro deposito fatiscente di esseri umani. Lui aveva preparato con infermieri e pazienti una festicciola umile e calda. Un infermiere aveva bollito della pasta su un succinto fornello, l’allora ragazza di Fulvio preparava del sugo. Mi sembrava molto contento della presenza mia e della mia compagna. Ma poi, prima di mezzanotte, gli dissi che dovevo andare dall’altro amico. Ci rimase male. Non solo perché la presenza di amici avrebbe rallegrato quella festa, ma – credo – perché pensava che in fondo passare la notte di S. Silvestro con i malati fosse il modo più bello in cui uno come me potesse passare il Capodanno. Capii che sentiva il contatto diretto con il dolore sociale e psichico, non come un doveroso e gravoso sacrificio, ma come parte della sua casa, del suo focolare, che proprio per questo trovava accogliente e protettivo.

La morte di un amico che ti è diventato fratello, morto nel pieno delle sue forze, è uno scandalo di cui ti senti corresponsabile. La colpa di essergli sopravvissuto, di dover essere tu a piangerlo piuttosto che l’inverso. L’ingiustizia della roulette della morte conferma ciò che Fulvio ha sempre pensato: che la vita in sé non abbia senso. Non l’ho mai sentito concedersi alcuna concessione mielosa allo spiritualismo, a quel leccarsi le ferite della vita con la saliva untuosa del senso. Che la sofferenza mentale stessa non ha senso recondito, ma è infiltrazione del non-senso nel tessuto così ben lavorato, liscio come plastica ma illusorio, del senso. E quando non si gode della rosea consolazione del Senso, le lacrime per chi ci manca sono più amare e più vere.

Sergio Benvenuto


Sono stata una paziente del dott. Fulvio Marone dal 2004 fino a febbraio di quest'anno.

La notizia della sua morte mi ha sconvolto e lasciato in una desolazione profonda.

Il dottore è stato la mia forza per superare momenti terribili e un interlocutore meraviglioso nelle discussioni sull'ordinaria infelicità dell'esistenza.... Era proprio lui a sostenere che, infondo, il senso del suo lavoro era quello di aiutare le persone ad uscire da stati di dolore parossistico e riaccompagnarli alla "normalità" con il suo carico di quotidiana inutile insostenibilità.

E' difficile ricordarlo senza fargli un torto e senza debordare nell'emotività e nella retorica che una figura sobria e schiva come la sua non apprezzerebbe.

L'amore per la sua professione è il tratto distintivo del rapporto con il paziente (anche se, l'unica volta che gli ho chiesto se avesse scelto il suo lavoro per passione, mi ha risposto "si, certo, nel senso latino del termine, nel senso che ci soffro..." e ha riso), le sue osservazioni erano sempre imprevedibili, mai banali, autorevoli e ricche di citazioni e riferimenti letterari.

Il rapporto era rigoroso, ma non impersonale, non privo di solidarietà e affetto, spesso ricco di ironia, quindi allegro.

A volte si spazientiva per il mio modo di scherzare su ogni cosa, di essere irriverente e di trovare la vita ridicola nella sua tragicità, devo dire però che è veramente incredibile la vita: vediamo se un terapeuta, con la sua morte improvvisa, si può trasformare in un trauma (!), vediamo se riesco ad elaborare il lutto cercando di ricordare cosa avrebbe potuto dire, il punto è che non ho i suoi strumenti né la sua memoria prodigiosa.

Quando è morto mio fratello Giampiero e io ho sentito un dolore senza speranza, è stata la persona a cui ho telefonato, distrutta dal pianto gli ho chiesto se almeno lui potesse aiutarmi..."le porgo le mie più sentite condoglianze", io ho capito che da quel dolore non si scappava, oggi mi rendo conto che comporre il suo numero di telefono e chiamare era una luce nel tunnel della disperazione.

Il dottore Marone era un grande medico. Io gli volevo moltissimo bene, la stima che ho avuto per lui è infinita, come verso chiunque abbia un esercizio magistrale della sua professione.

Oggi con la mia testimonianza vorrei poter esprimere le mie condoglianze ai familiari, colleghi ed amici, per l'immensa perdita.

Probabilmente scrivo anche per ricordare a me stessa che a volte le persone importanti muoiono prima che tu abbia potuto dirglielo:

E. Wiesel "...spesso per me l'atto di scrivere non è altro che il desiderio inconfessato o cosciente di incidere alcune parole su una pietra tombale: alla memoria di una città scomparsa, di un'infanzia esiliata e di tutti coloro che ho amato e che se ne sono andati prima che abbia potuto dirglielo".

Di sicuro gli ho detto centinaia di volte che la morte per me è un non poter sostituire...


Hommage à Fulvio

Fulvio Marone devait être là, ce matin, pour introduire ce séminaire des enseignants du CCPSO. Fulvio est là, dans nos pensées, dans notre coeur. Il est là, Autre enfin, mais jamais plus nous ne l’entendrons. Mai più. Nevermore, Nevermore, Nevermore, répète le corbeau d’Edgar Allan Poe qui ne sait répondre que ce mot à qui souffre la perte de l’être cher. Ah ! Comme nous aimions, ah ! comme j’aimais sa façon de parler, de s’animer, avec son accent, son énonciation, si unique, si vivante, si physique.

Fulvio, mon ami, a été foudroyé. Comme l’arbre de Giuseppe Penone enraciné ces temps-ci dans les jardins de Versailles. Il est mort soudainement, sur un trottoir de Naples, tout seul, le matin, m’a dit sa femme Francesca Tarallo, alors qu’il se rendait à son travail dans le Dispensaire de la banlieue populaire où tous les jours il recevait ses patients. Fulvio était un grand psychiatre, un vrai psychiatre, comme il n’y en a plus guère, un très subtil clinicien. Il nous l’avait admirablement démontré au collège clinique de Montauban, lorsqu’il nous avait rapporté le cas Maurizio. Nous avions été stupéfaits par la façon singulière dont Fulvio avait mis en acte, dans sa rencontre avec ce psychotique, la manœuvre du transfert qui est la condition indispensable d’un traitement possible de la psychose.

Oui, Fulvio Marone était un psychanalyste qui ne recule pas devant la psychose.

Francesca, pour qui c’est trop dur, m’a écrit qu’il travaillait sur l’inconscient réel et que durant cette dernière année il avait une véritable passion pour la topologie. Il s’est donné corps et âme à la cause analytique. Ce qu’il a apporté à l’ICLES, l’Institut clinique du lien social de Naples, comme au Forum psychanalytique lacanien d’Italie est considérable. Tous ceux qui l’ont connu dans les Forums du monde entier où il était très apprécié et sollicité, en témoignent. Longue est la liste de ses contributions au savoir du psychanalyste. Nous n’oublions pas ses conférences à Toulouse sur la nécrophilie et sur la clinique d’Hippocrate à Lacan.

Je devais le retrouver en juillet à Naples pour deux conférences clôturant un cycle sur Joyce auquel il m’avait invité. Chaque fois que j’y ai parlé c’était accompagné de sa voix, de ses intonations et de la tarantella de sa gestuelle, puisque je l’écoutais me traduire, phrase après phrase, en italien. Je me souviens de ces chaudes soirées d’été que nous passions au vieux port, où tu nous parlais, Fulvio, de Masaniello, le pêcheur fou, l’insurgé devenu une semaine le maître de Naples, de la chanson napolitaine, de la Nenia, cette lamentation des pleureuses, et où, avec Francesca et Nicole, tu chantais Maruzzella…

Michel Bousseyroux

Journée du Collège des enseignants du CCPSO,

Bordeaux, le 8 juin 2013.

Trad. Italiana



Omaggio a Fulvio

Fulvio doveva essere qui stamattina per introdurre il seminario degli insegnanti del CCPSO. Fulvio è qui nei nostri pensieri, nel nostro cuore. È qui, finalmente Altro, ma non lo sentiremo. Mai più. Nevermore, Nevermore, Nevermore, ripete il corvo di Edgar Allan Poe, perché non trova altra parola per rispondere a chi ha subito la perdita dell’essere caro. Ah come ci piaceva, come mi piaceva il suo modo di parlare, di animarsi, con il suo accento, con la sua eloquio così unico, così vivo, così fisico.

Fulvio, il mio amico, è stato fulminato. Come l’albero di Giuseppe Penone radicato di questi tempi nei giardini di Versailles. È morto improvvisamente su un marciapiede a Napoli, una mattina, solo, mi ha detto la sua compagna, Francesca Tarallo, mentre si recava al lavoro nell’ambulatorio della periferia popolare dove riceveva i suoi pazienti ogni giorno. Fulvio era un grande, un vero psichiatra, come non ce ne sono più, un clinico assai sottile. Ce lo ha dimostrato magnificamente al collegio clinico di Montauban quando ci ha fatto una relazione sul caso di Maurizio. Siamo rimasti stupiti del modo singolare con cui Fulvio aveva messo in atto, nell’incontro con questo psicotico, il maneggiamento del transfert, condizione indispensabile di ogni trattamento possibile delle psicosi.

Sì, Fulvio Marone era uno psicanalista che non arretrava davanti alla psicosi.

Francesca, che ne sente duramente la perdita, mi ha scritto che stava lavorando sull’inconscio reale e che durante l’ultimo anno aveva sviluppato una vera passione per la topologia. Si era dato anima e corpo alla causa analitica. Il suo apporto all’ICLES, l’Istituto Clinico del Legame Sociale di Napoli, così come al Forum psicoanalitico lacaniano in Italia, è notevole. Tutti quelli che lo hanno conosciuto nei Forum di tutto il mondo, dove era sollecitato a intervenire e apprezzato, ne danno testimonianza. Lunga è la lista dei suoi contributi al sapere dello psicoanalista. Non possiamo dimenticare le sue conferenze di Tolosa sulla necrofilia e sulla clinica da Ippocrate a Lacan.

Avrei dovuto ritrovarlo in luglio a Napoli per due conferenze che chiuderanno un ciclo su Joyce al quale mi aveva invitato. Ogni volta che sono intervenuto ero accompagnato dalla sua voce, dalle sue intonazioni e dalla sua gestualità, evocatrice per me della tarantella, poiché lo ascoltavo tradurmi frase per frase in italiano. Mi ricordo delle calde serate estive che passavamo al vecchio Porto, dove ci parlavi, Fulvio, di Masaniello – il pescatore pazzo, l’insorto divenuto per una settimana il padrone di Napoli – della canzone napoletana, della nenia, lamento funebre, e dove con Francesca e Nicole, cantavi Maruzzella

Michel Bousseyroux

Giornata del Collegio docente del CCPSO, Bordeaux, 8 giugno 2013



Lettera a Francesca Tarallo

Cara Francesca,

ti scrivo ancora sotto shock. Come già ti ha detto Sergio anch'io aspettavo il momento giusto per rimettermi in contatto con una persona con cui c'era uno di quei legami indissolubili, simile a quello di un fratello con cui puoi anche fare dei capricci, distanziarti per un po', perché tanto sai che quel legame è eterno, accada quel che accada....anche la morte.

Che male che fa ricordare!

Primi anni 80 a casa di mia madre a Napoli, in una delle mie visite da Londra, aspetto un giovane psichiatra, che non conosco, che vuole parlare di Lacan. Sono meravigliata, incuriosita e stento a credere che arriverà. Ma il giovane psichiatra, di nome Fulvio Marone, arriva puntuale nel salottino della mia casa d'infanzia, a lui tutto sconosciuto, con ardimento e timidezza allo stesso tempo, preparatissimo, di una intelligenza pura, stimolante ma priva di qualsiasi arroganza. Sapevo di avere incontrato una persona eccezionale, finalmente un vero interlocutore in Italia, a Napoli!

Ebbene è proprio alla nostra povera sconquassata Napoli che questo psichiatra, dall'aria sempre di ragazzo, ha dato lustro internazionale nel campo della psicoanalisi. Grazie al suo lavoro e insegnamento di altissimo profilo, di grande generosità intellettuale Fulvio ha fatto di Napoli l'unica città italiana  all'altezza di Parigi e Londra nella qualità del discorso analitico. Non sto esagerando, purtroppo so di che parlo.

Ricordo Fulvio a Londra, venne a parlare della psicosi. All'inizio ero un po' preoccupata, mi aveva detto che l'inglese l'aveva imparato sui libri e che non lo aveva mai parlato! Lo presentai al pubblico inglese pronta a fargli da interprete. Ma lui cominciò a parlare, quasi senza leggere la sua traduzione, in un inglese cristallino, perfetto, andò alla lavagna e continuò a parlare con naturalezza, parlava in inglese a Londra come parlava a Napoli, a Milano, a Parigi. Il linguaggio, di qualsiasi lingua si trattasse, era il suo liquido amniotico, casa sua. Con Fulvio si era a casa propria, in una sottile intesa dell'anima. Austero e dolce. Di poche parole a volte, loquace e desideroso di confidenze altre volte. Spesso per me difficile stargli dietro e quante volte avrò sbagliato nel non sapere quando avvicinarmi a lui e quando tenermi a una rispettosa distanza, che lui forse a volte avrà potuto interpretare come una mia scontrosità o chiusura nei suoi confronti.

No, caro Fulvio, è che percepivo in te una preziosa fragilità che non stava a me toccare. Non so perché ho sempre creduto questo.

Francesca, l'ultima memoria di Fulvio è insieme a te, in quell'avventura nelle "navi" di Scampia. Sono certa che la ricordi molto bene anche tu. 2007 o 2008, giravo un film su Napoli e tu gentilmente ti offristi di accompagnarmi a visitare le "navi" di Scampia, oramai quasi deserte dopo il trasferimento di quasi tutti i suoi abitanti. Fu proprio Fulvio a portarmi alle ASL dove lavoravate per poi offrirsi a portarci lui stesso alle navi. Era timoroso, aveva dei soldi addosso ed io una macchina da presa, condizioni molto pericolose per le navi oramai alla mercé di traffici nascosti nei suoi labirinti. Fulvio non era una persona avventurosa, eppure si lasciò andare in quell'occasione. Infatti degli omoni sbucati da dei sotterranei si avvicinarono alla macchina e volevano strapparmi la cinepresa da mano minacciandoci. Riuscimmo miracolosamente a convincerli delle nostre buone intenzioni e ci avviammo comunque al nostro sopralluogo esplorativo. Le donne tra le scale delle navi (i mariti tutti in carcere o morti), con bambini emaciati e malati attaccati alle loro gonne, lo riconoscevano e lo chiamavano e lui, con la sua aria timida come sempre, ascoltava le loro disperazioni. Indimenticabile, avevo la pelle d'oca mentre filmavo. Lì mi resi conto che Fulvio dava a questa città non solo lustro ma Amore, col suo lavoro umile di cui andava così fiero, nelle ASL di Scampia dove lui era conosciuto da tutti.

Quando andrò a Roma cercherò il filmato, ma credo che di Fulvio si vedano solo i piedi, spero qualcosa di più. Comunque che peccato a non essere stata una più oculata operatrice in quell'occasione unica!

Ti abbraccio forte


Bice Benvenuto




Ho appreso con immenso dolore la notizia della morte dell’amico Fulvio alcuni giorni prima della presentazione del numero di aut-aut La diagnosi in psichiatria che ho organizzato a Roma presso il Museo Laboratorio della Mente il 19 giugno us.  Nel corso dell’incontro Mario Colucci ha ricordato Fulvio Marone e la sua gioia per aver collaborato con un proprio articolo alla pubblicazione di questo numero (F.Marone, “Soggetti, protocolli e tigri di carta”, aut aut 357, pp.235-243).
Ho avuto con Fulvio una lunga amicizia . Nel corso del tempo ho potuto apprezzare la sua intelligenza, il suo umorismo e la professionalità , la sua capacità di ascolto, la curiosità e l’interesse fluttuante per il mondo della vita. 
Ricordo le lunghe e appassionate conversazioni, la calorosa ospitalità nella sua casa  quando mi recavo a Napoli alle settimane di studio organizzate dal Centro Studi e Ricerche sulla Psichiatria e le Scienze Umane in quell’intreccio di anticipazione, genialità, umanità che caratterizzava quel  gruppo di lavoro “pro-positivo e proliferativo”  costituito da Sergio Piro, del quale Fulvio era parte e che io mi onoravo di frequentare come “componente romana”.
Negli ultimi anni non ci siamo più incontrati con quella frequenza ma avevo l’abitudine di chiamarlo per gli auguri di Natale, una delle telefonate che davano ancora un senso alla mia gettatezza meridionale. 
L’ultima volta che ho visto Fulvio è stato in quell’elegante sala settecentesca dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici per  ricordare Sergio Piro ad un anno dalla sua morte assieme agli amici che lì conobbi per la prima volta venticinque anni fa Roberto Beneduce, Walter Di Munzio, Antonio Oddati, Giulio Corrivetti, Tommaso Pagano, Antonio Mancini, Teresa Capacchione, Francesco Blasi.
Nel suo intervento Dalle tecniche all’etica Fulvio ricordò il lavoro di  Sergio Piro su Le tecniche di liberazione utilizzando il saggio “Sulla contraddizione” (1937) di Mao Zedong. 
Presi alcuni appunti perché quando parlava Fulvio non rinunciavo mai a catturare le sue parole , appunti che offro per ricordarlo affettuosamente.


“Secondo questo scritto la legge della contraddizione è la legge fondamentale della natura e della società, e quindi anche del pensiero. Per Piro, la contraddizione psicologica esprime contraddizioni sociali, e il superamento del disagio non può essere ristretto all’individuo e al suo microambiente, ma deve essere esteso all’intero ambito sociale. Il “tecnico della liberazione” ha il compito di capire l’esigenza reale del singolo e di dargli una giusta indicazione di metodo e di prassi. Le tecniche della liberazione possono essere individuali o collettive. La tecnica collettiva per eccellenza è il “rovesciamento istituzionale”. Quando il disagio del singolo è legato principalmente a contraddizioni esterne, è opportuno risolverle attraverso le “tecniche individuali di prassi attiva”. Quando il disagio nevrotico e psicotico è legato alla presenza di forti contraddizioni interne, si impongono tecniche storico-analitiche individuali, che per Piro «coincidono perfettamente con l’essenza metodologica della psicoanalisi di Freud». In effetti, le critiche aspre di Piro non sono e non saranno mai tanto dirette al “metodo freudiano”, ma piuttosto a quella che egli chiama l’”ideologia psicoanalitica”, e cioè la cristallizzazione di una prassi viva in una serie di rituali denominati setting. Un atteggiamento critico, quello di Piro, che non si è mai lasciato sedurre da facili slogan, e non si è neppure adagiato sulla stereotipica ripetizione di vuote formule sulla terapeuticità di un fare che ha rinunciato al sapere. Questa prevalenza della “prassi della teoria” – o, come dice Piro nel linguaggio dell’epoca, del ciclo prassi-teoria-prassi – sulle pratiche cieche, perché prive di teorie che le guidino, e sulle teorie vuote, perché non accolgono le repliche dell’esperienza, è la lezione più importante che si possa estrarre dai suoi insegnamenti.”

Il prossimo Natale non sarà più per me così gioiosamente napoletano. Addio Fulvio.

Pompeo Martelli


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