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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 57/2012

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 57 - 2012


Lo sportello di ascolto, luogo di legami

Emanuela Lo Re


Riassunto

Lo sportello di ascolto a scuola può diventare un luogo di legami attraverso i concreti gesti di cura che gli operatori effettuano, riconoscendosi parte attiva di una rete capace di costruire resilienza.

Gesti intenzionali. Parole pensate, che creano nuove forme di relazione. Trasformano spazi in luoghi, isolamento in appartenenza. Costruiscono nuove connessioni fra identità e contesti sociali di vita. Il contributo presenta una esperienza di ricerca-intervento, fedele ai principi filosofici ed etici propri dell’Analisi Transazionale.

Una proposta di dialogo fra le teorie e le metodologie proprie della psicologia e delle scienze umane che si dedicano a costruire resilienza.

Abstract

The counselling centre, place of bonds

The Counselling Center in a school can be a place of ties by way of the concrete gestures of care that the counsellors give, recognizing themselves as part of a network that is capable of constructing resilience.

Intentional gestures. Thoughtful words that create new forms of relationships, that transform spaces into places, isolation into belonging, that construct new connections between identity and social life contexts. This contribution presents an experience of research-intervention and is faithful to the philosophical and ethical principles of Transactional Analysis.

A proposal of dialogue between the theories and methodologies of psychology and human sciences that are dedicated to construct resilience.


* Emanuela Lo Re, psicoterapeuta, analista transazionale didatta TSTA-P EATA. Lavora presso il Centro di Psicologia e Analisi Transazionale di Milano e presso la Cooperativa sociale Terrenuove (e-mail: at.mi@centropsi.it)

Il concetto di luogo mi affascina credo da sempre. Uno dei ricordi più antichi che conservo nella mia memoria è l’immagine di me bambina di tre anni che piange disperatamente accanto a un vecchio albero di tiglio nel cortile della mia prima casa. Era il momento del trasloco dal luogo in cui ero nata e avevo vissuto i primissimi anni della mia vita. Forse questa affezione al concetto di luogo, ai luoghi e alla nostalgia dei luoghi è connessa al mio essere figlia di migranti, capaci di insegnarmi come si fa a portare dentro di sé un luogo, e competenti nel tener viva l’interazione dialettica tra i vecchi e nuovi legami, ovvero la multiplache attachment (attaccamenti multipli) di cui parla Gustafson (2002).

Se ripenso al concetto di “spazio psicologico di vita” di Kurt Lewin è vero che ogni luogo contiene in sé le forze e le valenze potenziali che possono trasformarlo in un “luogo dotato di senso”. Arace (2006) sottolinea come gli ambienti o spaces diventino places ovvero luoghi dotati di senso mediante il processo di attribuzione di significati che derivano dall’interazione sociale e dalla memoria. È quindi l’interazione che trasforma uno spazio in un luogo.

Siamo in un’aula della scuola di teatro. È un’aula molto semplice: le pareti, il pavimento, il soffitto sono neri. È tutto nero. Nessuna scenografia, nessun oggetto che racconti una scena o luogo. L’insegnante invita gli allievi a uscire dall’aula e a rientrarvi, pensando di entrare in una chiesa. Gli allievi cominciano uno a uno ad entrare, qualcuno esita davanti alla soglia della porta, qualcuno velocemente si dirige verso quello che, dai suoi occhi, senza dubbio alcuno deve essere un altare, qualcuno guarda in alto gli affreschi mormorando fra le labbra una preghiera. In pochissimi minuti è chiaro che siamo in una chiesa. I passi felpati, il mistero e la simbologia dei movimenti, il muto rispetto fra le persone raccontano che siamo in luogo sacro in cui si respira una spiritualità che quasi commuove.

Penso che questa sia la prima sfida quando si pensa di costruire un luogo di ascolto, un setting, in uno spazio che è destinato ad altro, come può accadere quando si intende realizzare questa proposta in una scuola, luogo che di per sé ha suoi precisi significati, unici per ciascuno di noi oltre a quelli condivisi almeno all’interno della stessa cultura.

Il luogo di ascolto e consulenza a cui mi riferisco è lo Sportello che la cooperativa Terrenuove da diversi anni ha attivato presso le scuole elementari e medie della zona due di Milano e che per un paio d’anni si è collocato anche all’interno del più ampio progetto Adolescenti Stranieri di Seconda Generazione finanziato dalla Fondazione Cariplo.

Lo sportello, curato da Dela Ranci, Emanuele Maggiora, Elga Quariglio, Roberto Bestazza, Cinzia Chiesa e da chi scrive, tutti operatori del Servizio di consulenza psicologica ed etnopsichiatrica di Terrenuove, offre ascolto e consulenza agli insegnanti, alle famiglie e agli alunni italiani e stranieri delle scuole elementari e medie della zona e si presenta come una proposta con alcune sue specificità e ben definiti intenti, condivisi con l’istituzione scuola, che di seguito illustro:

– Restituire un significato ai disagi portati connettendoli al progetto e al processo evolutivo e/o migratorio dei ragazzi, delle loro famiglie e dei loro insegnanti;

– Favorire i processi di inserimento-connessione dei ragazzi italiani e stranieri e delle loro famiglie all’interno dei singoli gruppi classe, quindi nel contesto scolastico e nel territorio in cui queste persone vivono;

– Prendere contatto e valorizzare le risorse e le iniziative educative, sociali e sanitarie che si rivolgono ai ragazzi e alle famiglie presenti nella scuola e nel territorio di appartenenza, curando i rapporti con le agenzie del pubblico e del privato sociale attive attraverso il lavoro di rete.

Lo sportello si realizza presso un’aula messa a disposizione dalla scuola, di solito un’aula “di riserva”, libera dalle attività didattiche. Spesso quando entro in una scuola, in modo assolutamente naturale per me, mi capita di riavvertire i miei vissuti di alunna, frammenti di ricordi. Penso che quando svolgiamo il nostro lavoro in un luogo altro dal nostro abituale studio, sia utile pensare i vissuti passati che quel luogo ci evoca per distinguerli dall’esperienza del presente. Questa consapevolezza ci aiuta come operatori e ci favorisce nel nostro “stare nel qui ora”, disponibili a interagire e a trasformare, nel nostro caso, l’aula in cui incontreremo le persone che hanno scelto di rivolgersi a noi nel “luogo delle parole”, del logos.

Scrive il filosofo Bertrand Vergely:

Non dimentichiamo che la parola logos che significa “ragione” significa anche “legame”. Il che dimostra che siamo nella ragione quando stabiliamo un legame con quello che viviamo, e che stabiliamo un legame con quello che viviamo quando siamo nella ragione. Tra il pensiero e il legame non c’è differenza: il pensiero ci lega e il legame ci fa pensare (Vergely, 2005).

Lo sportello, luogo delle parole è luogo del legame, del pensiero capace di accogliere, conoscere, interrogarsi, creare: costruire resilienza.

Costruire resilienza

Le ricerche e gli studi che, negli ultimi vent’anni, la psicologia e la sociologia hanno dedicato ad approfondire la resilienza (Grotberg, 1995; Masten e Coastworth, 1998; Waller, 2001, Newman e Blackburn, 2002), ci consegnano un concetto ben più complesso e affascinante dell’iniziale capacità di resistere agli urti senza spezzarsi. Labbrozzi (2004) la definisce come «la capacità di tutti gli esseri umani di fronteggiare situazioni di crisi attivando energie e risorse al fine di proseguire lungo una traiettoria di crescita, una qualità dinamica che nasce dall’interazione fra l’individuo e l’ambiente».

A partire dalla definizione proposta e tenendo conto delle specificità e degli intenti sopra descritti, è possibile ricondurre l’attività dello sportello di Terrenuove, a un unico e preciso obiettivo: (ri)-costruire resilienza. Penso a un processo attivo, dinamico e di interazione fra l’individuo e l’ambiente di vita, che permetta ai singoli, alle famiglie e ai gruppi di proseguire con successo nel loro sviluppo, attraverso la riorganizzazione positiva ed evolutiva della propria vita e la creazione di legami significativi all’interno dei propri sistemi sociali: la scuola, le organizzazioni, la comunità (Cyrulnik, Malaguti, 2005). Ho scritto (ri)-costruire resilienza per due motivi precisi legati alla mia esperienza clinica: in primo luogo perché condivido l’idea degli autori (Anaut, 2003) che parlano della resilienza come di una competenza che una volta acquisita può subire rotture e che pertanto può essere ri-costruita più volte nella vita; poi perché le storie che ho ascoltato negli sportelli di Terrenuove sono quasi sempre narrazioni di persone e famiglie che più volte, prima di incontrare i miei colleghi e me, hanno vissuto l’esperienza della resilienza. Mi sembra che parlare di ri-costruire resilienza possa essere un modo per dissociarsi dall’immagine di esperienze “salvifiche” e possa restituire ai protagonisti di questa esperienza (operatori e utenti) l’umanità che appartiene loro.

Umanità che comprende la capacità di essere resilienti.

Scrive Dina Labbrozzi:

La resilienza non richiede un talento speciale che solo pochi individui posseggono. La maggior parte delle persone sembra ben equipaggiata in termini emotivi per superare le difficoltà e anche le crisi devastanti (Labbrozzi, 2004).

Il mio pensiero va a Eric Berne:

Il paziente possiede una pulsione innata verso la salute, sia in senso mentale che fisico. La sua crescita mentale e il suo sviluppo emotivo hanno però trovato degli ostacoli, e il terapeuta non deve fare altro che rimuovere tali ostacoli perché il paziente cresca in modo naturale nella direzione che gli è propria (Berne, 1966).

A partire da queste considerazioni, rifletto sul ruolo delicato ed essenziale di noi operatori “ospiti” di luoghi ed esistenze, al gesto etico della nostra cura capace di rendere reali e attuali le parole di Berne: Je le pensay, Dieu le guarit.

La rete teorica di riferimento

Nell’attività dello sportello sono riconoscibili diversi approcci teorici alla resilienza che rendono il lavoro consistente, praticabile e dotato di senso. Mi riferisco al modello ecologico di Brofenbrenner (1986) proprio della psicologia di comunità; alla psicologia umanistica (May, 1971), in particolare all’Analisi Transazionale di Eric Berne; alla psicologia dello sviluppo; alla teoria dell’attaccamento (Ainsworth, 1970; Bowlby, 1988; Fonagy, 1997); all’etnopsichiatria, con uno specifico riferimento all’approccio messo a punto dal Servizio di consulenza psicologica ed etnopsichiatrica di Terrenuove (Rotondo, 2009; Ranci, 2011).

In ciascun intervento svolto negli sportelli è possibile intravedere le connessioni di più approcci teorici, tanto che più che parlare di una teoria di riferimento possiamo parlare di una “rete teorica di riferimento”, quindi di una visione teorica e tecnica aperta, emotivamente intelligente, disponibile a connettersi e dialogare (parlare e ragionare insieme), non solo in seno alle teorie psicologiche, ma anche in relazione ad alcune altre discipline umanistiche, mi riferisco nello specifico all’educazione, alle scienze della formazione, alle scienze sociali.

Questo processo di connessione teorica è parallelo al lavoro di “costruzione della rete” relazionale, sociale, che consente a chi chiede aiuto di trovare l’intreccio utile a superare le difficoltà attuali e che l’ambiente in cui vive è chiamato a fornirgli. Mi riferisco a processi che fanno riferimento a quella che Boris Cyrulnik definisce “ideologia della rete di maglie”, che sottende ai processi di costruzione della resilienza.

Alcune specificità metodologiche

Le consulenze dello sportello nascono dall’incontro con persone che portano richieste diverse, che per la natura propria delle differenze, di volta in volta ci stimolano nella ricerca e nella messa a punto di percorsi ad hoc, tenendo conto delle risorse disponibili negli specifici contesti relazionali, familiari e sociali propri delle persone interessate. Il nostro è quindi un intervento ecologico (Brofenbrenner, 1986) che tiene conto delle specifiche interazioni

dei nostri interlocutori con i loro sistemi di appartenenza e che si caratterizza per alcune specificità:

– La presenza di due operatori, di solito uno psicologo e un educatore; una scelta che ha più significati: afferma e ricolloca l’intervento offerto nella scuola, riconoscendola come specifico luogo educativo; mostra sensibilità e attenzione agli aspetti psicologici cognitivi, affettivi e relazionali presenti nei processi educativi, didattici e di apprendimento; si propone come modello di dialogo e cooperazione fra discipline, professionisti e persone.

– Il coinvolgimento attivo di un insegnante referente interno alla scuola, ruolo fondamentale per la riuscita dell’attività: favorisce gli scambi con la direzione didattica della scuola, fa da tramite fra gli operatori che gestiscono lo sportello, il consiglio di istituto e i consigli di classe, collabora alla publicizzazione dell’attività con le singole classi, raccoglie e organizza le richieste per lo sportello, è presente nei momenti di monitoraggio e valutazione dell’attività.

– La costruzione di un piccolo gruppo, attorno alla persona che porta la domanda; piccolo gruppo di chiara ed esplicita ispirazione etnopsichiatrica, fedele all’indirizzo teorico e tecnico proprio del Servizio di consulenza psicologica ed etnopsichiatrica di Terrenuove (Rotondo, 2011).

– In linea con la letteratura dedicata alla resilienza (Cyrulnik, Malaguti, 2005), l’utilizzo dell’esperienza di rete, di piccolo e di grande gruppo, è riconosciuto come un fondamentale supporto sociale per costruire e sostenere i processi di resilienza.

– L’utilizzo del contratto: coinvolgendo più soggetti, le consulenze si realizzano all’interno della cornice contrattuale propria dell’Analisi Transazionale, nella sua specifica forma di contrattualità multipla ovvero con un preciso ed esplicito riferimento alla teoria e alla tecnica del contratto a più mani di Fanita English (1992).

L’utilizzo del contratto qui come in altri contesti e setting conferma la visione umanistica e bilaterale del rapporto con l’altro, propria dell’Analisi Transazionale oltre a essere una chiara espressione della visione etica e positiva dell’altro e della relazione. Visione connessa al principio dell’Okness, ovvero all’uguaglianza, al rispetto, all’attenzione ai valori umani, all’adeguatezza di ciascuno a essere quello che è, con la sua “competenza” a farsi carico della sua vita e a prendere decisioni rispetto a sé (Rotondo, 1991).

Contratto e filosofia dell’Okness propri dell’Analisi Transazionale, come afferma Labbrozzi (2004) sono coerenti con la costruzione dei processi di resilienza, in linea con i principi della psicologia umanistica, riconoscono il «valore degli aspetti soggettivi dell’esistenza umana, quali il desiderio, la volontà, il prendere decisioni» (May, 1971).

Percorsi di resilienza

Ripensando alle consulenze svolte oggi le riconosco come percorsi di resilienza: è visibile la nostra attenzione e la cura di quelli che in letteratura (Labbrozzi, 2002; Cyrulnik, Malaguti, 2005) vengono considerati i fattori, responsabili di attivare e sostenere i processi di resilienza, ovvero:

– La creazione di legami significativi, anche al di fuori del proprio nucleo familiare

– L’appartenenza a un gruppo, una rete disponibile a offrire un supporto sociale e affettivo

– La possibilità di cogliere un significato e una direzione nelle proprie esperienze di vita, una continuità, sottraendole a un vissuto di caos e di destino inesorabile

– La percezione del valore di sé come persona.

Nei percorsi che illustro, l’auto-narrazione appare chiaramente come lo strumento teorico e tecnico principe per costruire la resilienza, come scrive Susanna Ligabue in Rispondere al trauma (2008). Considero auto-narrazione ogni atto creativo che permette alle azioni, ai sentimenti, ai moti dell’anima, alle esperienze di trovare un proprio senso, una forma di espressione e forse anche un po’ di pace. Un viaggio creativo ed espressivo non solitario, vissuto in relazione con sé, con altri e con altro come dice Brunella Andreoli (2010). Un nuovo rapporto con le proprie immagini di cui parla Vergely quando definisce «l’esperienza del pensiero» attiva nei processi di resilienza, specificando:

[...] come non vedere in qualsiasi carezza l’annuncio di un pensiero? Non si dice infatti di colui che pensa nel proprio intimo che accarezza un pensiero? Pensare è sempre un po’ carezzare l’esistenza, per riconciliarla con se stessa, come carezzare è far pensare, facendo fremere, alle cose inesprimibili della vita che sono come tante carezze. La carezza fa sempre pensare il corpo a qualcosa che non pensava ancora. È per questo che la carezza è curativa e qualsiasi cura è “carezzevole”. I terapeuti, accarezzando tramite la terapia e l’attenzione, sono degli uomini di pensiero. Svegliano i nostri pensieri nascosti nei nostri corpi nascosti. Sono dei rivelatori di vita, che danno scacco agli annunciatori di morte (Vergely, 2005).

Queste riflessioni sollecitano una riflessione sul tema del rapporto

fra l’oggettività delle avversità della vita (i lutti, i traumi, le migrazioni, le malattie, la povertà) e la soggettività ovvero la percezione e la valutazione delle avversità stesse da parte di coloro che le hanno vissute. Le reazioni personali agli eventi non sono prevedibili e risentono della valutazione e dell’attribuzione di senso proprie della persona che ne fa esperienza. Pensando all’attività dello sportello, mi sembra importante citare Waller (2001) quando sottolinea il valore nei processi di resilienza delle risorse in termini di sostegno che la persona percepisce intorno a sé quando si trova ad affrontare un’avversità.

Illustro ora alcune consulenze svolte che considero percorsi di resilienza: narrazioni, esperienze di condivisioni e ricerca di nuove verità emotive, di nuovi significati nascosti.

Nuovi legami e processi di resilienza

Maria un’insegnante di seconda elementare chiede una consulenza perché incontra difficoltà nel gestire la relazione con Josè, un bambino peruviano che ha recentemente perso il padre. Maria riferisce di non comprendere l’atteggiamento di chiusura della mamma di Josè, la sua mancata disponibilità a parlare del lutto che sta vivendo. È stupita nel vedere che Josè non mostra sentimenti di tristezza, non parla mai di suo padre. “Tace troppo.” Quando Maria guarda il bambino, è assalita da molti interrogativi, non sa se affrontare il discorso o se tacere pure lei. Cerchiamo di capire insieme cosa ha portato Maria a rivolgersi a noi. Dal colloquio emerge che il lutto che questo bambino sta attraversando insieme alla sua mamma, riporta Maria a una sua personale esperienza di perdita del marito, alla sua fatica, al suo prendersi carico da sola del peso dell’assenza, alla sua disperazione. Riteniamo utile aiutare Maria a distinguere la sua esperienza da quella di Josè e della mamma del bambino e di sollecitare in lei una riflessione sulle diversità nelle strategie di elaborazione del lutto in relazione alla propria storia, all’età, al proprio ruolo all’interno della famiglia e alla propria cultura di appartenenza, e infine di stimolarla nel riconoscere le sue colleghe insegnanti come possibili attuali risorse per stare accanto a Josè e alla sua mamma nel passaggio che stanno attraversando, rispettandone tempi e modalità. Maria ci sta, riflette con noi e si attiva per spiegare alle sue colleghe la sua difficoltà e per chiedere il loro aiuto, per coinvolgerle. Dopo qualche mese dal nostro primo incontro, Maria chiede un appuntamento e si presenta allo sportello con la mamma di Josè. Ci tiene a presentarle la nostra attività, la invita a tener conto della possibilità di rivolgersi a noi se ne sente la necessità, dichiarandole la sua stima e la sua solidarietà.

Maria nell’incontro con Josè è chiamata a ri-prendere contatto con il suo trauma e quindi con la sua esperienza di resilienza che molto probabilmente ha avuto a che fare con il “prendersi carico di tutto”, strategia che tenta di ripetere nell’accompagnare Josè. Così facendo svaluta il lavoro che il bambino e la sua mamma stanno compiendo e non riconosce altre risorse disponibili: le sue colleghe e anche noi. La ripetitività di Maria è riconducibile a un aspetto “copionale” agito nella relazione con Josè. Un agito non pensato, una strategia che forse può aver avuto un suo senso in un là e allora nella storia di Maria, ma che oggi blocca la relazione e crea frustrazione. Nella ripetizione la creatività è limitata così come risulta limitato il processo creativo della resilienza. Per Maria prendere contatto con i propri vissuti, riconnettendoli alla sua storia, ha favorito il processo di mentalizzazione (Fonagy, 1997) che le ha permesso di distinguersi da Josè, e di accogliere i suoi bisogni e le sue emozioni senza sovrapporsi a lui. Passaggi fondamentali per la costruzione di un nuovo legame con il bambino e con la sua mamma. Nei processi di resilienza la costruzione di nuovi legami svolge una funzione importante: è un nuovo attaccamento con un’altra persona, con sé, con la propria esistenza. Infatti, come afferma Cyrulnik (2005) «ciò che determina la qualità della resilienza è la qualità dei legami che si sono potuti creare prima e dopo l’evento traumatico».

Connettere la propria storia al presente

Abdul, il papà di Jasmine, 7 anni, egiziano, si rivolge allo sportello perché vede la sua bambina “svogliata e troppo sensibile”, non sa come fare ad aiutarla. Le insegnanti gli hanno suggerito di darle delle regole, ma in questo lui incontra alcune difficoltà. Durante l’incontro questo papà ci racconta della storia migratoria sua e della sua famiglia. Siamo colpiti dal suo senso di responsabilità che a tratti assume la forma di un senso di colpa per aver portato in Italia sua moglie, che fatica a imparare l’italiano e inserirsi e i suoi bambini che vede infelici. Ci racconta di una migrazione che ha portato la sua famiglia a vivere uno status sociale più basso rispetto a quello vissuto in Egitto. Ci spiega che nell’educare i suoi bambini lui segue gli insegnamenti che sono stati tramandati da suo padre. Si tratta degli insegnamenti che lo hanno fatto diventare un uomo, che lui condivide e vuole tramandare ai suoi figli. Quello che ci colpisce di questi insegnamenti è che prevedono 7 anni di gioco, 7 anni di esempio e 7 anni di regole. Lui dice che per questo non può dare le regole così come gli hanno suggerito le insegnanti della bambina. Decidiamo allora di convocare le insegnanti e chiediamo ad Abdul di illustrare loro il suo modus educandi. Questo ci consente di definire in modo chiaro e condiviso le funzioni educative che nei loro diversi ruoli papà e insegnanti possono assumere nel rapporto con Jasmine.

Ancorarsi agli insegnamenti del proprio padre, quindi alla sua storia e alla sua cultura di origine è probabilmente una delle strategie che Abdul utilizza per affrontare le difficoltà legate alla migrazione che lui e la sua famiglia stanno affrontando. E di per sé questo ha un suo senso, Cyrulnik (2005) infatti sostiene la necessità di «contemplare e riconoscere la storicità» delle persone nei processi di resilienza accanto alla costruzione di nuovi legami con il contesto sociale. Il nostro lavoro è accogliere e legittimare i principi di Abdul, la sua rigidità senza “spezzarla” e creare una connessione, favorire un’alleanza con le insegnanti. Il percorso con Abdul è un vero e proprio esempio della necessità di un lavoro di rete. Un vero e proprio lavoro di squadra per consentire a questo padre di alleggerirsi un po’ del peso della responsabilità di essere genitore in terra straniera e di condividerla con le insegnanti. Un passaggio fondamentale per favorire un processo di resilienza e permettere a questa famiglia di conservare il legame con la sua cultura di origine e aprirsi ai legami con la nuova cultura.

Dal caos al progetto

L’insegnante di André, un ragazzo di 12 anni cinese, chiede aiuto. È molto preoccupata perché dopo un iniziale “perfetto inserimento”, una vera e propria “luna di miele” con la nuova cultura, il ragazzo mostra segnali di chiusura, quando viene interrogato va molto in ansia e raggiunge difficilmente la sufficienza e per questo si chiude e si “deprime”, si isola e partecipa poco alle attività del gruppo-classe. Decidiamo di convocare i genitori di André. Allo sportello si presenta solo il padre, l’uomo che parla con difficoltà l’italiano, ci racconta che a breve tornerà in Cina per una visita di un mese o due alla sua famiglia. Il suo programma ci appare confuso e impreciso. Nel dubbio che la nostra difficoltà a comprendere sia legata alle difficoltà di comprensione della lingua, chiediamo l’intervento di una mediatrice cinese. Reincontriamo l’uomo con la mediatrice e da questo incontro ci appare evidente che l’uomo è incerto rispetto al proprio futuro, non sa se rimanere o no in Italia, riferisce un disagio profondo nel vivere in Italia, disagio che è diventato più importante per lui con l’arrivo di André. Ipotizziamo che il suo disagio e la sua incertezza siano connesse con le difficoltà di André. Pensiamo che l’incertezza del padre non autorizzi André a portare avanti il suo processo migratorio e decidiamo di chiedere al ragazzo se è disponile a incontrarci insieme all’insegnante e a suo padre. Il ragazzo accetta. André è un ragazzo con gli occhi vivi, che si esprime in un perfetto italiano. Sono le sue spalle curve a raccontarci del suo disagio insieme alla voce flebile. Condividiamo con lui le informazioni che abbiamo raccolto e chiediamo all’insegnante e al padre di André di descriverlo dal loro punto di vista e di dire i suoi punti di forza. Insieme ragioniamo sulle attuali difficoltà del ragazzo e sul loro senso. Decidiamo di offrire ad André uno spazio di ascolto e di espressione della sua rabbia e del suo dolore per un futuro che gli appare incerto nella geografia e negli affetti. Uno spazio che decidiamo di curare in due: un uomo e una donna. Il percorso prende avvio dalla cartina geografica. André ci indica la sua città e ci racconta della sua vita là, i suoi affetti per poi soffermarsi sul vuoto e la nostalgia di adesso. Un oggi fatto anche di sogni e passioni che diventano progetti per il futuro nella scelta della scuola superiore.

Gli incontri con André si configurano come un vero e proprio percorso autobiografico: la “ricostruzione di una storia dispersa” come la definirebbe il mio amico e collega Emanuele Maggiora (2001), che tiene conto delle peculiarità proprie dell’essere adolescenti migranti (Cassoni; Maggiora; Quariglio 2011). Un lavoro di tessitura dell’attaccamento con la propria storia, con sé. Ripensandoci oggi abbiamo realizzato con lui quella che Cyrulnik (2005) definisce la «metamorfosi sotto l’effetto della parola», ovvero il passaggio dall’esperienza della sensorialità delle emozioni e delle sue espressioni corporee, incomprensibili e implicite all’esperienza del racconto esplicito, dicibile e condivisibile. Lo sportello pensato per André voleva essere un luogo sicuro e stabile. Un luogo in cui, citando Cyrulnik:

i processi di resilienza non hanno più nulla a che vedere con la biologia, né con le interazioni sensoriali e possono esprimersi attraverso la narrazione della propria storia e le riflessioni sul senso della propria vita (Cyrulnik, 2005).

E, aggiungo, con i progetti del futuro, che considero legami capaci di favorire i processi di resilienza al pari dei legami con il passato e il presente.

L’importanza del gruppo in un percorso di resilienza

Annalisa è una insegnante di seconda elementare, chiede di incontrarci perché è preoccupata per il suo alunno italiano, Tommaso. Ci racconta che il bambino vive con la nonna, i due genitori vivono altrove, nel quartiere si dice che sono forse in carcere o in comunità. Il bambino a scuola incontra molte difficoltà nell’apprendimento, è distratto, i suoi compiti non sono mai completi. Le sue difficoltà riguardano anche la relazione con il gruppo-classe. Tommaso spesso mette in atto comportamenti irruenti e aggressivi con i compagni che lo escludono dai giochi e dalle attività del gruppo, per questo il bambino a sua volta si isola e diventa inaccessibile anche all’insegnante. Proponiamo ad Annalisa di incontrare insieme a lei anche la nonna di Tommaso, che per un paio di volte concorda l’appuntamento con noi e non si presenta. Insieme all’insegnante ripensiamo i motivi che possono portare questa nonna a evitare l’incontro con noi. Pensiamo alle paure di un possibile allontanamento del nipote da lei, alle fantasie legate a incontrare degli esperti. Nel contempo, recuperiamo e verifichiamo la presa in carico della situazione da parte dei servizi sociali del territorio. Decidiamo di dire alla nonna di Tommaso che manteniamo aperta la disponibilità a incontrarla e con l’insegnante riflettiamo sulle attuali risorse di cui possiamo tener conto per aiutare il bambino. Riconosciamo che la scuola e in particolare il gruppoclasse, rappresenta un luogo privilegiato dove il bambino trascorre molto del suo tempo e pensiamo che sia un tempo importante per lui, che può trasformarsi in un tempo in cui provare a “star bene”. Pensiamo che il disagio portato da Tommaso possa essere riletto come l’espressione del disagio che può riguardare l’intero gruppo-classe nei suoi processi di comunicazione e appartenenza. Per questo, proponiamo all’insegnante un intervento con il gruppo-classe dedicato al tema della comunicazione e dell’appartenenza, con l’intenzione di aiutare Tommaso e gli altri suoi compagni a ri-conoscersi, a trovare un modo per affermare il loro esserci-con, per favorire una coesione di gruppo che può diventare un luogo sicuro. Chiediamo alle insegnanti di essere partecipanti attive nel percorso.

La situazione di Tommaso presenta a nostro parere criticità e diversi fattori di rischio per la sua crescita. Questo ci ha chiaramente sollecitato a prendere contatto con i servizi e a sostenere la rete fra la scuola e i servizi stessi. Accanto a questo intervento abbiamo pensato e costruito per Tommaso un percorso che è nato dall’analisi delle risorse disponibili e dal riconoscimento di due fattori, a nostro avviso, utili per promuovere e sostenere il suo processo resilienza (Labbrozzi, 2004) ovvero: il legame di Tommaso con le insegnanti, figure adulte e significative e la sua appartenenza al gruppo-classe. L’idea di proporre un percorso dedicato alla comunicazione ha avuto l’intenzione di favorire interazioni positive fra Tommaso i suoi compagni e le sue insegnanti, scambi comunicativi capaci di nutrire “affettivamente” e di favorire fra i bambini la costruzione di una positiva immagine di sé, altro fattore capace di promuovere resilienza (Labbrozzi, 2004). Un’esperienza relazionale significativa e utile a Tommaso, ai suoi compagni e alle insegnanti per affrontare le difficoltà di oggi e forse, in un’ottica preventiva, anche di domani.

Il valore del tempo

Rosa una donna peruviana si rivolge a noi per chiedere un aiuto per le difficoltà che incontra nella relazione con la sua bambina di sette anni, riferisce di “non riuscire a gestirla e a farsi ascoltare da lei”. Per comprendere le difficoltà che questa mamma ci porta, ricostruiamo insieme a lei il suo processo migratorio. La donna sposata in Perù e con due bambine, in seguito ai continui tradimenti del marito decide di lasciarlo e di emigrare in Italia, dove vive una sua cugina. Affida alle cure della nonna paterna le sue due bambine, Silvia di 5 anni e Morgana di 2 anni, che rimangono in Perù. In Italia, Rosa trova subito un lavoro regolare e ben retribuito come badante e questo le permette di mandare i soldi alla nonna delle bambine e di provvedere economicamente alla loro crescita, le sente regolarmente al telefono, va a trovarle qualche volta durante l’estate “con la valigia piena di regali”. Una volta raggiunta una stabilità lavorativa ed economica decide di avviare le pratiche per il ricongiungimento delle sue figlie. Nel frattempo conosce un uomo albanese, i due si innamorano e decidono di andare a vivere insieme. Dalla loro unione nasce Francesca. Quasi contemporaneamente alla nascita della piccola Francesca, Silvia che ha nove anni e Morgana cinque, vengono ricongiunte. Arrivate in Italia, le due bambine vanno a vivere con la loro mamma, il suo nuovo compagno e la sorellina appena nata. Silvia si adatta subito alla nuova situazione, è collaborativa, aiuta la mamma nella gestione della casa e della piccola Francesca. Morgana si oppone “in tutto e per tutto” alla nuova situazione, vuole tornare dalla sua nonna in Perù, dice che “lei è la sua vera mamma”, litiga con Silvia, fa i dispetti a Francesca, rifiuta i gesti di affetto di Rosa, è inaccessibile. Il racconto di Rosa è appassionato e appassionante per noi, la donna si commuove, si arrabbia, si interroga, si rassegna e noi con lei. Ci interroghiamo sul significato di tanto “pathos” e ci chiediamo cosa può rappresentare per Morgana tutto questo, come può essere per lei essere fra i protagonisti di una storia così “forte”, ricca di legami e di strappi. Pensiamo alla necessità di chiarire insieme a Rosa i motivi delle sue scelte e delle sue azioni e ci prendiamo un tempo per questo. è il tempo in cui viene dato spazio alle emozioni di Rosa, ai suoi sensi di colpa, alla sua urgenza di mettere a posto tutto subito nella relazione con le sue bambine, sentimenti che non le permettono di ascoltare i bisogni urlati di Morgana, ma anche quelli silenziosi di Silvia. Ci diamo un po’ di tempo e decidiamo di incontrare Rosa qualche volta per rallentare e capire con lei come accedere a Morgana e come ri-costruire con lei quel legame così sofferto.

Il processo di resilienza necessita di un tempo psicologico affettivo, diverso dal tempo dell’azione e del pensiero, certamente più veloci. La proposta di darci qualche incontro con Rosa vuole essere un modo per sperimentare come la costruzione di un legame necessita di tempo, attese e “pazienza”. La velocità con cui si sono susseguiti gli eventi e le decisioni nella storia di Rosa non le hanno permesso di pensare e sentire le sue scelte. Probabilmente il suo tentativo di oggi è quello di ripetere la sua strategia del “mettere a posto tutto subito”, strategia che non le consente di riconoscere i bisogni delle sue bambine e che la ostacola nella (ri)tessitura del legame di attaccamento (Cyrlunik, 2005) con loro, indispensabile perché possano proseguire nella loro crescita e nella costruzione della loro resilienza. Nel percorso con Rosa sono state un riferimento forte le teorie e le ricerche dell’attaccamento (Crittenden, 1999) e della psicologia dello sviluppo (Beebe e Lachmann, 2002) che sottolineano come il processo di crescita e la progressiva definizione dell’identità sono promosse dall’alternanza di esperienze relazionali sintoniche e dissintone con i bisogni della persona.

L’idea di attaccamenti ancora possibili, una speranza per Morgana, per la sua famiglia e per noi.

Per concludere

Quello che mi colpisce ripensando alle consulenze dello sportello, è il riconoscere nei motivi delle richieste i segnali di ciò che in Analisi Transazionale definiamo “comportamenti passivi” (Schiff, 1971): penso alla chiusura e all’astensione di Josè e di André, all’eccessivo adattamento del papà di Jasmine e di Silvia, all’agitazione di Maria e di Rosa, all’aggressività di Morgana, alle incapacitazioni di Tommaso.

Di fronte alle avversità una prima immediata reazione possibile ha a che fare con i processi difensivi, alcune risposte “copionali”, l’attivazione di quelle modalità di relazione che agite in un là e allora sono risultate utili per la sopravvivenza, capaci di sollecitare una risposta dalle figure di accudimento, un conforto, un qualche tipo di attaccamento. D’altro canto, la vita, le avversità ci chiedono una presenza piena, completa, quando agiamo comportamenti passivi inevitabilmente siamo presenti in modo parziale, limitato. La teoria AT definisce “svalutazione” questo modo di rapportarsi con l’esperienza. E di fatto, quello che accade nei processi di svalutazione è che non vediamo l’insieme di ciò che ci circonda: noi, gli altri, l’ambiente, le risorse, i limiti. Con questa visione parziale sopra-viviamo. Questo non significa essere resilienti, significa forse resistere. Le persone impegnate nel processo di resilienza, guardano il loro trauma, ascoltano, ricordano, chiedono aiuto: il primo movimento da cui il processo creativo della resilienza diventa esplicito. Riconosco questo movimento nelle persone che ho incontrato e incontro nel mio lavoro allo sportello, movimento che prende la forma della richiesta di aiuto che significa ascoltare il disagio, agire attivamente nella ricerca di una soluzione e riconoscere che «non si è, senza eccezioni, resilienti da soli: la famiglia, il quartiere, la comunità, la società, la cultura interagiscono» (Malaguti, 2005). Una fiducia di base negli altri, nei legami possibili. La fiducia che sfida le avversità e mira all’Autonomia di cui parla Berne, ovvero alla capacità di Intimità, Spontaneità, Consapevolezza, indispensabili, come abbiamo visto, nei processi di resilienza (Labbrozzi, 2004).

Di fatto lavoriamo con le persone perché: stabiliscano e mantengano legami significativi nel loro ambiente sociale; mettano a fuoco risposte adeguate alle richieste sul piano pratico, sociale, scolastico, lavorativo; siano consapevoli di se stesse, degli altri e dei luoghi in cui vivono.

Le immagini della Piccola città di Thornton Wilder mi hanno accompagnato nella scrittura di questo testo. Un’opera teatrale dedicata ai semplici gesti delle relazioni che segnano la vita di tutti i giorni: delle parole non resta traccia, dei gesti è fatto il tessuto dell’esistenza. Mi chiedo cosa c’entra questo con la resilienza, con il nostro lavoro allo sportello.

Penso che apprendiamo la resilienza, fin da quando siamo bambini, dai gesti semplici quelli di ogni giorno. Li vediamo compiere a coloro che ci circondano e si prendono cura di noi, nel loro rapporto con l’esperienza e con noi. Sono gesti che custodiscono quella fiducia nella vita e nel futuro, che di generazione in generazione ci tramandiamo. Nel tempo, li proviamo, li ripetiamo. Li trasformiamo, finché diventano nostri. Fili della nostra trama. Aspetti del nostro copione. A volte appaiono chiari, esplicitamente vitali, evolutivi. Altre volte sono impliciti, nascosti nei sogni, nei sintomi, nelle ripetizioni che sembrano prive di senso.

Le inevitabili conseguenze dei gesti interrotti, delle interruzioni, delle ferite possono essere “ricucite” attraverso concreti gesti di cura (Gamelli, 2008), capaci di ri-evocare gesti di resilienza nascosti e di inventarne di nuovi.

Tornano alla mia mente le parole di Emily, una dei protagonisti della Piccola città, quando chiede «C’è nessuno... nessun essere umano... che sappia quello che sta vivendo mentre lo vive?». «I poeti forse... forse un poco...» è la risposta del narratore.

Emily esorta alla presenza, all’“esserci” pienamente, allo stare nel “qui e ora” a contatto con noi, con l’altro, con quello che c’è. E il narratore parla di poesia, arte, creatività.

È dall’ascolto consapevole, partecipe, sim-patico che possiamo creare concreti gesti di cura. Gesti intenzionali, interattivi capaci di trasformare gli spazi in luoghi, di restituire all’esperienza una sua continuità, di costruire nuovi legami con se stessi, con la propria vita, con gli altri, con il presente.

In fondo, lo sportello, il nostro luogo di parole e legami, come il teatro, è una proposta di come il mondo potrebbe essere.

 

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