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C.P.A.T. --> HOME PAGE --> N. 46/2006

QUADERNI DI PSICOLOGIA,
ANALISI TRANSAZIONALE
E SCIENZE UMANE

Dal n° 46 - 2006


Unità relazionali di stati dell’io e resistenza al cambiamento*

di Ray Little**

Traduzione di Claudia Chiaperotti



Riassunto
Nell’articolo l’autore tenta di spiegare la difficoltà che alcuni pazienti paiono avere ad abbandonare comportamenti limitanti e vecchie modalità di relazione; cerca di capire, cioè, perché alcuni pazienti oppongono resistenza al processo di terapia. L’autore esamina come il modello degli stati dell’Io spieghi questa resistenza e come un modello di unità relazionali di stati dell’Io possa aiutare il terapeuta ad avere una miglior comprensione e a lavorare più efficacemente.

Abstract
EGO STATE RELATIONAL UNITS AND RESISTANCE TO CHANGE
In this article the author attempts to make sense of what seems to be a difficulty some clients have in letting go of self-defeating behaviors and old ways of relating, that is, why some clients resist the process of therapy. The author explores how the ego state model explains the resistance and how a model of ego state relational units helps the therapist to understand and work more effectively with this process.
Per lavorare in maniera relazionale con i pazienti occorre utilizzare la diade terapeutica. Occorre perciò porre particolare attenzione alla matrice transfert-controtransfert come mezzo per sollecitare nel paziente la crescita e lo sviluppo. Usando questo metodo ho incontrato talvolta una certa resistenza verso il processo terapeutico, difficile da capire a livello clinico e da elaborare a livello terapeutico. Pensando ai vari stati dell’Io coinvolti e all’apparente resistenza che incontravo, mi fu chiaro come il Genitore, l’Adulto e il Bambino non siano stati dell’Io separati, ma siano piuttosto legati come unità relazionali. In questo mio modo di pensare sono stato influenzato in gran misura da Fairbairn (1952), Masterson (1988/1990), Grotstein (1994) e Ogden (1994), teorici delle relazioni oggettuali.
Questa visione degli stati dell’Io è importante per capire la resistenza che alcuni pazienti sembrano opporre, dato che in molti casi non abbiamo a che fare con un singolo stato dell’Io ma con un complesso, un’unità di due stati dell’Io. È importante anche per usare la relazione terapeutica per facilitare il cambiamento e per capire la matrice transfert-controtransfert. Ho scoperto che considerare Bambino e Genitore come unità relazionali ha migliorato la mia capacità di sostenere i miei pazienti nella loro crescita e mi ha fatto capire come alcuni aspetti di queste unità relazionali oppongano resistenza al processo terapeutico.
Lo sviluppo di una sensibilità nei confronti delle dinamiche intrapsichiche e inconsce del paziente ha arricchito il processo terapeutico. Per fare ciò ho combinato la teoria delle relazioni oggettuali – che esamina in modo approfondito gli aspetti intrapsichici e la matrice transfert-controtransfert – con l’Analisi Transazionale e la sua teoria descrittiva delle manifestazioni comportamentali e transazionali di queste dinamiche. In questo articolo presento la mia integrazione di queste due teorie, seguendo la strada tracciata da Blackstone (1993) nel suo eccellente articolo Il Bambino dinamico: integrazione di struttura di secondo ordine, relazioni oggettuali e psicologia del sé.

Stati dell’Io
Una trattazione su stati dell’Io e unità relazionali di stati dell’Io deve cominciare con una descrizione dell’Io. L’Io è quella parte della personalità che percepisce e genera i significati sia consci che inconsci (Ogden, 1994). L’Io può essere considerato come l’esperienza di essere se stessi, ciò che riconosciamo come “io” (Rycroft, 1968) e che differenzia tra me e non me. L’Io ha vari compiti, il principale dei quali, secondo Berne (1961) è l’“autoconservazione”. Secondo gli psicoanalisti uno dei compiti dell’Io è mediare tra l’Es e l’ambiente. L’Es è quella parte della nostra personalità che ha a che fare con la soddisfazione dei bisogni istintuali.
Freud (1923/1984) sostiene che l’Io si sviluppa dall’Es; lo considera come “quella parte dell’Es che è stata modificata dall’influenza diretta del mondo esterno”. Non tutti gli analisti però concordano. Melanie Klein è una di loro, secondo Bell (1998). Klein sostiene esservi un Io rudimentale già all’inizio della vita, che alterna tra «stati di relativa coesione e stati di non integrazione e di disintegrazione». Melanie Klein, pur avendo sviluppato le sue considerazioni teoriche a partire dal pensiero di Freud, aveva messo l’Io e non l’Es al centro della sua teoria. Dal canto suo, Freud considerava la teoria della Klein più una deviazione che una evoluzione delle proprie idee (Gomez, 1997).
Anche Fairbairn sviluppò una visione diversa da Freud, infatti il suo punto di vista il bambino già alla nascita ha un Io unitario e dinamico, che reagisce al trauma scindendosi. A differenza di Freud, che credeva nella teoria delle pulsioni, Fairbairn sosteneva che le persone vanno alla ricerca delle relazioni fin dalla nascita. Egli respinge l’idea dell’istinto di morte, alla quale Klein e Freud credevano e considera l’aggressività come una reazione alla frustrazione. Fairbairn inoltre elabora un diverso modello della mente. Invece del modello strutturale freudiano di Io, super-Io ed Es, egli sviluppa il suo modello endopsichico, consistente in relazioni oggettuali. In questo modello l’ansia di base è quella da separazione.
Seguendo questa linea di pensiero, la teoria di Berne (1961) degli stati dell’Io Genitore, Adulto e Bambino si riconduce all’idea di una scissione dell’Io precedente che ha come risultato stati dell’Io Bambino fissati, stati dell’Io Genitore introiettati e una struttura tripartita. Visto in questo modo, il Bambino è l’aspetto arcaico dell’Io, fissato a un punto precedente come risposta a un bisogno di relazione non adeguatamente soddisfatto. Per Berne «Il Bambino è uno stato dell’Io distorto che si è fissato e ha così cambiato la direzione di tutta la parte successiva del continuum». Il Genitore, invece, è l’aspetto introiettato di un altro, con cui l’Io si identifica per difesa. Per Ogden (1994), la scissione dell’Io si verifica unicamente in una fase molto precoce dello sviluppo e quindi «l’identificazione con l’oggetto è di natura scarsamente differenziata». Ognuno di questi sottosistemi dell’Io – il Bambino e il Genitore – può generare la sua percezione e il suo significato degli eventi. Ogni sottosistema avrà anche le sue reti neurali (Allen, 2003). Trautmann ed Erskine (1981) ne fanno una descrizione dal punto di vista dell’Analisi Transazionale, come “modello concettuale”.
Balckstone (1993) ha scritto dell’integrazione tra Analisi Transazionale e relazioni oggettuali: secondo lei lo stato dell’Io G1 è analogo all’oggetto nella teoria delle relazioni oggettuali e il B1 è analogo al sé. Quindi, quando i teorici delle relazioni oggettuali si riferiscono all’oggetto, in Analisi Transazionale possiamo pensare in termini di stato dell’Io Genitore nel modello concettuale. Allo stesso modo, quando parlano del sé noi possiamo identificarlo con lo stato dell’Io Bambino.
La precedente scissione dell’Io che aveva portato alla struttura tripartita è un processo difensivo e il tentativo di affrontare quella che può essere descritta come una situazione intollerabile di fallimento relazionale. Se la scissione iniziale si verifica in un ambiente accogliente sufficientemente buono (Winnicott, 1972) che offra l’opportunità di riparazione da parte di una figura che si prende cura del bambino – quella che Stolorow (1994) chiamerebbe il secondo altro desiderato– vi sarà una successiva integrazione e lentamente si raggiungerà la costanza dell’oggetto (Hartmann, 1950/1964). La costanza dell’oggetto è caratterizzata dalla piena separazione delle rappresentazioni del sé e dell’oggetto.

Unità relazionali di stati dell’Io
Genitore, Adulto e Bambino non sono solo distinti stati dell’Io. Io sostengo che Bambino e Genitore sono uniti in complessi o unità. Il rapporto Bambino-Genitore è la rappresentazione interiorizzata di una precedente esperienza tra il sé e l’altro, o oggetto, come è stata percepita dal bambino. Queste rappresentazioni di sé e dell’altro sono legate dall’affetto. È l’intera relazione a essere stata interiorizzata come schema relazionale nella memoria implicita (Lemma, 2003). Questo schema non si può andare a recuperare, ma lo si può dedurre dal comportamento presente o attraverso la matrice transfert-controtransfert.
Secondo Lemma (2003) i bambini interiorizzano le relazioni sé-altro a un livello presimbolico e queste interiorizzazioni formano dei modelli (templates) che precedono le rappresentazioni verbali. L’interiorizzazione avviene in una fase molto precoce e influenza il nostro funzionamento nel presente. Lemma sostiene inoltre che questi modelli sono organizzati a seconda del livello di comprensione acquisito dal bambino nella fase evolutiva nella quale essi sono stati interiorizzati.
Mitchell (1994), nel commentare l’oggetto nella teoria di Melanie Klein, sostiene che «le rappresentazioni di tutte le esperienze e le relazioni con altri significativi vengono anch’esse interiorizzate, per cercare di conservarle e di proteggerle». Se esaminiamo la natura delle relazioni che sono state interiorizzate possiamo distinguerle in esperienze soddisfacenti e insoddisfacenti. Vari autori (Erskine, comunicazione personale, giugno 1996; Fairbairn, 1952) fanno questa distinzione e hanno parlato di questo processo di interiorizzazione.
Secondo questi autori, sono le esperienze insoddisfacenti a essere state introiettate e fissate come unità relazionali Bambino-Genitore e non semplicemente interiorizzate. Quando persone o oggetti diventano parte delle rappresentazioni mentali del mondo di una persona, questo processo viene detto interiorizzazione (internalization), mentre se le funzioni di persone o oggetti sono sostituite da rappresentazioni mentali si parla di introiezione (introjection) (Rycroft, 1968). L’introiezione è un processo difensivo che attenua l’ansia da separazione. Secondo Erskine (1996) le esperienze soddisfacenti o sufficientemente buone vengono assimilate anziché introiettate. In questa prospettiva l’assimilazione si può identificare con l’interiorizzazione. Da parte sua, Fairbairn non descrive nei dettagli cosa succede delle esperienze soddisfacenti, ma si concentra sul modo in cui interiorizziamo, in un sistema psichico chiuso, le esperienze insoddisfacenti e intollerabili.
Facendo riferimento alla teoria strutturale di Fairbairn (1952), Rubens (1994) parla delle relazioni fissate in modo insoddisfacente come di “interiorizzazioni strutturanti” e delle esperienze soddisfacenti come di “interiorizzazioni non strutturanti”. In Analisi Transazionale le interiorizzazioni strutturate fissate condurrebbero al copione, che Joines (1991) indica come struttura chiusa. Invece, le esperienze soddisfacenti, interiorizzate e non strutturanti, verrebbero integrate nel funzionamento del qui e ora, e sarebbero riferite all’autonomia, che Joines indica come struttura aperta. È il sistema chiuso di interiorizzazioni strutturanti che forma la base delle strutture caratterologiche e delle difese e che consiste di schemi di maladattamento.
Il Bambino fissato delle interiorizzazioni strutturate è ciò che Masterson (1988/1990) descrive come “falso sé” e che considera difensivo. Secondo Masterson, lo scopo del falso sé è di evitare sensazioni dolorose e ciò avviene a scapito della capacità di controllare e confrontarsi con la realtà. Queste interiorizzazioni strutturate hanno origine prevalentemente da fantasie infantili e da relazioni oggettuali arcaiche e operano prevalentemente tramite il pensiero concreto, prima che si sviluppi la capacità di pensiero simbolico. Masterson asserisce che il sé reale, a differenza del falso sé, è perlopiù conscio e in grado di discernere «i nostri specifici desideri individuali e di esprimerli nella realtà».
Il diagramma strutturale dell’Analisi Transazionale, con i tre circoli sovrapposti, è una costruzione che aiuta a capire e inizialmente dà l’idea di un singolo stato dell’Io Bambino, di un singolo stato dell’Io Genitore e una singola relazione. Per contro, il modello della mente di Fairbairn (1952), che egli chiama “struttura endopsichica”, suggerisce l’esistenza di tre unità relazionali sé-oggetto. Forse dovremmo tenere bene a mente l’idea che vi sono varie unità relazionali Bambino-Genitore riferite a diversi momenti o fasi dello sviluppo e a diverse situazioni.
Il Bambino e il Genitore non sono singoli stati dell’Io ma categorie di stati dell’Io (Stewart, 1992) e quindi categorie di unità relazionali di stati dell’Io. Sono queste unità Bambino-Genitore strutturate e interiorizzate che contengono il potenziale nascosto e le capacità inespresse dell’individuo.

Il vincolo di lealtà
Quando si manifesta lo stato dell’Io Bambino si può dedurre che vi sia un Genitore che lo influenza (Edwards, 1968) e che, sebbene non palese nel comportamento in quel momento, è presente a livello intrapsichico. Berne descrive la funzione del Genitore come stato dell’Io attivo oppure come influenza. Il concetto di Genitore influenzante (Berne, 1961) che agisce sul Bambino implica una relazione o un attaccamento particolari tra Bambino e Genitore.
Nell’ambito di questa relazione Berne descrive due possibili risposte del Bambino: il Bambino Adattato che è sotto l’influenza del Genitore e il Bambino Naturale, che è stato represso e si sta liberando dell’influenza del Genitore. Si potrebbe dire che uno degli obiettivi della terapia è aiutare a risolvere questa lotta. Ciò si può ottenere aprendo il sistema chiuso (Fairbairn, 1952): il terapeuta si rende disponibile perché il Bambino vi si ponga in relazione come a un nuovo oggetto, così che il Bambino possa emergere e lavorare in terapia per liberarsi del vecchio legame con il Genitore.
La relazione tra Bambino e Genitore può comportare anche un vincolo di lealtà. Fairbairn (1952) per primo lo descrive come il legame del sé con l’oggetto cattivo. Qualsiasi tentativo di aiutare il cambiamento porta paziente e terapeuta a scontrarsi con questo vincolo di lealtà. Sia il Bambino sia il Genitore possono avere interesse a rimanere gli stessi. Per il paziente, il cambiamento significa mettere in discussione questo vincolo interno.
Com’è difficile per certi pazienti cambiare!
E come sono riluttanti molti di loro a parlare di certi sentimenti, temendo di tradire i genitori o chi si è preso cura di loro! Qui abbiamo il vincolo di lealtà tra Bambino e Genitore: il timore è che venga distrutta la relazione tra il Bambino, che ha trovato il modo di far fronte alla situazione e il Genitore idealizzato.
La lealtà a un’unità relazionale Bambino-Genitore intollerabile può essere, almeno in parte, il tentativo di evitare di cadere in quello che Grotstein (1994) chiama il buco nero dell’inesistenza, dell’assenza di significato e dell’assenza di relazioni. Seinfeld (1996) aggiunge che il buco nero ha a che fare con «la perdita sia di sé sia dell’oggetto». Grotstein (1994) dice anche che «l’assenza di quel legame accelera» la nostra discesa nel buco nero. Questa paura di perdere l’oggetto può scaturire dall’esperienza di un attacco interno nei confronti del legame tra il sé e l’oggetto, o dal timore di un attacco all’oggetto che lascerebbe il sé in un mondo privo di oggetti.
La lealtà verso una vecchia unità relazionale può essere legata anche alla mancanza di esperienze soddisfacenti e all’assenza di un oggetto sufficientemente buono. Ciò che si dice generalmente riguardo al bisogno di carezze – e cioè che carezze negative siano meglio della mancanza di carezze – si riferisce allo stesso fenomeno: una relazione dolorosa o insoddisfacente è meglio della mancanza di relazioni.

Il processo di introiezione e fissazione
Bambino e Genitore sono due aspetti dell’Io che si sono scissi. Essi costituiscono l’unità relazionale Bambino-Genitore. Le esperienze insoddisfacenti o disgregative con il care-taker nei primi mesi di vita e poi nell’infanzia portano alla scissione di quegli aspetti dell’Io che sono sentiti come inaccettabili. Questi aspetti del sé (Bambino) rimangono legati all’oggetto insoddisfacente (Genitore) ed entrambi vengono repressi.
Il processo descritto da Fairbairn (1952) ha inizio quando la relazione del bambino con il care-taker si infrange o diviene frustrata. Il bambino, quindi, interiorizza la relazione con le sue parti intollerabili (Gomez, 1997). L’altro, soddisfacente e tollerabile, diventa l’oggetto idealizzato, legato a quegli aspetti dell’Io spogliati del comportamento che renderebbe attivo l’altro come l’insoddisfacente e intollerabile. Gli aspetti insoddisfacenti e intollerabili dell’altro vengono ulteriormente divisi in oggetti che eccitano/deludono e oggetti che rifiutano (Fairbairn, 1952). Attraverso il processo di interiorizzazione si crea una rappresentazione mentale dell’oggetto, con cui poi l’Io si identifica. Ciò fa sì che l’altro venga introiettato ma non assimilato. Come già detto, quindi, l’introiezione è un processo di difesa. Consiste nell’Io che assume le funzioni dell’oggetto esterno. L’introiezione, inoltre, riduce l’ansia da separazione, in quanto l’individuo ha interiorizzato l’oggetto e ora lo porta con sé. L’introiezione riduce anche il rischio di ostilità tra il sé e l’altro, dando un senso di controllo.
L’oggetto/stato dell’Io Genitore introiettato, pertanto, consiste nell’altro che è stato interiorizzato. Il Genitore è ora una suddivisione dell’Io che si è scisso e identificato con una rappresentazione oggettuale, pur mantenendo la capacità di pensare, di percepire e di sentire dell’Io (Ogden, 1994). Il Genitore è quindi un agente dinamico e attivo, non solo una rappresentazione mentale. È in effetti una parte dell’Io che si è scissa perché contiene aspetti inaccettabili del sé.
Le relazioni con il sé e con l’altro sono interiorizzate, non consce, e sono conservate nella memoria implicita (Allen, 2000), quindi non recuperabili. Attraverso l’identificazione difensiva, una parte dell’Io si identifica con l’altro interiorizzato, mentre una seconda parte dell’Io si scinde e si identifica con il sé. L’Io quindi risulta diviso in due agenti interconnessi e la mancanza di integrazione porta a una struttura fissata e introiettata. Questo è ciò che vuol dire Fairbairn (1952) quando afferma che non è solo l’oggetto a essere interiorizzato ma la relazione.
Transfert
Freud (Freud e Breuer, 1905/1974) ha usato per la prima volta il termine transfert in La psicoterapia dell’isteria. Pensava che il transfert si verificasse come risultato di una “falsa connessione” da parte del paziente. Considerava il transfert come “nuove edizioni” (Freud, 1905/1974) di vecchi impulsi e vecchie fantasie. Greenson (1967), nel suo brillante lavoro intitolato The Technique and Practice of Psycho-Analysis (Tecnica e pratica psicoanalitica), proseguendo il precedente lavoro di Freud, afferma che il transfert consiste in una persona nel presente a cui si reagisce come se fosse qualcuno dal passato. È una ripetizione, una nuova edizione di una vecchia relazione, in cui «sentimenti e difese relative a una persona del passato sono stati riversati su una persona del presente». Questo processo è primariamente inconscio, un’interruzione del pieno contatto nel presente e un blocco alla piena attivazione del sé. Come fa notare Allen (2000), questa concezione del transfert è per natura interpersonale e tuttavia non descrive in modo diretto il contributo del terapeuta.
Dai tempi di Freud, la nostra concezione di transfert si è ampliata. I kleiniani in particolare sostengono che il transfert sia qualcosa di più della ripetizione del modello di relazione del paziente con le figure significative del passato. Considerano il transfert come relazioni oggettuali interiorizzate che vengono agite (enacted) nel qui e ora. A differenza di Freud, molti terapeuti dei nostri giorni considerano il transfert come un processo nel quale emozioni attuali e parti del sé sono esteriorizzate nella relazione terapeutica. Ciò implica la proiezione di relazioni oggettuali infuse di sentimenti e fantasie positive ma anche di sentimenti e fantasie ostili (Lemma, 2003).
Nell’approccio intersoggettivo e relazionale (Stolorow, Brandchaft e Atwood, 1995/2000), il transfert consiste in strutture psicologiche precedentemente formatesi, o modelli (templates), ed è espressione dell’universale sforzo psicologico di organizzare l’esperienza e di costruire significati. Il transfert inoltre ha a che fare con i modi in cui il paziente definisce l’esperienza della diade terapeutica sulla base delle sue strutture inconsce e dei suoi modelli. In una prospettiva evolutiva il transfert viene visto anche come il tentativo del paziente di stabilire con il terapeuta «un nesso di relazione arcaica dove possono essere ripresi processi di strutturazione che erano falliti o si erano interrotti e si può completare una crescita psicologica che si era arrestata».
Il rapporto di transfert consiste quindi prevalentemente nel rivivere nel presente quegli aspetti della originaria relazione con il _care-taker che erano a suo tempo stati vissuti come frustranti, insoddisfacenti, intollerabili o abusanti e che erano stati interiorizzati. Il danno e la frattura nella originaria relazione di accudimento così come l’incapacità dell’ambiente di cura a rispondere al bambino in modo sufficientemente buono, sono in una certa misura inevitabili. Fairbairn (1952) descrive il modo in cui gli elementi deludenti e frustranti della relazione vengono interiorizzati e scissi dagli elementi soddisfacenti, per poi essere più tardi repressi. Secondo Klein (1946/1975) questa scissione è necessaria per proteggere dagli attacchi l’oggetto buono. Questa unità relazionale Bambino-Genitore interiorizzata e repressa si trasforma in relazione intrapsichica o interiorizzazione strutturante (Rubens, 1994). Ciò che veniva vissuto e percepito nella originaria relazione con il care-taker è ora interiorizzato e fissato come relazione intrapsichica. Più avanti, aspetti di questa relazione potranno essere proiettati sull’ambiente e rappresentare la base della relazione transferale.
Spesso il transfert si attiva come risultato del tentativo che la persona fa di dare senso e risposta a una varietà di stimoli nella relazione terapeutica (Gill, 1982). Come tale, quindi, non è una distorsione della realtà, come dice Freud, ma il tentativo di dare un significato a una varietà di spunti. Inconsciamente, spesso ciò si fa ricorrendo ai vecchi modelli, cioè a precedenti esperienze tra sé e l’altro. Il risultato è la proiezione sulla relazione terapeutica di vecchie unità relazionali Bambino-Genitore.
Il rapporto transferale è, fondamentalmente, la ripetizione degli elementi frustranti e deludenti dell’originaria relazione con il care-taker. Scharff (1992) definisce tutto ciò come “transfert focalizzato”, paragonandolo con “l’oggetto madre” di Winnicott. La relazione con l’oggetto è l’inizio della relazione Io-Io.
Perché il paziente possa incominciare la terapia, però, è necessario che “la madre-ambiente” (Winnicott, 1963/1965a) sia stata sufficientemente accogliente. Entrando in terapia, il paziente si aspetta di trovare un terapeuta «che lo accoglie con un abbraccio» (Scharff, 1992) e che gli offrirà sicurezza e affidabilità. Se nei primi mesi di vita la persona non si è sentita sufficientemente accolta dalla «madre-ambiente» è molto probabile che abbia una organizzazione di personalità psicotica (Kernberg, 1984) e che la persona sia poco disposta a entrare in terapia. Scharff descrive la “madre ambiente” come un “transfert contestuale”, molto simile a quella che Greenson (1967) chiama “alleanza di lavoro”.
Erskine (1991) sostiene che è attraverso la relazione transferale che il paziente può mostrare, e magari dimostrare, sia i suoi bisogni evolutivi frustrati e le relative difese, sia il bisogno terapeutico di relazione. Nella relazione transferale il paziente invita il terapeuta a ripetere vecchie esperienze, ma vi sarà anche il desiderio di arrivare a un esito diverso e di continuare a crescere.
A volte il terapeuta verrà visto come qualcuno che viene dal passato, altre come un qualcuno di nuovo. Secondo Cooper e Levit (1998), perché la terapia funzioni il terapeuta deve poter essere e_sperito sia nell’uno che nell’altro modo. È probabile che il terapeuta senta che alcuni aspetti di sé vanno in risonanza sia con l’oggetto temuto sia con l’oggetto sentito come terapeuticamente necessario.
Transfert e controtransfert sono i due elementi interconnessi di uno stesso processo, o matrice (Little, 1999; Novellino, 1984), e possono essere visti come l’esteriorizzazione, a livello interpersonale, di una relazione oggettuale interna (Ogden, 1994). Per Stolorow et al. (1995/2000) transfert e controtransfert «insieme formano un sistema intersoggettivo di reciproca, mutua influenza». Il controtransfert comprende la totalità delle reazioni del terapeuta (Steiner, 1993) e si può considerare un’importante fonte di informazioni (Heimann, 1950). Una componente del controtransfert è l’identificazione del terapeuta con un aspetto dell’unità relazionale interna del paziente. Mentre il terapeuta si identifica con un aspetto di questa unità – il Bambino o il Genitore – l’unità relazionale degli stati dell’Io del paziente si svela nella diade terapeutica anziché rimanere un fenomeno intrapsichico. Da parte del terapeuta, il processo di identificazione è una manifestazione delle sue strutture psicologiche e della sua attività organizzativa (Stolorow et al., 1995/2000). L’identificazione è concordante quando il terapeuta si identifica con lo stato dell’Io Bambino; è complementare quando si identifica con lo stato dell’Io Genitore (Racker, 1972). Queste reazioni aiutano il terapeuta a capire il ruolo che il paziente inconsciamente lo invita ad assumere e gli dà modo quindi di capire più chiaramente il paziente. Si tratta del tentativo del paziente di comunicare una precedente esperienza in modo inconscio. Come terapeuti, quindi, possiamo tentare di trarre delle conclusioni riguardo alle esperienze psicologiche del paziente comprendendo quelle esperienze, sentimenti, pensieri e bisogni relazionali di cui forse il paziente non è pienamente conscio o di cui non riesce a parlare. Erskine (1996) descrive questo processo come “ciò che non è parlabile” (unspeakaboutable) e Bollas (1987) lo chiama “il conosciuto non pensato” (the unthought known). In questo modo il terapeuta entra in sintonia con l’esperienza dissociata e non integrata del paziente. Bollas suggerisce al terapeuta di provare a capire il paziente andando a cercare il paziente dentro di sé.

Cambiamento e trasformazione
Cambiamento implica una trasformazione nello stato o nella qualità di qualcosa ed è pertanto un termine neutro. L’esito del cambiamento può essere positivo o negativo, benefico o dannoso. Per Bowlby (1988) il cambiamento continua per tutto il ciclo di vita, per cui è sempre possibile che le cose cambino in meglio o in peggio. Nel setting terapeutico questo comporta che ci sia sempre il pericolo di ferire nuovamente, di rinnovare l’esperienza temuta, ovvero la possibilità che si verifichi un episodio che favorisce la trasformazione: l’esperienza desiderata e sperata.
Una delle conseguenze del processo di interiorizzazione e di introiezione dell’unità Bambino-Genitore è che vi può essere stato un impedimento allo sviluppo e alla crescita del senso di sé. Per proteggerci da ulteriori traumi possiamo, per difesa, aver scisso e poi represso quegli aspetti di noi stessi, quei sentimenti o quei bisogni relazionali che parevano minacciare le nostre relazioni primarie e quindi la nostra sopravvivenza. Questo porta a una mancanza di integrazione. È come se avessimo distrutto, nascosto o messo sotto chiave alcuni aspetti di noi stessi o del nostro potenziale. Questi aspetti nascosti e i ricordi loro associati, con i loro percorsi neurali rafforzati e i relativi meccanismi di difesa, possono essere descritti come stati dell’Io arcaici fissati. Sono interiorizzazioni strutturate di relazioni vincolate al copione che sono legate insieme come unità relazionali di stati dell’Io Bambino-Genitore. Sono proprio questi stati arcaici che il paziente deve essere aiutato a sbloccare e a integrare, in modo da riportare in vita il sé dissociato che può essere stato seppellito o imprigionato in queste strutture.
Di fronte a un terapeuta che accetta e onora le strutture e le difese del paziente, questi può scoprire la possibilità di entrare in relazione con se stesso e con gli altri in modo diverso. Tuttavia il paziente può domandarsi: «Se ho messo sotto chiave il mio potenziale e la mia capacità di crescita, sono sicuro di volerli tirare fuori? Dopo tutto sono io stesso che li ho nascosti; cosa succede se li vado a riprendere e torno a vivere? Quest’altra persona, questo altro mi accoglierà o si verificherà una ripetizione di una precedente esperienza formativa? Quali sentimenti mi troverò a dover affrontare e riconoscere, assumendomene la responsabilità?» (Little, 2000).
Nell’offrire la possibilità a questi stati dell’Io arcaici e a queste strutture interiorizzate, con le loro capacità occultate e «messe sotto chiave», di fare un’esperienza di trasformazione, dobbiamo tener conto di diversi fattori. Nella letteratura psicoterapeutica si trova spesso la descrizione di due spinte apparentemente opposte: da un lato vi è da parte dell’Io un’attrazione per l’omeostasi e per la prevedibilità; dall’altro vi è una uguale attrazione per la crescita e lo sviluppo, che può implicare l’attivazione di timori esistenziali. Vale a dire che vi è sia la voglia che le cose siano prevedibili, anche se non soddisfacenti, sia la voglia di essere differenti; il desiderio di un falso sé adattato (Winnicott, 1960/1965b) e il desiderio di essere autentici; la tendenza a ripetere le relazioni con le possibili delusioni e il desiderio di quelle relazioni di cui si sente il bisogno con il loro potenziale di gratificazione, di crescita e di frustrazione adeguata. Questi opposti poli di attrazione, quando hanno entrambe lo stesso livello di energia, possono essere vissute come un’impasse (Goulding e Goulding, 1979).

Resistenza
Si è parlato di resistenza quando il paziente si oppone alle procedure e ai processi della psicoterapia (Greenson, 1967). Secondo Fairbairn (1952), la resistenza può esere vista come un legame del paziente a un modo di essere vecchio e prevedibile che si basa sulla paura di subire nuovi traumi, di ritraumatizzazione. Allo stesso modo, Guntrip (1968) ci descrive, con un linguaggio non tecnico, la resistenza come «il temere e l’odiare la debolezza di fronte alle necessità della vita». Nell’ottica dell’Analisi Transazionale, l’idea di Fairbairn del legame può equivalere al rimanere leali alla vecchia unità relazionale Bambino-Genitore. Di fronte alla possibilità di cambiamento vi può essere il desiderio di mantenere il sé come lo si conosce, il che potrebbe essere visto come resistenza. Per Bromberg (1998) si tratta dell’esigenza di «mantenere la continuità dell’esperienza di sé durante il processo di crescita minimizzando la minaccia di un potenziale trauma», e cioè il desiderio di rimanere se stessi pur nel cambiamento. La resistenza può essere il segno di una lotta tra una vecchia unità relazionale e la possibilità di un nuovo modo di mettersi in relazione con il terapeuta. Quindi la resistenza può indicare sia che il lavoro in psicoterapia si sta svolgendo, sia che lo si vuole evitare. La resistenza può anche essere intesa come il timore da parte del paziente che gli arcaici bisogni di relazione che si ridestano ed emergono vadano incontro alle stesse delusioni, frustrazioni e rifiuti vissuti nell’infanzia (Stolorow et al., 1995/2000). In sostanza, si tratta della paura di nuovi traumi, di ritraumatizzazione.
La resistenza non è solo espressione di un conflitto intrapsichico; è anche un fenomeno interpersonale. Il terapeuta non è uno schermo bianco sul quale si proiettano vecchi conflitti. La soggettività e la presenza del terapeuta fanno parte del processo. Da questo punto di vista, la resistenza è una risposta al terapeuta, anche quando esso è empatico, è in sintonia e cerca di offrire “un’esperienza correttiva”. È il terapeuta a destare la resistenza e, per quei pazienti che temono nuovi traumi, questa anticipa la temuta ripetizione di un precedente fallimento nello sviluppo. Secondo Stolorow (Stolorow et al., 1995/2000), il paziente organizza il suo vissuto del terapeuta e delle sue attività secondo modelli prestabiliti, o schemi relazionali. E aggiunge che quando la resistenza persiste nel processo terapeutico può voler dire che l’influenza di questi modelli precostituiti continua.

Stati dell’Io come resistenza
La lealtà verso un oggetto “cattivo” (Fairbairn, 1952) può essere vissuta dal terapeuta come resistenza verso il “buon” lavoro della terapia. Il paziente, però, rimane leale perché teme che non vi sia quasi nessun oggetto interno buono con il quale sostituire quello cattivo (Seinfeld, 1996). Aggrapparsi a un oggetto cattivo può sembrare l’unico modo per rimanere in vita. Se lo lascia andare teme di poter cadere nel buco nero dell’inesistenza e dell’assenza di oggetto.
Può sembrare che la resistenza al cambiamento provenga prevalentemente da uno dei due stati dell’Io dell’unità relazionale, dal Bambino o dal Genitore. Il paziente può trovare difficile rinunciare all’attaccamento a vecchie unità relazionali abbandonando modi di relazione pur dolorosi e insoddisfacenti. Ogden (1994) descrive la difficoltà che i pazienti incontrano nell’abbandonare attaccamenti patologici che hanno a che fare con relazioni oggettuali interne inconsce. Fairbairn (1952) per primo ha interpretato in questo modo la resistenza in terapia, sottolineando l’importanza del legame del sé con quello che descrive come oggetto interno cattivo. È proprio questo oggetto cattivo, represso per conservare la relazione con il care-taker idealizzato, che deve essere liberato dall’inconscio. Il compito del terapeuta pertanto può essere anche quello di aiutare i pazienti a lavorare sulle loro specifiche unità relazionali Bambino-Genitore proprio quando queste vengono proiettate sulla diade terapeutica. È importante tenere a mente che la proiezione di una particolare unità relazionale di stati dell’Io avviene con ogni probabilità in risposta a ciò che fa il terapeuta. A mio parere, l’unica probabilità di modificare l’unità relazionale è di lasciare che si esprima nell’ambito della relazione transferale-controtransferale.
All’inizio della terapia i primi segni di resistenza potrebbero essere dati dal paziente che parla della sua infanzia e di come questa sia stata felice. Al terapeuta questo può parere più come un’idealizzazione dell’infanzia. Proseguendo, il terapeuta potrebbe notare per esempio che il paziente non fa alcun cenno alla madre. In questo caso Ogden (1989/1992) suggerisce di domandare alla persona se ha notato l’omissione. Ciò non è per scoprire informazioni mancanti, ma per concentrare l’attenzione su cosa il paziente teme possa accadere se rivela quel particolare aspetto del suo mondo interno. È possibile che vi sia resistenza a rivelare una particolare unità relazionale di stati dell’Io. Il terapeuta si dovrà chiedere quale stato dell’Io, o quale unità relazionale di stati dell’Io, “verrebbe tradito, ferito, ucciso, perduto, ingelosito, e così via” se rivelato al terapeuta.
La resistenza può consistere nel Bambino che si aggrappa allo stato dell’Io Genitore perché aspetta che il Genitore diventi finalmente il tipo di persona che desiderava fosse il care-taker originario. A ogni esperienza che si ripete si accompagna la speranza che questa volta sarà diverso. Questa è, in parte, la motivazione alla base dei giochi psicologici. Fairbairn (1952) descrive due forme di attaccamento del sé all’oggetto cattivo, o stato dell’Io Genitore: il sé Anelante (craving self), che è attaccato all’oggetto allettante, che si ritrova nelle dipendenze; e il sé Offeso (wronged self), che è attaccato all’oggetto che non lo ama e lo rifiuta, che prende forma in crociate per combattere il male e le ingiustizie. I pazienti che rimangono leali a un oggetto offensivo e persecutorio mantenendo la posizione di vittime, all’inizio tendono a negare il significato dell’abuso e a conservare la speranza nonostante le prove del contrario. Spesso proiettano l’oggetto eccitante (Fairbairn, 1952) sull’autore dell’abuso. La vittima sovente conserva i ricordi dell’abuso al di fuori della consapevolezza, continuando a vederne l’autore come un oggetto eccitante nella speranza di riuscire a cambiarlo e, cambiando se stessa, a far emergere l’amore di quella persona. Questi pazienti sono convinti, in fondo, che sia colpa loro se non hanno ricevuto l’amore di cui avevano bisogno dal _care-taker che li maltrattava e alle volte vengono in terapia per essere aiutati a cambiare se stessi in modo da riuscire a tirar fuori l’amore dell’altro. Magari descrivono la storia degli abusi subiti, che però considerano normali. Se fanno parte di un gruppo di terapia, spesso si stupiranno delle reazioni di sorpresa degli altri componenti del gruppo per quello che loro considerano un comportamento normale.
La resistenza al cambiamento può venire non solo dallo stato dell’Io Bambino ma anche dallo stato dell’Io Genitore. Ogden (1994) parla di resistenza che deriva dall’oggetto o Genitore, che può opporre resistenza all’essere trasformato in oggetto buono per la paura di venire annientato. L’oggetto o Genitore può temere anche di perdere il controllo su di sé o sul Bambino e quindi resistere alla terapia. Ancora, il Genitore può far resistenza perché all’interno dell’unità relazionale invidia la libertà che vede emergere nel Bambino ed essere riluttante a lasciar andare il legame.

Regressione come resistenza
La resistenza alla terapia si può manifestare anche sotto forma di regressione. Il paziente può regredire al funzionamento di un precedente stadio evolutivo per evitare di trovarsi nel presente nell’ambito di un incontro terapeutico con tutta la sua imprevedibilità. Regredendo il paziente cerca di creare con il terapeuta una maniera più familiare e prevedibile di funzionare e di comportarsi, cosa che il paziente probabilmente sente come un’“area di sicurezza”.
Porto l’esempio di un paziente che induce la terapeuta, che vede sé stessa come una persona che dà sostegno e che si prende a cuore le sorti del paziente, a preoccuparsi per lui mostrandosi turbato riguardo a un errore che ha commesso al lavoro. La terapeuta lo vede come un bambino mortificato che vuole rassicurare, per cui è turbata e preoccupata in modo quasi materno. Ciò colma lo spazio fra terapeuta e paziente, il quale usa lo stesso comportamento che usava per suscitare preoccupazione nella madre in modo che non si arrabbiasse con lui. Nel corso della precedente seduta il paziente aveva incominciato a parlare dei sentimenti erotici che provava per una collega, cosa che la terapeuta aveva considerato di natura transferale e riferita a lei stessa. Anche la terapeuta aveva provato sentimenti erotici nel corso della seduta. Colmando lo spazio relazionale per mezzo della rassicurazione, paziente e terapeuta evitano la possibilità che emergano sentimenti erotici su cui si debba poi lavorare. Questo è il risultato del fatto che entrambe le parti hanno attivato un attaccamento di tipo materno-filiale, dato che né l’uno né l’altra si sentono a loro agio a porre attenzione ai sentimenti erotici che hanno provato.
Regressione può voler dire anche ritirarsi in uno stato di fusione con il terapeuta, descritto talora come bolla narcisistica. Questo per evitare di porsi in relazione con il terapeuta come persona distinta, con i suoi sentimenti e i suoi bisogni, su cui il paziente non ha controllo. Dato che in terapia il paziente incomincia a sviluppare la capacità di autoriflessione, questa può essere percepita come una minaccia da quella parte del paziente che desidera disperatamente rimanere fusa nella bolla narcisistica. Questa minaccia, a sua volta, può innescare un attacco da parte dell’oggetto/Genitore teso a sminuire il sé/Bambino o il terapeuta (Rosenfeld, 1987). A volte una struttura narcisistica, con la sua unità relazionale di stati dell’Io, può venire mascherata sotto sembianze benevole e il sé è indotto a credere che sia meglio rimanere leali. L’oggetto dirà al sé: non puoi fidarti degli altri, neppure del terapeuta. Solo di me ti puoi fidare, non ti deluderò.
Chi ha una struttura del carattere narcisistica può opporre resistenza alla terapia per difendersi dalle aggressioni causate dalla frustrazione, dall’invidia e dalla dipendenza da un altro. L’invidia può essere una risposta alle capacità del terapeuta e trasformarsi poi in un attacco che reca danno alla terapia (Segal, 1973/1988). La regressione può portare il paziente sia a ritirarsi e rinchiudersi psicologicamente in se stesso, sia a tornare indietro nel tempo, a uno stato di assenza di richieste o attacchi, dove non è necessario adattarsi (Little, 2001). Ciò per evitare un mondo percepito come ostile, dove il paziente teme di essere schiavizzato dall’oggetto/terapeuta (R. Klein, 1995). Questo atteggiamento si può descrivere come ritiro schizoide.
Anche cancellare il lavoro fatto in terapia, per esempio dimenticando ripetutamente la seduta precedente, può essere una manifestazione di resistenza. Questa strategia porta a far diventare le sedute esperienze episodiche, che non hanno nessuna influenza sulla terapia né sulla vita della persona. Aiuta anche il paziente a evitare il dolore e l’ansia che talvolta prova nell’andarsene alla fine della seduta, perché gli ricorda che è separato dal terapeuta.
Vi è anche la possibilità di un più grave ripiegarsi in un’organizzazione psicotica con attacchi nei confronti della mente che disturbano il collegamento della persona con la realtà (Steiner, 1993). In questi casi il paziente avrà una percezione distorta della situazione immaginando che la sua percezione sia realtà. Di conseguenza può avvenire una interruzione nell’alleanza terapeutica.

La paura di ritraumatizzazione come resistenza
La resistenza al processo terapeutico è, almeno in parte, la paura di poter sperimentare di nuovo esperienze traumatiche. Il paziente cerca di capire il comportamento del terapeuta, per vedere se le sue espressioni di affetto e di bisogno verranno accolte con accettazione e comprensione o se saranno rifiutate, con conseguente umiliazione e ritraumatizzazione.
Quando incominciano a emergere nella diade terapeutica, i pazienti proveranno un misto di speranza e di terrore (Mitchell, 1993). La speranza è di avere un’esperienza diversa da quelle precedenti con altre persone – in particolare i primi care-takers – e di essere accettati e compresi questa volta. Il terrore è di subire nuovi traumi, echi delle esperienze precedenti.
Incominciando a emergere e a provare nuovi comportamenti, i pazienti cercheranno di attribuire un significato ai vari spunti e segnali che colgono dal terapeuta. Il processo con cui i pazienti cercano di “decifrare i segnali” riattiva vecchi modelli (templates) e schemi relazionali. Tutti noi quando ci troviamo in situazioni nuove o sconosciute ci basiamo su vecchi modelli relazionali e su “principi organizzativi” (Stolorow, 1994) per dare un senso a ciò che succede. Allo stesso modo i pazienti assimilano l’esperienza con il terapeuta a precedenti schemi relazionali.

La paura dell’ignoto come resistenza
A differenza di chi teme un nuovo trauma, alcuni pazienti temono di perdere il contatto con il sé e di non sapere cosa aspettarsi dalla relazione. Lo stesso emergere nella diade terapeutica implica avventurarsi in un terreno inesplorato, senza mappe. Il paziente non ha un modello relazionale di come funziona la faccenda, dispone solo vecchi modelli. Sia l’esperienza di sé sia l’esperienza dell’altro sono sconosciute. I vecchi schemi relazionali danno un’idea di come andranno probabilmente le cose e se saranno soddisfacenti o deludenti. Nel terreno inesplorato, invece, il paziente cercherà di conservare quel sé che conosce, cercando allo stesso tempo di impegnarsi nel processo di cambiamento e di crescita. Il processo attraverso cui si cambia e si emerge comporta l’esperienza del terrore esistenziale dell’ignoto.
Kohut (1971), come ci dice Stolorow (Stolorow et al., 1995/2000), indica un’altra ragione perché i pazienti possono far resistenza al transfert, e cioè perché sentono le loro vulnerabilità strutturali. Per esempio, i pazienti possono essere restii a lasciar andare le loro stoiche difese nel timore inconscio di venire destabilizzati dalla loro stessa “pazzia”.

Il contributo del terapeuta
I pazienti entrano in terapia con le loro particolari strutture relazionali. La presenza del terapeuta – consistente nell’ascoltare, lasciarsi colpire e persino disturbare, e nella sintonizzazione empatica – non può che risvegliare il sé vulnerabile e represso del paziente, che in precedenza veniva aggressivamente tenuto lontano dalla relazione. Il comportamento del terapeuta rappresenta la relazione di cui si sente il bisogno. Nel corso di questo processo il paziente può mostrare disturbi intrapsichici e resistenza al cambiamento proveniente da unità relazionali strutturate di stati dell’Io. Queste unità tentano di mantenere chiuso il sistema intrapsichico. Esse vengono proiettate sulla diade terapeutica come un vecchio modello, per cercare di dare un significato al comportamento del terapeuta. Tutto ciò conduce alla paura di un nuovo trauma, o alla paura della perdita del sé come lo si conosce, oppure alla paura di trovarsi in un territorio sconosciuto. Dunque il comportamento del paziente e la sua resistenza diventano, in parte, una reazione al comportamento del terapeuta.
Il timore della ritraumatizzazione fa sì che a un certo livello il terapeuta venga vissuto dal paziente come un oggetto pericoloso. Anche la più garbata delle domande può essere psichicamente pericolosa per il paziente, perché lo invita a entrare in relazione, cosa che in passato è stata dolorosa o pericolosa.
È opportuno che il terapeuta rifletta sulla possibilità che il suo contributo alla diade terapeutica (per esempio l’empatia) possa di per sé essere recepito come pericoloso. Il terapeuta deve quindi cercare di scoprire, in ciò che fa, cosa vi sia di così pericoloso agli occhi del paziente. La struttura, le difese e le unità relazionali che danno vita alla resistenza precedono la situazione terapeutica e possono evidenziarsi in altre situazioni nelle quali sopravvenga il timore di un nuovo trauma, ma è comunque importante esaminare in ciò che fa il terapeuta quale sia la cosa a cui il paziente risponde.
La resistenza si può considerare come una interruzione nel flusso uniforme della terapia. Stolorow e i suoi coautori (1995/2000) sottolineano l’importanza, per il terapeuta, di comprendere gli strappi, per come sono vissuti soggettivamente dal paziente, e di capire quali eventi evochino quella particolare risposta del paziente che influenza successivamente la relazione terapeutica. Questo processo di analisi va applicato anche al mondo soggettivo del terapeuta. «La resistenza [da parte del paziente] è sempre risvegliata da una certa qualità o attività dell’analista che per il paziente annuncia un imminente ripetersi di un fallimento evolutivo traumatico.» Se la resistenza continua, ciò può essere un’indicazione dell’influenza di vecchie unità e schemi relazionali. Per comprendere la resistenza occorre scoprire quale sia il contesto e il comportamento del terapeuta a cui il cliente risponde. Il terapeuta deve domandarsi, tra le altre cose, quale suo contributo sia intrinseco alla reazione del paziente.

Terapia
Come ho scritto altrove (Little, 2005), secondo me per lavorare in modo relazionale occorre che il terapeuta si coinvolga e lasci che il paziente lo “colpisca” e lo “stuzzichi.” Può essere necessario affrontare il conflitto relazionale appena emerge nel qui e ora della diade terapeutica. Occorrerà ritrovare il vecchio oggetto e, attraverso il processo, trasformare l’esperienza in modo che la nuova si sviluppi da quella vecchia. Potrà essere necessario anche fornire un’esperienza correttiva, traendo dal processo comprensione e significato, sopportando odio e attacchi rabbiosi senza lasciarsi andare a ritorsioni. Il terapeuta lavorerà con la matrice transfert-controtransfert nel qui e ora, rinunciando a interpretazioni del tipo là e allora (genetico) o là fuori (extratransfert). Tutto ciò richiede che si accettino le proiezioni, in modo che terapeuta e paziente possano viverle, esserne consci e dar loro un significato, creando così uno spazio in cui l’intrapsichico può diventare interpersonale. Essi possono quindi prendere consapevolezza degli elementi ripetitivi e comprendere quale sia la relazione terapeuticamente necessaria. Quando il terapeuta riesce a entrare in contatto con quel sé vulnerabile del paziente, è probabile che il sistema psichico chiuso del paziente venga stimolato ed esso reagisca contro il processo terapeutico per ristabilire il sistema chiuso e strutturato del copione. Se paziente e terapeuta sono immersi nella matrice transfert-controtransfert, l’alleanza di lavoro sarà molto debole e il paziente si relazionerà con il terapeuta come con un oggetto. In questo caso non ci sarà nessun “come se” e qualsiasi interpretazione o commento di natura terapeutica verrà ricevuto come proveniente dalla proiezione fatta sul terapeuta e poi re-interiorizzato come parte del sistema chiuso di copione. Il terapeuta verrà vissuto come facente parte del sistema chiuso e non come un liberatore. Il terapeuta, se non è consapevole della proiezione, può erroneamente percepire la situazione come resistenza.
La psicoterapia offre l’opportunità di trasformare strutture interiorizzate, liberandone così il potenziale. Se questo processo ha successo, non solo il paziente potrà cambiare e crescere, ma potrà cambiare anche il terapeuta.
Tuttavia vi sarà anche una tendenza all’omeostasi, alla ricerca, da entrambe le parti, dell’autoprotezione e della prevedibilità. Sistemi-copione interconnessi possono dar luogo a una collusione inconscia per mantenere inalterato il copione del paziente. Per esempio, il paziente può, nel comportamento, adattarsi al terapeuta allo scopo di preservare la relazione tra il sé adattato e l’altro idealizzato che viene proiettata sulla diade terapeutica (Little, 2001). Questo processo, per il quale il paziente si adatta al terapeuta e il terapeuta si concentra su questi adattamenti, è stato indicato come la terapia del falso sé (Spitz, Comunicazione personale, 2000). In sostanza si può dire trattarsi di un processo in cui terapeuta e paziente sono inconsciamente d’accordo: «Se tu non ti ci avventuri, non mi ci devo avventurare neppure io».
Se il terapeuta lavora nell’ambito della diade terapeutica, ciò richiede che lavori con la matrice transfert-controtransfert e con le sue relazioni ripetitive e con quelle terapeuticamente necessarie (Stern, 1994). In questo processo, la relazione necessaria si svilupperà dalla relazione ripetitiva e vi sarà una trasformazione delle varie strutture degli stati dell’Io Bambino-Genitore.

Conclusioni
La conoscenza della teoria delle relazioni oggettuali integrata con la teoria degli stati dell’Io dell’Analisi Transazionale permette al terapeuta di vedere lo stato dell’Io Bambino e lo stato dell’Io Genitore come unità relazionali. Sono convinto che ciò aiuti il terapeuta nel suo lavoro che mira a trasformare la relazione che “si ripete” nella relazione terapeuticamente necessaria e a facilitare un lavoro più approfondito nella matrice transfert-controtransfert. È proprio su questo punto che questa integrazione è preziosa.


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* Ego state relational units and resistance to change, in «Transactional Analysis Journal», XXXVI,1, January 2006. Traduzione e ristampa con il permesso dell’autore e dell’itaa – International Transactional Analysis Association.
Nda: Parti di questo articolo sono state pubblicate sulla rivista «Transaction: the journal of the Institute of Transactianal Analysis», I, pp. 3-10, primavera 2004, con il titolo: An integration Transactional Analysis and Object Relations. L’autore ringrazia Gregor Zvelc per le indicazioni ricevute circa la pubblicazione.
** Ray Little è Analista Transazionale Clinico certificato – CTA. Lavora a Edimburgo, in Scozia, come psicoterapeuta. È supervisore in campo clinico e nel counselling conduce seminari per lo sviluppo professionale a Londra e Edimburgo.


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